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Pubbl. Mer, 10 Feb 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Dignità dell´uomo, dignità dell´imputato e dignità del condannato: l´esperienza in Europa e la parentesi italiana

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Gaspare Dalia
Professore incaricatoUniversità degli Studi di Salerno


Ogni legislatore non può ignorare l´esistenza di un nucleo duro di valori, principi, diritti che segna il limite invalicabile oltre il quale non è concesso spingersi: lo si voglia chiamare ius naturale o lo si voglia altrimenti definire, se il legislatore intacca questo tempio sacro non si potrà mai edificare un ordinamento giuridico moderno e civile, poiché si brancolerà sempre nelle tenebre di uno statualismo opprimente.


Sommario: 1. Intro. - 2. Diritti fondamentali, dignità umana e UE; 3. E-bulletin sep. '15; 4. La dignità dell'imputato: la piaga del sovraffollamento e la sentenza Torreggiani; 5. Le ricadute sulla scena internazionale; 6. Il sistema delle misure cautelari e la riforma del 2015; 7. La corte dei diritti dell'uomo torna a pronunciarsi sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti: l'inadeguatezza degli standard di tutela delle condizioni di salute del detenuto integrano una violazione dell'art. 3 CEDU; 8. CGUE su prescrizione; 9. La dignità del condannato; 10. Cassazione 2014: il caso del "maniaco".

1. Intro: la dignità dell'uomo come pietra angolare per la costruzione di un sistema rispettoso dei diritti fondamentali

Si può ben dire che il diritto moderno trovi il suo fondamento nell'esigenza di difendere e sviluppare la personalità dell'individuo, garantendogli la possibilità di vivere in una società ordinata, sicura [1], capace di fornire a ciascuno gli strumenti e le occasioni necessari per assecondare le naturali inclinazioni, ma capace anche di rispondere agli accadimenti patologici – quali ad esempio la commissione di un crimine – sostituendo alla brutale vendetta privata una punizione legale irrogata all'esito di un accertamento condotto secondo ben specifiche regole e, dunque, con ben specifiche garanzie.

Cosa deve essere indefettibilmente tutelato, dunque, da uno ius positum moderno e che, cioè, abbia fatto tesoro della drammatica esperienza del secondo conflitto mondiale?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo tener conto che l'esperienza nazi-fascista ha dimostrato che un diritto statuale superiorem non reconoscens può generare l'annientamento dei diritti fondamentali dell'individuo. Ogni legislatore, quindi, non può ignorare l'esistenza di quel "nucleo duro" di valori, principi, diritti che segna il limite invalicabile oltre il quale non è concesso spingersi: lo si voglia chiamare ius naturale o lo si voglia altrimenti definire, se il legislatore intacca questo "tempio sacro" non si potrà mai edificare un ordinamento giuridico moderno e civile, poiché si brancolerà sempre nelle tenebre di uno statualismo opprimente.

Cosa dunque dovrà porre a suo fondamento un diritto positivo che voglia affrancarsi da questa condizione? Senza dubbio, la dignità umana.

Il riconoscimento del primato e dell'inviolabilità della dignità umana, infatti, rappresenta l'unico basamento su cui è possibile erigere utilmente un castello fortificato a protezione dei diritti fondamentali: se non si acquisisce contezza del valore inestimabile che deve attribuirsi ad ogni singolo individuo per il semplice fatto che questo esiste, risulterà estremamente arduo – per non dire impossibile – pervenire alla costruzione di un sistema realmente rispettoso dei diritti umani. Riconoscere i diritti fondamentali, infatti, è operazione oltremodo agevole, quasi "banale": tutelare i diritti fondamentali, implementando scelte normative effettive che di essi siano rispettosi, invece, è fatica di portata quasi erculea.

Cosa significa, tuttavia, "dignità" di un uomo?

Significa essenzialmente agire tenendo ben presente che l'uomo non dovrà mai esser trattato come mezzo, ma sempre come fine: l'uomo non può mai essere strumento di qualcos'altro. A riguardo, riecheggiano stentoree le parole di Kant: nel regno dei fini ogni cosa o ha un prezzo o ha una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere rimpiazzato da qualcosa di equivalente; ciò che dall'altro lato si innalza su ogni prezzo e dunque non ammette alcun equivalente, ha dignità. [2]

La dignità, quindi, è valore senza prezzo: riconoscere la dignità dell'uomo, di ogni singolo uomo, significa riconoscere che egli è senza prezzo, dunque insostituibile, poiché non ammette alcun equivalente.

Illuminante, a riguardo, è una vicenda normativa che ha interessato la Repubblica federale tedesca dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001 al WTC di New York. Il legislatore aveva adottato una legge [3] con la quale si consentiva all'aeronautica di abbattere eventuali aerei dirottati, ancorché con passeggeri a bordo, per evitare in territorio tedesco fatti analoghi a quelli verificatisi negli USA. Adita a riguardo la Corte Costituzionale federale, il Luftsicherheitsgesetz è stato dichiarato incostituzionale proprio nella parte in cui autorizzava il Ministro della difesa tedesco a ordinare all'aeronautica militare, in caso di necessità, l'abbattimento di un aereo civile qualora sulla base delle circostanze si dovesse ritenere che l'aereo sarebbe stato impiegato «contro la vita di esseri umani» (art. 14, co. 3, del Luftsicherheitsgesetz). Nella sua decisione [4] il Bundesverfassungsgericht ha fatto richiamo proprio alla dignità umana, affermando che i passeggeri innocenti a bordo e gli altrettanto innocenti membri dell'equipaggio non possono essere chiamati a rispondere dell'aggressione posta in essere dai dirottatori ovvero dai terroristi. Non v'è alcun calcolo o bilanciamento che possa giustificare il sacrificio della loro vita a favore della vita altrettanto innocente delle possibili future vittime dell'attentato terroristico. I giudici costituzionali tedeschi hanno quindi indicato al Governo e al Parlamento tedesco invalicabili confini, rammentando loro la indefettibile portata dell'art. 1 della Legge fondamentale, secondo cui "la dignità umana è inviolabile".

E, d'altronde, anche dalle semplici scelte linguistiche adottate dalle Carte fondamentali si può ben percepire l'anelito a fare dell'uomo il baricentro del sistema: l'art. 2 della Costituzione della Repubblica Italiana, ad esempio, sancisce che "l'Italia riconosce i diritti inviolabili dell'uomo …".

Lo stato, dunque, si limita a riconoscere dei diritti che stabilisce essere a lui preesistenti e sui quali, conseguentemente, non può incidere.

La dignità umana, dunque, si pone quale un diritto intimo, autoevidente ed insopprimibile.

2. Diritti fondamentali, dignità umana e UE

La garanzia dei diritti fondamentali è oggi uno dei principi di base dell'ordinamento giuridico dell'Unione europea.

Sebbene troppo a lungo i trattati europei non abbiano riportato alcun elenco scritto di tali diritti, si è pressoché da sempre fatto riferimento alla tutele e agli orientamenti della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e ci si è parimenti richiamati ai diritti fondamentali derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, qualificandoli principi generali del diritto comunitario.

