Il rapporto di causalità come “spina dorsale” del fatto di reato: aspetti generali e disciplina codicistica.
Modifica paginaNel nostro ordinamento giuridico non esiste una definizione di “causalità”. Nel tempo, si sono avvicendate varie teorie sull’accertamento della causalità penale, ma il dibattito ormai può dirsi superato a seguito dell’intervento, nel 2002, delle celebri Sezioni Unite Franzese. Il presente contributo passa in rassegna le varie teorie sul nesso eziologico e la disciplina codicistica delle concause.
Sommario: 1. Premessa - 2. Le teorie sulla causalità - 3. Le Sezioni Unite Franzese - 4. Le concause
1. Premessa
Nell’ordinamento giuridico manca una nozione di “causalità”, in quanto tale termine è necessariamente legato ad un contesto relazionale, ossia non è determinabile in modo assoluto, bensì in relazione al contesto di riferimento.
In diritto penale, in particolare, il rapporto di causalità rappresenta un elemento indefettibile del fatto di reato, in quanto in un sistema basato sulla responsabilità personale (art. 27 Cost.), l’attribuzione del fatto di reato al soggetto agente è condizione imprescindibile per la punibilità dello stesso.
In un diritto penale del “fatto”, il nesso di causalità è elemento costitutivo del reato commissivo di evento, in quanto l’imputazione richiede come presupposto che il reo abbia contribuito alla verificazione dell’evento. La causalità, dunque, funge da criterio di imputazione oggettiva del fatto al soggetto; il nesso causale comprova che non solo la condotta, ma anche l’evento, sono opera dell’agente.
La causalità, quale concetto trasversale che abbraccia le varie branche del diritto, si differenza nel settore civile rispetto a quello penale. Anche in ambito civile non abbiamo una definizione di rapporto di causalità (artt. 2043 e 1223 c.c.). Accanto alla causalità materiale si colloca la causalità giuridica[1]. La causalità materiale è il nesso eziologico che intercorre tra condotta ed evento, mentre quella giuridica è il nesso che intercorre tra l’evento e il pregiudizio-danno prodotto. A tal fine, l’interprete dovrà prima verificare la sussistenza della causalità materiale (danno-evento) per poi passare all’esame della causalità giuridica, individuando il danno-conseguenza e stabilendo se l’evento sia stato causa di un danno risarcibile. Nel diritto penale, tuttavia, non sempre può dirsi esistente una causalità materiale, in quanto nei reati di mera condotta e nei reati omissivi manca un evento in senso naturalistico, di guisa che una causalità materiale non può ravvisarsi, ma si configurerà solo una causalità giuridica.
L’assenza, in diritto civile, di regole precise in riferimento al concetto di causalità ha indotto l’interprete a mutuare le regole di cui agli artt. 40 e 41 c.p.[2]
La differenza tra i due ordinamenti, tuttavia, viene posta in evidenza anche dalle famose Sezioni Unite 581/2008, le quali, ponendo fine ad un lungo dibattito giurisprudenziale, affermano che la differenza tra il sistema penale e civile non attiene alla nozione di nesso causale, bensì alla regola probatoria. In altre parole, mentre le regole per l’accertamento del nesso causale, in assenza di altre disposizioni normative, sono sempre quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p., ciò che muta tra processo penale e civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova ”oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”[3]. L’ordinamento civile, infatti, a differenza di quello penale, si fonda sul principio di atipicità dell’illecito e ha quale scopo ultimo quello di reintegrare il danneggiato per il pregiudizio sofferto; esso guarda al danneggiato piuttosto che all’autore (rectius danneggiante) dell’illecito e mira a ristorare lo stesso, mentre il diritto penale tende a punire il soggetto agente per il reato commesso. Ecco allora che il diritto civile si accontenta di una regola probatoria più blanda rispetto a quella più rigorosa prevista per il processo penale.
Delineate, quindi, le differenze tra i due sistemi e passando all’esame dell’accertamento del nesso causale in ambito penale, ossia della regola che consente di stabilire quando una condotta umana sia causa dell’evento, occorre in primo luogo sottolineare come il Codice Rocco, a differenza di altri codici, contiene una disciplina esplicita del nesso causale agli artt. 40 e 41 c.p.
