La soluzione delle Sezioni Unite sull´ambito di applicabilità della messa alla prova ”per adulti”
Modifica paginaCon la sentenza del 1 settembre 2016, n. 36272, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione sono state chiamate a dirimere in via definitiva il contrasto sorto tra le Sezioni Semplici circa l’ambito di applicazione dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato.
Sommario: 1. Premessa; 2.Differenze da altre formule già adottate; 3. Condizioni per l'applicabilità della misura; 4. Il problema dell'ambito di applicazione della messa alla prova "per adulti"; 5. La soluzione fornita dalle Sezioni Unite (n. 36272/2016).
1. Premessa
La Legge n. 67 del 28 aprile 2014, in G.U. n. 100 del 2 maggio 2014 introduce nel sistema penale italiano l’istituto di diritto sostanziale della messa alla prova, con la previsione e l’inserimento nel codice penale attualmente vigente degli artt. 168 bis, 168 ter e 168 quater. L’istituto in esame ricalca, adeguandolo ai destinatari che sono adulti, la messa alla prova per i minorenni, già prevista dall’art. 28 d.P.R. 22.09.1988 nr. 448 nell’ambito delle disposizioni sul processo penale minorile e costituisce, al tempo stesso, sia una causa di estinzione del reato (in base agli effetti derivanti dall’esito positivo della prova ex art. 168 ter, comma 2, c.p.) sia un nuovo rito speciale.
L’istituto in oggetto trae origine direttamente dal “probation” del diritto anglosassone [1], previsto negli ordinamenti di molti Paesi europei e d’America, come misura alternativa offerta al giudice. Quest’ultimo, ove ritenga che la segregazione e la vita carceraria siano, nel particolare caso, inappropriate per la prevalenza dei loro aspetti negativi di alterazione e di deterioramento della personalità del condannato rispetto alla previsione dei loro risultati positivi, può evitare la condanna alla detenzione lasciando il soggetto in libertà "sub condicione" del rispetto di determinate prescrizioni, con il controllo e l’aiuto di personale specializzato ("probation officers").
Anche l’istituto recentemente introdotto, infatti, si colloca nell’ambito del cosiddetto “probation giudiziale”, dal momento che produce la sospensione del procedimento nella fase precedente alla esecuzione della pena, distinguendosi dal “probation penitenziario”, che, invece, presuppone l’esistenza di una condanna definitiva. [2]
In ultima analisi, può affermarsi che l’istituto ha natura di “diversion”, rappresentando uno strumento di deviazione del processo, prima della pronuncia sull’imputazione da parte del giudice, verso “epiloghi anomali” rispetto agli schemi consueti. [3]
2. Differenze da altre formule già adottate
La messa alla prova prevista per gli adulti si discosta nettamente da quella minorile.
La ratio della sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato minorenne appare chiara da una attenta lettura del già citato art. 28 d.P.R. 22.09.1988 nr. 448. Essa muove dalla considerazione che, trattandosi di personalità ancora in corso di formazione, la deliberazione criminosa non può essere espressione di una reale capacità criminale, mentre la condanna e la relativa pena potrebbero incidere negativamente sulle esigenze formative ed educative del minore stesso. [4]
In particolare, l’istituto in questione mira a limitare la permanenza del minore nel circuito penale e, attraverso lo svolgimento di attività di osservazione, trattamento e sostegno, a far sì che esso rimediti criticamente sul suo passato e si dissoci dalla precedente scelta deviante, reinserendosi gradualmente nella vita della collettività. Ciò risulta, peraltro, evidente dal fatto che l’accesso alla messa alla prova minorile non soffre alcun tipo di limite né oggettivo (relativo alla gravità del reato commesso), né soggettivo (connesso alla personalità dell’imputato).
Viceversa, il nuovo istituto della messa alla prova per gli adulti è stato introdotto nel nostro sistema come reazione al drammatico sovraffollamento delle carceri [5] e alle condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 della CEDU [6] così da garantire il decongestionamento degli istituti penitenziari e la “decarcerizzazione” [7].
In particolare, esso persegue il fine di prevenire inutili accessi in carcere da parte di persone condannate per reati di modesto disvalore e allarme sociale, nei cui confronti il debito penale può essere saldato con misure di carattere alternativo alla detenzione. [8]
Le intenzioni del legislatore sembrano sottolineare che un’attenzione particolare, grazie a tale istituto, deve essere riservata alla vittima del reato, alla riparazione e alla mediazione penale, inserendo in tal modo la messa alla prova nel solco della giustizia riparativa [9], ossia di quel modello di giustizia più mite e meno repressivo, in modo da recuperare una certa qual umanità al sistema giudiziario italiano.
