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Pubbl. Sab, 11 Giu 2016

In tema di provocatio ad populum

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Nicola Tezza


1. Introduzione: le fonti. - 2. Natura e limiti della provocatio ad popolum. - 3. La tesi di Luigi Amirante: una diversa prospettiva. - 4. Provocatio e sistema processuale. - 5. Sviluppo della provocatio in età imperiale.


1. Introduzione: Le fonti

Il termine “provocatio ad popolum" indica, in diritto pubblico romano, quello strumento processuale con cui il “civis romanus”, potendo essere perseguito in via di coercizione da parte del magistrato esercitante l’ “imperium”, poteva sottrarsi alla fustigazione, la quale anticipava l’esecuzione capitale, chiedendo l’instaurazione di un regolare processo davanti ai “comitia”.

In merito alla datazione cui si fa tradizionalmente risalire l’istituto della “provocatio ad popolum”, bisogna considerare come questo strumento così “costituzionalmente” importante sia oggetto di discussione dottrinale.

Sebbene Cicerone affermi che “provocationem autem etiam a legibus fuisse declarant pontificii libri, significant nostri autem augurales”, le fonti conservano il ricordo di tre successive leggi, cosiddette “de provocatione”.

La prima è la Lex valeria del 509 a.c. approvata dai comizi centuriati su rogatio del console P. Valerio Publicola -letteralemnte “amico del popolo”- con cui si stabiliva che “ne qui magistratus civem Romanum adversus provocatione negare neve verberaret” (Cic. rep. 2.53). Qui il “neve verberaret” di Cicerone si riferisce alla fustigazione che accompagnava l’estremo supplizio, non alla fustigazione come misura autonoma: la legge consentiva di ricorrere unicamente contro l’estremo supplizio capitale. L’unica voce discorde, in questo senso, è Dionigi di Alicarnasso il quale metteva la possibilità di “provocare” anche contro le multe, sebbene, molto probabilmente, si tratta solo di una anticipazione, come affermato da Girard ne “Historie”.

La seconda è la Lex Valeria Horatia del 449 a.c. la quale recita: “ ne qui magistratus sine provocatione crearetur”. Questa legge fu proposta dai consoli L. Valerio Potito e M. Orazio Barbato, subito dopo l’abbattimento dei decemviri, e questa era finalizzata ad introdurre il divieto di istituire per il futuro ulteriori magistrature esenti da “provocatio”.

La terza è la Lex Valeria del 300 a.c.: “M. Valerius consul de provocatione legem tulit diligenti sanctam… Valeria lex eum qui provocasse virosi credi securique pecari vetuisset, si qui adversus ea fecisset, nihil ultra quae improbe factum adiecit”. Questa lex è ascritta in base alle fonti al console M. Valerio Corvo, la quale riproduce il contenuto della legge del 509 a.c., ma, a detta di Livio, dotata di una “diligentius sancta” in quanto dichiarava “improbe factum” l’atto del magistrato che, violando il precetto stesso, avesse fatto fustigare e uccidere un cittadino in elusione alla “provocatio ad popolum". Si può affermare che l’ultima di queste tre leggi sia quella “incontestabilmente storica”, mentre le due precedenti non altro non sono che proiezioni della terza nel passato. Inoltre, a mio avviso, il fatto che queste norme siano ascrivibili, da un punto di vista storico, a più soggetti appartenenti alla medesima “gens” non costituisce un argomento così efficace da ritenere che solo l’ultima delle tre sia realmente esistita. Non si può escludere, infatti, che la falsificazione degli annalisti abbia avuto per oggetto non la moltiplicazione delle leggi, bensì l’attribuzione delle stesse a vari membri della “gens" Valeria. 

La dottrina è inoltre concorde nell’affermare che il limite della provocatio preesistesse alle XII Tavole e ciò è provato sotto un duplice profilo. Sia è implicitamente attestato dagli antichi scrittori, secondo cui i decemviri e il dittatore ne erano esenti, sia è esplicitamente attestato dalla Lex Artenia Tarpeia (454 a.c.) sia dalla Lex Menenia Sestia (452 a.c.), le quali fissavano il limite massimo entro il quale i magistrati potevano infliggere multe senza richiamo al popolo.