Non può tacersi, inoltre, che anche la Corte di giustizia dell'Unione europea ha contribuito ampiamente con la sua giurisprudenza allo sviluppo e al riconoscimento dei diritti fondamentali.

Con l'entrata in vigore del trattato di Lisbona alla fine del 2009, comunque, la situazione si è sensibilmente evoluta dal punto di vista di un pieno riconoscimento anche formale: l'Unione si è dotata infatti di una Carta dei diritti fondamentali che ha ormai valore giuridico vincolante.

L'articolo 2 del trattato sull'Unione europea (TUE) rende esplicito che «l'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze».

All'art. 6, poi, si aggiunge che «l'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali [...] I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali».

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU) è una carta adottata in seno al Consiglio d'Europa, una organizzazione distinta rispetto all'Unione europea e alla quale aderisce un numero ben più ampio di paesi [5]. Per lungo tempo, tuttavia, il rapporto tra l'Unione e la CEDU è risultato piuttosto problematico, non avendo quest'ultima (né le pronunce della CtEDU) pieno valore legale all'interno del diritto UE.

Com'è noto, tuttavia, queste criticità sono state di recente superate attraverso la previsione di un obbligo di adesione della UE e ciò ha determinato una sensibile accelerazione nel processo di innalzamento degli standard di tutela dei diritti fondamentali all'interno dell'Unione: l'adesione, infatti, comporterà la sottomissione dell'Unione in materia di rispetto dei diritti fondamentali al controllo di una giurisdizione esterna all'Unione stessa – quella della Corte europea dei diritti dell'uomo (CtEDU) – istituzione specializzata nel campo della protezione dei diritti fondamentali, come del resto già avviene per gli stati membri.

L'UE, contestualmente, si è poi dotata di una propria Carta (cd. Carta di Nizza) che dal dicembre 2009 è giuridicamente vincolante e gode dello stesso valore giuridico dei trattati in conformità dell'articolo 6 del TUE.

La peculiarità di questa Carta sta nel fatto che i diritti in essa sanciti non costituiscono una novità: le sue disposizioni rappresentano il cd. «diritto costante», ossia la sintesi dei diritti fondamentali già riconosciuti dai trattati comunitari, dei principi costituzionali comuni agli Stati membri e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, nonché delle Carte sociali dell'Unione e del Consiglio d'Europa.

3. E-bulletin sep. '15

Sebbene dunque molta strada sia stata percorsa dalle istituzioni europee per implementare un sistema di tutela dei diritti fondamentali – quindi in ultima istanza della dignità umana – il traguardo appare ancora piuttosto lontano.

Per rendersi conto di quanto lavoro vi sia ancora da fare, basterà un rapido sguardo all' E-bulletin [6] dell'ICJ [7]. L'organizzazione, infatti, pubblica periodicamente un rapporto riepilogativo delle sue attività che risulta straordinariamente utile per comprendere quale sia il livello effettivo di implementazione e tutela dei diritti umani nelle varie parti del mondo. Se, come forse appare legittimo attendersi, molti risultano essere gli interventi occorsi in Africa e nel Medio Oriente, potrà risultare sorprendente constatare come diversi siano i warnings relativi all'area europea[8], soprattutto dovuto alle misure eccezionali di cui i governi europei vanno dotandosi per opporsi alle minacce terroristiche di matrice islamica (UK, Svezia, Turchia, Russia e, sebbene non menzionate nel documento, vi si potrebbero includere anche l'Italia e la Francia).

Questi dati evidenziano in maniera inequivocabile il rischio ancora del tutto attuale che di fronte a situazioni di emergenza si ritenga di potere (o dovere) accantonare il primato della persona in nome di esigenze "superiori", dimenticando che nel momento in cui alla dignità è assegnato un prezzo essa viene del tutto svalutata nella sua essenza.

4. La dignità dell'imputato: la piaga del sovraffollamento e la sentenza Torreggiani

Se dunque la dignità umana rappresenta un valore assolutamente irrinunciabile, non sarà difficile intendere come essa vada protetta con misure ad hoc, allorché se ne verifichi una messa a repentaglio.

Infatti, nel momento in cui l'individuo si viene a trovare in particolari condizioni, dove la sua vita dipende dalle scelte di altri, è evidente che la dignità umana possa facilmente essere svilita: se, come si usa dire, ogni processo è una pena certa per un reato incerto, ecco che il giudizio penale rappresenta probabilmente il luogo per antonomasia in cui tale valore può subire attacchi anche di non lieve portata.

E se è lecito ritenere che già solo il coinvolgimento dell'imputato in un procedimento penale ne metta a repentaglio la dignità, facile sarà intendere come questo pericolo risulti gravissimo nel momento in cui il soggetto dovesse essere destinatario di una misura cautelare, soprattutto nel caso della custodia cautelare in carcere. Nel momento in cui varca le soglie dell'istituto carcerario, infatti, l'individuo viene completamente assoggettato ad un regime estremamente stringente: le prescrizioni comportamentali regolano pressoché ogni attività e il trascorrere del tempo inevitabilmente si dilata nel corso di giornate l'una identica all'altra.

In un tale contesto, il pericolo più grande si individua nella possibilità che l'individuo venga bestializzato o, peggio, reificato: se l'uomo perde la sua identità e diviene null'altro che il suo numero di matricola, se imputati [9] e condannati condividono le stesse celle [10], se il "prevenuto" viene "dimenticato" nella sua cella complicandone la partecipazione al processo o l'elaborazione della strategia difensiva, se cioè la custodia cautelare diviene poena ante (o sine) iudicium, evidentemente la dignità umana subisce un pregiudizio gravissimo, che probabilmente non è neppure quantificabile.

In questo girone dantesco di abbruttimento della persona umana, il colpo di grazia è costituito dalle condizioni che spesso sono riservate ai detenuti (imputati o condannati, in questo caso la differenza è del tutto irrilevante).

Il problema del sovraffollamento delle carceri ha assunto in Italia dimensioni di vera emergenza negli anni 2000: i dati disponibili, infatti, sono eloquenti. Nel 2011 nelle carceri italiane erano detenute 67.437 persone, contro una capienza regolamentare di 45.281. Queste cifre valevano all'Italia il triste primato europeo per sovraffollamento carcerario, pari al 140% e la medaglia d'argento in quanto a numero di detenuti imputati non ancora giudicati colpevoli in via definitiva, essendo le persone carcerate in attesa di giudizio addirittura il 44% del totale dei detenuti. L'insostenibilità di tale situazione era ribadita dal dato secondo cui nel 2011 nel solo Lazio si erano registrati numeri terrificanti per quanto riguarda i tentati suicidi avvenuti in carcere: a fronte di soli 8 casi nel 2010, nel 2011 se ne registrarono ben 97, cui vanno aggiunti 309 casi di atti di autolesione compiuti da parte delle persone detenute [11].