La “prova”, infatti, comporta la prestazione di condotte riparative e risarcitorie, l’affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di attività di volontariato, l’eventuale rispetto di prescrizioni relative alla libertà personale e di movimento, nonché, infine, lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità.
Si tratta, in ultima analisi, di un istituto capace di ricondurre all’interno della fondamentale idea rieducativa un complesso e integrato sistema di aiuto sociale, sul presupposto che “la politica sociale è la migliore politica criminale” e “il diritto penale è l'extrema ratio della politica sociale”. [10]
3. Condizioni per l’applicazione della misura
Il primo comma dell’art. 168 bis c.p. prevede ben tre ipotesi che possano portare alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato.
In primo luogo, vengono richiamati i “reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria”, passando poi per i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni (sola, congiunta o alternativa a quella detentiva), per approdare infine ai delitti tassativamente indicati dal legislatore al comma 2 dell’art. 550 c.p.p., rubricato come “casi di citazione diretta a giudizio”.
A differenza dell’istituto della messa alla prova per l’imputato minorenne, che può essere disposta dal giudice con ordinanza, anche d’ufficio, previa audizione delle parti, quella per l’imputato adulto presuppone la sua richiesta. Essa costituisce un atto di parziale rinuncia alle garanzie processuali, in primis alla presunzione di non colpevolezza ex art. 27 Cost. Difatti, tale domanda, se non costituisce ipso iure un’ammissione di colpa, è diretta a consentire che sul soggetto istante sia eseguita una prova a carattere (anche) sanzionatorio, prima che la sua responsabilità sia accertata in via definitiva.
In relazione alla richiesta di messa alla prova, l’art. 464 bis c.p.p., comma secondo, stabilisce dei termini perentori per la presentazione e che essa deve essere corredata dal programma di trattamento elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE). Lo stesso articolo, al comma terzo, statuisce che la richiesta è presentabile personalmente o per mezzo di procuratore speciale e che, in tale ipotesi, la sottoscrizione dell’imputato deve essere autenticata nelle forme previste dall’art. 583, comma 3, del codice di procedura penale.
A tal proposito, inoltre, l’art. 464 quater c.p.p. prevede che “il giudice, se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta, dispone la comparizione dell’imputato”. Attraverso tale convocazione, il giudice verifica che l’imputato non sia stato oggetto di indebite pressioni e sia pienamente consapevole delle conseguenze giuridiche connesse alla sua richiesta, con la conseguente possibilità di revocare o modificare la propria manifestazione di volontà qualora il consenso risulti viziato.
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione soggettivo, mentre la messa alla prova in sede minorile non trova alcun limite (è reiterabile illimitatamente, è suscettibile di estensione in corso di esecuzione, può essere concessa in caso di nuovi processi per fatti sia precedenti che successivi, è applicabile anche al minore che in precedenza sia stato destinatario di perdono giudiziale o condannato), la messa alla prova dell’imputato adulto prevede talune limitazioni: non può essere applicata né ai delinquenti e contravventori abituali, né ai delinquenti professionali e per tendenza. È da notare che non viene richiamata la figura del recidivo o del recidivo reiterato, inducendo così a ritenere che il beneficio possa essere concesso anche a soggetti che siano stati già precedentemente condannati.
È escluso, altresì, dallo stesso art. 168bis c.p., che il beneficio possa essere concesso per più di una volta. Ciò, all’evidenza, contrasta con la linea di politica criminale seguita di recente dal legislatore con riferimento alle misure alternative alla detenzione.
Bisogna infine sottolineare che la legge prevede quale presupposto indefettibile per l’applicazione della nuova misura la prestazione di lavoro di pubblica utilità [11]. Tale previsione non è nuova nel panorama penalistico del nostro ordinamento: alcune norme, ad esempio, la contemplano quale pena sostitutiva [12], mentre l’art. 165 c.p. la prescrive quale obbligo correlato alla sospensione condizionale della pena. [13]
Ai sensi dell’art. 168 bis c.p., il lavoro di pubblica utilità consiste in una “prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato”.
4. Il problema dell’ambito di applicazione della messa alla prova “per adulti”
Uno dei problemi maggiormente discussi dall’entrata in funzione del nuovo istituto riguarda l’individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova. In particolare, le incertezze si presentano in relazione al richiamo contenuto nell’art. 168 bis c.p. alla “pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni”: esso va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie-base o devono essere computate anche le circostanze aggravanti?
