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Pubbl. Mer, 20 Apr 2016

Le circostanze e gli elementi costitutivi del reato: gemelli diversi

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Angela Cuofano


Proviamo a dirimere uno dei conflitti principe del diritto penale: i rapporti fra elementi costitutivi del reato e circostanze. Si tratta di una questione su cui giurisprudenza e dottrina spesso litigano, ma che può avere indubbi risvolti interessanti.


Le circostanze e gli elementi costitutivi: falsi amici.

Vengono definite circostanze quel genere di elementi che vanno ad incidere su un reato già perfetto nella sua struttura, incidendo soltanto sulla cornice edittale della pena. Tale definizione, particolarmente generica, pone non pochi problemi di tipo interpretativo, posto che risulta difficoltoso distinguere le circostanze dagli elementi costitutivi di reato. Il problema principale nasce dal fatto che fra le due fattispecie non esiste alcuna differenza di tipo ontologico-qualitativo. Il legislatore può infatti attribuire allo stesso elemento entrambe le connotazioni tecniche.

Ciò posto, sembra opportuno sottolineare che tale distinzione ha una notevole importanza sul piano pratico, dato che condiziona l’applicabilità di una serie di disposizioni.

Al riguardo, si precisa che le circostanze sono soggette ad un particolare regime d’imputazione, secondo cui le attenuanti sono applicate anche se non conosciute dall’agente, mentre le aggravanti determinano la colpa anche se non conosciute o ritenute inesistenti per errore.

Questa è solo una delle problematiche connesse alla distinzione fra circostanze ed elementi costitutivi del  reato a cui si è tentato di ovviare facendo ricorso a diversi criteri, nessuno dei quali risultato davvero soddisfacente e di cui, di seguito, si darà pur brevemente conto.

Per semplificare l’operazione, in un primo momento, si è fatto ricorso alla tesi della cd. accessorietà. Tale criterio si limita  a sostenere che gli elementi costituivi vadano considerati quali elementi essenziali del reato, capaci di determinare, attraverso la loro presenza o la loro assenza, il sorgere o il venir meno del reato stesso nella sua tipica configurazione; prosegue altresì ritenendo che le circostanze siano elementi accidentali ed, in quanto tali,  irrilevanti ai fini dell’esistenza dell’illecito.

Il limite più importante di tale tesi va rilevato nel fatto che essa non fornisce alcuna indicazione utile, volta a qualificare situazioni di fatto come accidentali o meno rispetto al reato, conseguentemente suscitando anche l’ulteriore problema di stabilire se, a quali condizioni e in base a quali criteri, determinati elementi possano dirsi accidentali o essenziali.

Successivamente, si è optato per la tesi dell’inidoneità a ledere il bene protetto. Secondo tale orientamento, le circostanze andrebbero a ledere la sfera giuridica del bene tutelato dalla norma incriminatrice, mentre gli elementi costituitivi altererebbero il piano dell’offesa.

A tale soluzione, prevalente dottrina ha opposto la necessità di distinguere prima gli elementi costitutivi da quelli accidentali al fine di accertare l’offesa.

Altrettanto insoddisfacente si è rivelata la tesi della diversa struttura della norma. In base a tale posizione, si valorizza una diversa struttura logica della norma che prevede il reato, rispetto a quella che individua le circostanze. La prima, invero, indica un precetto primario, diretto ai consociati, mentre la seconda evidenzia un precetto secondario, rivolto al giudice e rilevante solo per la determinazione della sanzione. La critica maggiore posta alla soluzione in esame sta nel fatto che anche essa si fonda su una astrazione aprioristica, che difficilmente riesce ad avere una concreta rilevanza pratica.