Ancora, nel 2013 i dati, seppur in miglioramento, risultavano assolutamente inaccettabili per un paese civile: a fronte di una capienza elevata a 47.709, i detenuti risultavano essere 62.536, di cui ancora oltre 11.000 in attesa di giudizio. [12]

I dati sono ancor più critici se si considera che, al 31 dicembre 2013, erano stati già ben 13.044 i detenuti che avevano potuto lasciare gli istituti in virtù della L. 199/2010, cd. "sfolla carceri" [13]. In una tale situazione di "intasamento" del sistema penitenziario, è facile intuire quanto degradanti potessero essere le condizioni cui erano costretti i detenuti (vale la pena ribadirlo, anche quelli non ancora riconosciuti colpevoli da un giudice della Repubblica, ma solo in stato di custodia cautelare, ossia per carcerazione preventiva).

Il 2013, tuttavia, è un anno centrale per le sorti dei detenuti italiani (e non solo), poiché l'8 gennaio la Corte Europea per i Diritti dell'Uomo pronuncia una sentenza destinata a divenire storica.

La decisione della Corte – destinata a divenire nota come "sentenza Torreggiani" – si originava da sette ricorsi presentati nel 2009 da altrettanti detenuti che lamentavano di occupare celle di 9 m² con altre due persone, disponendo quindi di uno spazio personale di 3 m². Nei loro ricorsi, sostenevano inoltre che l'accesso alla doccia nel carcere era limitato a causa della penuria di acqua calda nell'istituto penitenziario. Nelle doglianze si rappresentava anche che nelle celle non vi era luce sufficiente a causa delle barre metalliche apposte alle finestre, con evidente e grave pregiudizio per la salute fisica e psichica.

Esaminati i ricorsi, la II Camera della Corte ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). Anche il giudice italiano, Guido Raimondi, ha sostenuto la decisione, che è stata quindi approvata all'unanimità.

Sul punto il giudice di Strasburgo osserva che sebbene di solito le misure privative della libertà comportino per il detenuto alcuni inconvenienti, "la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l'articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell'assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l'interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d'intensità che ecceda l'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente (Kudła c. Polonia [GC], n. 30210/96, § 94, CEDU 2000-XI; Norbert Sikorski c. Polonia, § 131)." Dunque "quando il sovraffollamento carcerario raggiunge un certo livello, la mancanza di spazio in un istituto penitenziario può costituire l'elemento centrale da prendere in considerazione nella valutazione della conformità di una data situazione all'articolo 3 della Convenzione".

Così, quando si è dovuta occupare di casi di sovraffollamento grave, la Corte ha giudicato che tale elemento, da solo, basta a concludere per la violazione dell'articolo 3 della Convenzione. Di norma, sebbene lo spazio ritenuto auspicabile dal CPT [14] per le celle collettive sia di 4 m², si tratta di casi emblematici in cui lo spazio personale concesso ad un ricorrente risulta inferiore a 3 m² (Kantyrev c. Russia, n. 37213/02, §§ 50-51, 21 giugno 2007; Andreï Frolov c. Russia, n. 205/02, §§ 47-49, 29 marzo 2007; Kadikis c. Lettonia, n. 62393/00, § 55, 4 maggio 2006; Sulejmanovic c. Italia, n. 22635/03, § 43, 16 luglio 2009).

Invece, in cause in cui il sovraffollamento non era così serio da sollevare da solo un problema sotto il profilo dell'articolo 3, la Corte ha rilevato che nell'esame del rispetto di tale disposizione andavano presi in considerazione altri aspetti delle condizioni detentive. Tra questi elementi figurano la possibilità di utilizzare i servizi igienici in modo riservato, l'aerazione disponibile, l'accesso alla luce e all'aria naturali, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base.

Peraltro regole specifiche per le condizioni dei detenuti si ricavavano dalla Raccomandazione adottata dal Comitato dei Ministri raccomandazione agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee dell'11 gennaio 2006. Nei suoi passaggi pertinenti al caso di specie essa è così formulata:

 «18.1 I locali di detenzione e, in particolare, quelli destinati ad accogliere i detenuti durante la notte, devono soddisfare le esigenze di rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata, e rispondere alle condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche, in particolare per quanto riguarda la superficie, la cubatura d'aria, l'illuminazione, il riscaldamento e l'aerazione.

18.2 Nei locali in cui i detenuti devono vivere, lavorare o riunirsi:
a. le finestre devono essere sufficientemente ampie affinché i detenuti possano leggere e lavorare alla luce naturale in condizioni normali e per permettere l'apporto di aria fresca, a meno che esista un sistema di climatizzazione appropriato
b. la luce artificiale deve essere conforme alle norme tecniche riconosciute in materia; e un sistema d'allarme deve permettere ai detenuti di contattare immediatamente il personale».

Così, persino in cause in cui ciascun detenuto disponeva di uno spazio variabile dai 3 ai 4 mq, la Corte ha concluso per la violazione dell'articolo 3 allorché la mancanza di spazio risultasse accompagnata da una mancanza di ventilazione e di luce (Moisseiev c. Russia, n. 62936/00, 9 ottobre 2008; si vedano anche Vlassov c. Russia, n. 78146/01, § 84, 12 giugno 2008; Babouchkine c. Russia, n. 67253/01, § 44, 18 ottobre 2007); da un accesso limitato alla passeggiata all'aria aperta (István Gábor Kovács c. Ungheria, n. 15707/10, § 26, 17 gennaio 2012) o da una mancanza totale d'intimità nelle celle (si vedano, mutatis mutandis, Belevitskiy c. Russia, n. 72967/01, §§ 73-79, 1° marzo 2007; Khudoyorov c. Russia, n. 6847/02, §§ 106-107, CEDU 2005-X e Novoselov c. Russia, n. 66460/01, §§ 32 e 40-43, 2 giugno 2005).

La CtEDU, dunque, applicando la una giurisprudenza in materia di trattamento inumano o degradante a danno di detenuti (assistita anche dagli standard in materia elaborati dal CPT del Consiglio d'Europa), conclude che i ricorrenti sono stati oggetto di una violazione, da parte dell'Italia, dell'art. 3 CEDU.

In particolare, la prassi del CPT individua in 4 m² la misura accettabile di spazio libero a disposizione di un singolo detenuto. Al mancato rispetto di tale standard va aggiunta la situazione di sovraffollamento, che non consentiva alternative a tale situazione, nonché la presenza di altri significativi disagi quanto all'accesso all'acqua calda per l'igiene personale e ad un'illuminazione sufficiente.

La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi (ammessa dal Governo), nonché l'illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza (sulle quali il Governo non si è espresso) avevano causato nei ricorrenti ulteriori sofferenze, comunque rilevanti, benché non costituenti di per sé un trattamento inumano e degradante.

