La fattispecie delittuosa del reato di minaccia ex art. 612 del Codice Penale.
Modifica paginaGli elementi costitutivi della condotta tipica e il rapporto con gli altri reati. Uno sguardo alle più recenti interpretazioni della giurisprudenza di legittimità.
Sommario: 1. Premessa e interesse tutelato - 2. Elemento oggettivo e soggettivo - 3. Minaccia aggravata - 4. Configurabilità del tentativo - 5. Rapporto con altri reati.
1. Premessa e interesse tutelato
Il disposto normativo dell'art. 612 definisce la fattispecie incriminatrice del delitto di minaccia, distinguendo specificamente la minaccia, semplice e aggravata, tanto sul piano prettamente sanzionatorio quanto su quello relativo alla procedibilità del reato. La condotta tipica presa in esame dalla fattispecie delittuosa di cui all'art. 612 c.p richiede, al fine della configurabilità del reato di minaccia, una coartazione della libertà psichica del soggetto passivo derivante dalla prospettazione di un male ingiusto inerente la stessa persona ovvero il proprio patrimonio.
La collocazione sistematica del reato all'interno della sezione del codice intitolata ai delitti contro la libertà personale, consente di enucleare il bene giuridico protetto nella libertà personale e quindi, specificamente, nella sfera della libertà morale. Sul punto si osserva che la dottrina maggioritaria, pur muovendo dal nucleo comune della libertà morale, ha ritenuto di individuare l'oggetto giuridico della fattispecie in esame nella c.d “tranquillità individuale” da intendersi nel complesso delle condizioni necessarie e sufficienti a consentire il normale esercizio dei diritti di libertà (Così in particolare Antolisei e Mantovani). La stessa specificazione della nozione di tranquillità individuale non esclude la libertà morale, in un rapporto di species a genus, posto che il soggetto può dirsi realmente in grado di determinare liberamente la propria volontà solo allorquando versi in una situazione di tranquillità personale. A ulteriore specificazione, infatti, la tranquillità individuale può essere considerata prodomica alla stessa tutela della libertà morale, e ciò in quanto la prospettazione del male ingiusto e futuro è idonea ad alterare le condizioni di vita del soggetto passivo turbandone il livello psico-emotivo, tanto da pregiudicarne la stessa libertà di autodeterminarsi (Fiandaca – Musco).
La fattispecie è da considerarsi un reato di pericolo, pertanto per la integrazione della condotta tipica non è necessaria l’effettiva lesione del bene oggetto di tutela penale e quindi la prova che la vittima sia stata effettivamente intimorita dalla condotta delittuosa, purché la stessa minaccia risulti idonea ad incutere timore. Il turbamento effettivo, e quindi l’evento di danno, potrà anche non verificarsi in concreto stante la sussistenza dell’ingiustizia del male minacciato da verificare in relazione alla situazione contingente. Sul punto si riscontra una interessante casistica della giurisprudenza di legittimità in ordine alla configurabilità della condotta tipica del reato in situazioni nelle quali effettivamente la persona offesa non sia stata intimorita: fra tutte si richiama una pronuncia resa di recente dalla Corte di Cassazione con cui è stata cassata la decisione dei giudici di merito che avevano escluso la rilevanza della frase “so come farti sparire, io ti faccio sparire, non devi più passare da queste parti” ritenendo che in questo contesto era mancato l’intimorimento della vittima. Ai fini della sussistenza del reato, ha osservato la Corte, non può rilevare neppure il fatto che la il male minacciato era indeterminato in quanto comunque ingiusto e desumibile dal quadro fattuale del contesto entro il quale la minaccia è stata proferita (Cass. Pen. n. 34215/2015).