Sicuramente le ragioni per cui la norma è stata più volte rinnovata sono le più varie e, forse non così lontana dal vero pare essere l’opinione di Livio per il quale la ripetizione è resa necessaria perché nella fase iniziale della Repubblica “plus pacorum opes quam libertas plebis poterat”. Questi “pacorum” sono chiaramente i patrizi. E’ infatti agevole supporre che il plebeo fosse messo spesso a morte senza rispettare la sua richiesta di un processo comiziale e, pur potendo beneficiare della “intercessio tribunicia”, l’ “auxiulium” dei tribuni della plebe è definito come aleatorio e dipendente tanto dalla volontà del tribuno di esercitare il proprio ufficio quanto dalla situazione politica specifica. 

Tuttavia, leggendo le fonti, si comprende che si registravano, non infrequentemente, contro il magistrato che non voleva concedere la “provocatio ad popolum”, ribellioni popolari violente. Infatti, se il magistrato si rifiutava di accogliere la provocatio e i tribuni non intervenivano, il perseguito non poteva far altro che “fidem populi implorare” nella speranza che questa, con le sue grida e le sue turbolenze, costringesse il magistrato a sottoporre la causa al comizio. 

Tuttavia, durante l’aspra lotta condotta dalla plebe contro il patriziato per la rivendicazione dei diritti politici, accadeva che i consoli, nel contrastare l’opposizione plebea sempre più massiccia e violenta, facessero arrestare e quindi mettere a morte i plebei senza rispettare il loro diritto di provocare al popolo. 

In tal senso sempre Livio ci fornisce un quadro abbastanza eloquente di questo periodo così travagliato in un passo della sua “Storia” (2.27.12):

“Poichè il console (Appio Claudio) si trovò attorniato, come al solito, da una folla tumultuante, ordinò uno dei più noti fomentatori dei disordini. Questi, mentre veniva trascinato vi dai littori, provocò al popolo: ma il console, prendendo quello che sarebbe stato il giudizio del popolo, non intendeva cedere alla provocato. La sua ostinazione fu vinta, a fatica, dai consigli e dalla autorevolezza dei cittadini di maggior prestigio, piuttosto che dalle turbolenze della massa: tanta fierezza gli restava ancora per sfidare l’ira popolare”.

Non importa se il brano di Livio sia frutto o meno di una ricostruzione annalistica perché riproduce in maniera verosimile la realtà socio-politica di quegli anni ante legislazione decemvirale. Il fatto che, poi, i consoli potessero violare tanto impunemente lo “ius provocationis” non appare sorprendente: infatti la terza Lex Valeria si limitava a qualificare come “improbe factum” il comportamento tenuto in spregio alla provocato, essendo, quindi, il consul soggetto ad una semplice censura morale. 

Si può ritenere con quasi assoluta certezza, rimanendo fededegni alle fonti, che le più antiche leggi non prevedessero alcuna sanzione a carico del magistrato che fosse venuto meno al suo dovere di consultare il popolo. 

Bernardo Sanatalucia parla di queste come “leges imperfectae”, quali erano molto spesso le leggi “costituzionali” romane che formulavano un precetto generico senza alcun statuizione per il caso di trasgressione del precetto stesso.

2. Natura e limiti della provocatio ad populum

Gli studiosi divergono in maniera molto netta ritardo la natura e gli effetti della “provocatio”. 

L’opinione tradizionale è attribuibile a Th. Mommsen il quale considera la provocatio come un appello vero e proprio e conseguentemente il giudizio popolare come un giudizio di seconda istanza. Ma questa impostazione è stata criticata da W. Kunkel il quale ha negato che la provocato possa avere carattere di mezzo di impugnazione di una decisone magistratuale, individuando piuttosto in essa una istituzione squisitamente politica, concepita nel corso delle battaglie patrizio-plebee, e che ottenne riconoscimento legale solo con la Lex Valeria del 300 a.c. 

Fino a tale data, come sostiene Martin in “Provokation”, essa rappresentava uno strumento di lotta rivoluzionaria fondato sulla forza della comunità plebea, esplicandosi in un’ invocazione del perseguito alla plebe (in massa) affinché lo proteggesse dall’esercizio arbitrario dello ius coercitionis da parte del magistrato patrizio. Non appare, dunque, ragionevole ritenere che la tesi di Mommsen sia corretta in quanto, in base a quello che attestano le fonti, manca qui il secondo grado di giudizio poiché l’intervento dl consul è meglio qualificabile come atto di amministrazione. Quindi la “provocatio” si configurerebbe come atto di opposizione alla coercitio magistratuale, accompagnato dalla richiesta di un processo di primo unico grado davanti ai comizi.

