Gli strumenti deflattivi del contenzioso tributario
Modifica paginaMolteplici sono gli strumenti alternativi al giudizio ravvisabili nell´ordinamento tributario. Ciò risponde all´esigenza di evitare il contenzioso, qualora sia possibile risolvere la controversia in via preventiva ed evitare, in tal modo, l´instaurazione di un giudizio ordinario cercando di limitare il dispendio di tempo e di denaro.
Sommario: 1. Premessa: gli strumenti deflattivi del contenzioso tributario; 2. Interpello; 3. Autotutela; 4. Accertamento con adesione; 5. Mediazione tributaria; 6. Conclusioni
1. Premessa: gli strumenti deflattivi del contenzioso tributario
Molteplici sono gli istituti deflattivi del processo tributario, attivabili in fase procedimentale. Tali strumenti sono finalizzati a ridurre in modo significativo il contenzioso, mirando ad una risoluzione delle controversie in via preventiva. Come noto, il processo tributario è caratterizzato da una natura essenzialmente documentale e da una brevità dei tempi. E’ forse in ragione di tale esigenza di garantire la brevità che sono stati istituiti una serie di strumenti deflattivi quali: l’interpello, l’autotutela, l’accertamento con adesione, e la mediazione tributaria.
2. Interpello
Si tratta di uno strumento finalizzato ad evitare il contenzioso e può essere attivato solo prima che abbia avuto inizio il processo tributario. L’interpello[1] risponde ad un principio di leale collaborazione[2] e buona fede[3] nei rapporti tra Amministrazione Finanziaria e contribuente. Esso trova cittadinanza all’articolo 11 della legge 212/2000 rubricato “Diritto di interpello”. Esso è figlio della riforma fiscale di cui alla legge delega 23/2014, atteso che anteriormente alla riforma la rubrica della disposizione prevedeva “Interpello del contribuente”. Tale mutamento di rubrica dimostra che il legislatore ha aumentato la soglia di tutela prevista per il contribuente riconoscendo in capo a quest’ultimo un vero e proprio diritto soggettivo oggetto di tutela.
L’articolo 11 prevede una serie di interpelli: interpello ordinario, qualificatorio, antiabuso e disapplicativo. L’interpello ordinario opera in ossequio al principio di chiarezza delle disposizioni normative, in quanto può essere proposto al fine di ottenere dall’Amministrazione Finanziaria l’interpretazione di una norma che presenta caratteri di obiettiva incertezza nell’interpretazione. In altre parole il contribuente chiede all’Amministrazione Finanziaria come vada interpretata una determinata norma giuridica che risulta di dubbia interpretazione. Ma una dubbia interpretazione oggettiva e non limitata al contribuente che ha richiesto l’intervento in chiave interpretativa. L’interpello si propone a mezzo di istanza cartacea contenente l’indicazione puntuale e dettagliata della norma di cui si chiede l’interpretazione e, necessariamente, deve contenere l’interpretazione che lo stesso contribuente ha dato alla norma. L’Amministrazione finanziaria ha novanta giorni di tempo per fornire una risposta e, in mancanza, opererà il silenzio assenso. Per tale ragione riveste particolare importanza l’indicazione dell’interpretazione del contribuente, perché il contegno dell’Amministrazione significherà condivisione con l’orientamento del contribuente. Certezza del diritto e legittimo affidamento[4] tornano ad essere il cardine dell’ordinamento tributario.
Il principio del legittimo affidamento costituisce il corollario del principio della certezza del diritto, che esige che le norme giuridiche siano chiare e precise, ed è diretto a garantire la prevedibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici rientranti nella sfera del diritto comunitario e consente la deroga alla regola di diritto positivo qualora una sua applicazione produca conseguenze irragionevoli a causa di un comportamento tenuto dall'autorità comunitaria in un determinato caso di specie[5].
Oltre che ordinario, l’interpello può essere qualificatorio qualora il contribuente abbia chiara l’interpretazione della norma, ma non è certo della disciplina da applicare e, dunque, della qualificazione della norma.