Malgrado ci sia tale disciplina, lo sforzo dell’interprete è stato sempre quello di individuare un metodo univoco per accertare il nesso causale, in quanto il solo riferimento agli artt. 40 e 41 c.p. non sempre è risultato soddisfacente. Tale indagine si snoda attraverso tre momenti: 1) l’accertamento della causa meramente materiale dell’evento, ossia perché l’evento si è verificato; 2) l’accertamento della condotta, ossia come la condotta umana ha interferito su quell’evento; 3) l’accertamento della violazione della regola cautelare. Mentre nei reati dolosi, l’indagine si arresta al secondo stadio, nei reati colposi si dovrà individuare anche la regola cautelare violata.
2. Le teorie sulla causalità
Come anticipato, negli anni si sono succedute varie teorie sull’accertamento della causalità. Una delle prime è sicuramente la teoria condizionalistica o della causalità naturale o della condicio sine qua non. Secondo tale orientamento elaborato nel corso del XIX secolo, una condotta è causa di un evento se è una delle condizioni senza la quale l’evento non si sarebbe verificato, ossia è condizione necessaria e sufficiente per la produzione dell’evento. L’interprete dovrà verificare, attraverso un giudizio di eliminazione mentale ex post se, eliminando la condotta, l’evento si sarebbe o meno verificato. Tale teoria è detta anche teoria della “equivalenza causale”, in quanto essa non distingue tra condizioni di rango diverso, bensì parifica l’attitudine causale di tutti gli antecedenti necessari dell’evento. Basta che la condotta umana rappresenti una delle condizioni che concorrono a produrre l’evento per poter assurgere a causa dello stesso. Questa ricostruzione presenta, tuttavia, tre limiti. Un primo limite per eccesso è il problema del regresso all’infinito; l’equivalenza delle cause porterebbe a considerare “causa” dell’evento finanche i remoti antecedenti dell’evento; nel noto caso di scuola, il paradosso potrebbe essere quello di far risalire l’omicidio ai genitori dell’omicida, i quali, procreandolo, avrebbero creato una condizione indispensabile dell’evento. Il secondo limite per difetto è che tale teoria non riesce ad offrire il metodo di spiegazione logica per stabilire se da una determinata condotta derivi o meno un evento, soprattutto nei casi in cui non si conosce la legge causale che regola determinati fenomeni. Per poter asserire che eliminando mentalmente la condotta, l’evento viene meno, bisogna prima sapere che la condotta appartiene al novero di quelle generalmente in grado di produrre eventi del tipo di quelli verificatisi in concreto. Infine, la teoria condizionalistica entra in crisi in ipotesi di causalità alternativa ipotetica (quando l’evento si sarebbe comunque verificato per l’intervento di un’altra causa) e di causalità addizionale (quando l’evento sia prodotto dal concorso di più condizioni, ciascuna capace da sola di produrre l’evento). In casi del genere, eliminando mentalmente la condotta, l’evento si sarebbe comunque verificato.
Proprio allo scopo di superare i suddetti limiti della teoria condizionalistica, venne elaborata alla fine del XIX secolo la teoria della causalità adeguata, la quale considera la condotta umana “causa” dell’evento solo quando idonea, secondo l’id quod plerumque accidit, a determinarlo, escludendo che gli antecedenti causali straordinari o atipici possano essere causa di un evento. A differenza della teoria condizionalistica, tale teoria si basa su un accertamento ex ante, ossia occorre verificare che la condotta sia ex ante, nel momento in cui viene posta in essere, idonea a determinare un evento del tipo di quelli verificatisi in concreto. Il limite di questo orientamento è quello di basarsi esclusivamente sull’esperienza comune.
A metà strada tra la teoria condizionalistica e la teoria della causalità adeguata si pone la teoria della causalità umana, la quale considera causati dalla condotta umana solo quegli eventi dominabili dall’uomo, ossia quelli rientranti nella sua sfera di dominio. Il limite di tale teoria è quello di sovrapporre l’accertamento di un elemento oggettivo come il nesso causale con profili soggettivi che attengono alla colpevolezza.
