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Pubbl. Ven, 27 Gen 2017

L'applicazione di pena su richiesta delle parti ed il plea bargaining

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Matteo Consiglio


Il plea bargaining e patteggiamento: utilizzo diffuso del primo e scarsa applicazione del secondo. Ordinamenti a confronto.


L’applicazione di pena su richiesta delle parti ed il plea bargaining consistono, sia per il sistema italiano che per quello di common law, in una definizione anticipata del processo penale allo scopo, chiaramente deflattivo, di ridurre il carico destinato ai tribunali e favorire la ragionevole durata del processo.

Negli Stati Uniti d’America circa l’80% delle cause si conclude con il plea bargaining differentemente, invece, delle basse percentuali italiane.

Il plea bargaining si sostanzia in un accordo tra il prosecutor ed il defendant, sul presupposto della dichiarazione di colpevolezza (guilty plea) o di no contest del defendant al fine di ridurre il carico delle imputazioni o di ridurre la gravità dell’imputazione.

Nel caso di guilty plea, l’accordo tra prosecutor e defendant, se approvato dal giudice, comporta una rapida conclusione del processo.

Nel caso del no contest, il quale è espressamente una non contestazione sui capi di imputazione da parte dell’imputato, il giudice interpreterà questa scelta come un’ammissione di colpa che produrrà gli stessi effetti della guilty plea.

Il plea bargaining si distingue in:

  1. sentence bargaining, che è un plea bargaining con il quale il prosecutor si accorda con il defendant di raccomandare al giudice un quantum di pena minore di quello che potrebbe essere inflitto dopo un processo;
  2. charge bargaining, che, invece, si caratterizza per il fatto che il prosecutor si accorda di far cadere alcune imputazione o ridurre il carico di imputazioni al fine di una sentenza meno severa.

Differentemente invece “l’applicazione di pena su richiesta delle parti – o “patteggiamento” – è un’ipotesi di definizione anticipata del procedimento penale, mediante sentenza – equiparata ad una pronuncia di condanna – con cui il giudice, verificata la corretta qualificazione giuridica del fatto, anche sotto il profilo delle circostanze, sine iudicio, ratifica l’accordo intervenuto tra imputato e magistrato del pubblico ministero su una pena, che deve essere contenuta entro limiti normativamente predeterminati, dopo averne valutata la congruità[1]”.

La norma di cui all’art. 444 c.p.p., la quale disciplina l’istituto dell’applicazione di pena su richiesta delle parti, ha carattere premiale, in quanto consente all’imputato di evitare l’inizio del dibattimento concordando con il pubblico ministero una pena ridotta nella quantità di un terzo rispetto a quella applicabile.

Nello specifico, la norma prevede, al comma 1, che indagato/imputato e pubblico ministero “possono chiedere al giudice l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non supera i cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria”.

Ma come calcolare il limite dei “cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria”?

Il legislatore illumina la strada, in quanto, partendo dalla pena edittale, bisogna sottrarne le eventuali circostanze attenuanti ed 1/3 della pena stessa, in tal modo si sostanzia quell'elemento premiale individuato dalla legge per la scelta di ricorrere a questo metodo di definizione anticipata del processo penale.

Al contrario, per i reati di maggior allarme sociale, indicati al comma 1 bis della stessa norma, non è prevista l’applicazione del comma 1. La ratio si giustifica con il fatto che, data la particolare gravità dei reati indicati nel testo di legge, il legislatore ha voluto far in modo di restringere il campo di applicazione di questo istituto, in quanto maggiormente offensivi dei valori della vita e della dignità umana.

La formazione dell’accordo si struttura in:

  1. una richiesta dell’indagato, dell’imputato o del pubblico ministero;
  2. un consenso della parte contrapposta al richiedente.

Relativamente al tempo in cui è possibile chiedere l’applicazione di pena su richiesta, bisogna distinguere:

  1. il caso in cui si segua lo schema ordinario: richiesta e consenso possono giungere nell’arco temporale che va dalle indagini preliminari al termine ultimo della formulazione delle conclusioni in udienza preliminare;
  2. il caso in cui si proceda per decreto penale di condanna: la richiesta deve essere formulata in sede di opposizione al decreto entro quindi giorni dalla notificazione del decreto;
  3. il caso in cui si proceda con giudizio immediato: la richiesta deve essere presentata entro quindici giorni dalla notificazione del decreto che dispone il giudizio immediato
  4. il caso in cui si proceda con giudizio direttissimo: la richiesta può essere presentata fino all’apertura del dibattimento;
  5. il caso in cui si proceda con citazione diretta per un reato di competenza del tribunale in composizione monocratica:  la richiesta può essere presentata fino all’apertura del dibattimento.

E' legittimo a questo punto chiedersi quale ruolo assuma il giudice nell’applicazione di questo istituto. Egli può accogliere o rigettare la richiesta, ma non gode di alcun potere relativo alla possibilità di poter modificare od integrare l’accordo a cui son già pervenute le parti. Più specificamente, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., comma 2, “se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129, il giudice, sulla base degli atti, se ritiene corretta le qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, nonché congrua la pena indicata, ne dispone con sentenza l’applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti”.

L’udienza si svolge in camera di consiglio alla presenza facoltativa delle parti e, al termine, il giudice pronuncerà sentenza che sarà impugnabile solo con ricorso per Cassazione.

 

 

[1] A.A.Dalia – M. Ferraioli, Manuale di Diritto Penale, VIII Edizione, CEDAM