Osservando la tesi di Kunkel si nota che anche questa appare farraginosa: se si configura la provocatio alla tesi di Kunkel, appare evidente che essa avrebbe costituito un rimedio sostanziale coincidente con l’ “auxilium tribunicium”, mentre le fonti attestano chiaramente che “duae arces libertatis tuendae” (Liv. 3.45.8).

Inoltre il diritto di provocare al popolo era assoggettato ad alcune limitazioni sia di carattere personale sia di carattere territoriale.

Innanzitutto solo i cittadini romani, a differenza degli schiavi e degli stranieri, potevano chiedere che il loro caso fosse portato alla assemblea cittadina e lo “ius provocationis” rappresentava, in questo senso, l’espressione più tangibile del diritto di cittadinanza. Mentre il potere repressivo dei magistrati poteva esplicarsi in tutta la sua ampiezza contro i non-cittadini.  

Gli studiosi sono concordi nel sostenere che anche le donne non godessero, in origine, dello “ius provocationis” e che in epoca solo successiva abbiano cominciato a usufruire di tale “garanzia”. A sostegno di quanto appena affermato si potrebbe addurre i passo di Aulo Gellio nelle “Notti Attiche” (5.19.10) il quale scrisse che le donne erano prive della “communio comitiorum”, cosa che escluderebbe la possibilità di ottenere un giudizio davanti alla assemblea del popolo. 

In antitesi a ciò, parte della dottrina nota come anche alcune comunità, entrate ex post nella cittadinanza romana e quindi all’interno del Popolus Romanus, non avevano la “communio comitiorum”, essendo tuttavia loro riconosciuto lo “ius provocationis”.

Ma vi è anche un’altra importante considerazione di carattere territoriale da fare. 

La “provocatio ad popolum” poteva essere posta in essere, anzi “sperimentata”, soltanto in Roma ed entro una cerchia di mille passi dalla città. Oltre il primo miglio dall’Urbe, il console poteva esercitare la propria autorità e, quindi, infliggere la pena capitale a prescindere dai vincoli costituzionali della “provocatio ad popolum” e senza alcun controllo da parte della assemblea.

Questi si presenterebbe quale esempio del supremo potere di comando nei confronti sia dei suoi soldati sia dei cittadini romani residenti in territorio extraurbano, un potere repressivo sostanzialmente identico a quello che gli era riconosciuto nei confronti dei nemici. 

Le fonti storiche narrano di numerosi episodi in cui gli abitanti della comunità italiche, a cui Roma aveva concesso la cittadinanza, avevano subito drastici interventi ad opera della coercitio magistratuale, libera, in questi casi, da ogni vincolo procedurale. Livio (9.16.1-4) riferisce, infatti, che nel 319 a.c., dopo l’espugnazione della città di Satrico, che in seguito alla sconfitta di Claudio era passata ai Sanniti, il console Papiro Cursore, individuati  i responsabili della defezione attraverso una rapida inchiesta, li fece frustare e decapitare sotto gli occhi di tutti, “sic et simpliciter”.

Lo stesso autore riferisce (27.3.1-5) che nel 210 a.c., quando alcuni Campani, cittadini romani, tentarono di applicare il fuoco agli accampamenti sotto le mura di Capua, il proconsole Fulvio Flacco, una volta sventato il pericolo, procedette ad una rigorosa indagine dei fatti. E, dopo aver individuato i responsabili, ordinò che fossero immediatamente giustiziati. Si fa luogo, dunque, ad una serie di interventi repressivi come quelli che erano posti in essere nei confronti degli abitanti di città non romane, comportanti l’utilizzo, dietro “coercitio" magistratuale, delle verghe e della scure. 

E’ comunque importante ricordare che in taluni casi, come riferiscono gli studiosi e gli storici, il console abbia rinviato gli accusati a Roma affinché fossero sottoposti al iudicium della assemblea, piuttosto che procedere ad una repressione diretta in virtù del proprio imperium. Questo è senza dubbio un dato molto importante che funge da tassello nel mosaico che si sta costruendo, ma proprio per evitare fraintendimenti ed equivoci, si deve tenere in considerazione che il rinvio, in questi casi, aveva luogo per la libera determinazione del magistrato, non per effetto di una disposizione di legge. 

