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Pubbl. Sab, 11 Giu 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

L’imprenditoria mafiosa: sincretismo criminale tra prevenzione “repressiva” e prevenzione “risanante”.

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Aldo Cimmino


L´annosa questione del risanamento delle imprese sequestrate e confiscate alle consorterie mafiose, presuppone innanzitutto l´esatto inquadramento socio-normativo della categoria di “impresa mafiosa” e una lettura integrata degli strumenti di prevenzione patrimoniale, in grado di valorizzare gli aspetti risananti della profilassi criminale.


Sommario: 1. Premessa; 2. Il destino dell’impresa mafiosa, tra fatalismo e protagonismo risanante; 3. Prevenzione antimafia ed impresa: a che punto siamo?; 3.1 Prevenzione antimafia ed impresa: il “senso” del concetto di “impresa mafiosa”;  4. Prevenzione “repressiva” e prevenzione “risanante”: la sincresi antimafia tra società (civile) e politica giudiziaria; 5. Prospettive de jure condendo.

1. Premessa

Sono trascorsi trentaquattro anni dall’approvazione della nota legge “Rognoni  - La Torre”[1], con la quale il legislatore introdusse, nell’ordinamento giuridico, le misure di prevenzione patrimoniali, ma il nodo mafia e impresa non è ancora stato sciolto del tutto, né da un punto di vista giuridico né economico-sociale.

La problematica riveste grande importanza ed è di estrema attualità se si considera che questa incide sulla capacità di sviluppo, in generale del nostro Paese ed in particolare delle regioni del Sud d’Italia.

Non a caso il “Rapporto SVIMEZ 2015 sull’economia del Mezzogiorno” segnala come il meridione ha una scarsa attitudine ad agganciarsi ad una ripresa internazionale. Su questa, certamente, incide il peso dell’economia illegale e la mancata capacità di convertirla in quella legale.

L’individuazione delle cause di tale incapacità  non può che avvenire attraverso la ricerca integrata, capace di mettere in luce i molteplici punti di contatto tra inefficienza delle scelte della p.a., di quelle delle istituzioni politiche, nonché di quelle operate in campo giudiziario ed economico, che conducono alla crisi delle imprese sottoposte al procedimento di prevenzione.  

Il delicatissimo equilibrio che attiene, per esempio, al complesso rapporto tra giudice delegato ed amministratore giudiziario, ovvero,  ad una fase precedente, allorquando il giudice della prevenzione sia chiamato a valutare l’idoneità di una determinata misura, anche sulla base di una valutazione prognostica circa l’effettivo risanamento dell’attività economica in questione, implica una visione multidisciplinare del fenomeno.  

Assumono preminente rilievo, allora, gli aspetti tecno-giuridici e socio-economici della vicenda del sequestro e della confisca di prevenzione delle attività imprenditoriali.

L’analisi non può prescindere da una visione integrata del fenomeno, in grado di dimostrare le relazioni causa-effetto tra scelte di diversa natura.

Il metodo deduttivo, non ignorando il dinamismo dell’azione e le relazioni con la norma giuridica, potrà orientare la ricerca dall’analisi generale delle aporie interne al sistema della prevenzione, sino all’analisi particolare delle criticità degli aspetti applicativi.

2. Il destino dell’impresa mafiosa, tra fatalismo e protagonismo “risanante”.

Irrisolta, ad oggi, è l’annosa questione del destino delle imprese sottoposte a sequestro e confisca di prevenzione antimafia, quasi sempre destinate al fallimento.

Sul punto sarebbe, in primis, necessario indagare sulla essenza dei concetti normativi di “impresa mafiosa” ed “impresa a partecipazione mafiosa” entrambi rientranti nel più generale concetto della “imprenditoria mafiosa”.

In effetti, dalle possibili relazioni normative tra la disciplina della prevenzione patrimoniale e quella codicistica dei delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, emergono interrogativi circa la natura sociologica e normativa della categoria generale dell’imprenditoria mafiosa, ed in particolare circa la definizione del fenomeno e le sue forme di manifestazione che rilevano sul piano della profilassi criminale.

Tale categoria, nella specificazione sopra citata, che è forma particolare della più generale macrocategoria della “criminalità economica”, induce necessariamente a riflettere sugli aspetti liminali di un diritto penale tra repressione e tecniche di anticipazione della punibilità (prevenzione), e dunque ad interrogarsi sulla precipua funzione delle misure di prevenzione patrimoniali e sulla loro natura giuridica; dalla classificazione di pene del sospetto, a quella di tertium genus, a quella di sanzioni penali.

Interrogativo che risulta ancor più necessario alla luce del concetto socio-normativo del riutilizzo sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata[2], in grado di modificare la dimensione assiologica delle misure di prevenzione patrimoniali.

Corollario di tale impostazione è l’analisi delle reciproche colleganze tra le discipline penalistica e gestionale – amministrativa delle imprese sottoposte al sequestro antimafia.

Non a caso, infatti, l’applicazione degli strumenti penali di prevenzione richiede particolare analisi quanto all’opportunità, melius, idoneità degli strumenti, di cui dispongono il giudice e gli altri soggetti titolari della proposta di applicazione di una misura patrimoniale, a realizzare le finalità costituzionali che l’ordinamento intende raggiungere.

In altri termini, è richiesto al giudice della prevenzione la formulazione di una prognosi inerente la probabile futura evoluzione di un’attività di impresa sottoposta al vaglio giudiziario, affinché sia in grado di discernere se sia più efficace disporre l’applicazione di un sequestro di prevenzione ex art. 20 D.Lgs. 159/2011, ovvero di una misure cautelare di prevenzione, oggi disciplinata dall’art. 22 D.Lgs. 159/2011 in tema di sequestro anticipato, ovvero ancora se sia necessario intervenire con una misura di prevenzione patrimoniale diversa dalla confisca, come quella della sospensione temporanea dell’amministrazione di beni ex art. 34 del Codice delle misure di prevenzione.