Parte della dottrina, soprattutto di matrice tedesca, poi, abbraccia la cd. teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, per spiegare i casi di decorso causale atipico, affermando che non basta far riferimento a parametri esclusivamente condizionalistici per imputare l’evento all’agente, ma occorre individuare ulteriori criteri atti ad attribuire oggettivamente l’evento al soggetto come suo proprio fatto e non come coincidenza casuale. Si pensi al caso di scuola del nipote che induce lo zio ricco a fare un viaggio in aereo e lo zio muore a causa di un incidente in volo. Per tale orientamento, dunque, un evento può essere obiettivamente imputato all’agente solo se realizza il cd. rischio giuridicamente non consentito o illecito creato dall’autore con la sua condotta. Se questa è la conclusione, tale teoria fa perno su vari criteri, dei quali i principali sono quelli dello aumento del rischio e dello scopo della norma violata. Secondo il primo criterio, l’imputazione obiettiva dell’evento presuppone, oltre al nesso causale, che la condotta abbia di fatto aumentato la probabilità di verificazione dell’evento. Sono, infatti, vietate solo le condotte che vanno al di là del rischio socialmente consentito e che aumentano le possibilità di verificazione di eventi lesivi. Nel caso citato prima, è da escludere che l’invito del nipote abbia aumentato il rischio dello zio di morire per un incidente aereo. L’obiezione principale mossa a tale criterio è quella di trasformare i reati di danno in reati di pericolo. Per il criterio dello scopo della norma violata, invece, l’imputazione dell’evento viene meno quando, pur sussistendo il nesso causale, la condotta non costituisce concretizzazione dello specifico rischio che la norma in questione tende a prevenire. Tale criterio paga lo scotto della difficoltà di individuare lo stesso scopo della norma violata in determinate situazioni, rendendo questo metodo alquanto incerto.
Ma è a partire dalla nota sentenza sul disastro di Stava del 6 dicembre 1990 che si fa avanti e si afferma la causalità scientifica, la quale considera causa di un evento quella condotta senza la quale l’evento non si sarebbe verificato con certezza o elevata probabilità. La sentenza afferma che il nesso causale deve essere sussunto sotto leggi scientifiche di copertura[4]. Un antecedente può essere considerato causa di un evento a condizione che rientri tra quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica (cd. legge generale di copertura[5]), portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto[6]. L’interprete, sulla base della cd. clausola coeteris paribus, dovrà verificare se la condotta dell’agente sia condizione probabile dell’evento, anche dando per conosciuti fatti che in realtà non lo sono.
Occorre, però, distinguere tra probabilità statistica e probabilità logica. La probabilità statistica (o frequentista o empirica) ricorre quando il giudice utilizza solo leggi statistiche, affermando che ad un evento segue un altro evento in una data percentuale di casi, mentre la probabilità logica richiede in più che la legge di copertura sia logicamente credibile.
3. Le Sezioni Unite Franzese
La distinzione tra probabilità statistica e probabilità logica è alla base della celebre Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 2002, meglio nota come sentenza Franzese, che scrive la parola fine al dibattito in tema di accertamento del nesso causale. La sentenza Franzese, che prende il nome dall’imputato, attiene all’ambito della responsabilità medica colposa di tipo omissivo per decesso del paziente ed enuncia principi cardine ripresi dalla quasi unanime giurisprudenza successiva[7]. Essa afferma che non è sufficiente la sola probabilità statistica e soprattutto che non è consentito dedurre automaticamente da coefficienti statistici seppur elevati la conferma dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, in quanto il giudice deve verificare la validità del caso concreto, sulla base delle circostanze di fatto e dell’evidenza disponibile, di modo che, escludendo l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta (omissiva del medico) è stata condizione necessaria dell’evento con alto grado di credibilità razionale o probabilità logica. In altre parole, non basta la sola probabilità statistica, in quanto risulta centrale, nell’accertamento del nesso causale, il momento della verifica processuale dell’ipotesi accusatoria, essendo necessario un giudizio di alta probabilità logica. Il nesso causale è allora sussistente solo laddove si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di fattori causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo ma con modalità diverse, in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva[8].