Solo nel II secolo a.c., una Lex Porcia consacrerà in una formale statuizione giuridica una consuetudine che si era affermata nella prassi, estendendo lo “ius provocationis” al territorio extraurbano, concedendo così ai cittadini che abitavano al di là del primo miglio di Roma, la possibilità di sottrarsi all’illimitato potere punitivo e repressivo del magistrato. 

In tema di "provocatio ad popolum" é importante sottolineare come la vicenda dell'Orazio supersiste non fu verosimilmente inventata dalla annalistica , bensì "tradìta". Gli autori sono concordi nel dire che il racconto originario non contenesse alcun accenno alla provocatio e che il popolo intervenisse in giudizio su iniziativa del re, il quale era intenzionato a sottrarre, con l'appoggio dell'opinione pubblica, l'Orazio alla pena prevista dalla legge. A detta di Luigi Garofalo, solo successivamente, poiché gli analisti vollero creare un processo archetipo che riportasse le sue origine alla età regia, la storia fu completamente rielaborata e si introdusse nel testo della “lex horrendi carminis" la cosiddetta "clausola" di provocazione. Il racconto di Livio è stato oggetto, in base a questa visione, di una rielaborazione che reca ancora tracce della sovrapposizione della versione recente a quella più antica; e questo è dimostrato anche dall'espressione "auctore Tullo" (per benevola concessione di Tullo) che non è conciliabile con il testo della lex horrendi carminis, la quale concede senz'altro la provocazione al reo sebbene si comprenda come la formula "si a duumviris provocavit, provocatione certato" sia una aggiunta posteriore. Anche Cicerone, autore del I sec a.c., afferma nelle proprie arringhe come il procedimento duumvirale causava la irrogazione della pena capitale senza discussione della causa e ciò risulta molto importante ai nostri occhi se si considera che l'oratore attingeva ad antichissimi testi che il tribuno Labieno aveva reperito negli archivi sacerdotali dell'urbe. Anche se una anticipazione della provocatio é da respingere e da considerare non plausibile, sembra che vi fosse invece una partecipazione dei membri della comunità ai giudizi criminali. In origine il popolo interveniva non per votare ma con una funzione di "prestare testimonianza". Il ius decidendi spettava al re e l'assemblea, riunita nella più antica forma del comizio curiato, si riuniva per assistere al giudizio e alla consacrazione. Con il passare del tempo, il popolo iniziò ad avere sempre maggiore partecipazione nella sfera di repressione dei crimini e, solo nel caso di gravi violazioni di “ius sacrum” commesse dai membri di collegi sacerdotali, la persecuzione era esercitabile dal re senza la presenza del popolo.

Sicuramente il cambiamento che si è avuto con il passaggio dalla età monarchica a quella costituzionale portò ad una netta separazione tra funzioni religiose e politico militari: la carica sacerdotale passa al rex sacrorum e successivamente al pontifex maximus il quale ereditò dall'antico monarca la giurisdizione sui reati prettamente di carattere religioso come "l'incestus della virgo vestalis" mentre i reati relativi sia alla sfera religiosa sia al popolum, come ad esempio la perduellio, furono di competenza dell'assemblea popolare.

Garofalo sostiene che la preoccupazione di mantenere contenuto il potere di supremo magistrato, al fine di evitare ogni tentativo di tirannide o di sopraffazione degli altri concittadini, ha contribuito al fatto che si sia sviluppata tra le casate patrizie l'esigenza di subordinare l'irrogazione delle più gravi misure repressive, e tra queste la pena capitale, al "iudicium populi" riunito in assemblea. Nasce così la “provocatio ad popolum" quale istituto che, dal punto di vista del diritto pubblico romano, é ritenuto uno dei pilastri della costituzione repubblicana. 

Ma ciò che preme sottolineare è che l'ipotesi, più volte discussa dalla dottrina, secondo cui la provocatio avrebbe costituito un'arma di difesa della plebe contro il patriziato, lascia invece il posto alla tesi in base alla quale essa si presta piuttosto come un rimedio introdotto dal patriziato per tutelarsi contro i possibili abusi dei magistrati, pur rimanendo essa accessibile anche ai plebei i quali facevano parte insieme ai patrizi del Popolus Romanus, nonostante, e questo è importante sottolinearlo, i patrizi avessero maggiore monopolio. 