L’applicazione dell’una o dell’altra misura, tra quelle sopra citate, non può che incidere, positivamente o negativamente, sulla fase della gestione giudiziaria, e sui relativi compiti e poteri che sono conferiti all’amministratore giudiziario.

Ecco allora che le scelte operate in sede giurisdizionale devono necessariamente tener conto di quelle che potranno essere poi adottate in sede amministrativa, secondo un “procedimento osmotico” in grado di “diluire” la maggiore concentrazione repressiva dello strumento penale, con la predisposizione di condizioni idonee all’effettivo riutilizzo sociale delle aziende sequestrate.

3. Prevenzione antimafia ed impresa: a che punto siamo?

L’articolata materia della profilassi criminale di carattere patrimoniale è giunta ormai ad un punto di notevole espansione applicativa.

Introdotta, come detto, con l’approvazione della storica legge 646/1982, la disciplina della prevenzione patrimoniale è stata riorganizzata e ridefinita dal Codice delle misure di prevenzione, attraverso la rimodulazione normativa operata dal Legislatore, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159.

Inizialmente ristretta al territorio nazionale, si assiste, attualmente, ad una estensione, nello spazio giuridico europeo, dell’applicazione degli strumenti di prevenzione patrimoniale antimafia.

Non a caso la Direttiva 2014/42/UE, sul congelamento e confisca dei beni strumentali e proventi da reato, impone agli Stati membri di adottare misure in grado di garantire il congelamento e l’eventuale confisca di tali beni e dei proventi da reato, oltre ad invitare gli Stati a valutare l’opportunità di disciplinare con specifica legge il riutilizzo sociale dei beni sottratti al crimine.

Tuttavia, la disciplina della prevenzione per il contrasto all’economia criminale, nonostante il processo di sviluppo normativo, presenta ancora notevoli criticità quanto alla condizione dei compendi aziendali sottratti alle organizzazioni criminali.

Posto che l’obiettivo dell’azione patrimoniale non si esaurisce nel decreto di confisca ma si concretizza nell’effettivo riutilizzo sociale, sarebbe necessario analizzare i profili tecno-giuridici e socio-economici della complessa esperienza della prevenzione patrimoniale, avente ad oggetto beni aziendali, per comprendere quali siano le cause che determinano l’insuccesso del modello preventivo di carattere patrimoniale e, di conseguenza, il fallimento delle imprese soggette alla giurisdizione di prevenzione.

La rilevanza numerica dei dati statistici impone una riflessione circa l’idoneità degli strumenti normativi previsti dall’ordinamento.

I dati[3] dimostrano, infatti, che sono 2527 le aziende e le attività di impresa confiscate in Italia.

La prima regione per aziende confiscate, ma in generale per beni immobili confiscati,  risulta essere la Sicilia con il 30,3%,  la seconda regione è la Campania con il 22,4% delle attività economiche sottratte alla criminalità organizzata.

Segue poi la Calabria con l’11,91% dei complessi aziendali confiscati. Non mancano all’appello le regioni del Centro e del Nord, in particolare la Lombardia che risulta la quarta regione per aziende confiscate, con una percentuale pari al 10,29%, ed il Lazio con il 10,13% di aziende sottoposte a misura di prevenzione.

A seguire tutte le altre regioni con percentuali che oscillano tra lo 0,04% ed il 3,05%, indice del fatto che in ciascun territorio regionale è presente almeno un bene aziendale sottoposto a misura patrimoniale di prevenzione.

Delle 2527 aziende sottoposte a sequestro e confisca antimafia, però, ben 873 unità, ed è questo il dato allarmante, sono classificate dall’Agenzia Nazionale per i beni sequestrati e confiscati, come “uscite dalla gestione”[4].

Si tratta dunque di aziende che giungono alla fase dell’amministrazione giudiziaria senza alcuna capacità economica e finanziaria operativa e, dunque, destinate al fallimento.

3.1 Prevenzione antimafia ed impresa: il “senso” dell’idea di “impresa mafiosa”.

Ma quali sono le cause che hanno determinato questo trend negativo? In effetti, gli aspetti problematici che conducono alla cessazione dell’attività sono di varia natura: innanzitutto normativi e giudiziari. 

Il riferimento è alle prassi applicative delle Sezioni Misure di Prevenzione istituite presso i vari Tribunali, caratterizzate dall’uso “allargato” degli strumenti di prevenzione antimafia, tanto da costringere la Suprema Corte di Cassazione[5], di recente, a lanciare un monito ai giudici territoriali, affinché facciano uso consapevole della generale categoria di “impresa mafiosa”, che di fatto conduce – talvolta – in modo indiscriminato, all’ablazione totale dell’attività economica.

Il giudice di legittimità ha ribadito e chiarificato, ancora una volta, un dato normativo ineludibile. Il riferimento è all’art. 2 ter legge 31 maggio 1965, n. 575, oggi integralmente trasfuso nella disciplina dettata dagli artt. 20 ss. del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il quale dispone che il tribunale, anche d’ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

A fronte di tale dato normativo, l’impegno della Nomofilachia si è concentrato particolarmente sulla definizione dello statuto probatorio, di carattere indiziario, tipico del giudizio di prevenzione.