Per tentare quindi di dare una risposta certa, è stato elaborato un ulteriore criterio, detto misto, che attribuisce rilevanza ora all’elemento essenziale del reato, ora alla circostanza. Prima della legge 19/1990, si riteneva che, dato che la responsabilità oggettiva era considerata nel sistema d’imputazione un’eccezione, nel dubbio si dovesse optare per la natura di elemento essenziale che, d’altra parte, avrebbe consentito l’imputazione soggettiva. Secondo autorevole dottrina, tuttavia, tale criterio non convince, poiché, improntato al principio del favor rei, non sarebbe invocabile per le circostanze attenuanti, oltre che difficilmente armonizzabile con la previsione del meccanismo delle circostanze.

Allo stesso modo, si è rivelata dubbia anche la tesi di segno opposto, che propendeva per la natura esclusivamente circostanziale del reato, in base all’art. 25, comma 2, Cost. il quale, in combinato disposto con l’art. 1 c.p., vuole che un fatto sia previsto espressamente come reato dalla legge. Infatti, il richiamo al principio di legalità appare inutile, posto che riguarda anche gli elementi circostanziali, soprattutto nel momento in cui riguardano un aumento della sanzione.

Ultimo criterio che recentemente trova sempre maggiore spazio in dottrina è quello che valorizza il criterio di specialità. Le fattispecie circostanziali si pongono in relazione di specialità rispetto al reato base. Gli elementi specializzanti devono cioè costituire una specificazione, una variante d’intensità. Tra il reato circostanziato e il reato semplice deve sussistere un rapporto di specialità del tipo di coincidenza fra fattispecie e sotto fattispecie. Il primo, infatti, costituirebbe una sotto fattispecie della fattispecie del reato semplice, in cui quindi rientra integralmente come sua ipotesi particolare. Anche tale tesi appare poco convincente, dato che risulta insufficiente a determinare un carattere identificativo unitario delle stesse; si evidenzia a tal proposito che un rapporto di specialità è riscontrabile anche rispetto a figure autonome di reato e non soltanto riguardo a quelle circostanziate.

La giurisprudenza ha, dal canto suo, optato per orientamenti tra loro oscillanti, valorizzando, di volta in volta, diversi aspetti. In particolar modo, la Cassazione ha, con sentenza del 2002, sposato il c.d. criterio strutturale di descrizione delle fattispecie. Nel qualificare l’elemento dubbio, occorre guardare la tecnica di descrizione del comportamento incriminato nel precetto primario della norma incriminatrice; se il legislatore opta per la descrizione per relationem, rinviando ad un fatto descritto in altra fattispecie, ci si troverà davanti ad una circostanza; altrimenti, nel caso in cui ci si trovi di fronte ad una descrizione completa, si potrà parlare di autonomo titolo di reato.

Circostanze e tentativo: un amore così grande.

D’altra parte, non può trascurare che la distinzione ha non pochi precipitati dal punto di vista applicativo, anche per quanto concerne il tentativo. Infatti, l’attribuzione all’elemento specializzante della qualifica circostanziale determina incertezze circa la configurabilità o meno del delitto tentato. Secondo un orientamento abbastanza consolidato in dottrina il tentativo di delitto circostanziato (diversamente dal tentativo circostanziato di delitto) non sarebbe ipotizzabile.

Al riguardo, giova ricordare che si parla di delitto tentato circostanziato quando le circostanze si sono compiutamente realizzate nell’ambito del delitto tentato, mentre  si parla di delitto circostanziato tentato, allorquando le circostanze, pur non essendo state realizzate concretamente, rientrano nel disegno criminoso dell’agente; gli atti compiuti si presentano idonei e diretti in modo non equivoco a commettere il delitto circostanziato.

Ciò posto, per quanto riguarda la problematica in esame, va osservato che pochi problemi si pongono circa  la prima ipotesi, il delitto tentato circostanziato. E’ infatti pacificamente ammesso quando la circostanza si è compiutamente realizzata. Per completezza, va osservato che alcune circostanze comuni sono strutturalmente incompatibili con un delitto non ancora consumato come quelle di cui agli artt. 61 n. 3 e 62 n. 5. Discorso diverso è stato fatto circa le circostanze speciali, la cui applicazione è oggetto di vivaci dibattiti. Parte della dottrina è dell’opinione che al tentativo possano essere attribuite soltanto quelle circostanze che la legge definisce in generale ad ogni reato e non, invece, circostanze speciali; queste ultime sarebbero infatti previste soltanto per determinate figure criminose già consumate, non applicabili dunque al tentativo che costituisce un autonomo titolo di reato.

