Pubbl. Sab, 13 Feb 2016
L´amante che rivela alla moglie il tradimento del marito può integrare il reato di molestie
Modifica paginaNon di rado accade che l’amante, stufa delle promesse dell’uomo o della donna di “lasciare” il proprio partner per vivere una vita insieme, decida o minacci di rivelare la relazione extra coniugale. In taluni casi, e a determinate condizioni, come si vedrà, rivelare alla moglie di un ex amante la propria relazione extraconiugale può far scattare una condanna per molestie. Nota a Cassazione penale, sez. I, del 21/05/2015 (data dep. 03 luglio 2015) n. 28493
Sommario: 1. Il caso – 2. Il reato di molestie e le differenze con il delitto di atti persecutori – 3. La decisione
1. Il Caso
Una donna era stata dichiarata colpevole del reato di cui all'art. 660 c.p. e condannata alla pena di Euro 400,00 di ammenda.
Secondo l'imputazione, la donna aveva effettuato tre chiamate telefoniche in forma anonima verso l'utenza fissa della moglie del suo amante, parlandole di presunte relazioni extraconiugali intrattenute dal di lei marito con la stessa e con altre donne, recandole disturbo e molestia.
Nel corso del dibattimento, la prova era stata tratta dalla testimonianza della persona offesa (la moglie), che aveva presentato querela, e dall'acquisizione dei tabulati telefonici.
La difesa dell’amante, quindi, proponeva ricorso per Cassazione deducendo violazione dell'art. 660 c.p. e vizio di motivazione.
La difesa, in particolare, si chiedeva se due telefonate potessero dar luogo ad un’intromissione continua e ritenersi abituali. Contestava altresì che il connotato minatorio della telefonata, non risultasse affatto dalle parole che la persona offesa aveva riferito.
A parere della difesa, poi, le conversazioni erano state di una certa durata, a dimostrazione che la persona offesa era disposta ad ascoltare e non aveva affatto posto fine ad esse. Logicamente, quindi, la mancata interruzione della conversazione era un dato significativo e dimostrava che la persona offesa voleva avere ulteriori informazioni del comportamento adulterino del marito. Le telefonate non erano state affatto assillanti e l'importanza delle rivelazioni aveva indotto la moglie a proseguire nella conversazione. Del tutto illogicamente, quindi, secondo la difesa, il giudice aveva ritenuto che tale atteggiamento non incidesse sul dolo dell'imputata, mentre faceva dubitare della consapevolezza dell’amante di turbare la sua interlocutrice.
Peraltro, in un secondo motivo di ricorso veniva dedotto vizio di motivazione con riferimento alla attribuita credibilità alla persona offesa che non poteva che provare rancore nei confronti delle donne che le avevano telefonato.
In sintesi, secondo la difesa dell’amante le telefonate non erano state affatto assillanti e l'importanza delle rivelazioni aveva indotto la moglie a proseguire nella conversazione, dimostrando quindi di non sentirsi molestata in alcun modo.
Orbene, la questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte risulta essere quella di valutare se le telefonate effettuate da una donna alla moglie dell’ex amante possano integrare il reato di molestie di cui all’art. 660 c.p.
2. Il reato di molestie e le differenze con il delitto di atti persecutori
Prima di analizzare la decisione della Suprema Corte, appare utile compiere alcune preliminari considerazioni in merito alla disciplina di cui all’art. 660 c.p., il quale, punendo il soggetto che in luogo pubblico o aperto al pubblico, o col mezzo del telefono, reca molestia o disturbo per petulanza o altro biasimevole motivo, mira a prevenire il turbamento della pubblica tranquillità[1] attuato mediante l’offesa alla quiete privata[2].
Nella fattispecie, l’interesse privato individuale riceve una protezione riflessa per l’incidenza che il turbamento della tranquillità pubblica ha sull’ordine pubblico, data la possibilità astratta di reazione.
Sotto il profilo oggettivo occorre rilevare una condotta idonea ad importunare e a determinare la produzione di disturbo e fastidio, derivante dall’interferenza nell’altrui sfera privata o nell’altrui vita di relazione[3], accompagnata da petulanza o da altro biasimevole motivo.
Per petulanza si intende un modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente[4], di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera[5].
Per biasimevole motivo, invece, deve intendersi ogni motivo diverso dalla petulanza che sia del pari riprovevole, in se stesso o in relazione alla qualità della persona molestata, e che abbia su quest’ultima gli stessi effetti della petulanza[6].
Ciò premesso è possibile distinguere dal reato contravvenzionale in analisi la fattispecie delittuosa prevista dall’art. 612 bis c.p., ovvero gli atti persecutori (stalking), che presuppone condotte reiterate di molestia, che determinano un perdurante stato d’ansia, un fondato timore per sé e per i prossimi congiunti ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita.
Per cui nell’art. 612 bis c.p. la molestia contiene già il disvalore giuridico della previsione di cui all’art. 660 c.p. in una sorta di rapporto causa – effetto.
Occorre, poi, sottolineare che mentre nella previsione di cui all’art. 660 c.p. viene genericamente tutelato l’ordine pubblico, invece, con l’art. 612 bis c.p. i beni giuridici tutelati sono la libertà morale del consociato e la sua integrità psicofisica. Circa il requisito della pubblicità del luogo di commissione del reato di cui all’art. 660 c.p. è sufficiente che, indifferentemente, o il soggetto attivo, oppure quello passivo, si trovi in luogo pubblico o aperto al pubblico[7], mentre in relazione al requisito concernente il mezzo telefonico si ritiene che il suddetto reato sia configurabile non solo quando si effettuano in modo ripetuto chiamate, o chiamate mute[8], ma anche quando sia posto in essere mediante l’invio di sms.