2. Elemento oggettivo e soggettivo
In punto di elemento oggettivo del reato, la condotta tipica di azione diretta a minacciare un ingiusto danno può dirsi integrata allorquando l'atteggiamento intimidatorio posto in essere riguardi la sfera morale della vittima, a nulla rilevando, in questi termini, le modalità in concreto utilizzate per compiere la minaccia. Il nesso causale che deve intercorrere tra la condotta diretta a minacciare ovvero a prospettare al soggetto passivo un male futuro e ingiusto, presuppone la riconducibilità dell’eventuale realizzazione del danno minacciato alla volontà del soggetto agente. Con riferimento ai connotati dell’oggetto della minaccia, l’ingiustizia del male futuro implica una prospettazione contra ius, la cui verificazione dipende dalla volontà dell’agente, non essendo altrimenti ipotizzabile una penale responsabilità qualora questa dipendesse da fattori diversi ed estranei alla propria sfera volitiva. Così non integra certamente il delitto di minaccia la condotta di chi prospetti un male non già dipendente dalla propria volontà ma che rappresenta un mero auspicio di un fatto negativo ovvero un cattivo presagio (Cass. 35763/2006). La giurisprudenza di legittimità ritiene comunque sussistente l’elemento oggettivo laddove il male prospettato oggetto di minaccia derivi dall’esercizio di una facoltà legittima utilizzata, tuttavia, per scopi diversi da quelli per cui è preordinata dalla legge. Trattandosi di un reato di pericolo il male minacciato può ravvisarsi nel danno, nella lesione ovvero nella messa in pericolo di un diritto o interesse giuridicamente rilevante.
La minaccia può assumere vari connotati sia sul piano delle espressioni verbali concretamente proferite, sia con riferimento al contesto specifico entro il quale la condotta viene posta in essere. In particolare, secondo costante insegnamento della Suprema Corte, la minaccia deve essere seria ed effettiva e quindi deve consistere nella prospettazione credibile di un male alla vittima. È interessante richiamare, sul punto, una recente conferma di assoluzione di un imputato il quale aveva minacciato di spruzzare addosso alla vittima un liquido antiparassitario che aveva tra le mani, non essendo stata ravvisata la serietà ed effettività della minaccia stante lo stato d’ira in cui versava l’agente in quel momento (Cass. Pen. Sez. V n. 8387/2014).
Ma la minaccia di un male ingiusto deve essere altresì realizzabile e verosimile nonché, come sopra ricordato, necessariamente dipendente dalla volontà dell’agente. Si è osservato, infatti, che la condotta minatoria deve essere valutata nell’ambito del contesto entro il quale viene formulata così da stabilirne l’idoneità intimidatoria concreta: così è stata ritenuta non offensiva l’espressione “vieni fuori che facciamo a pugni” pronunciata da un anziano di ottantaquattro anni a una persona con venti anni di meno, in quanto non può dirsi in siffatta ipotesi integrata la condotta tipica per difetto assoluto di offensività (da ultimo Cass. Pen. 16.06.2016 n. 25080).
Circa le forme della minaccia, è orientamento prevalente quello che ritiene configurabile il reato in presenza di minaccia espressa in forma condizionata, purché idonea a ridurre la libertà psichica della persona offesa. Sul punto, tuttavia, si richiama una recente pronuncia di legittimità con cui la Corte ha ritenuto non punibile una minaccia condizionata mediante la quale l’autore della stessa abbia inteso, non già restringere la libertà psichica, bensì prevenire un’azione illecita rappresentandogli quale reazione legittima il suo comportamento determinerebbe. Nella specie la Suprema Corte ha richiamato un principio di diritto affermato con la sentenza n. 29390 del 4 maggio 2007 per escludere che la condotta dell’imputato, il quale aveva minacciato di morte la persona offesa laddove avesse testimoniato in giudizio su quanto accaduto in sua presenza, possa avere il fine di “prevenire un’azione illecita o anche solo inopportuna della persona offesa […] atteso che la deve intendersi riferita ad un’azione oggettivamente sconveniente secondo il comune sentire e non a quella ritenuta tale dal soggettivo punto di vista dell’agente” (Così Cass. Pen. Sez. V n. 14054/2014).
Sul piano dell’elemento soggettivo il dolo è generico e presuppone la coscienza e volontà di minacciare ad altri un danno con la consapevolezza della sua ingiustizia. Oggetto del delitto di minaccia è l’azione intimidatrice, di talché, ai fini della sussistenza di tale elemento, non è necessario che la coscienza e volontà dell’agente si estenda sino a comprendere il proposito di attuare concretamente il male minacciato. La giurisprudenza, sul punto, è univoca nel ritenere il dolo generico richiesto dalla norma penale del tutto indipendente dal fine che il soggetto attivo intende perseguire nei confronti del soggetto passivo.
