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Pubbl. Mer, 13 Lug 2016

È legittimo l’utilizzo di un virus informatico per le intercettazioni ambientali

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Eva Aurilia


Le SS.UU. si pronunciano sulla legittimità delle intercettazioni ambientali per il tramite di un trojan horse. In particolare si analizza il rapporto tra le potenzialità invasive di tale tecnica e la tutela del domicilio.


I diritti fondamentali sono oggetto di tutela progressiva, non solo nel senso di un loro opportuno adeguamento all’evoluzione tecnologica e alle sfide del tempo, ma altresì per il fatto di trovarsi in rapporto di costante tensione con l’esigenza – anch’essa di rango costituzionale – di un efficace perseguimento dei reati”.

La sesta Sezione Penale ha rimesso alle Sezioni Unite la questione, ritenuta di massima importanza, relativa alla legittimità delle intercettazioni disposte attraverso l’installazione di virus informatici attivati su dispositivi portatili.

In particolare, non condividendo le conclusioni cui approdava la recente giurisprudenza (cfr. Cass. Sez. VI,  n. 27110/2015, allegata), ha rimesso al vaglio delle SS. UU. la questione sul “se – anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pur non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa – sia consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti, mediante l’installazione di un captatore informatico in dispositivi elettronici portatili (personal computer, smartphone, tablet, ecc)”.

Tale questione è sorta nell’ambito del giudizio instaurato innanzi alla Corte Suprema dal soggetto nei cui confronti sono stati utilizzati i risultati delle intercettazioni captate per il tramite del virus informatico. Il ricorrente, in quella sede, eccepiva la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte in suo danno attraverso il sistema in questione per asserita violazione degli artt. 15 Cost., 8 CEDU, 266, comma 2 e 271 c.p.p., in virtù dei quali erano stati ritenuti sussistenti i gravi indizi di colpevolezza necessari ai fini dell’adozione della misura cautelare. A sostegno della propria tesi il ricorrente evidenziava che le captazioni erano avvenute a seguito dell’istallazione di un “virus auto – istallante” attivato su di un dispositivo elettronico in suo uso e che tale sistema consentiva di procedere all’intercettazione di comunicazioni in qualunque posto lo stesso si trovasse, eludendo, in tal modo, il divieto di cui all’art. 266, comma 2 c.p.p. di effettuare intercettazioni all’interno di abitazioni private (614 c.p.) a meno che non vi sia il fondato motivo di ritenere che lì si stia svolgendo l’attività criminosa.

Si riteneva, inoltre, che la captazione attraverso tale modalità sarebbe stata autorizzata in dispregio degli artt. 15 Cost. e 8 CEDU in quanto il decreto autorizzativo non indicava con precisione i luoghi in cui dette captazioni dovevano compiersi eludendo, anche questa volta, i limiti di cui all’art. 266, comma 2 c.p.p. che, secondo quanto sostenuto dal ricorrente, non consentirebbe forme di intercettazioni in grado di seguire il soggetto “ovunque si trovi”, con la conseguente inutilizzabilità dei relativi risultati, secondo quanto stabilito da Cass. Sez. VI n. 27110/2015[1](Sentenza Musumeci).

Nel caso di specie, il decreto autorizzativo riguardava le intercettazioni captate mediante l’utilizzo di un dispositivo elettronico in uso al ricorrente, considerato ai vertici dell’organizzazione criminale “Cosa nostra” e con il quale venivano autorizzate “intercettazioni di tipo ambientale di conversazioni tra presenti che avverranno nei luoghi in cui si trova il dispositivo in uso al L***”, precisando che si intendeva intercettare non il flusso informatico ma le conversazioni tra L. ed eventuali altri soggetti presenti nei luoghi in cui era “ubicato in quel momento l’apparecchio portatile”.

La decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, investita della questione, ha preliminarmente evidenziato come la pretesa di indicare anticipatamente e con precisione i luoghi interessati dall’attività captativa espletata attraverso il metodo dell’agente intrusore, è incompatibile proprio con tale tecnica che prescinde, per ragioni evidenti, dal riferimento ai luoghi: tale agente, collegato ad un dispositivo elettronico portatile, fà si che l’attività di captazione segua tutti gli spostamenti nello spazio dell’utilizzatore.

Essendo la giurisprudenza pacifica nel collocare la tecnica in questione nell’ambito di quelle che, comunemente, sono individuate come “intercettazioni ambientali”, la risposta al quesito proposto alle SS.UU. ha come punto di partenza l’individuazione della valenza da attribuire al “luogo” nel cui ambito devono essere svolte le “intercettazioni di comunicazioni tra presenti” di cui all’art. 266, comma 2 c.p.p[2].

Ci si chiede, in altri termini, se la previa indicazione dei luoghi nei quali devono svolgersi le intercettazioni, costituisce presupposto indispensabile per la legittimità del decreto che autorizza tale mezzo di ricerca della prova.

