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Pubbl. Sab, 25 Feb 2017

La Suprema Corte interviene in materia di calcolo dello spazio minimo individuale all'interno della cella detentiva

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Massimiliano Pace


La prima sezione penale della Suprema Corte con sentenza depositata il 13 dicembre 2016 ha affermato che per spazio minimo individuale va inteso lo spazio fruibile da ciascun detenuto e funzionale al movimento, ritenendo di detrarre dalla complessiva superficie anche lo spazio occupato dal letto.


Il tema degli spazi vitali all'interno della cella detentiva continua a destare particolare interesse in ragione dell'attualità del sovraffollamento delle carceri e della rilevanza della questione in relazione alla giurisprudenza costante della Corte europea dei diritti dell'uomo. 

Il diritto ad un trattamento penitenziario che assicuri un minimo spazio vitale all'interno della cella detentiva,pone una serie di profili interpretativi di particolare interesse in quanto riguardanti la corretta applicazione dei parametri definiti dalla ormai nota sentenza Torreggiani, resa dalla Corte Edu nel gennaio 2013 che, sulla scorta della precedente Sulejmanovic, ha richiamato la inderogabilità dell’art. 3 della Cedu, affermando che il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti è un divieto assoluto e rappresenta “uno dei valori fondamentali delle società democratiche”, da applicare “quali che siano i fatti commessi dalle persone interessate”. La pronuncia dei giudici di Strasburgo, infatti, intervenendo sulla corretta ed uniforme interpretazione dell'art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ha affermato la necessità di assicurare una serie di standard minimi di trattamento, a partire dalla libertà di movimento all’interno della cella detentiva, che possano consentire di escludere la lesione della Convenzione, con conseguente condanna per gli Stati aderenti inadempienti e riconoscimento a favore deiricorrenti del diritto all’indennizzo per trattamento inumano e degradante nei luoghi di detenzione.

Orbene, richiamando i principi della sentenza Torreggiani, la prima sezione penale della Suprema Corte si è da ultimo espressa in ordine ad un ricorso proposto da un detenuto che impugnava il provvedimento di rigetto con il quale il Tribunale di Sorveglianza aveva rigettato il proprio reclamo ex art. 35 bis ord. pen., pronunciando all’udienza del 9 settembre 2016 la sentenza n. 52819 le cui motivazioni sono state depositate in cancelleria il 13 dicembre del 2016.     

Il problema di fondo affrontato dalla pronuncia in esame concerne la definizione della nozione di spazio minimo, così come interpretata e definita dalla Corte Europea in relazione all'art. 3 Cedu, al fine di stabilire la sufficienza di uno spazio minimo compreso fra i tre e i quattro metri quadri, al fine di vagliarne la conformità rispetto ai parametri derivanti dall'interpretazione dell'art. 3 della Cedu. Si tratta, quindi, di stabilire concretamente la quantificazione dello spazio vitale minimo in considerazione della presenza di mobilio e arredi all'interno della cella detentiva. Ed invero il Tribunale di Sorveglianza, investito del reclamo proposto dal detenuto ex artt. 35 bis e ter o.p., in assenza di precise indicazioni metodologiche in tema di calcolo dello spazio vitale in contesti di sovraffollamento carcerario, non ha ritenuto di considerare il letto presente all'interno della stanza detentiva come rilevante ai fini della valutazione di idoneità della limitazione dello spazio vitale. In questi termini, quindi, il Tribunale ha escluso la violazione del limite dei tre metri quadrati, intesa come misura individuata dalla CEDU nello spazio minimo vitale per un individuo inserito in una cella collettiva, motivando altresì che il detenuto godeva di un'ampia fascia oraria di socialità idonea a compensare lo spazio comunque limitato. In particolare, l'aspetto che ha posto maggiori dubbi, poi affrontati dalla Suprema Corte nella sentenza a commento, concerne il corretto inquadramento del letto ai fini del calcolo dello spazio minimo vitale, tenuto conto della circostanza che tale arredo è destinato al riposo e non anche al movimento, costituendo quindi un ingombro non indifferente all'interno della cella.

Il ricorrente nei motivi di ricorso evidenzia, infatti, come la valutazione della carenza di spazio vitale minimo in cella collettiva, richiede ulteriori fattori concorrenti affermando, pertanto, che il giudice a quo non si sarebbe attenuto al canone fissato dalla Corte Edu, e sancito dalla sentenza pilota Torreggiani, circa la determinazione dello spazio minimo intramurario da assicurare ad ogni detenuto affinchè lo Stato non incorra nella violazione del divieto dei trattamenti inumani e degradanti sancito all’art. 3 Cedu. 

La Cassazione affronta la sussistenza degli estremi del trattamento inumano e degradante richiamando i criteri di misurazione che trovano nella quota dei tre metri quadri un punto imprescindibile al di sotto del quale si verifica la violazione dei contenuti prescrittivi dell'art 3 cedu. Ed invero, affinchè la misurazione della superficie occupata risulti conforme all'art. 3 della Cedu, in conformità alla giurisprudenza dalla Corte di Strasburgo, la Suprema Corte ha affermato che il letto deve essere necessariamente inteso come elemento di ingombro in particolare allorquando, trattandosi di letti a castello, per la struttura stessa esso è idoneo a restringere la quota di incidenza personale ai fini della determinazione dello spazio vitale. In particolare la Corte ha enunciato il principio di diritto in forza del quale per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto”.

Così chiarita l'idoneità del letto a costituire elemento di riduzione dello spazio libero complessivo della cella collettiva, la pronuncia in esame assume particolare rilevanza ai fini della misurazione dello spazio minimo vitale di tre metri quadri che non può comprendere anche il letto, con conseguente ampliamento della metratura della stessa alla luce del parametro così interpretato. La Corte, muovendo dalla necessaria premessa che gli spazi vitali all’interno della cella collettiva sono funzionali al movimento del detenuto nell’ambito di essa, ha ritenuto di enucleare un criterio di calcolo della misura minima che escluda dal computo della metratura libera quelle superfici occupate da strutture tendenzialmente fisse, come appunto il letto, ritenendo all’opposto non rilevanti ai fini dell’esclusione “gli arredi facilmente removibili”. Del resto tale conclusione appare motivata in relazione ad un metodo conforme alle stesse norme elaborate sul punto dal Comitato di Prevenzione della Tortura (Cpt) che include nel calcolo della superficie disponibile della cella lo spazio occupato dai mobili, mentre esclude quello occupato dai sanitari. La collocazione del letto, evidentemente, secondo la ricostruzione proposta dai giudici di legittimità, consente di ritenere infondata la prospettazione del metodo di calcolo offerta dal Tribunale di sorveglianza, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di merito, che aveva qualificato il letto come “superficie di appoggio pertanto inidonea a limitare lo spazio vitale”. 

Nell’affermare il principio di diritto soprarichiamato la Suprema Corte ha richiamato la conformità dello stesso alla evoluzione della giurisprudenza Cedu successiva al caso Torreggiani, facendo espressa menzione di una decisione emessa in data 20 ottobre 2016 (Mursic contro Croazia) con la quale la Grande Camera, pur non assumendo una posizione precisa sul tema del letto, ha affermato al contempo che per spazio minimo in cella collettiva va inteso “lo spazio in cui il soggetto detenuto abbia la possibilità di muoversi”. In conclusione si può agevolmente osservare che con questa decisione in materia di trattamento penitenziario la Suprema Corte ha posto un importante profilo metodologico idoneo a definire con maggiore chiarezza, e soprattutto concretezza, la nozione di spazio minimo vitale in ambito detentivo.