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Pubbl. Dom, 14 Ago 2016

L´invalidità dell´atto amministrativo e l´art. 21 octies della L. 241 del 1990

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Paola Romito


L´illegittimità non invalidante dell´art. 21-octies e la nuova concezione di amministrazione di risultato


La categoria dell’invalidità dell’atto amministrativo si inserisce nel più ampio genus delle c.d. patologie dell’atto amministrativo, ovverosia quelle situazioni che incidono sull’atto medesimo viziandolo e, quindi, rendendolo difforme dal modello legale di riferimento. Gli studi inerenti alle patologie dell’atto traggono le mosse dal diritto civile e, segnatamente, dagli studi sulla figura del negozio giuridico, elaborata dalla pandettistica tedesca ed, in seguito, ripresa e fatta propria anche da celebri giuristi italiani. Le teorie sul negozio giuridico hanno, in effetti, contagiato anche il diritto amministrativo nella costruzione dell’atto amministrativo incidendo in modo particolare sulla sua struttura e, conseguentemente, sulla ricostruzione della sua patologia. L’atto amministrativo risente, difatti, sotto più aspetti, degli influssi civilistici, dai quali però si discosta sensibilmente in ragione della diversità di fondamento e di funzione cui assolvono.

 Il negozio giuridico nasce come strumento di massima espressione di autonomia privata, finalizzato a consentire alle parti di auto regolarsi, pur sempre nel rispetto dei limiti previsti ed imposti positivamente e ciò trova una plastica rappresentazione nel combinato disposto di cui agli art. 1321 c.c. e 1322 c.c., finalizzati a disciplinare il principale modello di negozio giuridico creato per regolamentare, modificare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale: il contratto.

Diversamente, l’atto amministrativo nasce come esternazione di un pubblico potere, demandato in capo ad una pubblica amministrazione o ad un soggetto ad essa equiparato, finalizzato al perseguimento di un interesse generale  ed avente, salvo il caso in cui sia emesso nell’esercizio di funzioni paritetiche, carattere autoritativo

L’invalidità dell’atto amministrativo si inserisce, unitamente all’inefficacia ed all’inesistenza, nella più ampia categoria della patologia ed oggi trova una compiuta regolamentazione nel capo IV-bis  introdotto dalla legge n. 15/05 di riforma della legge n. 241/90. Con tale novella il legislatore ha voluto porre rimedio al vuoto normativo piuttosto significativo vigente in  precedenza, per cui la disciplina dell’invalidità non conosceva una sua regolamentazione autonoma, essendo ricompresa nelle norme di giustizia amministrativa e, segnatamente, disciplinata dall’art. 26 T.U. sul Consiglio di Stato nella versione antecedente all’introduzione del Codice sul processo amministrativo.

Analogamente a quanto previsto in materia contrattuale, stante il condizionamento apportato negli studi amministrativistici dalle teorie negoziali, anche l’invalidità dell’atto amministrativo può comportare, a seconda dei vizi che inficiano l’atto medesimo, nullità o annullabilità, seppur con significative differenze rispetto all’ordinamento civilistico. Difatti, se nel diritto civile la nullità ex. art. 1418 c.c. è l’ipotesi dominante rispetto a quella meno accreditata dell’annullabilità, considerato il rapporto di generalità-specialità che caratterizza le due forme di invalidità contrattuale; nel diritto amministrativo il fenomeno è invertito, per cui trova più ampio spazio la disciplina dell’annullabilità sancita dall’art. 21-octies, il cui co. 1 stabilisce che “È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza”, rispetto a quella più stringente della nullità, essendo circoscritte e tassative le ipotesi cui vi danno origine, così come facilmente evincibile dalla lettera dell’art. 21-septies, per il quale “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.

La seconda distinzione fondamentale tra i due ordinamenti si evince sul piano processuale: mentre nel diritto civile l’azione di annullamento è soggetta al termine prescrizionale di cinque anni e la causa di annullabilità può essere opposta in via di eccezione, anche se l’azione sia prescritta, ex art. 1442 c.c.; nel diritto amministrativo, ai sensi dell’art. 29 del c.p.a. “l’azione dei annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni”,  per cui l’azione oltre ad essere soggetta ad uno stringente termine di decadenza, può essere fatta valere solo tramite domanda dell’interessato.

La ragione fondamentale di queste differenze è data dalla c.d. presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, in base alla quale decorso inutilmente il termine di impugnazione l’atto amministrativo acquista stabilità potendo essere rimosso o sanato solo dalla stessa P.A. in via di autotutela.

Merita, poi, un approfondimento la disciplina prevista dall’art. 21-octies co. 2 della legge sul procedimento, in base alla quale, in determinate ipotesi, il provvedimento, seppur illegittimo, viene considerato valido e sottratto dal regime dell’annullabilità, derogando a quanto previsto dal primo comma della medesima disposizione, prima menzionato.

