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Pubbl. Sab, 19 Nov 2016

Successione di leggi penali nel tempo e misure di prevenzione

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Angela Cuofano


Esaminiamo insieme i rapporti che sussistono fra CEDU, Costituzione e misure di prevenzione patrimoniale, alla luce della successione delle leggi penali nel tempo


Con la locuzione “successione di leggi nel tempo” si allude a un fenomeno di produzione normativa tale per cui il legislatore, nel pieno esercizio della propria discrezionalità, sindacabile ai sensi dell’art. 3 Cost., modifica una precedente disposizione in una determinata materia, adeguandola di solito a un mutato contesto sociale.

Tale attività creativa di diritto positivo incontra dei significativi limiti nell’ambito del sistema penale, che involge beni essenziali e costituzionalmente rilevanti dell’individuo, tra cui, soprattutto, la libertà personale ex art. 13 Cost.

Il principio fondamentale che governa la successione di leggi penali nel tempo è senza dubbio quello di irretroattività sfavorevole.

Tale criterio generale si fonda su una ratio garantista di matrice storico-politica, prima che giuridica.

La sua teorizzazione, infatti, risale ai tempi della nascita del moderno Stato di diritto, nella Francia illuminista del ‘700, laddove si ritenne contrario ai principi del favor libertatis e del favor rei, in una dimensione fortemente liberale e personalistica, che un soggetto potesse essere condannato per un fatto non previsto dalla legge come reato al momento della sua commissione.

Emergeva, già allora, la derivazione causale del principio d’irretroattività sfavorevole dal più ampio principio di legalità, al fine di tutelare il cittadino da azioni e incriminazioni normative del tutto arbitrarie a opera del legislatore.

Attualmente, il principio di irretroattività sfavorevole riceve dignità costituzionale grazie all’art. 25, comma 2, Cost. e presenta una dimensione di ampio respiro sovranazionale, essendo espressamente riconosciuto dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, nonché dall’art. 7 della Cedu.

Più in dettaglio, come affermato dalla Corte costituzionale, trattasi di un principio assoluto e inderogabile del nostro ordinamento costituzionale, perno dello Stato di diritto e intimamente connesso al principio costituzionale di colpevolezza di cui all’art. 27, comma, 1 Cost., nonché alla libertà di autodeterminazione dell’individuo, una volta previste e calcolate le possibili conseguenze della propria condotta.

A livello di normazione primaria, poi, il principio di irretroattività sfavorevole rinviene il proprio fondamento nell’art. 2, comma 1, c.p. che, nel disciplinare l’ipotesi della c.d. nuova incriminazione, statuisce che nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.

Il paradigma dell’irretroattività sfavorevole convive, nel settore penalistico, con un altro principio di ampia portata, quello di retroattività favorevole, o retroattività della lex mitior.

Tale coesistenza rappresenta un’esclusiva prerogativa dell’ordinamento penale, animato da evidenti spinte garantiste, a differenza di altri settori del diritto, governati principalmente dal solo criterio di irretroattività ai sensi dell’art. 11 delle Disposizioni preliminari al codice civile.

Ebbene, alla luce di varie pronunce della giurisprudenza costituzionale, emerge come anche il principio di retroattività favorevole goda di un importante riconoscimento costituzionale, sulla base di due parametri normativi.

In primo luogo, rileva l’art. 3 Cost., il principio di uguaglianza, sub specie di ragionevolezza: sarebbe irragionevole infatti, una volta che il legislatore introduca una disposizione penale più favorevole, mitigatrice, ad esempio, del trattamento sanzionatorio, che un soggetto, solo per aver commesso il fatto in un arco temporale antecedente, non possa beneficiarne, a differenza di colui che ha integrato il reato in un momento successivo.

Ovviamente, tale “ancoraggio” costituzionale al principio di uguaglianza comporta una sostanziale differenza rispetto al principio di irretroattività sfavorevole.

Mentre quest’ultimo infatti, come già accennato, è assoluto e inderogabile, il principio di retroattività favorevole, al contrario, può soffrire delle eccezioni, purchè siano volte a tutelare interessi costituzionali di analogo rilievo, in modo giustificato e ragionevole.