3. La tesi di Luigi Amirante: una diversa prospettiva 

Luigi Garofalo riporta, nella proprio lavoro di ricerca, la tesi tanto singolare quanto affascinante di Luigi Amirante, studioso autorevole e da molto tempo impegnato nel lavoro di studio e di ricerca sulla “civitas" romana. 

Amirante ritiene che i testi degli storici ed esperti di diritto del I secolo a.c., laddove tendono a far risalire la “provocatio ad popolum” intesa quale diritto riconosciuto in via astratta e generale dall’ordinamento giuridico romano alla età regia (Cic. rep. 2,31,54 supra) o ai primordi del periodo repubblicano (Liv. 2,8,2)  non possano reputarsi fededegni. L’autore, nella propria delicata analisi, si riallaccia ad un noto passo di P. Zamorani il quale afferma: “…noi potremo, almeno fino a prova contraria, fare affidamento sui fatti e sugli avvenimenti che gli storici ci raccontano, in quanto la loro menzione è contenuta negli annali e gli scrittori (fatti salvi particolari e dimostrabili motivi) non avevano alcun motivo di alterarli o di inventarli; per converso, tutto quanto non proviene dalle tavole pontificali o rappresenta l’apporto personale dello storico (o di altri, la cui opera sta consultando), ovvero proviene da altra fonte, quale potrebbe essere la tradizione orale, della quale gli stessi Romani diffidavano. Di ciò, pertanto, saremo noi pure legittimati a dubitare”. Il motivo della loro inaffidabilità è da ascrivere all’impegno da questi incessantemente profuso nel “proiettare all’indietro, il più all’indietro possibile” l’istituzione del “ius provocationis" e della “tribunicia potestas” quali elementi caratterizzanti il concetto di civitas libertasque che essi andavano elaborando al fine di soddisfare l’esigenza, insorta a causa dei conflitti sociali dell’epoca, di “esalatare il cittadino romano nei confronti dapprima degli schiavi … poi soprattutto di quanti Romani non sono”. 

L’autore, dopo aver giustificato la premessa iniziale alla sua opera ed eliminato “Cic. rep 2.31,54” in quanto privo di credibilità, si trova dinanzi ad uno scenario privo di qualsiasi altra fonte attestante l’introduzione in età monarchica del “ius provocationis”. Infatti, “Liv. 1,26,7-8” non è da condierarsi, a detta di Amirante, poiché si narra di un singolo e concreto caso di provocatio,. il quale, anche amettendone la storicità, “può tutto al più ricordarci l’autonoma iniziativa di un re, non certo l’esistenza, all’epoca, di un diritto (di provocare) al cittadino condannato dai duumviri”. Si giunge, quindi, ad una prima importante conclusione tratta da Amirante, che consiste nella perentoria e decisa esclusione del ius provocationis dall’età regia, appena mitigato dalla possibilità di qualche sporadica graziosa concessione da parte del rex. 

Amirante nega la storicità della Lex Valeria del 509 a.c., istitutiva del ius provocationis, non senza rafforzare la propria tesi con ulteriori argomenti quali la completa ignoranza di Cicerone in merito a questa legge, il quale “non ne fa menzione in quel excursus del de repubblica (2,54) dove nell’avventura libertaria coinvolge perfino i re”. Ma si potrebbe anche addurre l’improbabile sussistenza di una qualche competenza legislativa in capo all’assemblea curiata nel primo anno della repubblica, o ancora la “poca credibilità” della vicenda di Volerne che interpone la “provocatio ad popolum”, così come tramandato da Dion. Hal. 9,39 , unitamente alla necessità di leggere la descrizione che di essa offre Livio (2,55,4-11). Amirante sottolinea anche la significativa inesistenza di un qualsiasi collegamento tra la supposta provocato e i “iudicia populi” predecemvirali, configuranti invece come processi di natura rivoluzionaria, direttamente instaurati dai tribuni, dinanzi alla assemblea plebea, nei confronti dei patrizi appena usciti di carica al fine di sanzionarne le responsabilità politiche. 