A differenza della misura personale, originariamente disciplinata dalle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423 e 31 maggio 1965, n. 575, per la quale è necessaria e sufficiente che sia riscontrata la “qualità” di mafioso del proposto, per l’applicazione della misura di prevenzione del sequestro antimafia tale qualità non è affatto sufficiente dovendosi, al contrario, riscontrare che l’azienda sia “frutto di attività illecita” o che l’impresa si sia concretamente avvalsa, nello svolgimento della sua attività, delle aderenze mafiose del titolare, rendendo determinate ricchezze ingiustificate ed ingiustificabili.

Non, allora, la mera vicinanza dell’imprenditore alla mafia, potrà legittimamente fondare l’azione ablativa dello Stato, quanto, piuttosto, la composizione mafiosa dell’impresa stessa.

Ed ecco, allora, che l’ermeneutica giudiziale chiarisce quali sono i criteri per individuare, accertare e dichiarare che una determinata attività di impresa sia effettivamente mafiosa.[6]

E siccome è dalla definizione del livello di “mafiosità” dell’impresa che discendono le conseguenze maggiormente afflittive per l’impresa medesima e per il circostante tessuto sociale ed economico di un determinato territorio, la Corte di Cassazione richiede un accertamento particolarmente rigoroso della natura della massa imprenditoriale, al fine di garantire un efficace intervento di prevenzione antimafia, individuando, tra le misure prevista dal Codice ex D.Lgs. 159/2011, quella più idonea tanto ad operare un efficace contrasto all’economia mafiosa, quanto salvaguardare e ripristinare, laddove sia possibile, quella funzione sociale dell’attività economica, così solennemente proclamata dall’art. 41 Cost.[7]

Emergono, così, i caratteri dell’impresa tout court “mafiosa”, caratterizzata non solo da una genesi criminale, ma ulteriormente alimentata ed accresciuta da apporti di carattere illecito, sia materiali, attraverso finanziamenti ed altre liquidità di sospetta provenienza, ovvero immateriali, quali quelli che conseguono dalla circostanza dell’appartenenza, dell’imprenditore, alla mafia.[8]

Invero, la dottrina non ha mancato di rilevare che neppure la mera appartenenza alla mafia giustifica di per sé l’ablazione di interi cespiti aziendali.

L’orientamento in parola, pur laddove afferma che la confisca può aggredire “l’intera azienda”, precisa che “questo modo di procedere, ovviamente, non può significare la rinunzia ad ancorare la confisca ad un apprezzabile compendio indiziario, posto che comunque non può bastare che un determinato soggetto faccia parte di organizzazione mafiosa e abbia messo in atto iniziative imprenditoriali, per far scattare l’ablazione dei beni destinati all’attività produttiva e comunque conseguiti grazie ad essa.

Piuttosto, occorre che sulla base di elementi obiettivi risulti che l’attività non sarebbe sorta o non si sarebbe sviluppata in quel modo se non fosse stata condizionata, in modo determinante, dal potere e dall’intervento mafioso, nelle loro multiformi manifestazioni”[9].

L’applicazione “disinvolta” della confisca di cui all’art. 2 ter, legge 575/1965, dunque, potrebbe involgere un intero complesso aziendale, indipendentemente dall’analisi e dall’accertamento dell’origine, illecita o meno, di determinati cespiti.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha, da tempo, affermato – come poi  la dottrina ha ritenuto di dover affermare – che l’accertamento della mera pericolosità sociale qualificata, eventualmente riscontrata in capo all’imprenditore ovvero a colui che direttamente o indirettamente, anche per interposta persona, ha la disponibilità ovvero la titolarità dell’attività economica, non è in grado di giustificare l’azione ablativa totalitaria dello Stato. Il sequestro e la confisca non sono conseguenze automatiche della dichiarazione di pericolosità qualificata, ma possono essere disposti soltanto in presenza di “sufficienti indizi” – in base alla vecchia dizione dell’art. 2 ter –, atti a far ritenere che i beni siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.[10]

Non a caso, la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che le ipotesi normative richiamate “non consentono di colpire indiscriminatamente tutti i beni dei soggetti appartenenti alle categorie alle quali sono applicabili dette misure patrimoniali, bensì solo quelli di valore sproporzionato al reddito dichiarato o alla attività economica svolta ovvero che […] siano frutto di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego”[11]

Così, i discorsi ermeneutici della Nomofilachia offrono non soltanto una definizione di impresa criminale, con particolare riferimento all’analisi del momento genetico di una determinata attività economica privata, ma da questa espungono tutte quelle ipotesi che, pur riscontrandosi un certo grado di “inquinamento” mafioso, non possono essere definite come tali, con la conseguenza che dovranno essere oggetto dell’azione di prevenzione solo quei cespiti di cui il proposto non sia in grado di giustificare la provenienza.[12]

Ciò, naturalmente, richiede, da parte della magistratura di prevenzione, un’indagine selettiva e dettagliata finalizzata ad individuare i cespiti nei cui confronti ben si giustifica la risposta di prevenzione tra le più rigorose: la confisca antimafia d’azienda.

Appare allora fondamentale la chiara identificazione dell’idea di impresa mafiosa, che la giurisprudenza di legittimità ha contribuito a delineare, poiché è proprio dal corretto inquadramento della categoria socio-normativa di “impresa mafiosa” che discende la ulteriore valutazione circa l’idoneità di un sequestro totale, ovvero parziale, ovvero ancora parziale con concessione in uso.

Ne deriva, infatti, che l’applicazione non  ponderata di tali forme di ablazione, incide negativamente sugli sviluppi della fase di recupero e risanamento dell’attività produttiva sottoposta al procedimento.

4. Prevenzione “repressiva” e prevenzione “risanante”: la sincresi antimafia tra società (civile) e politica giudiziaria.