3. Minaccia aggravata
Il secondo comma dell’art. 612 c.p. individua le circostanze aggravanti che determinano l’applicazione di diversi limiti edittali di pena sul piano sanzionatorio, incidendo altresì sulla procedibilità del medesimo reato che, per le ipotesi aggravate, è d’ufficio. La fattispecie di minaccia è aggravata da uno dei modi indicati nell’art. 339 c.p. quando commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni, esistenti o supposte. Si tratta di situazioni che, anche singolarmente considerate, sono idonee a rendere più grave il turbamento psichico a carico della persona offesa, così rafforzando la minaccia del male ingiusto prospettata. In particolare, volendo qui soffermarsi sulla minaccia mediante uso di armi, questa si caratterizza per la presunzione di danno grave determinata dalla concorrenza delle stesse modalità ovvero dall’utilizzo di un’arma. Pertanto, secondo la prevalente lettura offerta dalla giurisprudenza di legittimità, la minaccia attuata con arma è in ogni caso ex se produttiva dell’evento formale dell’ipotesi grave del reato. Non mancano nella casistica giurisprudenziale esempi in ordine alla medesima ipotesi circostanziata di minaccia: integra delitto di minaccia aggravata la condotta di chi, pur tenendo in mano un coltello a serramanico con la lama ripiegata nel manico stesso, ostenti la presenza dell’arma dinanzi alla vittima “così da rendere credibile che essa possa essere adoperata in qualsiasi momento ed in stretta continuità con la condotta minatoria” (Cass. Pen. Sez. V sent. n. 6496/2012); analogamente è stata ritenuta idonea ad integrare la fattispecie del secondo comma la condotta di minaccia effettuata mediante l’uso di un coltello, sebbene non a serramanico (e quindi sprovvisto delle caratteristiche di cui all’art. 585 c.p.), così come l’ipotesi in cui sia stata soltanto esibita l’arma seppure scarica, che costituisce condotta comunque idonea ad incutere timore. Anche l’arma giocattolo può costituire arma ai sensi dell’art. 339 e quindi della fattispecie di minaccia aggravata, in quanto se la minaccia è compiuta con una siffatta “arma” il cui “tappo rosso” sia stato debitamente occultato e quindi reso non visibile agli occhi della vittima, la condotta assume rilevanza ai fini della configurabilità dell’aggravante in esame (in particolare si richiama Cass. Pen. Sez. V n. 16647/03). La pistola giocattolo è stata considerata idonea ad integrare il delitto di minaccia aggravata anche in una ipotesi in cui la minaccia è stata proferita dall’agente avvalendosi di tale arma (inidonea a cagionare alcun danno) contestualmente all’affermazione “ti sparo”: ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che l’uso dell’arma giocattolo, “in unione con le ulteriori modalità con cui è attuata la minaccia determina un maggior effetto intimidatorio sull’animo del minacciato” (Cass. Pen. Sez. V 10179/2013); ed inoltre si è giustamente osservato, sulla scia delle richiamate pronunce, che analogamente alla pistola giocattolo, qualsiasi oggetto che abbia all’apparenza le caratteristiche intrinseche di un’arma può provocare nel soggetto passivo un effetto intimidatorio più intenso (lo affermato lo Corte di Cassazione con la Sent. n. 13915/2015).
Diversi canoni valutativi si richiedono, invece, con riguardo all’ulteriore circostanza aggravante della gravità della minaccia. Nel silenzio della norma penale, la Suprema Corte ha elaborato il parametro che consente di enucleare le ipotesi di minaccia grave tenuto conto del fatto che il carattere della gravità è relativo e va considerato in relazione tanto alla gravità del male minacciato quanto all’insieme delle circostanze complete nelle quali la minaccia è stata commessa, tenuto conto altresì delle condizioni particolari in cui versano il soggetto attivo e quello passivo. Si tratta di un criterio valutativo applicato dalla Corte di Cassazione in varie pronunce, anche risalenti, dalle quali emerge la necessità di restringere la ipotesi aggravata a quelle condotte che siano realmente idonee a cagionare un grave turbamento in capo alla vittima, gravità che potrà essere accertata mediante un giudizio ex ante che consenta di valutare tale idoneità in senso oggettivo. Richiamando qui i più recenti orientamenti giurisprudenziali, la quinta Sezione penale della Suprema Corte ha ritenuto che “la gravità della minaccia va accertata avendo riguardo al tenore delle eventuali espressioni verbali ed al contesto nel quale esse si collocano, onde verificare se, ed in quale grado, la condotta minatoria abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa” (Cass. Pen. sez. V n.35593/2015). In senso conforme la stessa Corte ha ritenuto configurabile