In tal senso, si abbia riguardo all’impossibilità, per una legge favorevole sopravvenuta, ma incostituzionale, di operare retroattivamente.

Ancora, la Consulta, con recenti pronunce, ha individuato un ulteriore addentellato normativo costituzionale, al principio di retroattività favorevole, nell’art. 117, comma 1, Cost., laddove impone al legislatore nazionale di conformarsi ai vincoli internazionali, tra cui, ovviamente, quelli derivanti dalla Cedu.

Da parecchi anni, infatti, la Corte Edu ha effettuato un’interpretazione dinamica, sostanziale ed effettiva dell’art. 7 Cedu, rinvenendo in esso la fonte convenzionale anche del criterio di retroattività della lex mitior.

Ne consegue la rilevanza costituzionale indiretta dell’art. 7 Cedu, in ragione del riferimento, prima citato, di cui all’art. 117, comma 1, Cost.

Va aggiunto, poi, che anche il principio di retroattività favorevole rinviene un fondamento legale primario nell’art. 2 c.p.

Più in dettaglio, l’art. 2, comma 2, c.p. declina tale criterio nella sua portata massima, prevedendo, in caso di c.d. abolitio criminis, persino il travolgimento dell’eventuale giudicato di condanna.

Viceversa, l’art. 2, comma 4, c.p., nel disciplinare un fenomeno autenticamente successorio di semplice modifica legislativa migliorativa, stabilisce che se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

In ragione di tali decisive differenze di disciplina, assume, pertanto, fondamentale importanza l’individuazione di un sicuro criterio per distinguere l’abolitio criminis di cui all’art. 2, comma 2, c.p. dalla mera abrogatio sine abolitione ex art. 2, comma 4, c.p.

Sul punto, la dottrina in passato era divisa tra la teoria della c.d. doppia punibilità in concreto, e la tesi della c.d. continuità normativa.

Secondo la prima impostazione il giudice avrebbe dovuto accertare, in presenza di una modifica legislativa penale, esclusivamente il fatto concreto, e rinvenire una successione di leggi ex art. 2, comma 4, c.p. nel caso in cui la condotta integrata fosse pienamente sussumibile anche nella nuova fattispecie criminosa.

Viceversa, il secondo orientamento propugnava un raffronto tra le ipotesi astratte di reato, con peculiare riferimento al bene giuridico tutelato e alle modalità e intensità di aggressione dello stesso.

Ebbene, la giurisprudenza dominante, ripudiando entrambe le teorie suesposte, in quanto devolutive di un eccessivo potere discrezionale al giudice, ha adottato e adotta ancora oggi il criterio del rapporto strutturale di continenza o specialità, progressivamente applicato in molti casi pratici, ad esempio in tema di concussione induttiva, a seguito della riforma del 2012, oppure di falso in bilancio, successivamente alle modifiche del 2002.

Più in dettaglio, aderendo a tale ricostruzione, l’organo giudicante deve compiere una doppia verifica, in astratto e in concreto.

Astrattamente, va effettuato un raffronto tra le fattispecie di reato, verificando se tra le stesse intercorra una relazione di specialità, tale per cui una norma assuma carattere speciale in quanto contenga tutti gli elementi della precedente norma generale più un elemento specificativo, nel caso della c.d. specialità per specificazione, oppure un elemento aggiuntivo, nell’ambito della c.d. specialità per aggiunta.

Una volta individuato questo rapporto strutturale di continenza, il giudice deve compiere una seconda verifica, stavolta in concreto, per accertare che fatti, prima punibili sulla base della precedente normativa generale, continuino a esserlo anche in virtù della sopravvenuta disposizione speciale.

Laddove vi sia ancora rilevanza penale, si dovrà concludere per una semplice abrogatio sine abolitione, viceversa, si sarà in presenza di una parziale abolitio criminis ex art. 2, comma 2, c.p.

Lo statuto della successione di leggi penali nel tempo come sopra descritto, informato al rispetto dei principi di irretroattività sfavorevole e di retroattività favorevole, si applica ovviamente a tutte le norme e misure autenticamente penali, comprese quelle di matrice sanzionatoria, mentre incontra alcune deroghe con riferimento ad altri tipi di conseguenze penali, ossia le misure di sicurezza.