Se così stanno le cose, ne consegue che un ruolo fondamentale, nelle strategie di recupero sociale delle aziende sequestrate e confiscate, è giocato proprio dalle politiche giudiziarie tanto delle Procure della Repubblica che delle Sezioni per l’applicazione delle Misure di Prevenzione.

È dalla corretta identificazione della reale natura e composizione del patrimonio sottoposto a vaglio giudiziario che discende tutto il resto.

In altri termini, dal corretto inquadramento di un determinato compendio aziendale, avuto riguardo alla sua genesi ed al successivo sviluppo economico, la magistratura di prevenzione potrà adottare i provvedimenti che maggiormente si prestano, a seconda dei casi, a garantire una prevenzione “repressiva” ovvero “risanante”.

Il distinguo tra strumenti preventivi di carattere repressivo e quelli di carattere risanante, comminati dalla magistratura di prevenzione, deriva dal loro grado di afflizione e pervasività.

L’importanza della scelta giudiziale sta nella capacità della stessa di ottenere il miglior risultato, in termini di ripristino del corso dell’economia legale.

Più precisamente, dovrà essere valutata l’opportunità di interrompere definitivamente il legame tra la compagine societaria e la sua attività economica, ovvero di sottoporre la gestione ad un controllo da parte dello Stato.

Non v’è chi non veda, infatti, che un conto è l’applicazione delle misure del sequestro e della confisca (definitiva) antimafia, che come detto recide del tutto – salvo le ipotesi di revoca – il rapporto tra gestione ed attività , con conseguente perdita del know how imprenditoriale necessario per lo svolgimento della specifica attività economica, mentre di ben altro tenore è la predisposizione di misure, sostanzialmente diverse, come quella della sospensione temporanea dell’amministrazione o, come oggi è stata ridefinita dal Codice delle misure di prevenzione, amministrazione giudiziaria, in virtù della quale l’attività economica “inquinata” è sottoposta ad un controllo “risanante” e cioè finalizzato ad affiancare la dirigenza societaria al fine di depurare l’impresa dai condizionamenti mafiosi.

È chiaro che, soltanto in questo modo, e cioè eliminando la componente “mafiosa” di un’impresa, evitando un intervento esiziale per l’attività economica, potrà essere tutelato l’interesse superiore dell’ordine pubblico sociale ed economico, salvaguardando, così, il ciclo dell’economia legale di un determinato territorio.

Come si diceva, la sospensione temporanea dell’amministrazione ha una vocazione maggiormente “risanate” ed è  attualmente disciplinata dall’art. 34 D.Lgs. 159/2011.

Va preliminarmente osservato che l’istituto in esame ha specifici presupposti, atteso che il disposto normativo, ex art. 34 cit.,  non richiede l’accertamento di un effettivo inquinamento dell’attività economica in questione, attraverso l’identificazione di flussi di denaro provenienti da attività illecite dei soggetti criminali agevolati, ma l’unico presupposto oggettivo della sospensione temporanea è quello dell’effettiva e consapevole agevolazione di tali soggetti.[13]

Oltretutto, la misura della sospensione temporanea ha un preciso ambito di applicazione, del tutto autonomo da quello nel quale operano le misure del sequestro e della confisca.[14]

La valutazione sottesa all’applicazione dell’amministrazione giudiziaria concerne, infatti, da un lato il nesso di strumentalità agevolativa tra una specifica attività economica e gli interessi delle consorterie mafiose, dall’altro deve riguardare non tutto il patrimonio riconducibile al proposto ma soltanto quelle attività economiche che sono strumentali agli interessi criminali.[15]

Ecco, allora, emergere il carattere risanante della misura de qua, in grado di individuare, isolare e neutralizzare le componenti alterate di una determinata attività economica, specialmente se complessa ed articolata.

Non a caso, infatti, la norma prevede la revoca della misura nell’ipotesi in cui, all’esito del periodo di sospensione dell’amministrazione[16], il giudice abbia fondato motivo di ritenere che siano cessate le cause che hanno giustificato l’adozione della misura stessa.

Ma per giungere alla revoca della misura, che rappresenta il più felice degli esiti dell’applicazione di questa particolare misura di prevenzione, potendo il giudice, negli altri casi, rinnovarla ovvero predisporre altre forme di controllo giudiziario, e nei casi più gravi tramutarla in confisca, è necessario che l’impresa si adoperi, con l’ausilio dell’amministrazione giudiziaria, per eliminare le contiguità ed i condizionamenti mafiosi che gravano sulla sua esistenza economico-sociale.

Ed è qui che si realizza la sincresi antimafia tra società (civile) e politica giudiziaria. Attraverso cioè una scelta giudiziaria più elastica si offre una possibilità di intervento extragiudiziaria che potrebbe portare a risultati maggiormente soddisfacenti di quelli che sarebbero stati prodotti all’esito di una confisca definitiva.

La sospensione e poi il licenziamento non solo dei dirigenti direttamente coinvolti nelle relazioni con i soggetti mafiosi, ma anche di quelli rimproverabili per mancato controllo, fino alla sostituzione dei vertici gestori ed la successiva adozione di un nuovo modello di organizzazione ex D.Lgs. 231/2001, congegnato proprio per prevenire le “intrusioni mafiose” nelle area aziendale rivelatasi più esposta, rappresentano un aspetto di quella sincresi sociale e giudiziaria di cui si è detto in precedenza.[17]

La valorizzazione, quindi, della prevenzione di carattere “risanante”, che passa, a sua volta, attraverso la valorizzazione di strumenti diversi da quelli ablativi del sequestro e della confisca, potrebbe rappresentare quell’atteggiamento istituzionale vincente che ci si attende in ogni occasione di aggressione ai patrimoni delle consorterie mafiose, e cioè fare terra bruciata attorno agli interessi economico-finanziari delle mafie, risanando l’economia legale.