Ai suddetti interpelli si aggiungono l’interpello antielusivo con cui il contribuente chiede all’Amministrazione Finanziaria se la sua condotta integra gli estremi di una condotta fiscalmente rilevante e, dunque, a carattere elusivo. Ancora, l’interpello disapplicativo[6]. In tale caso il contribuente sa che la sua condotta integra gli estremi di una condotta fiscalmente rilevante e chiede all’Amministrazione Finanziaria la disapplicazione della norma antielusiva atteso che la sua condotta è stata determinata da ragioni di impossibilità oggettiva di tenere una condotta differente. Infine, l’interpello probatorio con cui si chiede all’Amministrazione Finanziaria se i documenti in possesso sono idonei all’applicazione di un determinato regime fiscale.
3. Autotutela
L’autotutela[7] rappresenta un potere riconosciuto all’Amministrazione Finanziaria per rimuovere un atto illegittimo. In altre parole l’Amministrazione Finanziaria torna sui suoi passi, dopo essersi resa conto di aver commesso un errore nell’emanazione di un provvedimento che si presumeva legittimo. L’autotutela[8] trova fonte costituzionale nell’art. 97 della Costituzione che enuncia il principio di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrativa. L’autotutela può avere luogo ex officio ovvero ad istanza di parte ed è un istituto a carattere trasversale, perché, è di derivazione amministrativa e applicabile anche al procedimento tributario. Per ciò che concerne l’autotutela d’ufficio la disciplina è recepita direttamente dall’articolo 21 nonies della l. 241/90 a tenore del quale “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21 octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”. Ecco che, dalla norma si evince che la Pubblica Amministrazione è chiamata ad effettuare un bilanciamento di interessi e valutare l’interesse preminente. Se prevale il pubblico interesse procede all’annullamento dell’atto. Tuttavia, anche il contribuente può rivolgere all’Amministrazione Finanziaria una richiesta di ritiro dell’atto, qualora si sia reso conto di un errore nell’atto emesso. In tal caso l’Amministrazione finanziaria sarà chiamata ad un’analisi ben più accurata, perché è lo stesso contribuente a formulare la richiesta e reclama il ritiro preventivo dell’atto al fine di evitare il contenzioso, in ossequio ad un principio di leale collaborazione. Secondo una parte della giurisprudenza l'esercizio dei poteri[9] di autotutela[10] ha carattere discrezionale, per cui è da escludere la sussistenza di un obbligo di provvedere in merito[11].
4. Accertamento con adesione
L’avviso di accertamento che, come noto, è il provvedimento con cui l’Amministrazione Finanziaria ridetermina la pretesa erariale effettuando il prelievo fiscale, può contenere un’istanza cd. di adesione. L’Ufficio consente al contribuente di presentare, nel termine previsto per la proposizione di un ricorso (sessanta giorni), istanza di accertamento con adesione che sospende i termini per circa novanta giorni, termine entro cui il contribuente e l’Ufficio possono addivenire ad un accorso. Con l’istanza di accertamento con adesione il contribuente chiede all’ufficio un confronto preventivo e utile ai fini del raggiungimento di un accordo. Possono esservi anche più incontri tra le due parti, ovvero Ufficio e contribuente, fino a quando non si sia raggiunto un accordo.
L’istanza di accertamento con adesione è proponibile in carta semplice e deve contenere l’indicazione della generalità del contribuente e del difensore, nonché i codici fiscali rispettivi. Il contribuente avrà cura di indicare gli elementi, in fatto e in diritto, posti alla base della sua richiesta. Dal contraddittorio tra le parti può scaturire un abbattimento delle sanzioni pari almeno al 30%, senza che ciò comporti una decurtazione del quantum che resta nella misura originaria. Le parti si confrontano tra loro e, in particolare, il contribuente manifesta le sue esigenze. Non è detto, tuttavia, che dal contraddittorio nasca un accordo, né che l’Amministrazione Finanziaria accetti la proposta formulata dal contribuente. Qualora non si addivenga ad un incontro di volontà resta salva la possibilità del contribuente di impugnare l’atto impositivo a mezzo di ricorso.