Maggiormente spinoso è invece il problema della configurabilità del tentativo nel caso di delitto circostanziato tentato. La dottrina prevalente nega ogni rilevanza del tentativo di delitto circostanziato, sulla base di tre considerazioni. Per prima cosa, va rilevato che il nostro ordinamento non conosce la circostanza meramente tentata; tra l’altro, la disciplina obiettiva posta per le circostanze non consente di attribuire rilevanza alla circostanza putativa o ipotetica; in conclusione, ulteriormente a sostegno di tale tesi negativa, si osserva che determinate circostanze incentrate sulla realizzazione di un evento difficilmente si coniugano con il tentativo, che è una forma di reato, in cui necessariamente manca la verificazione del reato.

Di parere opposto si è dimostrata altra parte della dottrina, tra cui Mantovani, la quale ha differentemente optato per la configurabilità del tentativo di delitto circostanziato, sulla base dello stesso art. 56 c.p. Ritiene in proposito che le circostanze rappresentino elementi costitutivi di una nuova fattispecie che si va ad aggiungere a quella base. Ciò posto, il suddetto articolo avrebbe una funzione estensiva, creando nuove figure di delitto tentato, non solo nei confronti della fattispecie semplici, ma anche rispetto a quelle circostanziate, trattandosi nell’uno come nell’altro caso, di autonome fattispecie incriminatrici.

E' possibile il tentativo nel furto di speciale tenuità?

Più spinosa si è invece rivelata la questione circa la possibilità o meno di configurare il tentativo in relazione al reato di speciale tenuità, in particolar modo il furto.

Al riguardo, si sono succeduti in giurisprudenza diversi orientamenti. Secondo una tesi giurisprudenziale maggioritaria, a far data dagli anni ’70 si è fatto strada il principio secondo cui l’attenuante di cui all’art. 62 comma primo, n. 4, c.p., è compatibile con i delitti tentati contro il patrimonio, in genere, e con il delitto di furto tentato, in particolare. A fronte di tale opzione ermeneutica, una corrente minoritaria ha invece sostenuto che, non essendo il danno elemento costitutivo del delitto di furto, l’attenuante in questione non può trovare applicazione in tema di furto tentato, atteso che nel tentativo il danno non è presente. Detto altrimenti, poiché l’attenuante comune del danno di speciale tenuità presuppone indefettibilmente la consumazione del reato e l’esistenza di un danno (effettivo e non ipotetico), quale conseguenza della sottrazione della cosa, essa può essere invocata solo in presenza di furto consumato. Secondo l’orientamento più recente, il giudice deve invece prendere in esame le concrete modalità del fatto, concentrando la sua attenzione sull’oggetto materiale preso di mira, e ciò allo scopo di accertare l’entità del nocumento patrimoniale che il reato, se portato a consumazione, avrebbe cagionato alla persona offesa.

La sentenza S.U. n. 28243/2013.

A dirimere tale contrasto, è intervenuta la Cassazione, nella sua massima composizione nomofilattica, con sentenza n. 28243/2013. Questa pronuncia, dopo aver rimarcato la sostanziale differenzia fra delitto tentato circostanziato e delitto tentato circostanziato, aderisce ad una tesi che si potrebbe definire mista. Invero, le Sezioni Unite precisano che i reati a consumazione anticipata e di pura condotta ammettono la forma circostanziata. Ed infatti, la natura esclusivamente dolosa del delitto tentato comporta che determinate circostanze (aggravanti o attenuanti) ben possono essere presenti nel momento ideativo e volitivo del delitto, come modalità e/o finalità da compiere. Naturalmente è richiesto che la volontà criminosa non rimanga allo stadio di semplice intendimento, ma si manifesti attraverso condotte significative, cui sia collegata una apprezzabile probabilità di successo. Anche le circostanze non realizzate, dunque, contribuiscono a integrare e caratterizzare il proposito criminoso.