Del resto, non a caso la Commissione “Fiandaca” per la elaborazione di una proposta di intervento in materia di contrasto alla criminalità organizzata[18], individuando nella prevenzione patrimoniale una delle aree maggiormente bisognose di ammodernamento legislativo, ha ritenuto di doversi soffermare proprio sull’istituto dell’amministrazione giudiziari ex art. 34 D.Lgs. 159/2011.

In particolare, la relazione della Commissione ministeriale dichiara espressamente che l’obiettivo è quello “di promuovere il recupero delle imprese infiltrate dalle organizzazioni, nel quadro di una ammodernata disciplina tendente a bilanciare in maniera più equilibrata le diverse aspettative ed esigenze oggi in gioco in questo campo”[19].

Ma v’è di più. Un aspetto della prevenzione “risanante”, al quale non può rinunciarsi, esiste anche allorquando sia stata inoltrata la proposta di applicazione del sequestro antimafia.

In tale ipotesi l’iter della profilassi patrimoniale condurrà, inevitabilmente e salvo un diverso esito delle indagini patrimoniali ovvero della necessità di disporre la revoca anche successivamente la confisca definitiva, all’ablazione dell’azienda e la riconduzione della stessa nell’alveo del patrimonio indisponibile dello Stato.

Ed è a questo punto che sorgono le maggiori criticità per il recupero e la riattivazione di quella risorsa economica.  In primis, quella di natura economico-sociale. Come evidenziato da un recente documento della Banca d’Italia[20], le maggiori difficoltà attengono al rapporto tra l’azienda sequestrata ed il sistema bancario.

Inevitabilmente – rivela il documento della Banca d’Italia – all’atto del sequestro, ed addirittura precedentemente, nella fase delle indagini patrimoniali – con le richieste d’accesso avanzate dalla magistratura inquirente – il sistema creditizio riduce le linee di credito riconosciute all’azienda che, dunque, si avvia sulla strada di un difficile risanamento, attesi anche i costi di conversione dall’attività illecita a quella lecita.

Conclusivamente, deve riflettersi sul fatto che a fronte di un elevato grado di specializzazione delle procedure criminali di prevenzione, con estensione sul piano europeo anche in materia di mutuo riconoscimento, si ravvisa, molto spesso, il fallimento degli obiettivi dichiarati dalle norme dettate in materia di prevenzione patrimoniale.

E ciò, non è escluso, potrebbe dipendere proprio dall’uso “disinvolto” degli strumenti penali, che non sempre facilitano ma pregiudicano i percorsi di riutilizzo sociale sanciti dalla legge 7 marzo 1996, n. 109, oggi disciplinati dagli artt. 48 ss. D.Lgs. 159/2011.

5. Prospettive de jure condendo.

Appare evidente la necessità di reindirizzare il dato normativo per il soddisfacimento di esigenze innanzitutto di carattere sociale ed economico, obiettivi ultimi del moderno processo ai patrimoni mafiosi.

In verità molte sono state le proposte di modifica avanzate già successivamente all’approvazione del D.Lgs. 159/2011.

Sin dal giorno della sua entrata in vigore, il Codice Antimafia fu oggetto di critiche che travolsero l’iniziativa governativa, da più parti qualificata alla stregua di una vicenda normativa “spot” e cioè finalizzata soltanto a propagandare un’immagine di impegno antimafia non rispondente, però, ad una concreta volontà politica e dunque normativa.

Polemiche, oltretutto, alimentate da quelle recenti che a loro volta avevano investito una ulteriore iniziativa governativa attuata con decreto legge 4 febbraio 2010, n. 4 convertito con legge 31 marzo 2010, n. 50, istitutivo dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, oggi confluito nell’ambito del D.Lgs. 159/2011.

Una macro agenzia sostanzialmente inutile – si disse – in quanto non dotata né di poteri, né di personale necessario a svolgere l’ambizioso compito che la legge le affidava.

Si proposero, dunque, sin da subito, correttivi al Codice Antimafia, al fine di riscrivere alcune delle norme più problematiche, specialmente in tema di procedimento di prevenzione patrimoniale.

Non a caso, infatti, il Dipartimento di Studi Europei e della Integrazione Internazionale (D.E.M.S.) e l’Osservatorio su confisca amministrazione e destinazione dei beni e delle aziende, dell’Università degli Studi di Palermo, redasse, nel febbraio del 2012, un complesso documento contenente le “Prime proposte correttive al Codice Antimafia”.

Tuttavia, delle ventitré proposte contenute nel documento del D.E.M.S., nessuna di queste riguardava in modo specifico il nodo mafia-imprese, se non quella inerente i rapporti con le procedure fallimentari.[21]

Successivamente l’attività di integrazione normativa si intensificò e la “fucina legislativa” della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, fu impegnata nell’esame di una serie di proposte normative.[22]

L’iter legislativo è attualmente approdato alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica ed il d.d.l. AC 1138 è all’esame del consesso parlamentare dal 20 novembre 2015.[23]

Tale disegno di legge riprende, ora, l’annosa questione dell’impresa mafiosa, recependo alcune delle proposte più significative elaborate dalla Commissione “Fiandaca”,  finalizzate a ritardare l’intervento ablatorio definitivo ai danni delle aziende, nella prospettiva di una vera e propria “bonifica” dell’attività economica interessata dal condizionamento mafioso.

L’istituto dell’amministrazione giudiziaria, già previsto dall’art. 34 D.Lgs. 159/2011, assumerebbe così un rilievo di più ampio respiro e si svilupperebbe in una cornice di innovazione che include – oltre alla ridefinizione dei suoi contenuti normativi – l’introduzione di una nuova figura di controllo giudiziario, oltretutto, in connessione, con una modifica della disciplina della interdizione prefettizia.[24]

Nel solco di quel sincretismo antimafia di cui si è già detto, ed ancora nell’ottica di una valorizzazione della prevenzione di carattere “risanante”, si colloca, dunque, l’introduzione di una nuova misura di prevenzione patrimoniale quale è quella del controllo giudiziario delle aziende.[25]

La misura nata, come detto, dal lavoro della Commissione “Fiandaca”, è destinata a trovare applicazione in luogo di quella della sospensione temporanea dell’amministrazione ma, ciò che desta maggiore interesse, è la circostanza in virtù della quale la misura di nuova ideazione potrebbe essere alternativa a quella del sequestro ex art. 20 D.Lgs. 159/2011 e della successiva confisca ex art. 24 del Codice Antimafia.

Il controllo giudiziario, nella visione offerta dai riformatori, dovrebbe applicarsi nei casi in cui l’agevolazione da parte dell’attività imprenditoriale risulti occasionale e sussistano circostanze idonee atte a far ritenere che vi sia un fondato e concreto pericolo di infiltrazioni mafiose tali da condizionare le scelte strategiche dell’attività imprenditoriale nonché la fissazione degli obiettivi primari dell’attività economica privata.

La portata di tale istituto si coglie allorquando si consideri che il fenomeno sociale intercettato da una misura di prevenzione di tal fatta è comune a tutte le vicende di inquinamento del tessuto economico ed imprenditoriale di un determinato territorio.