Stante il silenzio della legge, una soluzione è stata ricercata in via giurisprudenziale. Risulta necessario, pertanto, analizzare i vari orientamenti che si sono susseguiti nel tempo, prestando particolare attenzione alla sentenza n. 36272/2016, con la quale la Corte di Cassazione ha voluto porre dei paletti ben precisi circa l’ambito di applicazione della messa alla prova e porre fine al contrasto giurisprudenziale precedentemente sorto.
Una prima importante indicazione al riguardo ci giunge già con la sentenza n. 32787 del 27/07/2015, con la quale la IV Sezione Penale della Corte di Cassazione ha affermato che l’individuazione dei reati per i quali è applicabile la messa alla prova deve essere effettuata avuto riguardo esclusivamente alla pena massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla computazione di circostanze aggravanti, ivi comprese quelle ad effetto speciale. La Corte, infatti, ha categoricamente escluso "che la contestazione di una circostanza aggravante ad effetto speciale precluda [...] l'applicabilità dell'istituto della messa alla prova, qualora il reato contestato sia punito con sanzione edittale non superiore nel massimo a quattro anni di reclusione".
A tale conclusione, più precisamente, la Suprema Corte è pervenuta sottolineando la ratio deflattiva dell’istituto e facendo propria una interpretazione di tipo sistematico: le disposizioni in tema di messa alla prova non riportano alcun esplicito riferimento alla possibile incidenza di eventuali circostanze aggravanti, mentre laddove il legislatore ha voluto che si tenesse conto di queste ultime lo ha espressamente previsto. Da ciò ne deriva, sempre a parere della Corte, che l'unico parametro che deve guidare l’interprete nella valutazione circa l'applicabilità o meno della messa alla prova ad una determinata fattispecie deve essere costituito dalla cornice edittale indicata dal legislatore.
Tale orientamento è stato successivamente confermato con la sentenza n. 33461/2015, con cui la Corte di Cassazione ha ribadito che, ai fini dell'individuazione dei reati attratti dalla disciplina della "probation" di cui agli artt. 168 bis e ss. c.p. deve guardarsi unicamente alla pena massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dal rilievo che nel caso concreto potrebbe assumere la presenza di qualsiasi circostanza aggravante, comprese quelle ad effetto speciale.
Un importane punto di svolta, al riguardo, è rappresentato, invece, dalla sentenza n. 36687 del 10/09/2015, con la quale la VI sezione della Suprema Corte ha stabilito che il limite edittale, al cui superamento consegue l'inapplicabilità dell'istituto, deve essere determinato tenendo conto anche delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.
La Corte ha motivato tale statuizione affermando che il criterio adottato risponde ad una interpretazione sistematica che, oltretutto, è rispettosa della "voluntas legis” di rendere applicabile la messa alla prova a tutti quei reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica.
Sempre la sezione VI Penale della Corte di Cassazione, infine, con sentenza 6 ottobre 2015, n. 46795, ha ribadito che il limite edittale sancito dall’art. 168 bis c.p. deve essere determinato tenendo conto non solo della pena prevista per la fattispecie-base, ma anche e soprattutto delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.
5. La soluzione fornita dalle Sezioni Unite (n. 36272/2016)
L’argomento, dunque, alla luce dei recenti interventi giurisprudenziali, risulta essere piuttosto controverso.
Con la sentenza n. 36272 del 2016 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute per dirimere in via definitiva il contrasto insorto tra le Sezioni Semplici, valorizzando la tesi meno restrittiva, nell'ottica di garantire al massimo grado possibile la finalità deflattiva dell'istituto.
In particolare, le SS. UU. hanno valorizzato l’orientamento in base al quale il richiamo contenuto nell'art. 168 bis c.p. “va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie-base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato”.
La Corte, per giungere all’affermazione di tale principio di diritto, hanno evidenziato come la norma del codice penale non puntualizzi, nel prescrivere che la pena edittale detentiva deve essere non superiore a quattro anni, se tale limite debba essere stabilito considerando le circostanze aggravanti o meno. Ed è proprio in relazione a questo punto, dal quale sorge il contrasto giurisprudenziale stesso, che si sono formate diverse teorie, le quali sono state a più riprese affermate dalle diverse sezioni della Corte di Cassazione (analizzate al punto precedente della trattazione).
