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Pubbl. Ven, 5 Ago 2016

Rifiuto della lavoratrice-madre al trasferimento: ipotesi di licenziamento discriminatorio.

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Ilaria Stellato


E’ discriminatorio il licenziamento irrogato nei confronti della lavoratrice che, al rientro dall´assenza per maternità, rifiuta il trasferimento a 150 km di distanza dalla sede di lavoro originaria.


A stabilirlo è la Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la recentissima sentenza n. 15435 del 26 luglio 2016.

L'importante pronuncia trae origine da una sentenza con cui la Corte di appello di Torino, in accoglimento del gravame proposto da una lavoratrice e in totale riforma della sentenza del Giudice di prime cure, dichiarava la nullità del trasferimento, delle sanzioni disciplinari e del licenziamento disposti nel confronti dell’appellante dalla parte datoriale, con le pronunce conseguenti ex art. 18 l. n. 300/1970 (condanna alla reintegra nel posto di lavoro occupato presso l’unità locale e risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto a decorrere dalla data del recesso).

In species, la Corte territoriale rilevava come «le decisioni datoriali fossero riconducibili ad un disegno discriminatorio nei confronti di una lavoratrice madre» traendo la sua convinzione dalla circostanza dirimente in forza della quale, la lavoratrice, dopo soli tre giorni dall’inoperatività del divieto di cui all’art. 56 d.lgs. n. 151/2001, e al termine di un’astensione dal lavoro di un anno e quattro mesi, era stata trasferita ad un punto vendita distante oltre 150 km dalla sede di lavoro originaria; riteneva altresì accertata la insussistenza, ad opera della sede lavorativa di appartenenza, della necessità di una riduzione di personale dal momento che, all’inizio dell’assenza dell’appellante, e poi nelle more del processo, erano stati assunti due lavoratori; rilevava, parimenti, che la dimostrazione del preteso calo di vendite era stata affidata a meri prospetti riassuntivi predisposti dallo stesso datore di lavoro e che avevano trovato conferma solo nelle generiche affermazioni dei dipendenti ancora in forza. Tali congerie di elementi, globalmente considerati, nella valutazione della Corte si palesavano «idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti, patti o comportamenti discriminatori», secondo le previsioni dell’art. 40 d.lgs. n. 198/2006, con la conseguenza che sarebbe spettato al datore di lavoro provare l’insussistenza della pretesa discriminazione. 
La Corte di merito osservava, inoltre, come il rifiuto della lavoratrice colpita da discriminazione di riprendere l’attività lavorativa – condotta, questa, generatrice delle sanzioni disciplinari e del licenziamento – dovesse considerarsi giustificato ai sensi dell’art. 1460 cc., valutati comparativamente i reciproci inadempimenti e la loro proporzionalità, alla stregua della funzione economico-sociale del contratto e la loro incidenza sugli interessi delle parti. 

Avverso tale pronuncia ricorreva per Cassazione la società datoriale soccombente, affidandosi - in particolare - a due profili di censura. 

In adesione al decisum del Giudice di secondo grado, il Supremo Collegio ha però rigettato il ricorso, confermando la sentenza della Corte territoriale. 

Ed invero, gli Ermellini hanno sottolineato la correttezza del procedimento di accertamento del carattere discriminatorio del comportamento datoriale compiuto dal giudice di merito: accertamento cui la Corte di appello è pervenuta – in applicazione di un consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità – «alla stregua del criterio di valutazione giudiziale delle presunzioni semplici, procedendo, in primo luogo, all’analitico esame dei singoli elementi di fatto, che caratterizzano la vicenda, e alla considerazione della loro portata indiziante, per poi farne una valutazione complessiva e di “sintesi” diretta a stabilire se essi fossero concordanti e se la loro combinazione fosse in grado di fornire una valida prova presuntiva, che eventualmente non sarebbe stato possibile raggiungere considerando in modo frazionato, “atomistico”, uno o alcuno di essi» (cfr. in tal senso, Cass. n. 7471/2013). 
In altri termini, l’emersione processuale della condotta illecita, di cui la lavoratrice sia stata vittima, è scaturita da un corretto giudizio di bilanciamento degli elementi fattuali connotanti la fattispecie concreta e dalla loro univoca convergenza, nel senso di ritenere accertato il tenore discriminatorio del comportamento datoriale nei confronti della lavoratrice a motivo della sua condizione di maternità

I Giudici Supremi hanno poi confermato che, nel caso in cui il licenziamento di una lavoratrice madre possa essere ragionevolmente attribuibile a motivi discriminatori, spetta al datore di lavoro provare l’insussistenza di tali fattori. Il che non è avvenuto nel caso di specie. 

(Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 15435/2016)