In atri termini, prevedere una misura di prevenzione che svolga effettivamente una funzione anticipatoria, in grado di intercettare i prodromi della vicenda confiscatoria, prevenendola mediante il tempestivo intervento “terapeutico”[26] dello Stato, significa aver compreso il dato empirico della progressività dell’interrelazione tra mafia ed economia che parte con l’acquisizione di capitali materiali ma per questa via, giunge al potenziamento del capitale sociale, sistema di relazioni complesse, cuore delle organizzazioni criminali.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] La legge 13 settembre 1982, n. 646, nota come legge “Rognoni – La Torre”,  fu approvata solo dopo il 30 aprile 1982 quando, in Via Generale Turba a Palermo, venne assassinato il segretario regionale siciliano del P.C.I. e membro della Commissione parlamentare antimafia, nonché primo firmatario della stessa legge n. 646, l’onorevole Pio La Torre. Insieme a lui  perse la vita anche il suo collega Rosario Di Salvo. In realtà, prima che tale provvedimento fosse approvato definitivamente, fu necessario un ulteriore tributo di sangue. Quello del Prefetto di Palermo, il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato il 3 settembre 1982 nella strage di Via Carini a Palermo, in cui persero la vita anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Soltanto allora il Parlamento, in un brevissimo lasso temporale, approvò quella che fu definita la “rivoluzione copernicana” del contrasto giudiziario alle mafie.
[2] Ciò è avvenuto con l’approvazione della Legge 109/1996, oggi ricompresa nell’ambito del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, che ha forse posto le premesse per il superamento del carattere punitivo delle misure di prevenzione patrimoniali. Tuttavia altro interrogativo si pone circa la funzione primaria del diritto penale della prevenzione. E cioè se è accettabile la considerazione per la quale l’effetto sortito dall’applicazione delle misure di prevenzione – sostanzialmente afflittivo – possa avere mera rilevanza esterna tralasciando aspetti quali, ad esempio, il ravvedimento del proposto.
[3] Dati dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, aggiornati al 30 giungo 2015. I dati sono stati riportati ed analizzati dallo Studio preliminare del Piano di Azione “Beni confiscati e coesione territoriale” del 30 giugno 2015.
[4] Tale classificazione indica che si tratta dei beni aziendali che non sono più oggetto della gestione e amministrazione dell’Agenzia Nazionale per cause quali: a) aziende cancellate dal Rea (Registro delle imprese e repertorio economico e amministrativo); b) aziende liquidate; c) aziende la cui confisca definitiva è stata revocata; d) aziende vendute.
[5] Sul punto Cfr. Cass. Sez. V, 17 dicembre 2013, n. 12493, Cinà in Diritto penale contemporaneo n. 1/2015
[6] Sul punto la Suprema Corte, con la già citata sentenza n. 12493/2014, afferma testualmente che: “Più in particolare, occorre, quantomeno a livello indiziario, la prova:
a) che l'acquisto originario sia stato reso possibile dall'attività illecita dell'acquirente, in qualunque modo espletata (mediante estorsioni, truffe, traffici illeciti, ecc.), pur senza pretendere la prova di un diretto collegamento, sotto forma di nesso causale, tra l'attività - illecita - e l'acquisizione patrimoniale;
b) che la crescita e l'accumulo di ricchezza da parte dell'impresa sia stata concretamente agevolata dall'attività illecita del titolare, "appartenente alla mafia".
Occorre, quindi, in questa seconda ipotesi, che l'imprenditore abbia, quantomeno, sfruttato la sua qualità mafiosa per crearsi condizioni di favore, ponendo in essere una qualsiasi delle attività idonee ad imporre, illecitamente, l'impresa sul mercato (sviamento della concorrenza, acquisizione di beni strumentali o di consumo a prezzi ingiustificatamente vantaggiosi, controllo mafioso della manodopera, ecc. ecc.), perché solo in questo caso può dirsi – stando al dettato normativo – che l'incremento patrimoniale è frutto di attività illecite”.
[7] Nella medesima sentenza n. 12439/2014, la Corte di legittimità afferma inoltre che: "in tema di misure di prevenzione nei riguardi di appartenenti ad associazione di stampo mafioso, ai fini della adozione della misura patrimoniale della confisca non è sufficiente la verifica della sussistenza di adeguati indizi di appartenenza del soggetto ad una associazione mafiosa per ritenere che il suo patrimonio, anche se ingente e acquisito rapidamente, sia di provenienza illecita, ma occorre anche la sussistenza di indizi inerenti ai beni che facciano ritenere, per la sproporzione rispetto al reddito dichiarato o all'attività economica svolta, o per altri motivi, che gli stessi siano frutto di attività illecita o ne costituiscano il reimpiego" (Sul punto conformemente cfr. Cass., n. 35628 del 23/6/2004; n. 1171 del 19/3/1997; n. 265 del 5/2/1990).
[8] È appena il caso di sottolineare che il concetto di “appartenenza” ad una consorteria mafiosa è ben distante da quello di partecipazione ex art, 416 bis c.p. In particolare la giurisprudenza di merito ha affermato, in talune occasioni, che il concetto di appartenente ad un’associazione mafiosa è talmente ampio da farvi rientrare qualunque posizione soggettiva che lasci presumere che il soggetto sia nella piena disponibilità dell’associazione criminale; altra cosa è la partecipazione interna ad una consorteria criminale (identificata ai sensi dell’art. 416bis co. 1 cod. pen.) posizione soggettiva che pretende una contiguità cosciente e costante ed una piena e consapevole disponibilità a rendersi partecipe di condotte agevolatrici. Sul punto cfr. Tribunale di Palermo, decreto 26 gennaio 2006 – Pres. Saguto; Rel. Nicastro in Guida al Diritto n. 22/2006, p. 63
[9] Così Pignatone, Le recenti modifiche alle misure di prevenzione patrimoniale (l. 125/2008 e l. 94/2009) e il loro impatto applicativo, in Fiandaca-Visconti (a cura di), Scenari di mafia, cit., pp. 334 ss. in A.M. Maugeri, La suprema corte pretende un uso più consapevole della categoria dell’impresa mafiosa in conformità ai principi costituzionali, in Diritto Penale Contemporaneo, 1/2015, p. 341
[10] Cass., 5 febbraio 1990, Montalto, in Riv. pen., 1991, m. 95; Cass., 12 maggio 1987, Ragosta, in Giust. Pen,, 1988, III, c. 335; Corte d’Appello di Napoli, decreto 7 gennaio 1987, Sibilia, in Foro it., 1987, II, c. 359; Conte, op. cit., p. 261, in A.M. Maugeri, op. cit.
[11] Cass., 22 febbraio (24 maggio) 2012, n. 19623, Spinelli; Cass., sez. I, 6 giugno 2012, n. 40254
[12] Il concetto è chiaramente espresso in alcune pronunce della Suprema Corte. In particolare i Supremi giudici hanno affermato che “nell’ipotesi di immissione di proventi di attività illecite in altre, già nella disponibilità del soggetto o di terzi in forza di anteriore e legittimo titolo giustificativo, che vengono in tal modo accresciute o migliorate, il provvedimento di confisca di cui all’art. 2 ter della legge n. 575 del 1965 va a colpire soltanto gli investimenti di origine ingiustificata, atteso che il provvedimento ablativo non può coinvolgere il bene “inquinato” nel suo complesso, ma, nell’indispensabile contemperamento delle esigenze di prevenzione e difesa sociale con quelle private di garanzia della proprietà tutelabile (art. 42 Cost.), deve limitarsi alla quota ideale corrispondente all’incremento di valore dovuto all’immissione di capitale di non chiarita provenienza”.“Quando risulta che un bene legittimamente appartiene al soggetto, ma è stato ampliato o migliorato con l’impiego di disponibilità economiche prive di giustificazione, il sequestro deve essere limitato soltanto alle porzioni o al valore corrispondente al reimpiego in esso effettuato di tali disponibilità”, cfr. Cass. Pen., 13 marzo 1997 (dep. 12 giugno 1997), n. 1105, Mannolo, sostanzialmente conforme Cass., sez. I, 22 aprile (9 luglio) 2013, n. 29186.