Più in dettaglio, l’art. 200, comma 2, c.p. prevede che se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa rispetto alla legge sussistente al momento della sua applicazione, si applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione.

Il legislatore, pertanto, ammette un’eccezionale applicazione retroattiva sfavorevole delle misure di sicurezza, a differenza di quanto generalmente previsto per le pene in senso stretto.

Ciò, evidentemente, in ragione della diversità teleologica che anima tali conseguenze del reato.

Le pene assolvono una funzione retributiva, di deterrenza, nonché rieducativa ai sensi dell’art. 27, comma 3, Cost.: guardano al passato, intervenendo in un momento successivo al reato, con una chiara logica afflittiva e sanzionatoria.

Al contrario, le misure di sicurezza presentano una marcata impostazione preventiva, guardando al futuro, in quanto volte a neutralizzare la pericolosità sociale del reo ex art. 202 c.p., ossia la concreta probabilità che egli in futuro possa commettere ulteriori reati.

Ne consegue una netta differenza disciplinatoria, laddove la legge consente, solo per le pene, l’applicazione della normativa garantista in punto di successione di leggi penali nel tempo.

La corretta qualificazione giuridica di una misura, pertanto, assume decisiva rilevanza ai fini dell’individuazione del pedissequo regime successorio applicabile.

Il problema si è posto, in passato, in giurisprudenza con riferimento alle misure di prevenzione patrimoniale, in particolare per quanto concerne la c.d. confisca antimafia.

In via generale, le misure di prevenzione intervengono, in ottica spiccatamente anticipatoria, prima che sia commesso un fatto di reato al fine di evitarne la futura consumazione.

Trattasi, dunque, di misure ante delictum, disposte dal questore o dall’autorità giudiziaria, operanti nei confronti di particolari soggetti individuati, ad esempio, dall’art. 4 del d.lgs. n. 159/2011, il c.d. codice antimafia, tra cui rilevano soprattutto gli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416-bis c.p.

Nell’ambito del genus delle misure di prevenzione è possibile distinguere tra misure di carattere personale, ancorate all’accertamento del requisito dell’attualità della pericolosità sociale dell’indiziato, come la sorveglianza speciale di cui all’art. 6 del codice antimafia, e misure di tipo patrimoniale, quali la cauzione ex art. 31 e, soprattutto, la confisca ex art. 24 del medesimo codice.

Trattasi, in ogni caso, di misure aventi natura marcatamente preventiva e, pertanto, assimilabili alle misure di sicurezza in punto di disciplina successoria applicabile, in netta contrapposizione con la logica retributiva successiva delle pene in senso stretto.

Proprio la corretta qualificazione giuridica della confisca antimafia ha, per molto tempo, interessato la giurisprudenza di legittimità, con interventi plurimi e contraddittori, tali da rendere necessario il definitivo e chiarificatore pronunciamento recente delle Sezioni Unite.

Ai sensi dell’art. 24 del codice antimafia, il tribunale può disporre la confisca dei beni di cui l’indiziato non possa giustificare la legittima provenienza e di cui risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

Appare evidente la differenza ontologica rispetto alla generale confisca di cui all’art. 240 c.p., la quale, come misura di sicurezza patrimoniale, richiede un necessario nesso diretto di pertinenzialità tra le res, che rappresentano il profitto del reato, e l’illecito penale stesso.

Ebbene, originariamente, l’applicazione della confisca antimafia era inevitabilmente ancorata dal legislatore all’operatività della misura personale della sorveglianza speciale.

Il giudice dunque, dopo aver accertato l’attuale pericolosità sociale del soggetto indiziato, poteva disporre la misura della sorveglianza speciale e, per l’effetto, la strumento preventivo patrimoniale della confisca.

In quest’ottica la giurisprudenza era solita qualificare la confisca antimafia alla stregua di una “misura di sicurezza”, rispondente alla medesima finalità preventiva proiettata al futuro e inscindibilmente connessa al presupposto della pericolosità sociale dell’individuo.

Ne derivava, in punto di disciplina successoria, l’operatività del regime di cui all’art. 200, comma 2, c.p.