5. Mediazione tributaria
L’articolo 17 bis del D. Lgs. 546/92 disciplina l’istituto della mediazione tributaria. Creato in risposta alla direttiva del 2010 che indirizzava gli Stati verso un deflazionamento del contenzioso tributario, pur lasciandoli liberi nella scelta dei mezzi da utilizzare, la mediazione tributaria è a tutti gli effetti da considerarsi un Alternative Despute Resolution. Il contribuente presenta un ricorso che varrà automaticamente come reclamo/ mediazione. In altre parole nel termine di sessanta giorni il contribuente propone ricorso che notifica all’Ufficio e nei successivi novanta giorni l’Ufficio contatterà il contribuente per cercare di addivenire ad un accordo.
A differenza delle forme di mediazione disciplinate per le altre branche del diritto, la mediazione tributaria sarà svolta non da un soggetto terzo, ma dallo stesso Ufficio che ha emesso l’atto impugnato e soggiace a dei limiti tassativamente previsti dalla legge, come ad esempio le cause sottoponibili a procedimento di mediazione tributaria: sono soggette obbligatoriamente al procedimento di mediazione tributaria le cause il cui valore sia inferiore a ventimila euro. A differenza dell’accertamento con adesione, l’incontro di volontà potrà riguardare anche il quantum della pretesa qualora il contribuente fornisca documentazioni idonee e attendibili e l’Amministrazione Finanziaria le consideri sufficienti ad una revisione della somma oggetto della pretesa.
6. Conclusioni.
In considerazione dei diritti che l'ordinamento tributario è atto a tutelare ovvero quelli patrimoniali, si mira ad una risoluzione delle controversie in via preventiva per evitare gli ingenti pregiudizi che possono derivare da un atto impositivo. In ragione della necessità di aumentare la soglia di tutela del contribuente e, al fine di consentire anche all'Ufficio di recuperare somme, laddove dovute sono stati previsti molteplici istituti deflattivi che prevengono il contenzioso, cercando di evitarlo. Tutto quanto predetto sempre in ossequio al principio di leale collaborazione, cardine, monito dell'intero ordinamento tributario.
Note e riferimenti bibliografici
[1]Cassazione civile sez. trib. 17 luglio 2014 n. 16331 in www.dejure.it “il contribuente è tenuto a proporre interpello ex art. 11, della legge 27 luglio 2000 n.212, prima di porre in essere, nell'esercizio della propria attività economica, la condotta oggetto della richiesta di informazioni all' amministrazione finanziaria, atteso che, diversamente, non si giustificherebbe l'efficacia vincolante, per entrambe le parti del rapporto tributario, dell'interpretazione fornita dall' amministrazione medesima delle norme applicabili alla specifica fattispecie concreta. Rigetta, Comm. Trib. Reg. Marche, 25/05/2007”.
[2]T.A.R. Reggio Calabria (Calabria) sez. I 10 novembre 2014 n. 657 in www.dejure.it “il principio di buona fede oggettiva permea di sé l'intero sistema delle obbligazioni civili e si atteggia, tra l'altro, a fondamentale canone interpretativo del comportamento delle parti, sia nella fase della trattativa precontrattuale sia in quella successiva dello svolgimento del rapporto. Non par dubbio che, anche con riferimento alla fase dell'evidenza pubblica, possa utilizzarsi tale fondamentale criterio ermeneutico, al fine di valutare la condotta e/o le dichiarazioni rese sia dalla stazione appaltante sia dai partecipanti stessi. La fase di formazione dei contratti pubblici è invero caratterizzata dalla contestuale e parallela presenza di un procedimento amministrativo «¿doppiato¿» da un procedimento negoziale, laddove la serie pubblicistica degli atti convive e si interseca con quella privatistica, della quale mutua altresì taluni principi fondanti, tra cui per l'appunto quello di correttezza. È dunque fisiologico e coerente col sistema che, rigettato ogni formalismo deteriore, le stesse dichiarazioni rese dalle imprese partecipanti alla gara debbano essere interpretate secondo correttezza, e cioè mediante il fondamentale canone ermeneutico come previsto dall'art. 1366 c.c., dovendosi intendere altresì le autodichiarazioni prescritte per legge secondo il loro significato concreto e sostanziale, come emergente anche da un esame sistematico delle dichiarazioni medesime e del loro singolo tenore letterale; il tutto con l'unico limite della violazione della par condicio”.