Fondamentale è anche rilevare come la Corte, pur ammettendo che "nel caso di specie niente suggerisce che vi sia stata intenzione di umiliare o di degradare i ricorrenti", aggiunge che "l'assenza di un tale scopo non può escludere una constatazione di violazione dell'articolo 3": la Corte ritiene che le condizioni detentive in questione, tenuto conto anche della durata della carcerazione dei ricorrenti, abbiano certamente sottoposto gli interessati ad una prova d'intensità superiore all'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione.

In conclusione, non può non affermarsi che vi è stata violazione dell'articolo 3 della Convenzione [15].

Ciò che appare particolarmente significativo, comunque, è che la Corte ha qualificato tale decisione come "sentenza pilota". Quanto riscontrato nella sentenza Torreggiani in relazione ai sette ricorrenti troverà pertanto applicazione in futuro in relazione alla generalità dei reclami pendenti davanti alla Corte e non ancora comunicati alle parti riguardanti l'Italia e aventi ad oggetto analoghe questioni di sovraffollamento carcerario, nonché a quelli che le saranno sottoposti nei prossimi tempi relativi allo stesso problema.

Questo è il principale elemento di distinzione tra tale sentenza e quella emessa il 16 luglio 2009 nel caso Sulejmanovic c. Italia (ric. n. 22635/03), che costituisce il suo precedente diretto.

La procedura delle sentenze pilota, fondata sull'art. 46 CEDU, comma 1, è attualmente disciplinata dall'art. 61 del Regolamento della CtEDU [16]: vi si ricorre allorché il caso particolare evidenzi l'esistenza di un problema sistematico derivante da una prassi statale incompatibile con la CEDU e suscettibile di interessare un vasto numero di persone.

In effetti, partendo dal presupposto che pendevano dinanzi alla Corte oramai svariate centinaia di ricorsi simili a quello in esame, ecco che si marcava la necessità di indicare misure generali che lo Stato è chiamato ad adottare per evitare il protrarsi o il ripetersi di violazioni dell'art. 3 CEDU.

In Torreggiani, più specificamente, la CtEDU incoraggia l'Italia ad agire per ridurre il numero dei detenuti, prevedendo, in particolare, l'applicazione di misure punitive non privative della libertà personale in alternativa a quelle che prevedono il carcere e riducendo al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere (§ 94).

La CtEDU decide poi di fissare in un anno il tempo entro il quale l'Italia dovrà provvedere ad adottare le misure raccomandate [17]. Tali misure devono garantire il rispetto degli standard e dei principi che guidano la giurisprudenza della CtEDU (compresi quindi gli standard elaborati e raccomandati dal CPT).

Il caso Torreggiani, dunque, se da un lato esprime una linea intransigente da parte delle CtEDU nei confronti dell'Italia sul problema del sovraffollamento delle carceri, dall'altro si staglia quale invalicabile baluardo a tutela della dignità umana, escludendo che le pur fisiologiche sofferenze che lo status detentionis comporta possano giungere fino al punto di compromettere la dignità umana.

La decisione della Corte di qualificare come "sentenza pilota" Torreggiani, poi, rappresenta la presa d'atto del Giudice di Strasburgo che le misure adottate dall'Italia dopo il 2010 non sono risultate essere vere riforme strutturali del sistema penitenziario e penale, quanto – più modestamente – interventi emergenziali e, come tali, inidonei ad operare efficacemente e in modo duraturo nella direzione indicata.

La sentenza, quindi, rappresenta un forte richiamo al Legislatore affinché eviti di intervenire solamente in condizioni critiche con misure volte a tamponare l'emergenza ma incapaci di esprimere una progettualità politica di medio-lungo periodo, progettualità che risulta invece condicio sine qua non per la risoluzione vera delle criticità strutturali del sistema.

5. Le ricadute sulla scena internazionale

Non può nascondersi come la sentenza pilota della Corte di Strasburgo, Torreggiani e altri c. Italia, abbia inciso pesantemente sull'immagine e sulla credibilità dello Stato italiano a livello internazionale: in alcune pronunce dei giudici inglesi [18], ad esempio, si nega l'estradizione in Italia per l'esecuzione della pena nella struttura carceraria di destinazione, causa l'elevato rischio di trattamenti disumani e degradanti in violazione dell'art. 3 CEDU.

Ecco allora che la sentenza pilota della Corte di Strasburgo assume una portata tale da esplicare i propri effetti addirittura al di là delle previsioni della Corte stessa, poiché si dimostra capace di incrinare anche relazioni internazionali di lungo corso intercorrenti tra gli Stati membri della Convenzione.

Il filone Torreggiani e la creazione di un modello sanzionatorio rispettoso della dignità dell'individuo e finalizzato al suo recupero

Ovviamente non deve credersi che la situazione italiana rappresenti per l'Europa l'unico neo di un sistema per il resto pienamente rispettoso della dignità dell'individuo. Oltre all'Italia, infatti, hanno riportato sentenze di condanna il Belgio, la Bulgaria e l'Ungheria. Proprio lo stato magiaro è stato condannato, analogamente a quanto avvenuto per l'Italia, con una sentenza pilota in materia di sovraffollamento carcerario.

Con la pronuncia del 10 marzo 2015, infatti, i giudici di Strasburgo hanno condannato l'Ungheria per la violazione dell'art. 3 CEDU per aver sottoposto i detenuti a trattamenti inumani e degradanti a causa del sovraffollamento carcerario[19].

Il fenomeno del sovraffollamento carcerario in Ungheria, infatti, si appalesa sì grave da trascendere il carattere episodico e raggiungere una dimensione effettivamente patologica. Sulla scorta di queste premesse e in presenza di una situazione analoga a quella censurata con la sentenza Torreggiani, dunque, la Corte EDU ritiene di dovere provvedere ad adottare una sentenza pilota [20]: vengono quindi indicate allo stato le misure di carattere generale da adottarsi per porre termine ad una inaccettabile violazione dei diritti umani e, anche in questo caso, la Corte suggerisce di limitare al massimo l'uso della pena detentiva sia in fase cautelare sia in sede di condanna definitiva, consigliando l'implementazione delle misure alternative non custodiali.

Per quanto riguarda invece la tempistica, la Corte assegna all'Ungheria sei mesi di tempo dalla definitività della sentenza per adeguare il proprio ordinamento giuridico agli standard di tutela dei diritti umani della CEDU.

Tornando all'esperienza italiana, va segnalato che la Corte ha accolto con favore il c.d. "Piano d'azione" del 27 novembre 2013, con cui il Governo italiano prospettava un intervento organico per la risoluzione del problema del sovraffollamento carcerario e ha ritenuto che le riforme poste in essere dal legislatore italiano, a partire dal 2013 fino ad oggi, abbiano avuto una ricaduta positiva sull'ordinamento giuridico in termini di riduzione della popolazione carceraria.

Secondo i dati ufficiali riportati dal Ministero della Giustizia, in effetti, al 28 febbraio 2015 si registravano 53.982 detenuti, a fronte delle 67.961 unità presenti nelle strutture penitenziarie nel 2010 e delle 66.585 unità nell'aprile del 2012.