A tale quesito la Sentenza Musumeci ha dato risposta affermativa argomentando nel senso che, riferendosi la norma di cui all’art. 266 c.p.p. alle intercettazioni “tra presenti”, da ciò deriverebbe anche l’obbligo, per il Giudice che le autorizza, di indicare previamente i luoghi nei quali consentire le captazioni, pena la inutilizzabilità dei risultati ottenuti in maniera difforme. Per la giurisprudenza in commento, questa sarebbe stata l’unica soluzione compatibile, alla luce di un’interpretazione assai rigorosa, con l’art. 15 Cost.

Le SS. UU. hanno ritenuto di non condividere tale ultimo orientamento evidenziando, invece, come l’art. 266, comma 2 c.p.p. non faccia alcun riferimento all’ambiente, se non nella seconda parte della disposizione, in relazione alla tutela del domicilio[3]. Da ciò discende che la previa indicazione dei luoghi non è condizione di legittimità del decreto che autorizza le “intercettazioni tra presenti” quando sono diversi dai luoghi di privata dimora.

Il riferimento al luogo non rappresenta, cioè, un presupposto per l’autorizzazione delle intercettazioni ma soltanto un elemento ravvisabile nella motivazione del relativo decreto nella quale il giudice “deve indicare le situazioni ambientali oggetto della captazione, e ciò solo ai fini della determinazione delle modalità esecutive del mezzo della ricerca della prova che avviene mediante la collocazione fisica di microspie”.

La Corte spiega, a tal proposito, che la previa determinazione dei luoghi è funzionale soltanto alla individuazione delle modalità esecutive attraverso le quali esplicare tale mezzo di ricerca della prova (modalità esecutive che costituiscono, invece, requisito di legittimità del provvedimento autorizzativo).

La locuzione "intercettazioni ambientali", infatti, è entrata a far parte del lingaggio giuridico in un momento storico nel quale le intercettazioni tra presenti erano possibili soltanto attraverso l'installazione di microspie in determinati ambienti chiusi. Da qui l’esigenza di individuare i luoghi in cui materialmente collocarle.Tale condizione però non era e non è prevista ai fini della legittimità del provvedimento autorizzativo.

È possibile, a questo punto, affermare un primo principio, già condiviso dalla giurisprudenza, per il quale in relazione alle intercettazioni “tra presenti” compiute con mezzi tradizionali, la previa individuazione dei luoghi non è requisito di legittimità del decreto autorizzativo. Tale tesi è confermata dal fatto che sono utilizzabili anche quelle intercettazioni captate in luoghi diversi rispetto a quelli preventivamente individuati dal giudice nel decreto autorizzativo, purché rientrino nella medesima categoria di quelli già indicati e a condizione che non si tratti dei luoghi di cui all’art. 614, c.p.p.

La questione, infatti, per le intercettazioni “tra presenti” nei luoghi di cui all’art. 614 c.p.p., e, dunque, nei luoghi di privata dimora, si arricchisce di presupposti diversi: vi deve essere il “fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”. Di qui la previa determinazione dei luoghi quale requisito di legittimità ai fini dell'autorizzazione delle intercettazioni “tra presenti nei luoghi di privata dimora”.

Ne deriva, dunque, che, nonostante l’individuazione dei luoghi non sia requisito di legittimità dell’atto autorizzativo, l’utilizzazione del sistema del “captatore informatico” non è consentito per le “intercettazioni tra presenti” in quanto all’atto di autorizzare un’intercettazione da effettuarsi con tale tecnica, il giudice non può prevedere i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo verrà introdotto “con conseguente impossibilità di effettuare un adeguato controllo circa l’effettivo rispetto della normativa che legittima, circoscrivendole, le intercettazioni domiciliari di tipo tradizionale”. Ciò potrebbe dar luogo ad una pluralità di intercettazioni nei luoghi di privata dimora che comporterebbero la violazione di limiti non soggetti ad eccezione alcuna e per i quali, come detto sopra, la determinazione dei luoghi è condizione di legittimità dell’autorizzazione.

La Corte ha spiegato come non potrebbe parlarsi, nel caso, neanche di inutilizzabilità dei risultati in quel modo ottenuti, essendo questa una sanzione relativa a gravi patologie degli atti del procedimento o del processo e non ad ipotesi di adozione degli atti contra legem, in particolare quando tale contrarietà non è preventivamente valutabile.

Discorso diverso, invece, va fatto per i reati di “criminalità organizzata” per i quali è prevista una disciplina speciale. Ai sensi dell’art. 13 D.l. n. 152 del 1991, l’intercettazione domiciliare, in deroga al limite di cui all’art.  266, comma 2, secondo periodo, c.p.p., è consentita “anche se non vi è fondato motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa”. L’intento del legislatore è, chiaramente, quello di favorire l’operatività del mezzo di ricerca della prova in esame in relazione a fattispecie criminose per le quali risulti particolarmente difficile l’attività di indagine.

Ci si chiede, quindi, se in relazione a tali fattispecie criminose, in assenza del limite del “fondato motivo”, ci si possa avvalere della tecnica del virus informatico quale mezzo di ricerca della prova.

A parere della Corte, non possono essere condivise le argomentazioni svolte nella sentenza Musumeci che, non valorizzando particolarmente il dato per cui si procedeva per un reato di tipo associativo, ha dato risposta negativa al quesito sostenendo che in tal modo sarebbe stato possibile captare conversazioni tra presenti in una pluralità di luoghi, a seconda degli spostamenti del soggetto, in violazione del principio della libertà di comunicazione.

Si deve, invece, ritenere che la normativa speciale consente di superare anche il problema relativo alla tutela del domicilio ed infatti, il provvedimento che autorizza l’intercettazione domiciliare, se fondato sulla gravità indiziaria di reati associativi, non richiede la sussistenza del fondato motivo che in detti luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa. In relazione a tali procedimenti, dunque,” l’indicazione del luogo sarebbe del tutto irrilevante, anche in rapporto all’utilizzo del virus informatico come lo è per le captazioni ambientali con mezzi tradizionali”.

La scelta del legislatore, di escludere la limitazione di cui all’art. 266, comma 2, seconda parte, c.p.p. è frutto di un bilanciamento di interessi che vede fortemente limitata la segretezza delle comunicazioni e la tutela del domicilio a favore della necessità di prevenire e reprimere alcuni tipi di reati, connotati da particolare gravità e pericolosità.

La Corte ha anche chiarito che per l’ipotesi in cui lo strumento captativo in argomento dovesse produrre eventi lesivi della dignità umana, tale pericolo può essere neutralizzato facendo discendere dal principio personalistico di cui all’art. 2 Cost., la sanzione della inutilizzabilità delle risultanze di “specifiche” intercettazioni.

Se, dunque, per le intercettazioni “tra presenti” di cui all’art. 266, comma 2 c.p.p., si esclude la tecnica del virus informatico in quanto il legislatore non ha voluto limitare fortemente la tutela del domicilio, venuta meno questa esigenza che cede il passo alla necessità di reprimere talune fattispecie criminose, non vi sono ragioni per le quali limitare l’uso del captatore informatico per le intercettazioni tra presenti anche nei luoghi di privata dimora per le fattispecie di cui all’art.13 D.l. n. 152 del 1991.

Le SS. UU. hanno ritenuto, dunque, di poter enunciare il seguente principio di diritto: “Limitatamente ai procedimenti per i delitti di criminalità organizzata, è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti – mediante l’installazione di un captatore informatico in dispositivi elettronici portatili – anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 cod. pen., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa”.

Anche dalla giurisprudenza della Corte EDU (Corte EDU, 31.05.2005, Vetter c. Francia; Corte EDU 18.05.2010, Kennedy c. Regno Unito),è possibile ricavare i medesimi principi. Quest'ultima, infatti, ha ritenuto che le garanzie minime che la legge nazionale deve apprestare nella materia delle intercettazioni, riguardano:

  • La predeterminazione della tipologia delle comunicazioni oggetto di intercettazione;
  • La ricognizione dei reati che giustificano tale mezzo di intrusione nella privacy;
  • L’attribuzione ad un organo indipendente della competenza ad autorizzare le intercettazioni;
  • La previsione del controllo del giudice;
  • La definizione delle categorie di soggetti che possono essere interessate;
  • I limiti di durata delle intercettazioni;
  • La procedura da osservare per l’esame, l’utilizzazione e la conservazione dei risultati ottenuti;
  • L’individuazione dei casi in cui disporre la distruzione dei risultati ottenuti.

Il richiamo di quanto statuito dalla Corte EDU, conferma quanto sostenuto dalla giurisprudenza nazionale sulla non rilevanza dell'indicazione del luogo (ambiente) ai fini della legittimità del provvedimento che autorizza le intercettazioni tra presenti. Pertanto, se ai fini delle intercettazioni da captarsi con i metodi tradizionali l'indicazione del luogo è solo funzionale alle concrete modalità esecutive, nel caso del virus intrusore tale esigenza neanche si pone, in quanto trattasi di sistema che si caratterizza per la necessità - utilità che siano seguiti gli spostamenti di chi ha in uso il dispositivo portatile sul quale viene installato.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Cass. Sez. VI, n. 27110/2015: “L’intercettazione da remoto delle conversazioni tra presenti – con l’attivazione, tramite il cd. “agente intrusore informatico”, di un apparecchio telefonico smatrphone – può ritenersi legittima solo se il relativo decreto autorizzativo individui con precisione i luoghi in cui eseguire tale attività captativa”.

[2]“Negli stessi casi è consentita l'intercettazione di comunicazioni tra presenti . Tuttavia, qualora queste avvengano nei luoghi indicati dall'articolo 614 del codice penale, l'intercettazione è consentita [2953bis] solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa” [103 5; c.p. 615bis]

[3] “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.