Deve trattarsi di circostanze riconoscibili in quel frammento di condotta che il soggetto ha effettivamente posto in essere. Da un punto di vista logico, il giudizio sulla inequivocità degli atti sembra precedere quello sulla loro idoneità, in quanto solo un atto riconoscibilmente diretto a uno scopo può essere valutato sotto il profilo della sua efficacia. Vero è che solo un atto idoneo si presta a un giudizio di tipo teleologico, essendo la potenziale efficacia dello stesso un presupposto per individuarne la finalità. Di talché idoneità e univocità si pongono come due connotazioni dell’agire volontario che, congiuntamente apprezzate, rendono riconoscibile dai terzi e raggiungibile lo scopo perseguito dall’agente. Ma l’azione diretta ad uno scopo ben può inglobare quella che l’ordinamento considera una circostanza del reato, in quanto caratterizzante le modalità della condotta, ovvero in quanto inerente all’oggetto della attività criminosa. Il problema si risolve allora nel vagliare, da un lato, la compatibilità logica e giuridica della circostanza con il tentativo di delitto; dall’altro, in una mera questione di prova, vale a dire nella valutazione della compatibilità in concreto, cioè nel verificare in concreto la ravvisabilità, nell’ambito del singolo episodio criminoso e sulla base delle evidenze raccolte, della circostanza in questione. La soluzione, dunque, non può essere ricercata nella linea meramente astratta e non può essere univoca, in realtà essa dipende e dalla tipologia della particolare aggravante in questione e dallo sviluppo dell’azione posta in essere dall’agente. In alcuni casi è poi assolutamente necessaria la realizzazione dell’evento che costituisce oggetto di quella determinata circostanza ovvero occorre il perfezionamento dei relativi presupposti costitutivi nel frammento di condotta posta in essere dal soggetto agente.

Ed allora, con riferimento alla quaestio iuris posta al vaglio delle Sezioni Unite, il giudice deve avere riguardo alle concrete modalità del fatto e deve accertare che il reato, ove fosse stato consumato, avrebbe cagionato in modo diretto ed immediato, un danno di speciale tenuità, deve cioè farsi riferimento al danno ipotetico che il reato avrebbe cagionato, ove fosse stato perpetrato. La circostanza è, per sua stessa definizione, un elemento satellite del reato che non richiede necessariamente per la sua esistenza che il reato sia stato consumato.

Occorre quindi che l’interprete verifichi la compatibilità della circostanza con la condotta concretamente posta in essere dall’agente, allo scopo di desumere se, sulla base della predetta condotta, la circostanza sia riscontrabile. Si tratta certamente di una valutazione ipotetica, ma non per questo di una valutazione preclusa al giudice. Giova da ultimo ricordare che, sotto il profilo sistematico, il legislatore del 1990 ha notevolmente ampliato l’ambito di applicazione della circostanza attenuante della speciale tenuità, estendendola dai delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, ai delitti determinati da motivi di lucro.

Tale essendo la ratio della circostanza dopo l’innesto normativo del 1990, le Sezioni Unite concludono enucleando il seguente principio di diritto in base a cui, nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità, di cui al n. 4 dell’art. 62 c.p. può applicarsi anche al delitto tentato, sempre che la sussistenza della attenuante in questione sia desumibile con certezza dalle modalità del fatto, in base a un preciso giudizio ipotetico che, stimando il danno patrimoniale che sarebbe stato causato alla persona offesa, se il delitto di furto fosse stato portato a compimento, si concluda nel senso che il danno cagionato sia di rilevanza minima.