Da ultima, degna di nota, in questa tesi dottrinale, è la assoluta mancanza di una connessione tra l’ipotizzata provocatio e la norma decemvirale, riportata da Cic. leg. 3,14,11 e 3,19,44, in base alla quale “de capite civid nisi per maximum comitiatum … ne ferunto”. Tale disposizione è chiaramente “diretta a sottrarre i magistrati patrizi al giudizio dell’assemblea plebea e quindi a costringere i tribuni a sottoporre le loro iniziative, se volessero continuare a prenderle, al comitatus maximus”. Benché tale congettura non sia affatto nuova alla critica, Amirante ha la lungimiranza di inserirla e di inserirsi in un contesto originale quale quello che evidenzia come a creare il costume di un giudizio popolare è la plebe e non l’esercizio da parte dei cives del diritto di provocare, che “si prende loro assegnato da una legge dl 509 a.c.”

Amirante sottolinea, peraltro, la probabile carenza di potestà legislativa dei comizi centuriati nel 509 a.c. in quanto non riesce agevole supporre che nella “civitas" proto-repubblicana la potestà della produzione normativa in materia pubblicistica venisse solo ed esclusivamente ad essere in via lato sensu consuetudinaria. Da ciò deriva l’idea che resta aperta la possibilità che la Lex Valeria de provocazione del 509 a.c. sia stata emanata da un diverso organo a quel tempo deputato alla funzione legislativa. E, “accompagnando”  a questa tesi l’episodio di Volerone, analizzato in Liv. 2,55,4-11, sembra che, nei decenni immediatamente successivi all’introduzione del ius provocationis, al civid plebeo quale Volerone, non fosse sufficiente la mera pronuncia della provocato ad popolum per ottenere in concreto la sospensione dell’atto di coercizione magistratuale e l’eventuale deferimento della questione al comizio, essendo invece necessario il materiale intervento del popolo, quasi come una “integratio”. 

Così lo “ius provocationis", almeno in origine, avrebbe costituito uno strumento diretto a tutelare il patriziato, pur essendo sancito ed istituito a tutela di tutti i membri della civitas. 

Riguardo la Lex Valeria Horatia del 449 a.c., Amirante si interroga chiedendosi se sia credibile e possibile che l’assemblea centuriata abbia approvato una legge all’indomani della caduta del decemvirato. E, al tempo stesso, se questa legge abbia veramente limitato l’imperium del magistrato patrizio, attribuendo ad ogni cittadino romano il diritto di appellarsi al popolo contro la coercitivo in atto del magistratus. 

 L’autore risponde negativamente a questi due quesiti, assumendo per l’uno che nel 449 a.c. l’assemblea centuriata non aveva ancora competenza normativa e per l’altro che la legislazione Valerio-Orazia ben difficilmente avrebbe potuto attribuire a tutti i cittadini lo ius provocationis adversus magistratura ad popolum, intendendosi qui il magistratus come appartenente al ceto patrizio.

Amirante si sofferma, dunque, sulla Lex Valeria de provocatione del 300 a.c. attraverso l’analisi di un passo di Pomponio nel palese intento di fornire la compatibilità con la tesi della non-veridicità della summenzionata Lex Valeria. Il brano in questione, Pomp. D. 1,2,2,16 , avrebbe la funzione, a detta dell’autore, di mettere in luce il duplice limite imposto al summum ius dei consoli consistente da un lato nella facoltà di “provocatio ab eis” e dall’altro nel divieto di porre a morte un cittadino romano “iniussu” populi.           Ma, appunto, la provocatio cui fa riferimento Pomponio alluderebbe invece al fatto che, essendo due i consoli, si volle costruire il loro potere in modo che in ogni cosa ci si potesse rivolgere ad un console perché si opponesse all’altro.

L’autore passa quindi all’analisi della Lex Valeria de provocatione del 300 a.c., abbinando ad essa un passo di Pomponio D. 1,2,2,23:

“…et quia, ut diximus, de capite civis Romani iniussu populi non erat lege permissiv consolibus ius dicere, propterea quaestores constituebantur a populo, qui capitalibus rebus praeessent: hi appellabantur quaestores parricidi, quorum etiam meminit lex duodecim tabularum”. In questo passo non si parla della provocatio, ma si rinviene quel richiamo alla lex che compare già in Pomp. D. 1,2,2,16, a conferma della sua genuinità, sebbene sia davvero difficile stabilire se questa legge, da identificare presumibilmente con la Lex Valeria del 509 a.c., contemplasse espressamente sia il divieto per i consoli di mettere a morte il civid romanus iniussu populi sia la provocatio.