In particolare, secondo la scuola di pensiero cd. restrittiva, la formulazione dell’art. 168 bis c.p. contiene una lacuna che deve essere colmata ricorrendo ad un'interpretazione per analogia. Il legislatore, infatti, quando ha inteso delimitare l’ambito di applicazione di istituti processuali o sostanziali, attraverso il criterio quantitativo edittale, come accade anche per l’istituto della messa alla prova, lo ha sempre fatto considerando le circostanze aggravanti. Tale criterio è stato utilizzato, ad esempio, per l'applicazione delle misure cautelari, per l'arresto in flagranza o per individuare i casi di citazione diretta a giudizio. In virtù di tale ragionamento, anche nel caso della messa alla prova, pur in assenza di una espressa previsione, la soluzione da adottare dovrebbe essere in linea con la disciplina dettata per le altre ipotesi.
Si tratta di una interpretazione che, nonostante si fondi su un presupposto di per sé corretto, viene respinta dalle SS. UU della Suprema Corte, che anzi affermano: “premesso che non può essere negata la natura accessoria delle circostanze, in quanto si aggiungono ad una fattispecie già costituita […] adeguando la risposta sanzionatoria alla gravità del reato, l'affermazione secondo cui la fattispecie circostanziata è dotata di una sua autonoma cornice edittale è sicuramente corretta se riferita alla struttura del reato, ma non sembra giocare un ruolo nell'interpretazione dell'art. 168 bis c.p., conducendo ad una configurazione dell'istituto che, oltre a non trovare riscontro nella lettera della legge e delle analoghe previsioni di diritto sostanziale e processuale, si discosta apertamente dalla voluntas legis”.
Secondo la tesi della Corte, pertanto, il parametro quantitativo contenuto nell'articolo 168 bis c.p. si riferisce soltanto alla pena massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla computazione di qualsiasi aggravante, incluse quelle ad effetto speciale. La norma codicistica, infatti, non contiene alcun riferimento ad una possibile rilevanza delle aggravanti: e ciò rappresenta “un dato che non può essere trascurato perché la prima regola di una corretta interpretazione parte dal dato letterale”. A sostegno di ciò, gli Ermellini hanno ricercato anche la volontà del legislatore, che si desume da uno attento studio dei lavori parlamentari. La formulazione originaria dell’articolo discusso contenuta nel disegno di legge, infatti, recava un espresso riferimento alle circostanze speciali, poi soppresso nel testo congiunto approvato dal Senato e trasmesso alla Camera dei deputati.
In ultima analisi, secondo la Corte di Cassazione, non si riscontra nessun vuoto normativo da colmare per analogia. Piuttosto è necessario guardare all'intento del legislatore, che, mosso dalla necessità di riformare il sistema carcerario, ha inteso ampliare al massimo la portata applicativa dell’istituto della messa alla prova, sottolineandone il carattere premiale.
Note e riferimenti bibliografici
[1] G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997;
[2] F. Fiorentin, Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, in Guida dir., 2014;
[3] A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Giappichelli, 2010;
[4] F. Palazzo, Corso di diritto penale, Parte generale, Giappichelli, 2013;
[5] In base ai dati ISTAT, al 31 dicembre 2013 risultano detenute nelle carceri italiane 62.536 persone, il 4,8% in meno rispetto al 2012 (-8% sul 2010). Il numero di detenuti presenti in Italia è di gran lunga superiore alla capienza regolamentare, fissata a 47.709 posti, ma il tasso di sovraffollamento è in costante diminuzione grazie ai recenti provvedimenti normativi e pari a 131,1 detenuti su 100 posti disponibili per il 2013, a 110,4 a novembre 2014;
[6] Una su tutte: Corte eur. dir. uomo, Sez. II, 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia, in Rass. pen. e crim., 2009;
[7] A. Scull, Decarceration, Englewood Cliffs, N. J. 1977; nella sua opera il sociologo americano utilizza per la prima volta il termine "decarcerizzazione" in chiave scientifica, intendendo con essa il fenomeno, empiricamente osservabile, di una flessione consistente della risposta di tipo custodiale nelle prassi di disciplina sociale delle condotte devianti;
[8] R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento;
[9] F. Reggio, Giustizia Dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice, Milano, FrancoAngeli 2010;
[10] G. Marinucci, Politica criminale e riforma del sistema sanzionatorio, in Marinucci, Dolcini, Studi di diritto penale, Giuffrè, 1991;
[11] E. Antonuccio, L. Degl’Innocenti, Le nuove forme del lavoro di pubblica utilità, Giuffrè, 2016;
[12] F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, CEDAM, 2015;
[13] Alcuni spunti interessanti sull'argomento li possiamo trovare in: R. Bartoli, F. Palazzo, Certezza o flessibilità della pena? Verso la riforma della sospensione condizionale, Giappichelli, 2007.