[3]Tribunale Milano sez. I 02 dicembre 2014 n. 14330 in www.dejure.it “in materia di obbligazioni, l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, oramai pacificamente costituzionalizzato. I principi della buona fede oggettiva e dell'abuso del diritto, pertanto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti; essi si integrano a vicenda, costituendo la buonafede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti (anche di un rapporto privatistico), mentre l'abuso prospetta la necessità di una correlazione tra i poteri riferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso”.
[4] T.A.R. Trieste (Friuli-Venezia Giulia) sez. I 13 agosto 2015 n. 387 in www.dejure.it “l'affidamento, suscettibile di applicazione anche nel diritto pubblico, si collega direttamente all'obbligo di buona fede oggettiva quale regola di condotta che (per quanto riconosciuta espressamente nelle sole disposizioni del c.c.) conforma l'assiologia dell'ordinamento generale, venendo così a coincidere con l'aspettativa di coerenza dell'Amministrazione con il proprio precedente comportamento, la quale diviene fonte di un vero e proprio obbligo, per quest'ultima, di tenere in adeguata considerazione l'interesse dell'amministrato, la cui protezione non si presenta più come il prodotto, accessorio, della cura dell'interesse pubblico, ma come l'oggetto di un'autonoma pretesa, contrapposta all'interesse dell'Amministrazione. Il risultato è che la verifica giurisdizionale dell'osservanza del principio di buona fede non coincide con quella svolta in termini di eccesso di potere (ovvero secondo il paradigma della logicità e ragionevolezza) bensì attiene all'osservanza di una norma (quella di buona fede e correttezza) che si rivolge all'Amministrazione nella relazione con il cittadino. L'impostazione di ricondurre la buona fede tra gli obblighi di comportamento dell'Amministrazione esigibili dal privato, del resto, ben si raccorda con le istituzioni giuridiche dell'ordinamento sovranazionale in cui risulta oramai costituzionalizzato il diritto alla buona amministrazione tra i diritti connessi alla posizione fondamentale di cittadinanza, il cui pregnante contenuto valoriale riveste una indubbia funzione di integrazione e interpretazione delle norme vigenti, imponendo di prendere in rinnovata considerazione la formulazione delle regole che presiedono all'esercizio del potere”.
[5]Consiglio di Stato sez. V 10 giugno 2015 n. 2847 in www.dejure.it.
[6]Cassazione civile sez. trib. 05 ottobre 2012 n. 17010 in www.dejure.it “la risposta dell'Amministrazione finanziaria ad interpello del contribuente costituisce atto impugnabile in quanto pretesa tributaria definitiva, ma il contribuente è titolare di una mera facoltà di impugnazione e non di un onere. Tale facoltà quindi può essere esercitata anche in un secondo momento”.
[7]T.A.R. Salerno (Campania) sez. I 19 luglio 2016 n. 1783 in www.dejure.it “la norma di cui all'art. 1, comma 153 bis, l. r. Campania n. 5/2013 conferisce carattere provvisorio alla "archiviazione" già eventualmente disposta, prevedendo che solo in conseguenza dell'inutile decorso del termine suindicato essa assuma carattere definitivo. Essa disegna una fattispecie di autotutela, d'ufficio e doverosa, che impone all'Amministrazione di riattivare il procedimento, eventualmente già interessato da una determinazione di archiviazione, procedendo alla tempestiva e temporanea rimozione di quest'ultima, siccome destinata ad essere sostituita da un provvedimento di "archiviazione definitiva".