Sotto il profilo soggettivo il reato contravvenzionale di cui si discute richiede la sussistenza di un dolo specifico, ovverosia la coscienza e volontà della condotta di agire consapevolmente al fine di molestare o disturbare il soggetto passivo[9] e, quindi, di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà[10].
3. La decisione
Preliminarmente la Suprema Corte afferma che l’amante, in sede di ricorso, ha proposto censure in fatto concernenti il contenuto delle telefonate che il Giudice di prime cure ha adeguatamente valutato o comunque, censure non valutabili dalla Corte di legittimità, come nel caso della contestazione dell'attendibilità della persona offesa.
Peraltro, l'addebito all'imputata delle telefonate è fondato sull'affermazione della persona offesa di avere riconosciuto la voce della donna, che era la stessa nelle tre occasioni.
La Suprema Corte condivide quindi l’assunto del Tribunale in ordine al numero delle chiamate.
Ed infatti il giudice ha affrontato la questione del numero ridotto delle telefonate effettuate, esattamente sottolineando che non si tratta di un dato essenziale per l'integrazione del reato, se non quando è proprio la reiterazione a determinare l'effetto pregiudizievole e aggiungendo che l'idoneità lesiva delle chiamate, nel caso in esame, risiede nel loro contenuto assai grave (rivelazione ad una moglie di ripetute relazioni extraconiugali del marito).
E’ il caso di ricordare poi che il reato di molestia o disturbo alle persone, non configurabile in caso di reciprocità o ritorsione[11], non ha natura di reato necessariamente abituale, giacché può essere realizzato anche con una sola azione idonea a recare molestia[12], non escludendosi, tuttavia, la possibilità che possa assumere tale forma, incompatibile con la continuazione, quando è la reiterazione delle condotte a creare disturbo[13].
In ordine all'osservazione posta in essere dalla difesa secondo cui la mancata interruzione delle conversazioni da parte della moglie dimostrerebbe che essa non era disturbata dalle chiamate perché voleva avere ulteriori informazioni, la Suprema Corte afferma che logicamente il giudice di merito ha affermato che l'atteggiamento della moglie non poteva essere interpretato come acquiescenza, tenuto conto della importanza delle rivelazioni che le erano state fatte.
In altri termini, il fatto che la moglie non abbia troncato la conversazione sin da subito non significa affermare che la stessa non fosse turbata dal contenuto della telefonata.
A parere della Corte, del tutto congetturale è l'affermazione secondo cui la durata delle conversazioni farebbe dubitare della consapevolezza dell’amante di turbare la sua interlocutrice: l'imputata non ha reso dichiarazioni in tal senso e l'ipotesi, del resto, è esposta in termini possibilistici.
Ciò che rileva ancor di più, sarebbero le chiamate effettuate appositamente in forma anonima:
La natura molesta e petulante delle chiamate viene giustamente ricavata dalla forma anonima delle stesse, dal contenuto delle informazioni riferite (che l’amante, nei motivi aggiunti, sostiene incidentalmente essere veritiere: dato che non emerge affatto dagli atti del procedimento e dalla sentenza impugnata che esistesse una relazione extra-coniugale, cosicché resta del tutto indimostrato) e da alcuni passaggi ritenuti - con una motivazione in fatto ritenuta insindacabile - velatamente minatori o comunque tali da prospettare alla moglie futuri inconvenienti.
Che i motivi della condotta fossero biasimevoli è dato insito nello stesso contenuto delle rivelazioni (la presunta amante interveniva pesantemente sulla presunta moglie tradita nel momento in cui il marito aveva – a suo dire - intrapreso altra relazione).
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, è possibile quindi affermare che qualora l’amante decida di rivelare alla moglie della relazione extra-coniugale intrapresa dal marito mediante telefonate anonime, potrà essere imputata del reato di molestie di cui all’art. 660 c.p.
Ciò in quanto la telefonata, pur in forma anonima, ha contenuto particolarmente “importante”, riguardando le informazioni riferite una relazione extra-coniugale ed avendo contenuto anche velatamente minatorio o comunque tale da prospettare alla moglie futuri inconvenienti di natura personale.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 30 ottobre 2007, n. 43704, in www.italgiure.it.
[2] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 9 maggio 2002, n. 25045, in www.italgiure.it.
[3] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 19 gennaio 2006, n. 8198, in www.italgiure.it.
[4] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 26 novembre 1998, n. 13555, in www.italgiure.it.
[5] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 13 febbraio 1998, n. 7044, in www.italgiure.it.
[6] Cass. Pen., Sentenza del 15 giugno 1982, in www.italgiure.it.
[7] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 15 luglio 2009, n. 28853, in www.italgiure.it.
[8] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 1 marzo 2010, n. 8068, in www.italgiure.it.
[9] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 19 maggio 2006, n. 8198; Cass. pen., Sez. I, 12 dicembre 2003, n. 4053, in www.italgiure.it.
[10] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 8 maggio 2012, n. 25033, in www.italgiure.it.
[11] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 6 maggio 2004, n. 26303, in www.italgiure.it.
[12] Cass. Pen., Sez. VI, Sentenza del 23 novembre 2010, n. 43439; Cass. pen., Sez. I, 9 marzo 2009, n. 10409, in www.italgiure.it.
[13] Cass. Pen., Sez. I, Sentenza del 16 marzo 2010, n. 11514, in www.italgiure.it.