[13] La norma in commento, al primo comma, dispone che “Quando, a seguito degli accertamenti di cui all'articolo 19 o di quelli compiuti per verificare i pericoli di infiltrazione da parte della delinquenza di tipo mafioso, ricorrono sufficienti indizi per ritenere che l'esercizio di determinate attivita' economiche, comprese quelle imprenditoriali, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall'articolo 416-bis c.p. o che possa, comunque, agevolare l'attivita' delle persone nei confronti delle quali e' stata proposta o applicata una misura di prevenzione, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui all'articolo 4, comma 1, lettere a) e b), e non ricorrono i presupposti per l'applicazione delle misure di prevenzione, il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona, il questore o il direttore della Direzione investigativa antimafia possono richiedere al tribunale competente per l'applicazione delle misure di prevenzione nei confronti delle persone sopraindicate, di disporre ulteriori indagini e verifiche, da compiersi anche a mezzo della Guardia di finanza o della polizia giudiziaria, sulle predette attività, nonché l'obbligo, nei confronti di chi ha la proprietà o la disponibilità, a qualsiasi titolo, di beni o altre utilità di valore non proporzionato al proprio reddito o alla propria capacità  economica, di giustificarne la legittima provenienza.
[14] L’art. 34, secondo comma, D.Lgs. 159/2011 statuisce che: “Quando ricorrono sufficienti elementi per ritenere che il libero esercizio delle attività economiche di cui al comma 1 agevoli l'attività delle persone nei confronti delle quali e' stata proposta o applicata una misura di prevenzione, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti previsti dagli articoli 416-bis, 629, 630, 644, 648-bis e 648-ter del codice penale, il tribunale dispone l'amministrazione giudiziaria dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività”.
[15] Così C. Visconti, Contro le mafie non solo confisca ma anche “bonifiche” giudiziarie per imprese infiltrate: l’esempio milanese, in Diritto Penale Contemporaneo.
[16] L’art. 34 cit., al terzo comma, indica il periodo di sospensione stabilendo che: “L'amministrazione giudiziaria dei beni e' adottata per un periodo non superiore a sei mesi e può essere rinnovata, per un periodo non superiore complessivamente a dodici mesi, a richiesta dell'autorità proponente, del pubblico ministero o del giudice delegato, se permangono le condizioni in base alle quali e' stata applicata”.
[17] In tal senso, C. Visconti, Contro le mafie non solo confisca ma anche “bonifiche” op. cit.
[18] La Commissione “Fiandaca” è stata istituita nel 2013, con Decreto ministeriale del 10 giugno, dal Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri “per elaborare proposte di riforma in materia di criminalità organizzata”.
[19] Sul punto cfr. “Proposte di intervento in materia di criminalità organizzata: la prima relazione della Commissione Fiandaca”, in Diritto Penale Contemporaneo, p. 86. La relazione, nelle pagine precedente, chiarisce che la proposta emersa dai lavori della Commissione “tende all’obiettivo di modulare in maniera più moderna e flessibile il preesistente istituto della sospensione dell’amministrazione dei beni connessi ad attività economiche (artt. 3 quater e 3 quinquies, l. 575/1965), ridenominato più di recente “Amministrazione giudiziaria” dall’art. 34 del Codice Antimafia”.
[20] L. Donato, A. Saporito, A. Scognamiglio, Questioni di economia e finanza, Aziende sequestrate alla criminalità organizzata: le relazioni con il sistema bancario, n. 202/2013.
[21] Si tratta della Proposta n. 22 del documento D.E.M.S. intitolata “Dichiarazione di fallimento successiva al sequestro”.
[22] Si tratta in particolare di quali il d.d.l. AC 1138, di iniziativa popolare, recante “Misure per favorire l'emersione alla legalità e la tutela dei lavoratori delle aziende sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata”; il d.d.l. AC 2786 recante “Delega al Governo in materia di misure per il sostegno in favore delle imprese sequestrate e confiscate sottoposte ad amministrazione giudiziaria e dei lavoratori da esse dipendenti, nonché di organizzazione dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.”; il d.d.l. AC 2737 recante “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.”
[23] Più in particolare l’iter del progetto di legge approvato dalla Camera dei Deputati si snoda attraverso una serie di tappe parlamentari che vale la pena ricordare.
Il procedimento veniva avviato dalla proposta di iniziativa popolare avanzata da numerose associazioni (tra queste Cgil, Libera, ACLI, AR CI, Avviso Pubblico, Centro Studi Pio La Torre, Lega COOP, SOS Impresa – Rete per la Legalità), e presentata il 3 giugno 2013 (AC. 1138) recante, “Misure per favorire l'emersione alla legalità e la tutela dei lavoratori delle aziende sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata”.
La proposta di legge, unitamente ad altri disegni di legge, veniva riunita in un unico testo base adottato dalla Commissione Giustizia della Camera.
Nella seduta della Commissione Giustizia del 27 gennaio 2015 si disponeva l’abbinamento al testo base delle deleghe proposte dalla Commissione antimafia (AC 2786). Nella seduta del 17 marzo 2015 veniva abbinato anche la riforma organica proposta dalla Commissione antimafia (AC 2787). Successivamente la Commissione Giustizia licenziava un testo che, con ulteriori modifiche, veniva approvato definitivamente dalla Camera dei deputati l’11 novembre 2015.
Nel prosieguo dei lavori parlamentari si concludeva, inoltre, l’attività della Commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta anche patrimoniale alla criminalità organizzata, presieduta dal dott. Nicola Gratteri, attualmente Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, istituita con decreto del 30 maggio 2014 del Presidente del Consiglio dei Ministri. La relazione finale, depositata nel gennaio 2015, non veniva resa disponibile nell’intero testo (anticipato e riassunto in più sedi) pur contendo utili proposte in materia di amministrazione giudiziaria e riforma dell’Agenzia nazionale.
Il testo approvato dalla Camera dei deputati, trasmesso al Senato il 16 novembre 2015 (AS 2134), è all’esame della Commissione Giustizia dal 20 novembre 2015.
La ricostruzione dell’iter legislativo è di F. Menditto, Verso la riforma del D.Lgs. 159/2011 (c.d Codice Antimafia) e della confisca allargata, in Diritto Penale Contemporaneo, p. 4.
[24] Cosi  “Proposte di intervento in materia di criminalità organizzata: la prima relazione della Commissione Fiandaca”, in Diritto Penale Contemporaneo, p. 13.
[25] Nel riorganizzazione prevista dal d.d.l. AC 1138 la nuova misura di prevenzione del controllo giudiziario è prevista dall’ipotetico art. 34 bis D.Lgs. 159/2011.
[26] Tale definizione, in riferimento alla misura del Controllo giudiziario, è utilizzata da C. Visconti, Proposte per recidere il nodo mafie-imprese, in Diritto Penale Contemporaneo.