[8]T.A.R. Campobasso (Molise) sez. I 07 luglio 2016 n. 290 in www.dejure.it “in via di principio, non è precluso alla stazione appaltante di procedere alla revoca o all'annullamento dell'aggiudicazione, allorché la gara stessa non risponda più alle esigenze dell'ente e sussista un interesse pubblico, concreto ed attuale, all'eliminazione degli atti divenuti inopportuni, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse dell'aggiudicatario nei confronti dell'Amministrazione. Un tale potere si fonda, tuttavia, oltre che sulla disciplina di contabilità generale dello Stato, che consente il diniego di approvazione per motivi di interesse pubblico (art. 113, r.d. 23 maggio 1924 n. 827), sul principio generale dell'autotutela della p.a., che rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere amministrativo, direttamente connesso ai criteri costituzionali di imparzialità e buon andamento della funzione pubblica; inoltre, la nuova valutazione dell'interesse pubblico, cui l'Amministrazione deve accedere, non deve necessariamente basarsi sulla intervenuta formale adozione di atti, essendo sufficiente che dallo stesso provvedimento di revoca emergano le ragioni, plausibili e concrete, che determinano la suddetta rivalutazione dell'interesse pubblico. L’indicazione consultiva dell’Autorità Nazionale Anticorruzione è palesemente insufficiente a giustificare l’autotutela pubblicistica, poiché essa – di per sé – non costituisce un “sopravvenuto motivo di interesse pubblico”, né un “mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento”, né una “nuova valutazione dell’interesse pubblico originario”, quali previsti e prescritti dalla normativa di cui all’art. 21 quinquies l. 7 agosto 1990 n. 241”.
[9]Consiglio di Stato sez. V 14 marzo 2016 n. 984 in www.dejure.it “poteri del giudice dell’ottemperanza non implicano alcun vulnus all’effettività della tutela giurisdizionale amministrativa e ai principi costituzionali sanciti dagli artt. 24, 111 e 113, Cost., rappresentando piuttosto il naturale e coerente contemperamento della pluralità degli interessi e dei principi costituzionali che vengono in gioco nel procedimento giurisdizionale amministrativo, ed in particolare di quello secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vittoriosa (che ha diritto, però, all’esecuzione del giudicato in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento dell’atto lesivo, caducato in sede giurisdizionale) e di quello della stessa dinamicità dell’azione amministrazione e dell’esercizio della relativa funzione da parte della Pubblica amministrazione che ne è titolare (che non consente di poter ragionevolmente ipotizzare una sorta di “congelamento” o di “fermo” della stessa, tant’è che sia l’atto amministrativo che la sentenza di primo grado, ancorché impugnati, non perdono in linea di principio la loro efficacia e idoneità a spiegare gli effetti loro propri, tranne che questi ultimi non siano ritenuti meritevoli di essere sospesi, su istanza degli interessati, da parte rispettivamente del giudice di primo grado o da quello di appello)”.
[10]T.A.R. Napoli (Campania) sez. V 01 agosto 2016 n. 3982 in www.dejure.it “il c.d. preavviso di ricorso non comporta alcun obbligo di riesame da parte dell'Amministrazione né di sospensione della procedura, ma neppure un obbligo di risposta, potendosi comunque formare il silenzio - rifiuto. Inoltre, la procedura introdotta a seguito del preavviso di ricorso non influisce sull'esito della gara, ben potendo la Stazione Appaltante legittimamente procedere all'aggiudicazione definitiva, senza attendere l'esito del riesame. Il fatto che la Stazione Appaltante non sia obbligata a provvedere in merito all'istanza di autotutela, comporta che neppure l'impresa ricorrente in giudizio è obbligata ad impugnare il diniego di autotutela; la mancata impugnazione del diniego non impedisce di impugnare in modo autonomo il provvedimento di aggiudicazione e, per converso, la mancata impugnazione del diniego di autotutela non comporta una possibile causa di inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso già proposto avverso l'aggiudicazione”.
[11]T.A.R. Napoli (Campania) sez. III 22 agosto 2016 n. 4085 in www.dejure.it.