la gravità della minaccia in una ipotesi in cui la stessa, seppure generica, è stata comunque in grado di produrre un “grave turbamento psichico, avuto riguardo alle personalità dei soggetti” riconoscendo così configurabile il secondo comma in relazione alla minaccia di morte proferita da un pluripregiudicato nei confronti di due militari (vedi Cass. Pen. Sez. V n. 44382/2015). Da ultimo, muovendo dalle medesime considerazioni in ordine all’accertamento della gravità della minaccia tenuto conto di condizioni soggettive, modalità della condotta e contesto, la Suprema Corte ha confermato la condanna di un uomo che mediante un messaggio inviato sul profilo Facebook, minacciava la compagna proferendo nei suoi confronti espressioni quali “se mi tolgono il bambino vi ammazzo”, atteso che la persona offesa era già stata minacciata con un coltello e a seguito di quell’episodio si era trasferita, con il bambino nato dalla relazione con l’imputato, a casa dei genitori (Cass Pen. n. 16145/2016). Infine si segnala una interessante e recentissima pronuncia di conferma della decisione dei giudici di merito che hanno ravvisato nella frase “ti faccio portare via i figli” una espressione idonea ad integrare il reato di minaccia in quanto pronunciata da un cittadino italiano nei confronti di due donne magrebine, sulla scorta del fatto che l’uomo era il fondatore di una associazione schierata contro l’ipotetica realizzazione di una mosche, e tenuto conto altresì della spiccata avversione più volte manifestata tramite precisi comportamenti nei confronti di persone di fede musulmana (Cass. Pen. sez. V, del 29.01.2016 n. 23592).
4. Configurabilità del tentativo
In tema di configurabilità del tentativo nel delitto di minaccia è necessario svolgere taluni cenni circa il momento consumativo del reato, stante che si tratta di un reato di pericolo per la sussistenza del quale, pertanto, non è necessario il reale intimorimento del soggetto passivo purché la minaccia sia comunque idonea a produrre tale effetto. Si comprende, quindi, come l'ammissibilità del tentativo passa necessariamente dalla precisa individuazione del momento di consumazione del reato, problema ontologicamente preesistente rispetto alla valutazione di idoneità e univocità degli atti diretti a compiere la condotta di minaccia. Ciò premesso, trattandosi di reato formale di pericolo, secondo la giurisprudenza di legittimità, anche risalente, il delitto di minaccia si consuma allorché il mezzo usato abbia attitudine ad intimorire così producendo "l'effetto di diminuire la libertà psichica e morale del soggetto passivo" anche indipendentemente dalla prova della reale intimidazione e purché si sia raggiunto il livello di idoneità della stessa minaccia nei confronti di un uomo di livello comune (Cass. Pen. Sez. V n. 11069/79 e Sez. II 127050/73). In relazione alla configurabilità del tentativo si segnala, senza pretesa di completezza, un contrasto di posizioni tanto nella dottrina quanto nella giurisprudenza di legittimità. In particolare, il problema attiene all’ipotizzabilità del tentativo nei delitti di pericolo o di attentato: secondo autorevole dottrina il tentativo è naturalisticamente concepibile ma giuridicamente inammissibile nei delitti di pericolo, ritenuto inconciliabile il tentativo -inteso come una sorta di “pericolo di pericolo”- con il principio di offensività e con la ratio stessa dei delitti di pericolo che è già quella di impedire il pericolo del bene protetto (Mantovani). L’argomentazione si fonda, quindi, sulla necessità di evitare ulteriori anticipazioni di tutela, in ragione del fatto che, ritenendo gli atti idonei ed univocamente diretti a ledere il bene protetto, potrà dirsi allora raggiunta la pericolosità necessaria ad integrare il delitto di pericolo (e non forme tentate dello stesso). La giurisprudenza di legittimità, di contro, in taluni orientamenti meno risalenti ammette il tentativo anche con riferimento ai reati di pericolo riconoscendo ipotizzabili gli atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare un pericolo che tuttavia non sorge (In particolare Cass. Pen sez. VI 4169/95 e, sempre in senso conforme, Sez. V n. 17694/2010). Più recentemente i giudici di legittimità hanno ritenuto ipotizzabile il tentativo nel delitto di minaccia allorquando il reato viene commesso mediante un processo esecutivo frazionabile. Specificamente su tale ultima pronuncia resa dalla Suprema Corte nel febbraio 2015 , il processo esecutivo frazionabile ha riguardato la spedizione di una lettera minatoria contenente un proiettile che tuttavia non ha raggiunto il destinatario in quanto intercettata prima di essere ricevuta (Cass. sent. n. 9362/2015).