4. Le concause
Ma la disciplina codicistica della causalità penale è contenuta non solo nell’art. 40 c.p., rubricato specificamente “nesso di causalità”, ma anche nel successivo art. 41 c.p., che deve essere letto in combinato disposto con l’art. 40 c.p. e che fa riferimento al cd. fenomeno delle concause. La norma in realtà parla di “concorso di cause”, ma parte della dottrina critica tale terminologia, in quanto la causa riguarda la totalità delle condizioni, di guisa che sembra più corretto parlare di “concause”[9]. Si tratta dei casi in cui vi è convergenza di più fattori condizionanti la produzione dell’evento. Laddove, per converso, l’elemento soggettivo in capo all’agente è la colpa, la disciplina del concorso di cause sarà quella della cooperazione colposa di cui all’art. 113 c.p. Quest’ultima deve essere tenuta distinta dal concorso di cause indipendenti, in quanto per configurarsi, necessita della coscienza dell’altrui partecipazione, anche se non è richiesta la conoscenze esatta delle condotte specifiche, né l’identità dei partecipi.
Orbene, l’art. 41 c.p. è suddiviso in tre commi. Il primo comma[10] stabilisce il principio dell’equivalenza delle cause[11], secondo il quale in presenza di una pluralità di cause, tutte idonee a produrre l'evento, queste vengono considerate di pari valenza. Viene, quindi, ripreso il concetto espresso dall'art. 40 c.p., per cui, affinché si abbia imputazione, è sufficiente che il soggetto abbia realizzato una condotta necessaria e l'imputazione non è esclusa dall'intervento di altri fattori causali antecedenti, concomitanti o successivi[12]. Il co. 1 dell’art. 41 c.p., dunque, rappresenta una riaffermazione della teoria condizionalistica ed è segno che il nostro sistema aderisce a tale ricostruzione.
Il co. 3[13] chiarisce quanto affermato dal co. 1, stabilendo che quanto disposto dall'articolo in esame, ossia il principio di equivalenza delle cause, trova applicazione non solo in riferimento a cause antecedenti, concomitanti o sopravvenute relative a circostanze naturali o fortuite, ma anche quando si tratti di comportamenti illeciti di altri soggetti.
Oggetto di ampi contrasti interpretativi, per converso, è stato da sempre il comma 2 dell’art. 41 c.p.[14], relativamente al significato da attribuire alla locuzione “cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento”.
Al riguardo, si sono contrapposti due orientamenti.
Secondo i fautori della teoria condizionalistica, il co. 2 sarebbe null’altro che un’ulteriore conferma del principio dell’equivalenza causale, in quanto le cause sopravvenute in grado di interrompere il nesso eziologico sono rappresentate dalla cd. serie causale autonoma[15], ossia una circostanza indipendente che si innesta sulla serie causale e che è idonea a cagionare l’evento, che si sarebbe, pertanto, verificato anche in assenza della condotta dell’agente. Un esempio è quello del passeggero che, colpito da una ferita mortale, muore però a seguito di un incidente o ancora, quello della donna avvelenata che però decede perché colpita da un fulmine prima che il veleno abbia fatto effetto. Si parla anche di causalità sorpassante o interrotta, proprio perché sono cause non legate alla condotta dell’autore, bensì indipendenti dalla stessa. Tale ricostruzione è stata utilizzata in tema di errore medico. L’errore medico, infatti, non interrompe il nesso di causalità. Ma con una importante precisazione. Deve trattarsi di responsabilità medica fondata su omissione. In tal caso, l’errore medico non può costituire fattore imprevedibile e atipico rispetto al precedente comportamento dell’agente che, provocando il fatto lesivo, ha reso necessario l’intervento dei sanitari. L’errore omissivo non può prescindere dall’evento che ha fatto sorgere l’obbligo della prestazione sanitaria, di guisa che non può da solo essere sufficiente a produrre l’evento[16]. Per converso, laddove l’errore medico sia di tipo commissivo, può assumere i connotati dell’atipicità, imprevedibilità, eccezionalità e quindi essere in grado di interrompere il nesso eziologico.