In attuazione del piano preannunciato ed in risposta alla dead line imposta dalla CtEDU, l'Italia ha adottato il 24 aprile 2014 una road map aggiornata in cui vengono esposte tutte le misure prese e quelle in via di attuazione, i dati sulla popolazione carceraria, sulla capienza delle carceri, e sul sovraffollamento, il piano di costruzione e di ristrutturazione degli istituti di pena, oltre che le iniziative prese per migliorare la qualità di vita dei detenuti.

Nel documento, poi, il Governo si è impegnato a introdurre un sistema per compensare chi ha sofferto a causa del sovraffollamento.

Importante è mettere in evidenza come appaia finalmente ben chiaro al legislatore che la soluzione al problema non possa essere individuata solamente in una estensione del numero di posti disponibili o semplicemente nella riqualificazione delle strutture esistenti. Occorre, infatti, per un verso lavorare sullo sviluppo di pene alternative, per altro verso ripensare in maniera organica il sistema delle misure cautelari.

6. Non è, dunque, semplicemente un problema di risorse.

Stando ai dati aggiornati al 30 settembre 2015, infatti, i numeri del sovraffollamento hanno subito un deciso miglioramento: a fronte di una capienza di 49.585 posti, attualmente risultano detenute 52.294 persone.

Il calcolo tuttavia, restituisce un sovraffollamento decisamente meno grave di quello degli anni passati, poiché il Ministero della Giustizia tiene a precisare che "i posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 m² per singolo detenuto + 5 m² per gli altri, lo stesso per cui in Italia viene concessa l'abitabilità alle abitazioni, più favorevole rispetto ai 7 m² + 4 stabiliti dal CPT". 

Anche il numero dei soggetti che usufruiscono di misure alternative alla detenzione è significativamente aumentato: a fronte degli 11.000 del 2008, se ne registrano oltre 31.000 al 30 settembre 2015.

Il sistema, dunque, sembra tornato quantomeno sotto controllo grazie a una serie di interventi del Parlamento [21] adottati prendendo atto che "bisogna lavorare sullo sviluppo delle pene alternative: nel resto d'Europa il carcere non è l'unica soluzione, ce ne sono altre più efficaci e più convenienti per la comunità[22].

Sulla scorta di queste premesse, quindi, si è provveduto lungo plurime direttrici: si è ampliato il ricorso ai cdd. braccialetti elettronici [23], è stata prevista un'attenuante per il cd. "piccolo spaccio", è stato allargata la fruibilità dell'affidamento in prova [24] ed è stata introdotta la cd. "liberazione anticipata speciale[25] che consente una detrazione di ben 75 giorni a semestre (a fronte dei 45 precedentemente previsti) in virtù di una positiva valutazione in ordine alla "meritevolezza" del beneficio.

Storica è anche la scelta in materia di detenzione domiciliare: essa acquista carattere permanente, consentendosi, così, di scontare presso il domicilio le pene detentive (anche se parte residua) non superiori a 18 mesi.

7. Il sistema delle misure cautelari e la riforma del 2015

Come si diceva, un intervento che aspiri a porsi come veramente risolutivo e ad ampio respiro non può trascurare l'aberrante dato dei detenuti in attesa di giudizio, ovverosia di quei soggetti che, pur non avendo mai potuto leggere una sentenza di condanna che ne accertasse la responsabilità penale, si trovano in una condizione di detenzione de facto equivalente a quella dei condannati in via definitiva.

Il problema del ricorso alla carcerazione preventiva è noto e risalente: le sue cause sono plurime e complesse e non pare opportuno qui dilungarsi a riguardo.

Sarà comunque indispensabile, tuttavia, accennare al tutt'altro che virtuoso legame che avvince carcerazione preventiva e durata non ragionevole del procedimento penale: se il giudizio penale nascesse e si concludesse entro termini ragionevolmente brevi, evidentemente il numero di detenuti in attesa di giudizio scemerebbe drasticamente. Di fronte ad una celere sentenza di condanna, infatti, essi trasmigrerebbero nella statistica relativa ai detenuti-condannati; di fronte ad una sentenza di assoluzione, invece, evidentemente sarebbero immediatamente rimessi in libertà.

In entrambe le ipotesi si otterrebbe un sicuro beneficio per il sistema e per la dignità di coloro i quali risultano coinvolti in un procedimento penale.

Il problema, tuttavia, non riguarda solamente la durata della custodia cautelare in carcere, ma interessa anche i presupposti di ricorso alla stessa: il punctum dolens, in sostanza, non riguarda solamente il quantum, ma anche l'an.

Sebbene il codice di procedura penale italiano preveda all'art. 273, infatti che "nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza" e sebbene l'art. 274 indichi analiticamente i presupposti (pericula) in presenza dei quali vi si può ricorrere individuandoli nel pericolo di inquinamento probatorio, nella fuga o pericolo di fuga e nel pericolo di reiterazione del reato, la giurisprudenza ha per lungo tempo inteso e applicato questi parametri in maniera se non disinvolta, quantomeno flessibile.

In sostanza, la semplice disponibilità di contatti con l'estero poteva sic et simpliciter essere ritenuta dimostrativa di un reale pericolo di fuga.

Il legislatore è intervenuto sul punto in maniera piuttosto energica con la L. 16 aprile 2015 n. 47, sulla scorta di plurime sollecitazioni, tra cui sicuramente, per quanto qui ci interessa, l' "onda lunga della sentenza Torreggiani[26]obiettivo dichiarato è infatti proprio quello di evitare il ricorso al carcere quale misura cautelare. In questo contesto si calano le modifiche tese a elevare a cinque anni della soglia della pena massima fissata per i reati ai quali può conseguire l'applicazione del carcere [27] e a escludere la detenzione carceraria in caso di prognosi di una condanna con pena inferiore a tre anni [28], nonché, in una prospettica di maggior rigore applicativo, il nuovo requisito dell' "attualità" dei pericoli di fuga e di reiterazione.

In sintesi, può dirsi quindi che il legislatore italiano ha finalmente acquisito contezza di come l'applicazione della sanzione penale non possa e non debba semplicemente infliggere sofferenze –quasi una "vendetta di stato" in risposta al reato commesso – ma debba aspirare a porsi quale momento di rinascita nell'ambito della vita dell'individuo: la pena (e a maggior ragione la misura cautelare) non deve mortificare dignità e personalità, ma deve essere strumento attraverso cui stimolare il condannato ad informare le proprie scelte al rispetto delle legge e delle regole del vivere civile: non è forse questo, d'altronde, quello che prescrive la Costituzione all'art. 27 quando afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato?

8. La corte dei diritti dell'uomo torna a pronunciarsi sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti: l'inadeguatezza degli standard di tutela delle condizioni di salute del detenuto integrano una violazione dell'art. 3 CEDU

Anche se la strada imboccata sembra essere quella giusta, non è comunque possibile abbassare la guardia, poiché ogni singolo caso di aggressione alla dignità umana, quindi di violazione dei diritti fondamentali, rappresenta un orrore inaccettabile che deve essere a tutti i costi prevenuto anziché condannato.