5. Rapporto con altri reati
La nozione di minaccia va tenuta distinta rispetto al reato di minaccia ex se considerato in quanto la condotta minatoria in senso generico può fungere anche da mezzo per il tramite del quale l’agente intende realizzare un evento ulteriore. Nello specifico, infatti, per la sussistenza del delitto di minaccia, trattandosi di reato formale di pericolo è sufficiente che l’agente ponga in essere la minaccia del male ingiusto. Pertanto laddove la stessa condotta fosse finalizzata e diretta a costringere taluno a fare, tollerare o omettere qualcosa dovrà configurarsi la diversa ipotesi delittuosa della violenza privata con evento di danno in luogo di quello di pericolo. Infatti, la condotta del delitto di violenza privata, previsto e punito all’art. 610 c.p., si caratterizza per il quid pluris dell’elemento oggettivo rispetto a quello sufficiente ad integrare il delitto di minaccia. Nella violenza privata la minaccia è diretta a coartare il soggetto passivo al fine di ottenere un comportamento, commissivo o omissivo, che egli non avrebbe assunto, ovvero a sopportare una altrui condotta che altrimenti non avrebbe tollerato. Si può quindi affermare, secondo costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, che il criterio distintivo del delitto di minaccia rispetto a quello di violenza privata ex art. 610 risiede nell’elemento intenzionale che incide sulla struttura stessa dell’elemento oggettivo del reato, in relazione al quale la minaccia di un male ingiusto può costituire una modalità della condotta diretta ad esercitare una coartazione della volontà altrui.
La minaccia, intesa come manifestazione esterna che rappresenta in qualsiasi forma al soggetto passivo il pericolo di un male ingiusto e futuro, può dare luogo ad un concorso di reati con il delitto di violenza sessuale, la cui condotta tipica è descritta all’art. 609 bis, in quanto si tratta di due fattispecie distinte e autonome sul piano della struttura della condotta. Ed invero, la giurisprudenza esclude un rapporto di assorbimento della condotta minatoria in quella tipica della violenza sessuale ben potendosi, all’opposto, configurare concorso del delitto di minaccia nel delitto di violenza sessuale laddove l’agente proferisca la minaccia del male ingiusto non in relazione alla coartazione della vittima a compiere o subire atti sessuali, bensì rivolta a generiche manifestazioni esterne comunque idonee a determinare un turbamento psichico nella stessa vittima. Nello specifico si segnala una recente pronuncia con la quale la Suprema Corte ha ritenuto talune frasi proferite dall’imputato nei confronti della vittima, idonee ad integrare il delitto di cui all’art. 612 c.p. in quanto le espressioni minacciose erano dirette ad indurre la vittima a ristabilire la relazione sentimentali oltre che ad avere rapporti sessuali. Ed invero, la Corte ha precisato che le minacce non erano esclusivamente preordinate alla consumazione del rapporto sessuale, ma rivestivano una valenza parzialmente autonoma. In questi termini il principio di diritto enucleato dai giudici di legittimità afferma che il reato di violenza sessuale può concorrere con il delitto di minaccia quanto quest’ultimo “pur se in parte strumentale rispetto alla condotta criminosa del primo, rivesta una valenza parzialmente autonoma slegata dal compimento dell’attività sessuale coatta” (Così Cass. Pen. sez. III n. 23898/2014).
Note e riferimenti bibliografici
Per la dottrina:
F. Mantovani, “Diritto Penale”, quinta ed. 2015 – Cedam
G. Fiandaca – Musco, “Diritto Penale parte speciale”, 2011 - Zanichelli
D. Pulitanò, “Diritto Penale parte speciale, Tutela penale della persona”, 2011 – Giappichelli
F. Antolisei, “Diritto Penale parte speciale”, 2008 – Giuffrè
Per la giurisprudenza:
Forti – Seminara – Zuccalà, “Commentario breve al Codice Penale”, 2016 – Cedam
Colli – Ferri – Gennari, “Codice penale, le pronunce giurisprudenziali più recenti”, 2016 – La Tribuna.
Banca dati DeJure – Giuffrè