La questione, così definita, si è decisamente complicata in virtù di un recente intervento normativo che ha eliminato il nesso di necessaria presupposizione che avvinceva la misura della sorveglianza speciale alla confisca antimafia.

Attualmente, infatti, l’art. 18, comma 1, del codice antimafia statuisce che le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente e, per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione.

Alla luce di tale innovazione legislativa, parte della giurisprudenza di legittimità ha concluso per un ripensamento in ordine alla natura giuridica della confisca antimafia.

L’autonomia della misura de qua rispetto alla sorveglianza speciale e al fondamentale presupposto dell’accertamento della pericolosità sociale avrebbe determinato un più corretto inquadramento della confisca antimafia nel novero delle pene in senso stretto.

Ciò in ragione della natura sostanzialmente afflittiva di tale misura di prevenzione patrimoniale, la quale si presenterebbe fortemente derogatoria, come già accennato, rispetto al modello generale di cui all’art. 240 c.p.

Ne deriverebbe, in adesione a una concezione autonomistica della pena già affermata a livello convenzionale dalla Corte Edu con riguardo ad altri tipi di confisca, tra cui, ad esempio, la confisca urbanistica, l’operatività del regime successorio di cui all’art. 2 c.p., trattandosi di una misura solo formalmente di prevenzione patrimoniale ma autenticamente ed effettivamente penale e sanzionatoria.

A comporre tale contrasto interpretativo sono di recente intervenute le Sezioni Unite della Cassazione.

La Corte, pur prendendo atto dell’importante modifica legislativa che ha affermato l’autonomia tra la misura della sorveglianza speciale e la confisca antimafia, non condivide l’innovativa impostazione, che ravvede in quest’ultima un misura sostanzialmente penale.

Il novum legislativo, infatti, non va interpretato come una totale affermazione di irrilevanza ex lege del requisito della pericolosità sociale ai fini dell’operatività della confisca antimafia.

La legge si limita a sostenere che non è necessario un accertamento dell’attualità della pericolosità sociale, presupposto che ben si attaglia, invece, alle misure di tipo personale, laddove assume carattere decisivo che il soggetto indiziato sia attualmente pericoloso, al fine di subire un restringimento significativo della propria libertà personale.

Nel caso della confisca, invece, il presupposto della pericolosità sociale è pur sempre necessario, ma merita di essere accertato e indagato con riferimento alla res, non al soggetto.

In altri termini, la confisca antimafia è applicabile in ragione di una pericolosità persistente della res, insita nelle modalità illecite di accumulo della ricchezza stessa di cui non si sappia giustificare la provenienza.

Proprio questo aspetto consente di ben differenziare la confisca antimafia dalla semplice confisca per equivalente: nel primo caso si apprendono beni di sospetta provenienza illecita, nella seconda eventualità invece, pur difettando un nesso di diretta pertinenzialità, le cose di valore sono lecitamente conseguite e detenute dal soggetto inciso dalla misura ablatoria.

Per l’effetto di tali considerazioni, le Sezioni Unite concludono per l’assimilazione della confisca antimafia alle misure di sicurezza, in virtù di una logica preventiva e non sanzionatoria, che non è stata modificata dall’intervento del legislatore.

Ne consegue, in punto di regime successorio, che può ben trovare applicazione l’art. 200, comma 2, c.p. e non i generali principi, di stampo garantista, tratteggiati in precedenza con riferimento alle sanzioni penali in senso stretto.

In conclusione, l’analisi della giurisprudenza sulla tematica de qua testimonia ancora una volta, come già accaduto, nell’ambito dell’ampio panorama delle “confische”, per la misura ablatoria urbanistica o per la confisca per equivalente, che il giudice, ai fini della corretta individuazione di una disciplina applicabile, nel rispetto anche di principi di matrice sovranazionale, deve ben indagare e ricostruire la natura giuridica della misura di cui si discute, partendo dal dato normativo formale ma concentrando, poi, la sua attenzione sull’effettiva e ontologica essenza dello strumento sanzionatorio esaminato.

BIBLIOGRAFIA 

- Roberto Garofoli, Manuale di diritto penale, parte generale, Nel Dirittob Editore, 2015

- Codice civile operativo, Simone, 2016

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