Che il pericolo sia sempre dietro l'angolo è testimoniato dal fatto che, anche nell'ambito di un processo tutto sommato virtuoso quale quello avviato dall'Italia, non manchino brusche battute d'arresto.

Con la sentenza 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia (originata dal ric. n. 7509/08), la Corte di Strasburgo si è pronunciata sulla compatibilità delle condizioni di detenzione rispetto ad uno stato di salute precario del detenuto per verificarne la rispondenza all'art. 3 della Convenzione: non ci si può accontentare, infatti, di condizioni carcerarie che in sé considerate non risultino violative della Convenzione di salvaguardia, poiché occorre ulteriormente accertare se le condizioni di un determinato individuo siano compatibili con le condizioni "offerte" da un determinato istituto di pena. Più specificamente, occorre individuare un accettabile bilanciamento tra le esigenze cautelari che sono alla base di ogni provvedimento di privazione della libertà ante iudicium e le esigenze individuali (siano esse di lavoro, di studio, di famiglia e, soprattutto, di salute). Se le ragioni della cautela penale potessero travolgere irriguardosamente ogni bisogno individuale, non si potrebbe che constatare il ritorno in auge di quel pericoloso primato assoluto dello Stato a dispetto del cittadino.

Nel caso di specie [29], il ricorrente lamentava il mancato accoglimento delle richieste di differimento dell'esecuzione della pena o di conversione in misura alternativa nonostante condizioni di salute estremamente precarie. In particolar modo, il detenuto soffriva di ischemia, diabete, depressione, ipertrofia della prostata, cardiopatie, eccessivo dimagrimento etc., palesemente, incompatibili con il perdurare dello stato di detenzione in carcere.

Sebbene nel 2007 il Magistrato di sorveglianza avesse disposto il ricovero presso il reparto detenuti dell'Ospedale Cardarelli di Palermo, il giorno dopo il detenuto addirittura chiedeva di tornare in carcere a causa delle condizioni del reparto giudicate "da incubo" da parte del suo legale.

Numerose altre istanze di differimento dell'esecuzione della pena venivano rigettate e solo nel luglio 2008 il Tribunale di sorveglianza concedeva quantomeno la misura della detenzione domiciliare per un periodo di sei mesi con l'obbligo di dimora presso l'abitazione di Napoli ed il divieto di recarsi a Palermo.

Le doglianze relative al trattamento subito davano luogo al ricorso n. 7509/08 con cui il reclamante invocava la violazione dell'art. 3 CEDU: la mancata concessione del differimento dell'esecuzione della pena ovvero il diniego dell'ammissione ad una misura alternativa alla detenzione in carcere a fronte delle condizioni di salute del detenuto, gravi ed irreversibili, integrerebbero infatti un trattamento inumano e degradante.

La Corte sostanzialmente condivideva in pieno le conclusioni del ricorrente, sentenziando che per il periodo tra il 24 ottobre 2007 ed il 24 luglio 2008 lo stato di salute del ricorrente fosse ormai incompatibile con il regime detentivo.

La decisione della Corte si inserisce in un filone giurisprudenziale divenuto oramai consolidato poiché, sebbene non esistesse nessuna disposizione della Convenzione preposta alla espressa tutela del diritto alla salute delle persone libere, l'interpretazione della Corte ne ha permesso il suo riconoscimento tramite la riconduzione nell'alveo dei diritti garantiti, appellandosi, peraltro, quale corollario, di volta in volta, al diritto alla vita, al diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio nonché, ovviamente, alla tutela della dignità umana.

Tanto più nei confronti delle persone detenute: il riconoscimento del diritto alla salute dei detenuti è opera esclusiva della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in forza di un'interpretazione evolutiva dell'art. 3 CEDU.

Le pronunce della Corte, comunque, prendono in esame sia i casi di insufficienza o precarietà delle condizioni igieniche (ovvero quelle situazioni in cui si verificano gravi violazioni della basilare igiene personale dei detenuti, così da dar luogo a trattamenti inumani o degradanti[30], sia i casi di mancanza o inadeguatezza della somministrazione di cure mediche necessarie e tempestive (fattispecie che inerendo il mancato intervento tempestivo delle autorità preposte alla diagnosi e alla cura delle patologie, parimenti dà luogo ad un trattamento inumano) [31], sia pure i casi di incompatibilità delle condizioni di detenzione con lo stato di salute del detenuto, come nella appena richiamata decisione.

Sebbene, quindi, il diritto alla salute del detenuto non sia espressamente sancito da nessuna disposizione della Convenzione e ciò rappresenti un limite che, de iure condendo, andrebbe sicuramente emendato, la sua riconduzione all'interno dell'alveo di tutela dell'art. 3 CEDU è fortunatamente stata resa possibile da una virtuosa opera di interpretazione evolutiva da parte della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

9. CGUE su prescrizione

Come si è visto, le pronunce delle Corti sovranazionali rappresentano di norma dei momenti di rafforzamento degli standard di tutela apprestati dai singoli stati. Può accadere che, talvolta, altre esigenze o interessi prendano il sopravvento, relegando in secondo piano le istanze di tutela e, di conseguenza, mettendo a repentaglio quel primato della dignità umana che dovrebbe sempre esser posto alla base di ogni pronuncia giurisdizionale.

Un caso di questo tipo probabilmente si riscontra nella decisione assunta dalla Grande Camera della Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

In estrema sintesi, la vicenda si origina da un rinvio pregiudiziale del Tribunale di Cuneo alla CGUE per chiedere a questa di verificare se la disciplina italiana della prescrizione del reato risultasse compatibile con le disposizioni comunitarie in materia di risorse proprie dell'UE: la questione di fondo, infatti, derivava dal fatto che la normativa nazionale che prevede termini assoluti di prescrizione potrebbe determinare una potenziale lesione degli interessi finanziari dell'Unione europea allorché rimangano impuniti reati tributari relativi alle entrate dell'UE [32].

La pregiudiziale si fondava, dunque, sull'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare qualsiasi disposizione di diritto interno che possa pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell'Unione.

Ebbene, la Corte di Lussemburgo si esprime per l'insostenibilità della disciplina italiana della prescrizione (e in particolare la previsione di un termine massimo pur in presenza di atti interruttivi) nella misura in cui tale meccanismo determina in pratica la sistematica impunità delle frodi in materia di IVA, lasciando così senza tutela adeguata gli interessi finanziari non solo dell'erario italiano, ma anche - ed è quanto importa ai giudici europei - quelli dell'Unione.

Di fronte ad un tale pericolo, dunque, la Corte di giustizia afferma l'obbligo per il giudice penale italiano di disapplicare il combinato disposto degli artt. 160 e 161 c.p. nella misura in cui egli ritenga che tale normativa –fissando un limite massimo al corso della prescrizione, pur in presenza di atti interruttivi, pari di regola al termine prescrizionale ordinario più un quarto – impedisce allo Stato italiano di adempiere agli obblighi di tutela effettiva degli interessi finanziari dell'Unione imposti dall'art. 325 del Trattato sul funzionamento dell'Unione (TFUE).