L’art. 21-octies co. 2, nella sua prima parte, subordina la non annullabilità alla presenza di tre requisiti:

  1.  Il primo di questi è dato dalla natura formale della norma violata, nello specifico la violazione di norme sul procedimento (quindi la stessa legge n. 241/90 o  altre fonti che disciplinano lo svolgimento dell’azione amministrativa) o sulla forma degli atti (quelli che attengono a profili estrinseci dell’atto); 
  2.  Il secondo requisito è dato dalla vincolatività del provvedimento, relativa sia all’emanazione che al contenuto, anche se non manca chi riconduce a tale categoria anche quei provvedimenti discrezionali nell’emanazione ma vincolanti nel contenuto; il vincolo può derivare da un precedente provvedimento, da un accordo o da un giudicato; 
  3. Il terzo requisito è dato, infine, dalla ininfluenza del vizio sul contenuto dispositivo del provvedimento.

La seconda parte della norma in esame disciplina un’ipotesi che si colloca in termini di specialità rispetto alla prima con riferimento all’ambito di applicazione. Il vizio richiesto come presupposto è, difatti, specifico e consiste nella  mancata comunicazione dell'avvio del procedimento  ex art. 7 della legge sul procedimento. In questo secondo caso, però, il legislatore non richiede espressamente la natura vincolata del provvedimento, ragion per cui si desume possa essere applicata anche a provvedimenti di tipo discrezionale. Il terzo presupposto richiesto è, infine, che la P.A. dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, rimettendo perciò in capo ad essa l’onere probatorio.

La norma esaminata riveste una notevole valenza di ordine pratico e dogmatico, poiché, stigmatizzando la c.d. illegittimità non invalidante, rende atto della significativa evoluzione che, a partire dagli anni ’90, continua a coinvolgere l’attività e l’organizzazione amministrativa.

Difatti, in precedenza il nostro ordinamento di ispirazione liberale era incentrato sulla inderogabilità degli effetti che, in fedele rispondenza al principio di legalità, pretendeva una necessaria coincidenza tra la fattispecie astratta prevista dalla norma attributiva del potere e la fattispecie concreta posta in essere dalla P.A. In base a questa concezione, cioè, non erano tollerate in alcun modo difformità rispetto ai modelli di riferimento, pena l’esercizio dell’azione di annullamento prevista dall’allora vigente art. 26 T.U. Consiglio di Stato.

L’importanza di questa novità legislativa si coglie, a pieno anche sul piano dogmatico  poiché rappresenta l’emblema, nonché la sintesi, di un percorso evolutivo che vede contrapporsi la concezione formalista a quella sostanzialista (o antiformalista) nell’ordinamento della P.A.

In particolare, mentre la teoria formalista assegna il primato al rispetto delle regole e, quindi, della legalità, non consentendo la degradazione dell’illegittimità in mera irregolarità se non espressamente previsto e, quindi consentito, dal legislatore; la concezione sostanzialista, all’opposto, muove da una nuova concezione di amministrazione, intesa come amministrazione di risultato, nell’ottica di una maggior efficienza ed economicità dell’attività amministrativa, da leggere in un pedissequo rapporto costi/benefici, volto ad attribuire priorità alla congruità dell’effetto prodotto, piuttosto che ad una fedele rispondenza alle regole.

Si ritiene, cioè, che non sempre le regole siano necessarie al buon esito dell’azione amministrativa, per cui non potrà esserci illegittimità in presenza di un provvedimento che, seppur viziato, abbia ugualmente soddisfatto il bene pubblico.

Questa contrapposizione è plasticamente delineata proprio nell’art. 21-octies co. 2 che, se al primo comma stabilisce, senza alcuna distinzione, l’annullabilità per i provvedimenti viziati da i tre canonici vizi di illegittimità (violazione di legge, incompetenze ed eccesso di potere);  al secondo comma compie una scelta, prevedendo una deroga a tale regime nei soli casi di illegittimità formale (violazione di legge), lasciando, quindi, volutamente fuori l’eccesso di potere, vizio tipico a carattere sostanziale e proprio dell’attività discrezionale.

In merito alla natura giuridica della disciplina prevista dall’art. 21-octies si contendono diverse tesi:

  • Secondo un primo orientamento essa avrebbe natura processuale, non essendo volta ad incidere sulla qualificazione dell’atto bensì a regolare i poteri di annullamento del giudice;
  • Secondo un differente approccio, invece, si tratterebbe di una disciplina di natura sostanziale che introduce una nuova categoria di vizi non invalidanti mediante la quale si assisterebbe  alla produzione di effetti non solo sul piano processuale, ostacolandone l’annullabilità, ma anche rendendolo pienamente legittimo sul piano sostanziale. Quest’ultima sembra essere la tesi attualmente più suffragata dalla dottrina e dalla giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato.