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Pubbl. Mer, 18 Mag 2016

I disturbi specifici dell'apprendimento: tra confusione normativa e tutele esclusive negate

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Marco Perasole


L'affannoso e continuo rapporto tra bisogno individuale e prestazione attesa dallo Stato, impone risposte altrettanto personalizzate fondate su politiche sociali "selettive", ma non per questo inique. Tutto ciò lo impone la nostra Carta Costituzionale.


Sono spesso bimbi. Vengono frequentemente scambiati per soggetti distratti, svogliati e addirittura impropriamente invalidi o portatori di handicap, ma così non è. Sono molte volte vittime di risolini e battute quando, leggendo ad alta voce, incespicano in lettere o numeri. Non sempre il sistema scolastico italiano è pronto al supporto verso tali soggetti, e ciò, non certo facilità il loro l'inserimento sociale e la loro crescita psicologica.

È tutt'altro: sono soggetti affetti da "Disturbi Specifici dell'Apprendimento". La Legge 8 ottobre 2010, n. 170 riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici dell' apprendimento, denominati appunto DSA, "che si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana" (Art. 1). Tale normativa segue una serie di provvedimenti legislativi su base regionale emanati a partire dal 2007. La legge n. 170 è una legge "leggera", ovvero una legge quadro, che espone principi generali piuttosto che disposizioni specifiche e dettagliate. Si tratta comunque di un grosso passo in avanti rispetto a tale fenomenologia. Il titolo della legge è eloquente: "Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico". La legge 170/2010 segna una sorta di eccezione nel panorama europeo e, probabilmente, mondiale. E' una delle uniche leggi, se non addirittura l'unica, ad essere specificamente indirizzata a garantire equità di diritti agli studenti affetti da DSA. Per la prima volta, una legge specifica e diversa che si occupa di DSA.

L'art. 1 della legge 170/2010 definisce il diritto dello studente con diagnosi DSA di "fruire di appositi provvedimenti dispensativi e compensativi di flessibilità didattica nel corso dei cicli di istruzione e formazione e negli studi universitari" e, nel luglio 2011 sono stati pubblicati il Decreto attuativo e le Linee Guida ad esso associate, che spiegano in forma chiara e dettagliata tutte le azioni che gli Uffici Scolastici Regionali, le scuole e le famiglie devono attuare per la tutela e il supporto degli soggetti con DSA.

L'art. 3 fa riferimento all'individuazione precoce dei DSA, anche da parte della scuola, previo avviso alle famiglie. Viene poi evidenziato come le ASL siano deputate al rilascio delle certificazioni necessarie, mentre spetta al Ministero dare il via agli screening nelle scuole per individuare i bambini a rischio, il cui esito non è la diagnosi.

L'art. 4 fissa le attività formative per il personale dirigente e docente delle scuole che dovranno avere un'adeguata preparazione didattica, metodologica e valutativa in merito alle problematiche relative ai DSA.

Rilevante è l'art. 5, che specifica le misure educative e le didattiche di supporto come l'uso di una didattica individualizzata e personalizzata o l'introduzione di mezzi compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le tecnologie informatiche, nonché misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali ai fini della qualità dei concetti da apprendere. È previsto pure per l'insegnamento delle lingue straniere, l'uso di strumenti compensativi che favoriscano la comunicazione verbale. Agli studenti con DSA, inoltre, sono garantite, durante il percorso di istruzione e di formazione scolastica e universitaria, adeguate forme di verifica e di valutazione (tempi più lunghi per l'esecuzione delle prove), anche per quanto concerne gli esami di Stato e di ammissione all'università, nonché gli esami universitari.

Inoltre, la legge prevede all'art. 7 la flessibilità dell'orario di lavoro per i genitori di alunni con DSA, limitata però al primo ciclo di istruzione, ossia fino alla terza media, proprio per consentire loro di assistere i figli nei compiti a casa. In ogni caso tale flessibilità deve essere regolata in concreto dai Contratti Collettivi di Lavoro.

La legge 170/2010, l'unica che finora tuteli gli studenti con DSA, è però alquanto generica. Si occupa di stabilire dei principi di massima che attendono di essere sviluppati da leggi particolari ancora da realizzare. È difficile cioè valutare in dettaglio come la legge 170 si comporti nei confronti della piacevolezza, accessibilità, funzionalità, accomodamento, inclusione; l'analisi, è per forza di cose incompleta. In realtà, la legge 170 non si addentra nemmeno nel territorio della didattica: è un terreno che la legge non considera. Ne sia prova la totale assenza ad ogni richiamo di un PDP. La legge 170 si preoccupa, più che altro, di sancire un diritto, quello d'accessibilità degli studenti dislessici all'istruzione e di stabilire una prima misura degli strumenti dispensativi e compensativi. Niente di più.

Ma i DSA, dal punto di vista scientifico e giuridico, sono una forma di disabilità, di invalidità, di handicap?

Lungi dallo scrivente addentrarsi in ambiti medici, psicologici e sociologici per rispondere a codesto interrogativo ma, inevitabilmente, il diritto, al fine di tutelare interessi considerati dall'ordinamento meritevoli di tutela, ha bisogno della scienza.

Per DSA, si intendono quei disturbi attinenti ad alcune abilità specifiche, in assenza di un ritardo mentale o altre patologie neurologiche, che non consentono la completa autosufficienza nell'apprendimento poiché le difficoltà si sviluppano su attività quali la lettura, la scrittura, il calcolo. In particolare, la dislessia consiste nella compromissione della capacità di lettura nei suoi vari aspetti quali precisione, velocità e comprensione di quanto letto. Si tratta di un disturbo tipico dei bambini che si manifesta all'inizio della frequentazione scolastica, generalmente alla fine della II ° classe elementare. Nel bambino dislessico esiste una difficoltà a fissare le corrispondenze grafema-fonema, a velocizzare tale processo e quindi a passare alla fase di decodifica di unità morfologiche. Il bambino che non riesce ad apprendere il meccanismo di conversione grafema-fonema o, se appreso, non riesce ad applicarlo in maniera automatica, non è in grado di leggere in maniera efficiente la parole nuove e quindi non è in grado di costruirsi quel lessico ortografico che rende corretta la lettura. Gli elementi che guidano la diagnosi consistono quindi in un livello di capacità di lettura sostanzialmente al di sotto di quanto atteso considerando l'età del soggetto, il grado di intelligenza ed il tipo di istruzione. Tale affezione interferisce in modo significativo con l'apprendimento scolastico e con le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura. L'eziologia del disturbo non è ad oggi completamente nota, anche se è indubbio che esiste una notevole componente genetica; si ritiene che esistano delle vere e proprie forme di dislessia geneticamente trasmesse, alcuni autori ipotizzano un coinvolgimento del sistema endocrino nella genesi della patologia. 

La disortografia è un insieme variegato di difficoltà nell'abilità di scrittura, nello specifico, consiste nella difficoltà a convertire in simboli grafici (le lettere dell'alfabeto) i suoni del linguaggio verbale.

La discalculia consiste in una difficoltà specifica nell'apprendimento dei concetti logico-matematici; comprende varie forme di disturbo, tutte accomunate da un deficit nelle abilità di elaborazione numerica e di calcolo, con differenze considerevoli per quanto riguarda la natura del deficit e le specifiche abilità compromesse: dalla comprensione dei simboli aritmetici, alla comprensione del valore quantitativo dei numeri; dalla scelta dei dati per la soluzione di un problema, all'allineamento in colonna; dalla semplice memorizzazione di combinazioni tra numeri (come nel caso delle tabelline), all'uso competente delle procedure di calcolo. Le finalità della Legge 170/2010 sono chiaramente improntante a: garantire il diritto all'istruzione; favorire il successo scolastico anche attraverso misure di supporto; garantire una formazione adeguata; promuovere lo sviluppo delle potenzialità del ragazzo; ridurre i disagi relazionali ed emozionali dovuti al disturbo; adottare forme di verifica e di valutazione adeguate alle necessità formative degli studenti; preparare gli insegnanti e sensibilizzare i genitori nei confronti delle problematiche legate ai disturbi specifici dell'apprendimento; favorire la diagnosi precoce e l'adozione di percorsi didattici riabilitativi; incrementare la comunicazione tra famiglia, scuola e servizi sanitari durante il percorso di istruzione e di formazione; assicurare uguali opportunità di sviluppo delle capacità in ambito sociale e professionale.

Sulle cause dei D.S.A. si è molto discusso in questi ultimi anni. Le ricerche più recenti sull'argomento confermano l'ipotesi di un'origine costituzionale dei D.S.A.: una base genetica e biologica dà la predisposizione al disturbo, anche se ancora non ne sono stati precisati i meccanismi esatti. Su di essa contribuisce in modo significativo l'ambiente (inteso anche come ambiente affettivo e socio-culturale dei genitori), nell'amplificare o contenere il disturbo.

Per la diagnosi di tali difficoltà è indispensabile pertanto un'accurata anamnesi familiare e fisiologica al fine di valutare le condizioni sociali, la storia educativa e l'assenza di patologie neurologiche maggiori. Si ritiene inoltre fondamentale la valutazione dell'intelligenza generale con l'uso di test psicometrico e in casi specifici test integrativi finalizzati alla valutazione delle competenze percettive spaziali, motorie, grafo-spaziali, dell'efficienza della memoria visiva ed uditiva, delle capacità di attenzione, delle abilità motorie, della dominanza laterale, delle competenze linguistiche ed infine della capacità di pianificazione. Gli approcci terapeutici sono molteplici e differenti; i principali trattamenti impiegati in clinica si ispirano a modelli neuropsicologici, psicopedagogici, ovvero a modelli psicolinguistici. Il trattamento riabilitativo dovrà essere intensivo nei primi anni di scuola e, ad esso, si faranno poi seguire delle supervisioni periodiche introducendo l'uso di strumenti compensativi quali ad esempio libri parlanti, calcolatrici, registratori, computer ovvero strumenti dispensativi quali ad esempio misure scolastiche di riduzione dell'impegno. Inoltre il programma riabilitativo dovrebbe prevedere un sostegno concreto ai genitori ed una puntuale informazione agli insegnanti, al fine di renderli consapevoli della realtà del problema e di istruirli in modo da garantire al bambino un aiuto adeguato. Il tutto attraverso delle equipe multidisciplinari improntata all'alta specializzazione scientifica, ma anche ad una enorme grado di umanità.

L'attento lettore comprenderà bene come un disturbo specifico dell'apprendimento possa ripercuotersi negativamente sui compiti e le funzioni proprie dell'età del soggetto, valutando quanto la menomazione incida sull'apprendimento linguistico, scolastico, sulle attività sportive e ricreative, sulle relazioni con i coetanei, attività che sono parte integrante del processo evolutivo-maturativo della crescita e della strutturazione della personalità del minore.

E per disabilità, dal punto di vista giuridico, cosa si intende?

Secondo la "Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità" - approvata il 13 dicembre 2006 e ratificata dall'Italia con la Legge 3 marzo 2009, n. 18 – "per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri".

L'articolo 3 della Legge 104/1992, peraltro, definisce la "persona handicappata" come "colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione". Si tratta di una nozione che pone l'accento sulle limitazioni delle facoltà (minorazioni) e lo svantaggio sociale che deriva dalle minorazioni (handicap), dunque sugli elementi che condizionano in negativo la vita della persona disabile. Nella definizione contenuta nella Legge 104/1992 manca, quindi, un riferimento all'ambiente in cui la "persona con disabilità" vive ed interagisce, in rapporto al quale le "menomazioni" devono essere valutate.

In termini molto sintetici, si riconosce il ruolo e l'importanza della menomazione nel determinare una condizione di handicap ma, l'elemento chiave che trasforma la menomazione in una condizione problematica per la persona è costituita dal fatto che questa menomazione crea una condizione di "svantaggio sociale" ovvero una diseguaglianza con le altre persone che si configura come "handicap". L'automatismo secondo cui l'handicap è conseguenza della minorazione è stato fortemente criticato, dal momento che - per esempio - una persona che si muove in sedia a rotelle non ha svantaggio in un ambiente senza barriere.

Mentre invece, si definiscono soggetti handicappati "i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, ... che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà permanenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età." (Art. 2 Legge n° 118 del 30 marzo 1971) e soggetti portatori di handicap coloro i quali siano "affetti da menomazioni fisiche, psichiche e sensoriali comportanti sensibili difficoltà di sviluppo, apprendimento, inserimento nella vita lavorativa e sociale e perciò anche nella scuola che della vita sociale, entro l'arco tre-diciotto anni, rappresenta, accanto alla famiglia, la più importante istituzione". (Sentenza della Corte Costituzionale n° 215 del 3 giugno 1987).

L'Organizzazione Mondiale della Sanità, in un suo manuale per una classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli svantaggi esistenziali, individua opportunamente tre momenti separati, ma coordinati, che intervengono in un processo invalidante:

la menomazione (o minorazione),

la disabilità,

l'handicap (o svantaggio).

La menomazione è un danno organico, una patologia che comporta una non esistenza, o cattivo funzionamento, di un arto o di una parte del corpo, una qualsiasi perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica.
La disabilità è la perdita di funzioni, di una capacità operativa, conseguente alla menomazione, ovvero qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere una attività nel modo o nell'ampiezza considerati normali per un essere umano.
L'handicap è la difficoltà che il menomato, o il disabile, subisce nel confronto esistenziale con gli altri, il disagio sociale che deriva da una perdita di funzioni o di capacità, la condizione di svantaggio conseguente ad una menomazione o ad una disabilità che in un certo soggetto limita od impedisce l'adempimento del ruolo normale per tale soggetto in relazione all'età, sesso e fattori socioculturali.

Si considerano invece, mutilati e invalidi civili "i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo (compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico o per insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali), che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore ad un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età" (Art. 2 L. 118/1971).

Si badi bene, discutere se i disturbi specifici dell'apprendimento siano disabilità, disturbi, patologie o menomazioni, non è prettamente una disquisizione diagnostica e/o puramente terminologica, ma è soprattutto giuridica. Una norma in quanto tale è fonte di tutela e, considerare i DSA una disabilità, aprirebbe automaticamente le porte alle tutele legali riconosciute ai disabili. Un fatto indubbiamente positivo, per lo sviluppo dei soggetti DSA, del loro inserimento sociale e per la conseguenziale normativa di supporto, anche economico alle rispettive famiglie, benché molti sostengano che i DSA non siano da assimilare alle disabilità.

Accostare i DSA alle disabilità appare in parte comprensibile, perché infatti gli studenti e gli adulti con DSA sperimentano "una condizione di svantaggio" rispetto agli individui che la legge definisce "normodotati". In tal modo il DSA diviene immediatamente oggetto di tutela da parte dello Stato e può usufruire dei provvedimenti già ideati a favore dei disabili: non è necessario attendere che vengano create nuove leggi, e si sa, in Italia non è certo breve l'iter legislativo.

D'altro canto, la comunità scientifica e le associazioni pro-dislessia dibattono intensamente sulla validità di tale accostamento.

Anche in ambito giuridico, non può apparire per nulla strano se ne critichi l'accostamento: la già citata legge 170 definisce i DSA come manifestazione di "capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali", pertanto, come poter definire tali disturbi come forme di invalidità, di handicap o di menomazioni? Tale forzato accostamento, è in totale antinomia rispetto a tutte le normative in tema di disabilità, a partire dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla disabilità - che parla di "durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali" per definire la disabilità - per continuare con la legge 104 - che ne definire la persona handicappata parla di "minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva" – e la legge 118 – che nel definire i soggetti handicappati parla invece di "minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, ... che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa".

Dunque, dal punto prettamente giuridico – prima ancora che scientifico -  appare fortemente criticabile assimilare le fattispecie.

Le ragioni che oggi spingono gli operatori del settore nell'accomunare le due figure, forse andrebbero ricercate nell'ambito storico-giuridico.

Tutti i paesi europei hanno promulgato leggi a tutela delle persone disabili prima di quelle a tutela dei DSA. Le disabilità tutelate da queste prime leggi erano ovviamente disabilità visibili, classiche, caratterizzate da più o meno gravi minorazioni fisiche o mentali. Si tratta di leggi che prendevano ispirazione dal modello medico della disabilità. Quando poi si è sentita la necessità di creare provvedimenti che prendessero in considerazione i DSA, il processo naturale – in parte più comodo - fu quello di integrare la legislazione vigente in materia di disabilità con parti più o meno ampie dedicate ai DSA.

In seguito, però, non si sono comunque fatte leggi ad hoc per i DSA, separate da quelle per le disabilità. Qui entra il gioco il vantaggio pratico: si sarebbero dovute riscrivere molte leggi, senza sostanziali differenze se non la dichiarazione di principio che i DSA non sono una disabilità. Inoltre si sarebbero dovute regolare tutele in parte diverse e parallele rispetto a quelle già disponibili per i disabili. Insomma, qualificare i DSA come disabilità è apparsa la strada meno costosa in termini di sforzo legislativo, ma anche economico: semplicemente si è allargato lo spettro delle tutele già previste dalla legislazione vigente, il che non è poi esattamente una cosa negativa se pensiamo ad esempio alla quantità e qualità delle tutele previste per i disabili.

Ma attenzione: nemmeno qualificare ex ante una fattispecie sembra apparire l'approccio metodologico giuridico più giusto. Prendiamo due individui con lo stesso grado di dislessia e immaginiamo che uno lavori come avvocato e l'altro come imbianchino. Viene abbastanza naturale immaginare che un avvocato, nella sua attività quotidiana, debba leggere velocemente una grande quantità di pagine e districarsi all'interno di un archivio fatto, appunto, di pagine scritte. Un imbianchino, invece, durante il suo lavoro si confronterà con la parola scritta probabilmente solo al momento di emettere una fattura o di ordinare materiali per la sua attività. Uno stesso grado di dislessia genera due livelli diversi di difficoltà: seria per l'avvocato, limitata per l'imbianchino. Ora, l'ambiente dell'ufficio dove lavora l'avvocato potrebbe considerare la dislessia come una disabilità piuttosto grave, tale da rendere estremamente difficoltoso il disbrigo dell'attività lavorativa quotidiana. L'ambiente di lavoro dell'imbianchino probabilmente non prenderebbe nemmeno in considerazione il problema, appunto perché non-problema per quel tipo di ambiente.

Pertanto, a parere di chi scrive, appare più giusto aprire la strada a forme diversificate di tutela, ponendo al centro dell'ordinamento l'individuo, la sua personalità - con i suoi disagi – per poi individuare le forme di tutela più opportune rispetto all'ambiente in cui opera, ma non certo qualificare ex ante una fattispecie con la conseguenziale individuazione della legislazione da applicare

Di certo però, il nostro legislatore ci ha messo del suo nel creare confusione.

L'esempio lampante è dato dalla legge n. 289 del 1990 (Modifiche alla disciplina delle indennità di accompagnamento di cui alla legge del 21 novembre 1988, n. 508, recante norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti e istituzione di un'indennità di frequenza per i minori invalidi) con la quale è stata istituita indennità di frequenza, pari per l'anno 2016 ad Euro 279,47 mensili. Le condizioni per il riconoscimento sono: essere mutilati ed invalidi civili minori di anni 18; essere cittadino italiano o UE residente in Italia, o essere cittadino extracomunitario in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo; essere stati riconosciuti "minore con difficoltà persistenti a svolgere le funzioni proprie dell'età" o "minore con perdita uditiva superiore a 60 decibel nell'orecchio migliore elle frequenze di 500, 1.000, 2.000 hertz"; frequenza ad un centro di riabilitazione, a centri di formazione professionale, a centri occupazionali o a scuole di ogni grado e ordine; non disporre di un reddito annuo personale superiore a Euro 4.805,19. La finalità è quella aiutare direttamente le famiglie - a basso reddito –  e indirettamente il soggetto, in modo continuo, per far si che quest'ultimo possa frequentare un continuo o periodico un trattamento riabilitativo o terapeutico.

Come si nota, i requisiti da rispettare appaiono un arma a doppio taglio: non considerare i DSA come delle forme di invalidità potrebbe comportare un diniego per le famiglie con minori affetti da tali disturbi, in quanto significherebbe non rientrare nella fattispecie prevista dalla legge 289/90. Eppure, come si può negare che un soggetto affetto da DSA possa non essere un minore "con difficoltà persistenti a svolgere le funzioni proprie dell'età"?

Sembra a tal proposito ritornare in gioco l'aspetto storico-giuridico e cioè, l'inserimento dell'istituto dell'indennità di frequenza nell'ambito delle prestazioni di cui possono beneficiare invalidi civili minori di anni 18 avviene perché la legge del 1971 sull'invalidità e la legge nr. 289 del 1990 sull'indennità di frequenza precedono la legge 170 del 2010. A ben vedere quindi, l'indennità di frequenza è stata istituita e pensata prima e a dai DSA e, di fatto, si è verificato una mancanza di coordinamento legislativo che ha determinato la confusione odierna, in termini definitori e tutelari per questi ultimi.

Alla luce di quanto appena analizzato, è indispensabile che il legislatore faccia chiarezza sul punto per un legale e giusto riconoscimento delle forme di DSA, avulse dal concetto di disabilità, con l'annessa e specifica tutela ordinamentale che ne derivi in ossequio ad un pilastro del nostro ordinamento, e cioè l'art. 3 Cost. che non appare di troppo riscrivere e rileggere: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E', infatti, compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."