In buona sostanza, il giudice avrà in tal caso l'obbligo – discendente direttamente dal diritto dell'Unione – di condannare l'imputato ritenuto colpevole dei reati ascrittigli, nonostante l'intervenuto decorso del termine prescrizionale calcolato sulla base degli artt. 160 e 161 c.p.

La sentenza merita qualche riflessione.

La ratio che sorregge la prescrizione è tutto sommato piuttosto semplice ed intuitiva: se la parte pubblica, su cui grava l'onere della prova, non riesce ad assolvervi pienamente entro un determinato termine e se lo Stato, su cui grava l'onere dell'organizzazione del sistema giustizia, non riesce a garantire un giudizio che si concluda entro tempi ragionevoli, viene meno lo ius persecutionis nei confronti dell'individuo che, quindi, dovrà essere prosciolto.

Se ci si riflette, poi, in sostanza la prescrizione non è altro che la declinazione – a valle del procedimento penale – della presunzione di non colpevolezza: se la la responsabilità dell'imputato non è accertata, egli – fin dall'inizio presunto innocente – non potrà che essere dichiarato innocente.

Com'è noto, poi, l'istituto della prescrizione si riconnette anche al soddisfacimento di esigenze di prevenzione generale: quanto più la sanzione si allontana nello spazio e nel tempo dalla violazione, tanto meno efficace ne risulterà essere l'effetto di deterrenza sui consociati (o comunque di orientamento dei loro comportamenti). A queste conclusioni, del resto, era già pervenuto Cesare Beccaria addirittura nel 1763: "quanto la pena sarà piú pronta e piú vicina al delitto commesso, ella sarà tanto piú giusta e tanto piú utile. Dico piú giusta, perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell'incertezza, che crescono col vigore dell'immaginazione e col sentimento della propria debolezza; piú giusta, perché la privazione della libertà essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo chiede. La carcere è dunque la semplice custodia d'un cittadino finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev'essere meno dura che si possa. (…) Ho detto che la prontezza delle pene è piú utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è piú forte e piú durevole nell'animo umano l'associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l'altra come effetto necessario immancabile." [33]

Da quanto appena richiamato emerge chiaramente come la prescrizione risulti ad un tempo istituto di "ordine pubblico" e di "garanzia individuale".

Proprio sulla scorta di queste premesse non può non destare perplessità la scelta della Corte di Giustizia, che appare imperniata su un approccio quantomeno pericoloso: non tanto l'esigenza di difesa sociale è anteposta alla presunzione di non colpevolezza – il che già sarebbe grave –, ma, addirittura, qui è la necessità di assicurare risorse all'Unione ad essere anteposta alla necessità di tutelare l'individuo. Peraltro attribuendo al giudice una discrezionalità pressoché assoluta (o comunque priva di evidenti indici normativi) nello stabilire quando – prescritto il reato – si possa comunque far luogo all'applicazione di una sentenza di condanna e quando invece così non è.

Pur di garantire il fabbisogno economico delle istituzioni, la Corte arriva a giustificare lo speronamento di uno dei capisaldi del garantismo processuale e, in una certa qual misura, anche dell'art. 101 secondo comma Cost., secondo cui il giudice non è soggetto a nullatranne che alla legge.

Il danaro, prima dell'individuo.

10. La dignità del condannato

Se, come si è detto, la dignità umana appartiene all'uomo in quanto tale, ne deriva immediatamente che essa non può patire compressioni anche allorquando l'individuo vìola le regole poste alla base dell'ordinamento: anche il condannato, dunque, mantiene inalterato il suo diritto inviolabile al rispetto della dignità.

Che "peculiarità" presenta, tuttavia, la tutela della dignità del condannato?

Il punto di partenza da cui muovere si individua probabilmente nel principio di legalità delle pene: nulla poena sine lege.

Dunque, se solamente il legislatore è legittimato a stabilire la sanzione da comminarsi per la violazione di una previsione di legge, ogni forma ulteriore di pena rappresenta semplicemente un abuso.

Rappresenterà un abuso, quindi, ogni forma di esecuzione della pena che rappresenti un ulteriore male da infliggersi al condannato e, non a caso, l'Assemblea costituente volle fissare nell'art. 27, quarto comma della Carta il principio della non afflittività della pena: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Il principio costituzionale, tuttavia, come si è visto non può certo dirsi compiutamente attuato.

In una prospettiva forse utopistica si potrebbe forse pretendere che le vita inframuraria non fosse degradante e miserabile e che le modalità complessive di esecuzione della pena non fossero una ulteriore fonte di sofferenza.

Più realisticamente, però, anche la CtEDU sembra arrendersi dinanzi all'evidenza: "di solito le misure privative della libertà comportano per il detenuto alcuni inconvenienti[34].

Il carcere deve quindi necessariamente essere un luogo di sofferenza duplice: per la privazione della liberta e per gli apparentemente ineliminabili "inconvenienti"?

Forse no.

Dalla Norvegia, ad esempio, proviene un esempio di vero avanguardismo penitenziario: si tratta della prigione di Bastoy, sull'isola sud del paese, ove sono ospitati solo 115 detenuti, carcere modello caratterizzato dall'essere privo di sbarre e celle.

L'obiettivo perseguito è quello di evitare che, una volta scontata la pena, gli ex carcerati commettano di nuovo dei reati.

Ebbene, il progetto funziona e i dati sono sorprendenti: la recidiva si attesta al 16% contro una media europea del 75%.

I giornali italiani a riguardo hanno anche parlato di "carcere a 5 stelle": per esservi ammessi, sorprendentemente c'è una vera e propria lista di attesa ed il direttore dell'istituto non riesce a soddisfare tutti i condannati che ne fanno richiesta. Si procede, infatti, ad una vera e propria selezione sulla base di vere e proprie lettere motivazionali con cui i condannati accompagnano le loro istanze: dalla "presentazione" deve trasparire un forte desiderio di migliorarsi e la volontà di lavorare su se stessi. Non rileva, invece, la gravità del reato commesso o la pena comminata (anche se parte di essa deve comunque esser stata scontata): «Io non posso fare nulla per quello che sono stati e per ciò che hanno commesso – dice Tom -. Posso però fare qualcosa per quello che sono e che saranno domani». [35]

Non può comunque ignorarsi che la struttura costa allo stato nordico circa 8 milioni di euro l'anno, su un investimento totale nelle carceri di circa due miliardi. L'Italia, per avere un termine di paragone, ne spende sì 3, ma di detenuti ne ha oltre 50mila.

