Pubbl. Mar, 31 Gen 2017
Le Sezioni Unite si pronunciano sul giudice competente ex art. 42 bis T.U. Espropri
Modifica paginaLa Suprema Corte con la sentenza del 25 luglio 2016, n. 15283, ha ridisegnato ex novo il riparto di giurisdizione avente ad oggetto le somme riconosciute al privato soggetto al nuovo procedimento di espropriazione postuma ex art. 42bis T.U. Espropri, fornendo una soluzione coerente con il principio di effettività della tutela.
Sommario: 1. L'introduzione del nuovo art. 42bis Testo Unico Espropriazioni (d.p.r. n. 327 del 2001); 2. A chi spetta la giurisdizione sulle controversie involgenti l'art. 42bis?; 3. Considerazioni critiche.
1. L’introduzione del nuovo art. 42bis Testo Unico Espropriazioni (d.p.r. n. 327 del 2001)
La tematica delle occupazioni illegittime di beni privati da parte della Pubblica Amministrazione (e del connesso problema del ristoro del danno da occupazione illegittima, da sempre controverso sia dal punto di vista sostanziale che processuale) assume oggi una consistenza senz’altro diversa rispetto al passato, essendosi di gran lunga semplificato lo scenario delle possibilità a disposizione della PA.
Giova notare infatti che, dopo l’inequivocabile (e quanto mai opportuna) censura giurisprudenziale e legislativa degli istituti dell’occupazione acquisitiva e usurpativa[1], la PA versa in una situazione tale per cui delle due l’una:
- o procede con l’espropriazione, da sempre ritenuta la strada maestra da percorrere in virtù delle garanzie sostanziali e procedimentali che essa assicura;
- oppure, se l’esproprio si rivela per qualsiasi ragione illegittimo (ad esempio perché il decreto di esproprio è tardivo, o perché non è rispettata la sequenza procedimentale, o perché è invalida o inefficace la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera), deve restituire al privato il bene e risarcire il danno da lesione del diritto di proprietà.
In altri termini la PA, qualora non eserciti in maniera ortodossa il potere di espropriazione di cui è titolare, deve restituire l’immobile al privato illegittimamente spossessato, anche qualora si sia fatto seguito nelle more alla costruzione dell'opera pubblica cui l’occupazione del suolo era preordinata. La PA infatti non può più far valere l’efficacia paralizzante dell’azione restitutoria, sortita dalla irreversibile trasformazione del bene a seguito della costruzione dell’opera pubblica.
L'unico modo che il legislatore riconosce oggi alla pa di conservare nel proprio patrimonio indisponibile il bene illegittimamente occupato (oltre alla rinuncia della proprietà da parte del privato e alla integrazione degli estremi dell’usucapione pubblica, peraltro fortemente contrastata in giurisprudenza) è l'adozione di quel particolare e controverso provvedimento di cui all’art. 42 bis del Testo Unico espropri, introdotto dal d.l. 6 luglio 2011, n. 98 per colmare il vuoto normativo creatosi a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 43 del medesimo testo unico, disciplinante la vecchia acquisizione sanante[2].
La norma è senz’altro innovativa, e fa proprie le censure mosse a più riprese dalla Corte Costituzionale e dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU) contro ogni forma di “espropriazione sostanziale” consentita dagli ordinamenti nazionali.
La nuova disciplina consente infatti alla PA che utilizzi un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, di acquisire ciononostante la proprietà dello stesso
- con efficacia ex nunc (cioè con effetti non retroattivi)
- e a patto che emani un provvedimento (c.d. di espropriazione postuma) recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area, specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione.
- riconoscendo al privato una tutela patrimoniale rafforzata rispetto al passato, che il legislatore scompone in un duplice indennizzo (uno per il danno patrimoniale, parametrato al valore venale del bene; l’altro per il danno non patrimoniale determinato nella misura del 10 % del valore venale del bene) a fronte del pregiudizio derivante dall’atto (lecito) di esproprio, nonché in un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno (pari al 5 % del valore venale del bene) atta a ristorare il pregiudizio patito durante il periodo di occupazione sine titulo, non sanato dal provvedimento emanato ai sensi dell’art. 42bis.
2. A chi spetta la giurisdizione sulle controversie involgenti il 42bis?
La questione del riparto di giurisdizione conseguente all’introduzione dell’art. 42bis, è di recente ritornata alla ribalta in giurisprudenza, sottendendo delicati problemi di natura processuale, che se non opportunamente vagliati potrebbero rischiare di compromettere anche gli approdi che il legislatore ha con estrema fatica raggiunto sul piano sostanziale.
Volendo circoscrivere l’ambito del problema, non c’è dubbio che la giurisdizione sul provvedimento di acquisizione in quanto tale (cioè la controversia avente ad oggetto la legittimità del provvedimento), spetta al ga, che tra l’altro, in parte qua è titolare di una giurisdizione esclusiva (art. 133 co. 1 lett. g), cpa).
Il problema si pone con riguardo alla giurisdizione sul complesso delle indennità riconosciute al proprietario per il ristoro del pregiudizio patito.
