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Pubbl. Gio, 26 Gen 2017

Esercizio del potere di revoca della P.A in materia di appalti

Stefania Tirella


Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5026/2016, si sofferma sulle condizioni per il corretto esercizio del potere di revoca dell´aggiudicazione definitiva negli appalti pubblici, ribadendo l´insufficienza di un generico ripensamento circa la convenienza al mantenimento in vita dell´atto.


Con la sentenza n. 5026/2016, il Consiglio di Stato torna a pronunciarsi sulla esatta individuazione dei presupposti del corretto esercizio del potere di revoca da parte della Pubblica Amministrazione e del suo utilizzo, in particolare, nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici.

Con la sentenza n. 5026/2016, il Consiglio di Stato torna a pronunciarsi sulla esatta individuazione dei presupposti del corretto esercizio del potere di revoca da parte della Pubblica Amministrazione e del suo utilizzo, in particolare, nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici.

In generale, il potere di revoca dei provvedimenti amministrativi è previsto dall’art. 21 quinquies della Legge 241/90 e si configura come strumento di autotutela volto alla rimozione di un atto, con efficacia ex nunc, in seguito ad una nuova e diversa valutazione dell’interesse pubblico o ad un mutamento della situazione di fatto.

Si distingue rispetto al potere di annullamento in autotutela in quanto, mentre l’annullamento postula l’esistenza di un atto illegittimo, la revoca ha ad oggetto un atto perfettamente legittimo, ma divenuto “inopportuno” a seguito di una valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione.

A fronte del riconoscimento di un potere tanto ampio alla Pubblica Amministrazione, emergono pertanto delle esigenze di protezione del privato che abbia fatto legittimo affidamento sulla stabilità del provvedimento (poi revocato) e sulla certezza dei rapporti giuridici che ne derivano, con la conseguenza che, se in un bilanciamento tra interesse pubblico e interesse privato, quest’ultimo è destinato spesso a soccombere rispetto al primo, in applicazione dei principi di buona fede e correttezza nei rapporti tra cittadino e Pubblica Amministrazione e del canone del buon andamento dell’azione amministrativa, sono state individuate per via giurisprudenziale delle regole volte ad assicurare che la discrezionalità dell’Amministrazione non sconfini in un inammissibile arbitrio.

In particolare, come ricorda il Consiglio di Stato, la Pubblica Amministrazione è tenuta, in primo luogo, a instaurare un confronto dialettico con il destinatario dell’atto che si intende revocare, in modo da porre in essere un’attenta ponderazione degli interessi in gioco.

In secondo luogo, la revoca non può poggiare su un semplice ripensamento circa la convenienza dell’emanazione e del mantenimento dell’atto, ma deve essere giustificata da una seria rivalutazione dell’interesse pubblico o delle circostanze di fatto o di diritto che rappresentano il sostrato materiale del provvedimento amministrativo (c.d. "revoca per sopravvenienza"). Conseguentemente, le ragioni poste alla base della revoca devono essere puntualmente esplicitate, anche rispetto al confronto degli interessi privati e pubblici in gioco.

Nello specifico, come precisato dalla sentenza, nella materia degli appalti, l’esercizio dello ius poenitendi che abbia ad oggetto il provvedimento di aggiudicazione, deve fondarsi sulla “sicura verifica dell’inidoneità della prestazione descritta nella lex specialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l’avvio della procedura”. È infatti evidente che l’aggiudicazione della gara a un’impresa che abbia formulato la propria offerta adattandosi alle prescrizioni della lex specialis può essere revocata solo nell’ipotesi eccezionale in cui, in seguito ad una nuova istruttoria, sia emersa l’assoluta inidoneità della prestazione inizialmente richiesta e volta a soddisfare i bisogni per i quali si era determinata a contrarre, in quanto “Se si ammettesse, infatti, la revocabilità delle aggiudicazioni sulla sola base di un differente e sopravvenuto apprezzamento della misura dell’efficacia dell’obbligazione dedotta a base della procedura, si finirebbe, inammissibilmente, per consentire l’indebita alterazione delle regole di imparzialità e di trasparenza che devono presidiare la corretta amministrazione delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, con inaccettabile sacrificio dell’affidamento ingenerato nelle imprese concorrenti circa la serietà e la stabilità della gara, ma anche con un rischio concreto di inquinamento e di sviamento dell’operato delle stazioni appaltanti.”

Chiarita dunque la portata del potere di revoca, occorre poi precisare che l’atto di revoca è un provvedimento di secondo grado che  ha ad oggetto un atto unilaterale della stessa pubblica amministrazione, in ciò differenziandosi rispetto al recesso, atto attraverso il quale una delle parti di  un rapporto contrattuale già formatosi si  scioglie dal vincolo.

Il diritto di recesso, previsto in via generale dal codice civile all’art. 1373 cc, viene riconosciuto all’amministrazione, in via generale, dall’art.11 della legge 241/90 ( dove si afferma che è esercitabile “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse” ) e, in materia di appalti, dall’art. 109 del d.lgs. 50/2016.   

La sentenza in commento, oltre  a sottolineare che il momento a partire dal quale la pubblica amministrazione può avvalersi del  recesso e non più della revoca è  quello del perfezionamento del documento contrattuale, chiarisce che i canoni di condotta precisati per la revoca valgono anche per le procedure di aggiudicazione soggette alla disciplina del d.lgs. n.50 del 2016, in quanto “il paradigma legale di riferimento resta, anche per queste ultime, l’art.21-quinquies l. n.241 del 1990, e non anche la disciplina speciale dei contratti, che si occupa, infatti, di regolare il recesso e la risoluzione del contratto, e non anche la revoca dell’aggiudicazione degli appalti (ma solo delle concessioni).”