Altro orientamento, invece, sostiene che il co. 2 sia una mitigazione del principio dell’equivalenza causale stabilito dal co. 1 dell’art. 41 c.p., affermando che la causa sopravvenuta non è quella del tutto autonoma dalla condotta dell’agente, ma è unita a quest’ultima, che rimane la condicio sine qua non dell’evento. E’ il cd. decorso causale atipico[17], come emerge dagli stessi lavori preparatori al c.p.[18] Si tratta, quindi, di cause che, innestandosi sulla serie causale prodotta dalla condotta dell’agente, determinano uno sviluppo “anomalo” della serie causale stessa, diverso rispetto alla serie normale di accadimenti e da sole in grado di produrre l’evento. Le cause sopravvenute idonee ad escludere il rapporto di causalità, dunque, sono quelle cause che, seppur non autonome ma inserite nella serie causale collegata alla condotta dell’agente, presentano i caratteri dell’anomalia, eccezionalità, imprevedibilità. Secondo i fautori di tale teoria, la tesi avversa della serie causale autonoma non potrebbe essere accolta, in quanto svuoterebbe di significato la previsione del co. 2 dell’art. 41 c.p., perché sarebbe una mera ripetizione in negativo dell’art. 40 c.p. ed inoltre non spiegherebbe perché il co. 2 fa riferimento alle sole cause sopravvenute e non anche a quelle preesistenti o concomitanti. Tale ricostruzione è stata molto utilizzata in tema di infortuni sul lavoro[19], in riferimento al comportamento colposo del lavoratore che contribuisca causalmente al verificarsi dell’evento, se sia o meno in grado di interrompere il nesso causale intercorrente tra l’omissione del datore di lavoro e l’evento lesivo dell’infortunio. Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato che la condotta del lavoratore idonea ad incidere sul nesso di causalità, interrompendolo, è solo quella che si configuri come del tutto abnorme, ossia che per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. In altre parole, la condotta colposa del lavoratore in grado di interrompere il nesso eziologico e di escludere la responsabilità del datore è solo quella che il datore non poteva in alcun modo prevedere e dominare e di conseguenza, evitare.
Altro problema creato dal co. 2 dell’art. 41 c.p., oltre a quello summenzionato relativo alla definizione di “cause sopravvenute da sole sufficienti”, è relativo al suo ambito di applicazione, in quanto ci si è chiesti se lo stesso sia applicabile anche alle cause preesistenti e simultanee o solamente a quelle sopravvenute. Al riguardo, si sono contrapposte due tesi.
Secondo un primo orientamento, il co. 2 dell’art. 41 c.p. può essere esteso anche alle cause preesistenti e simultanee, in base ad un’applicazione analogica in bonam partem[20].
Secondo altra impostazione ermeneutica, invece, le cause preesistenti e simultanee non dovrebbero essere inserite nel campo di applicazione del co. 2 dell’art. 41 c.p., bensì nell’ambito dell’art. 45 c.p., che disciplina il caso fortuito e la forza maggiore[21].
In realtà, correttamente parte della dottrina fa notare come questo sia un falso problema, in quanto le cause preesistenti e simultanee, a differenza di quelle sopravvenute, sono conoscibili perchè esistenti al momento della condotta e, quindi, irrilevanti ai fini dell’esclusione del nesso di causalità[22].
Inoltre, è da preferire il secondo orientamento che esclude dall’ambito di applicazione del co. 2 dell’art. 41 c.p. le cause preesistenti e simultanee in quanto queste ultime, a differenza delle cause sopravvenute, possono in qualche maniera interferire tra la condotta e l’evento, ma non in senso eziologico, bensì solamente in senso logico.