Amirante sostiene che la Lex Valeria del 300 a.c. sia da reputarsi come l’unica realmente storica in quanto sarebbe la prima a stabilire in materia di provocato ad popolum, dovendosi reputare le due antecedenti come anticipazioni di questa. 

L’autore adduce due importanti argomenti quali la circostanza che questa legge sia la terza che proviene dai Valeri renderebbe palese l’intento di costruire meriti ai Valeri stessi, creandosi così l’ombra sulla storicità delle due precedenti rogationes.

Inoltre l’esiguità della sanzione prevista dalla predetta legge per il magistrato che non rispettasse l’interposta provocatio, risulterebbe in aperta contraddizione con la configurazione della provocato stessa quale istituto giuridico, sin dalla sua pretesa introduzione agli albori del periodo repubblicano o addirittura in età regia quale unico “presidio di libertà” in base a Liv. 3,55,4 e altri autori.

Amirante giunge alla conclusione del suo studio sulla “provocatio ad popolum” manifestando la convinzione che non fosse concesso “al delinquente comune … provocare ad popolum mettendo capo a un processo comiziale”. In base al punto di vista dell’autore, dunque, sarebbe fuori discussione che una “così significativa limitazione alla coercitio del magistrato potesse essere imposta soltanto dove era in gioco la valutazione etico-politica di un comportamento, o comunque la valutazione di un comportamento di un uomo politico o che comunque poteva avere una valenza politica”. 

Tuttavia la dottrina maggioritaria afferma che, non sussistendo alcun ostacolo testuale a considerare applicabile in via generale l’inibizione ai consoli dell’immediata messa a morte del cittadino e la correlativa competenza dell’assemblea popolare a giudicare “de capite civis”, allora si può ritenere che, mediante la provocatio così concepita, il cittadino potesse ricorrere di fronte ad ogni intervento in materia di “res capitales” poichè, come aggiunge   C. Venturini in “Quaestiones”, “pur individuando nella provocatio uno strumento di natura essenzialmente politica, è tuttavia perentorio precisare che da ciò non discende la sua esclusiva ed elitaria applicabilità ai reati politici”.

4. "Provocatio" e sistema processuale 

Il regime della provocatio della Lex Valeria subisce importanti modifiche ad opera delle successive Leges Porciae, delle quali invero poco sappiamo con certezza. Esse, in base ai dati raccolti, potrebbero risalire alla prima metà del II secolo A.C.

Possiamo affermare che si tratta della “Lex Porcia de tergo civium”, dovuta presumibilmente a Catone il Vecchio nel 195 A.C. con cui si stabiliva la possibilità di ricorrere al popolo contro la verberatio come provvedimento autonomo, prevedendo secondo alcuni anche l’abolizione delle verghe contro i cives romani.

L’altra è la Lex Porcia proposta da P. Porcio Leca il quale fu tribuno della plebe nel 199 a.c. e pretore nel 195 a.c. con cui venne estesa l’applicabilità della provocato oltre il primo miglio dal pomerio senza delimitazioni territoriali e anche a favore dei soldati nei confronti del comandante militare; infine si ritiene che queste leges abbiano stabilito a carico del magistrato che non concedesse al cittadino il diritto di provocare.

Si suole inoltre fare una distinzione significativa all’interno del ruolo svolto dalle assemblee popolari con riferimento alla repressione rispettivamente tra perduellio e omicidio.

L’assemblea popolare avrebbe assunto, come  ha sottolineato il Prof. Alberto Burdese, le funzioni di organo giudicante, nel primo caso a seguito di provocatio avverso la repressione dei duoviri perduellionis, mentre nel secondo caso senza provocato a seguito della presentazione della questione al giudizio popolare da parte dei questore par(r)icidii. 

Appare agevole ritenere come il processo comiziale, da o senza provocato, avesse già allora assunto un notevole rilievo e applicazione generale, livellandosi progressivamente la distinzione tra processo comiziale da o senza provocatio. Infatti già nelle XII Tavole vi sarebbe affermato e sancito il divieto di mettere a morte il civis romanus senza processo e senza la generale competenza del “comitatus maximus”, subentrato per importanza all’antico comizio curiato in materia di giudizi capitali.

Alle assemblee venne riconosciuta una competenza in tema di repressione criminale. 