La premessa, che rende problematica la questione del riparto, è che il legislatore all’art. 133 co.1 lett g) cpa
- eccettua espressamente dalla giurisdizione esclusiva in materia espropriativa le controversie sull'indennità, canoni, ed altri corrispettivi,
- includendovi invece le controversie risarcitorie, anche da comportamento mediatamente riconducibile all’esercizio del potere.
Di guisa che privato si trova di fronte ad una situazione di estremo caos, per almeno due motivazioni: da un lato il soggetto che contesta il quantum degli importi corrisposti dalla PA, è costretto ad azionare due giudizi: uno per la voce inerente all’indennizzo davanti al giudice ordinario; l’altro per la voce del risarcimento del danno, dinanzi al giudice amministrativo, trattandosi di danno derivante da un comportamento (la precedente occupazione illegittima) riconducibile mediatamente all’esercizio del potere. dall'altro lato, siccome la base del calcolo dell’indennizzo (per il danno non patrimoniale) e del risarcimento del danno coincide con il valore venale del bene, il soggetto ben potrebbe contestare in nuce proprio il valore venale così come calcolato dalla PA, e in ipotesi sottostimato. Con un inutile dispendio processuale per due cause sostanzialmente uguali, e con il relativo rischio che i due giudici diano luogo a delle valutazioni sensibilmente diverse del valore venale in parola.
La questione è stata da ultimo affrontata e decisa da una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (25 luglio 2016, n. 15283), che ha dissolto ogni residuo dubbio sul riparto di giurisdizione, statuendo che “le controversie aventi ad oggetto la determinazione e la corresponsione di tutte le indennità previste dall’art. 42-bis, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario”.
Le Sezioni unite hanno formulato il principio di cui in massima portando a compimento, dal punto di vista logico e sistematico, il percorso ermeneutico intrapreso dalla Corte costituzionale[3] e dalle stesse Sezioni unite[4], che ha peraltro trovato autorevole avallo anche da parte del Consiglio di Stato, pervenuto alle medesime conclusioni in punto di giurisdizione[5].
L’argomento principale utilizzato dalla Cassazione per giustificare tale decisa presa di posizione in favore della giurisdizione del giudice ordinario è quello secondo il quale tutte le voci di danno menzionate nei commi 1, 3, 4 e 5, dell’art. 42-bis, sono oggetto di un’unica previsione indennitaria, ivi compresa quella relativa al periodo di occupazione senza titolo subita dal proprietario, espressamente contemplata dal comma 3, ultimo periodo; il diritto di avere quell’indennità trova il suo presupposto nel provvedimento di acquisizione, quindi è un’indennità collegata al provvedimento di acquisizione, che si compone di tre voci: valore venale, un'ulteriore somma pari al 10% del valore venale, più, per ogni anno, 5% del valore venale, a titolo risarcitorio.
La locuzione <> contenuta nel menzionato comma 3, ultimo periodo, configurerebbe per questa via una mera improprietà lessicale in cui è caduto il legislatore che, in quanto tale, non consente di superare gli obiettivi (e principi esegetici ispiratori) di concentrazione ed effettività della tutela giurisdizionale, che risulterebbero inesorabilmente vulnerati da una interpretazione letterale che frazionasse la tutela affidando al G.A. la cognizione del danno da occupazione senza titolo ed al G.O. le altre poste di danno menzionate dal medesimo art. 42-bis.
3. Considerazioni critiche
La conclusione di cui si fa portavoce la Corte di Cassazione con la sentenza in commento, sebbene ben argomentata ed encomiabile per l’apprezzabile sforzo di fornire al privato una strada più veloce e razionale, in omaggio al principio di effettività della tutela giurisdizionale, sembra tuttavia spazzare via in un solo colpo quello che è il vero fiore all’occhiello dell’art. 42bis, con una reductio ad unum delle somme riqualificate sic et simpliciter come mere indennità.
La grande differenza rispetto al passato che si rinviene dall’art. 42bis, infatti, consiste nella circostanza che il provvedimento di espropriazione postuma non sana l’illecito pregresso (con un acquisto della proprietà ex tunc) il quale, essendo fonte di un diverso ed autonomo pregiudizio, è ristorato con una somma a titolo di risarcimento del danno.
Del resto non sembra che il legislatore consideri impropriamente “risarcimento del danno” ciò che invece ha l’essenza di una indennità, poiché non solo la locuzione “a titolo di risarcimento” compare due volte nel testo della norma, ma è fatta salva anche la prova di un danno diverso.
Note e riferimenti bibliografici:
[1] Si tratta dei noti istituti di matrice giurisprudenziale, elaborati dalle Sezioni Unite a partire dagli anni ’80, per consentire alla PA l’acquisto nel patrimonio indisponibile del bene occupato in maniera illegittima (in assenza dei titoli necessari per la successiva espropriazione, o stante la loro sopravvenuta inefficacia), allorchè dimostrava l’irreversibile trasformazione del bene.
[2] Cfr. Corte Costituzionale 8 ottobre 2010, n. 293.
[3] Sentenza del 30 aprile 2015, n. 71
[4] Sentenza del 29 ottobre 2015, n. 22096.
[5] cfr. A.P., 9 febbraio 2016, n. 2, anche se con una affermazione incidentale rispetto all’oggetto principale di quel giudizio; sez. IV, 12 maggio 2016, n. 1910 che ha, invece, analizzato funditus l’intera tematica).