Note e riferimenti bibliografici
BELLINA M., La rilevanza del concorso colposo della vittima nell’infortunio sul lavoro: una timida apertura, in Cass. Pen. 2008
CHINE’- FRATTINI- ZOPPINI, Manuale di diritto penale, Terza edizione, Nel Diritto Editore
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2012
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Cedam, Milano, 2007
ROMANO M., Commentario sistematico al codice penale, Giuffrè, Milano, 2004
Santise M., Coordinate ermeneutiche di diritto penale, Aggiornamento 2015, Giappichelli Editore – Torino
[1] La distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica non è rinvenibile nel dettato codicistico, ma è frutto dell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale nel settore civile. La norma che testimonia l’esistenza di questi due momenti della causalità è, secondo parte della dottrina, l’art. 1227 c.c., il cui co. 1, prevedendo il principio della cd. autoresponsabilità del soggetto, sottenderebbe la causalità materiale, mentre il co. 2, laddove esclude il risarcimento del danno evitabile dal creditore, sottenderebbe la causalità giuridica.
[2] Art. 40 c.p.: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione .
Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Art. 41 c.p.: “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra la azione od omissione e l'evento.
Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita.
Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui.”
[3] Ciò “per la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti” (cfr. S.U. Cass. 11 gennaio 2008, n. 581).
[4] Le leggi scientifiche di copertura si dividono in universali e statistiche. E’ universale la legge secondo cui la verificazione di un evento è sempre accompagnata dal verificarsi di altro evento. E’ statistica, per converso, la legge che afferma che un evento è accompagnato dal verificarsi di altro evento solo in una certa percentuale di casi.
[5] In un primo momento, si fece riferimento al cd. metodo individualizzante, secondo cui il giudice ricostruiva il nesso causale individuando eventi singoli e concreti tra loro connessi. In seguito, esso fu sostituito col metodo della cd. generalizzazione del senso comune, laddove la causa di un evento non è considerata come accadimento singolo ed unico, ma ripetibile. Ma entrambi i metodi ledevano il principio di legalità-tassatività, in quanto il giudice finiva per essere “creatore di leggi causali”. Ecco allora che si sentì il bisogno di fare riferimento a leggi scientifiche di copertura.
[6] Fiandaca-Musco, Diritto penale, Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2012, p.235.
[7] Ad eccezione della sola sentenza 25 novembre 2004, n. 19777, tuttavia a sezione semplice.
[8] Cfr. Cass. 18 dicembre 2008, n. 4941.
[9] Mantovani, Diritto penale, Parte generale, Cedam, Milano, 2007, p. 147.
[10] “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra la azione od omissione e l'evento”.
[11] Romano M., Commentario sistematico al codice penale, Giuffrè, Milano, 2004, p. 343.
[12] A titolo esemplificativo, nel caso di morte di un pedone conseguente ad un investimento automobilistico, la responsabilità del conducente del veicolo non è esclusa dal fatto che la vittima era di salute malferma (causa preesistente) e che i sanitari hanno commesso errori nella cura successiva all'investimento (causa sopravvenuta).
[13] “Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”.
[14] “Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita”.
[15] Cfr. Cass., Sez. V, 26 gennaio 2011, n. 15220, Cass., Sez. V, 13 febbraio 2012, n. 13114, Cass., Sez. V, 26 gennaio 2010, n. 11954.
[16] Cfr. Cass. 3 marzo 2012, n. 39389; Cass., Sez. V, 22 marzo 2005, n. 17394; Cass., Sez. IV, 12 novembre 1997, n. 11779.
[17] Cfr. Cass., Sez. IV, 30 gennaio 2008, n. 13939.
[18] L’esempio riportato nella relazione ministeriale al c.p. è quello del soggetto ferito che decede a seguito di un incendio scoppiato in ospedale, dove era stato condotto a causa del ferimento.
[19] Cfr. Cass., Sez. IV, 28 aprile 2011, n. 23392; Bellina M., La rilevanza del concorso colposo della vittima nell’infortunio sul lavoro: una timida apertura, in Cass. Pen. 2008, p. 1013.
[20] Gallo M., L’elemento oggettivo del reato, Milano, 1967, p. 84.
[21] Mantovani, op. cit., p. 149.
[22] Blaiotta R.-Canzio G., Causalità (dir. pen.), p. 283.