Per quanto riguarda gli illeciti che comportano una pena capitale rimane competente il comizio curiato, mentre per gli illeciti che comportano l’irrogazione di pene pecuniarie di una certa entità, a seguito delle Leges Artenia Tarpeia, Meneia Sextia e Iulia Papiria, si afferma la facoltà di provocare contra la comminazione magistratuale di esse e la relativa competenza dei comizi tributi o dei concilii tributi della plebe. 

Significativamente importante è poi l’osservazione in base alla quale l’ordinamento romano e il quadro fin qui delineato viene ulteriormente “complicato” da un’altro tipo di assemblea popolare, nonostante “de facto” solo nel 494 a.c. eserciti funzioni giudicanti: si tratta di quei giudizi straordinari e rivoluzionari che vengono tenuti davanti alla plebe in concili, non più in comizi. Questi concili non sono rappresentativi della intera civitas ma solo di quella parte di essa che prende il nome di “plebe” in cui le unità votanti non sono né le curie né le centurie ma le tribù. Dinanzi ai tribuni della plebe riunita in tribù, i capi della plebe, che con la lex sacrata del 494 a.c. - legge integrata da un giuramento collettivo detto “sacramentum”- vengono ad essere instaurati come magistratura a presiedere gli interessi della civitas: si pongono in qualità di giudici criminali capitali rivoluzionari.

Davanti alla plebe vennero processati capitalmente soprattutto magistrati accusati di ledere la plebe e di gestire malamente la cosa pubblica a danno della plebe. I processi rivoluzionari sono quei processi che, come si può agevolmente desumere, non si inseriscono nella tradizione della civitas patrizia.

A ciò deve aggiungersi il fatto che la messa a morte del “civis romanus” avviene anche “simil iudicio”, senza cioè l’instaurazione di un processo criminale nell’ipotesi in cui non si vada solo a ledere genericamente la plebe o si ponga intessere da parte dei magistrati patrizi condotte lesive dell’ordine plebeo, ma anche quando venga lesa la “sancrosantitas” dei tribuni della plebe. In tal caso i tribuni della plebe decideranno discrezionalmente se mettere a morte tali soggetti o instaurare un processo criminale per questo.

Ciò che è così degno di nota è che la messa in moto della macchina processuale o la diretta messa a morte avvengono non più per violazione della “pax deorum” propria della età regia, ma per violazioni di natura politica mascherate come “vulnera”: esse sono lesioni di un nuovo tipo di “pax deorum” che indica la relazione tra ordine plebeo e divinità plebee, uno stato di amicizia tra plebe da una parte e Cerere, Libero, Libera dall’altra.

Chi viola, quindi, la persona dei tribuni della plebe moralmente o fisicamente, allora “sacer esto”.

La persona dei tribuni della plebe è resa sacra e inviolabile attraverso lo strumento della sacertà il quale, essendo nato ed essendosi sviluppato come un meccanismo tipicamente patrizio, ora si inserisce in un contesto tipicamente plebeo.

5. Sviluppo della "provocatio" in età imperiale 

Sin dall’inizio del principato augusteo è del tutto scomparso il processo comiziale, di cui abbiamo accennato sopra, ed essendo venuta meno la funzione giudiziaria del comizio, la provocatio, ancora menzionata nella Lex Iulia de vi (di Cesare o addirittura dello stesso Augusto), si trasforma in una sorta di eccezione di incompetenza con cui il cittadino si oppone alla autonoma esplicazione della coercitio magistratuale chiedendo che la competenza sia devoluta d uno specifico organo giudiziario (tribunale senatorio o imperiale).

La originaria provocatio finirà per identificarsi con l’istituto, che si era venuto affermando indipendnetemente, dell’appellatio all’imperatore o ad un tribunale gerarchicamente superiore, contra la sentenza emessa dal tribunale gerarchicamente inferiore.

Quindi in età imperiale la provocatio è ancora attestata, tuttavia bisogna notare come dalle fonti emerga che ormai il popolus è sostituito dall’imperatore e viene inoltre affermandosi una nuova figura più utilizzata: “Cesarem appello”.

Mediante questa “formula”, il cittadino romano, pronunciando queste parole in sede “processuale”, si sottraeva alla giurisdizione del magistrato provinciale e la causa veniva trasferita a Roma, venendo poi giudicato dal relativo prefetto del pretorio nell’Urbe.