In questa "prigione di minima sicurezza", comunque, i detenuti vivono una vita "normale": liberi, (seppur tenuti a restare in casa dalle 23 alle 7) sono comunque chiamati a lavorare o studiare. I prigionieri possono infatti dare il loro contributo, retribuito, in cucina, nella serra, con gli animali, nella falegnameria. Possono lavorare come giardinieri, meccanici o addetti alle pulizie. Per quanto riguarda lo studio, i detenuti che non hanno completato il primo grado di istruzione devono obbligatoriamente farlo; se invece non hanno finito l'ultimo grado scolastico (dai 16 ai 18 anni in Norvegia) possono portarlo a termine scegliendo diverse discipline tra cui informatica, lingue straniere, agraria, sociologia, matematica e musica.

"Se negli Stati Uniti esistono prigioni come il Tent Camp, dove i detenuti vivono in delle tende e vengono esposti alle più varie intemperie, a Bastoy accade tutto il contrario.

«Noi siamo qui per formare dei cittadini, dei vicini di casa. Un giorno queste persone usciranno di prigione e saranno libere. Tu chi vorresti come ipotetico vicino di casa, nel tuo futuro, per te e la tua famiglia? Un uomo ristabilito e reintegrato nella società oppure un uomo ancora malato, arrabbiato, che è stato rinchiuso per anni in condizioni incivili?».

L'argomentazione del direttore dell'istituto è convincente e i numeri gli danno ragione." [36]

Non si tratta, forse, di una forma di protezione della dignità del condannato?

A costui, infatti, deve essere garantita una pena effettivamente "temporanea", ovverosia una sanzione "legale" che si estingua con il decorso del tempo previsto dalla legge e non rechi con sé strascichi: in altre parole, occorre che una volta scontata la pena il detenuto possa effettivamente essere in grado di rientrare in quella comunità di individui da cui è stato espunto in seguito alla commissione di un reato.

Se così non avviene, infatti, il rischio di una emarginazione post-carcere e di conseguenza di una ricaduta nella stessa tipologia di delitti è sì alto da rasentare la certezza.

Un uomo privato della sua dignità, infatti, è poco più di una bestia e, come tale, agirà guidato solamente dall'istinto di autoconservazione: dunque, se per soddisfare i bisogni che emergono occorre commettere un furto, una truffa, una rapina o peggio, non ci sarà legge che tenga.

Cassazione 2014: il caso del "maniaco"

A margine di questa rapida disamina, si vuol proporre un esempio provocatorio che tuttavia forse proprio per la sua "spigolosità" ben mette in evidenza quali e quante siano le criticità che si manifestano quando dall'ovattato mondo delle speculazioni accademiche si transita a quello per certi versi rude del diritto in atto.

Se ciascuno, infatti, probabilmente potrà convenire sulla necessità – in astratto – di tutelare adeguatamente la dignità del condannato, quanti – in concreto – potranno dirsi concordi con una pronuncia come quella della Corte di Cassazione [37] secondo cui apostrofare qualcuno come "maniaco" è reato anche se l'offeso è stato effettivamente condannato per violenza sessuale?

In realtà, se di primo acchito ci verrebbe da gridare allo scandalo dinanzi a quella che potrebbe apparire come una sentenza oltremisura "buonista", ad un giudizio più ponderato non si può non convenire con le considerazioni della Corte: "l'onore e la reputazione sono beni personali che non possono essere lesi, in maniera gratuita, per nessuna ragione, finanche nei confronti di quanti sono stati condannati per reati molto gravi. Pertanto, dare del "maniaco" a una persona, può far scattare il reato di ingiuria (se è presente la persona offesa) o quello di diffamazione (se in pubblico)".

E inoltre, se l'appellativo "maniaco" può essere considerato di per sé offensivo e quindi integrare un illecito penale, maggiormente risulterà lesivo dell'onore (quindi della dignità) nel momento in cui il reo abbia "pagato" i suoi conti con la giustizia: se la pena è stata espiata, infatti, il rispetto della dignità del condannato impone che il suo passato possa "essere dimenticato".

Solo in questo modo, infatti, si evita che alla pena legale se ne affianchi un'ulteriore di fonte sociale, per giunta pressoché perpetua.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Ordem e progresso, d'altronde, è il motto riportato sulla bandiera del Brasile.
[2] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, IV, p. 293.
[3] Luftsicherheitsgesetz dell'11 gennaio 2005.
[4] BVerfG - 1 BvR 357/05.
[5] Il Consiglio d'Europa fu istituito il 5 maggio 1949 col Trattato di Londra e conta oggi 47 stati membri.
[6] Il report di settembre 2015 è disponibile all'indirizzo: http://www.icj.org/september-icj-e-bulletin-on-counter-terrorism-and-human-rights-no-96/
[7] The International Commission of Jurists (ICJ) è un'organizzazione internazionale non governativa che si occupa di tutela dei diritti umani. La commissione è formata da un gruppo di 60 illustri giuristi, tra cui giudici, procuratori ed accademici che si dedica ad assicurare il rispetto degli standard internazionali relativi ai diritti umani. La composizione della commissione aspira a riflettere le diversità geografiche e politiche dell'intero globo e, conseguentemente, dei diversi sistemi legali.
[8] Risultano interessati dall'azione dell'organizzazione, ad esempio, il Regno Unito, la Svezia, la Germania, La Turchia, l'Ucraina, la Federazione Russa, etc.
[9] Quindi soggetti per i quali la presunzione di non colpevolezza è pienamente operante.
[10] In violazione, peraltro, del disposto dell'art. 10 del Patto internazionale secondo cui "gli imputati, salvo circostanze eccezionali, devono essere separati dai condannati e sottoposti a un trattamento diverso, consono alla loro condizione di persone non condannate".
[11] http://www.gruppoabele.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1397
[12] Dati del Ministero della Giustizia che riflettono la situazione al 31 dicembre 2013.
[13] Il provvedimento prevede, in caso di pena detentiva da eseguire non superiore a dodici mesi, che il pubblico ministero sospenda l'esecuzione dell'ordine di carcerazione e trasmetta gli atti al magistrato di sorveglianza affinché questi disponga l'esecuzione della pena presso il domicilio.
[14] Comitato per la prevenzione della tortura.
[15] Proibizione della tortura: nessuno può̀ essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.
[16] introdotto il 21 febbraio 2011.
[17] Nel frattempo rimangono "congelati" le centinaia di ricorsi già presentati e non ancora comunicati al governo italiano per le sue considerazioni (ovvero quelli che sono ancora all'inizio dell'iter procedurale) e che sollevano il problema del sovraffollamento delle carceri.
[18] Il primo caso riguarda una sentenza dell'11 marzo 2014, con la quale l'High Court of Justice Queen's Bench Division Administrative Court riscontra la violazione dell'art. 3 CEDU nel caso Badre v. Court of Florence e, per l'effetto, rigetta la richiesta di estradizione avanzata nei confronti del cittadino somalo Hayle Abdi Badre per il rischio di subire trattamenti inumani e degradanti nella struttura carceraria italiana. La Corte inglese, nel caso ultimo citato, considera il fenomeno del sovraffollamento carcerario come una problematica fortemente diffusa, sistematica e strutturale, ovverosia una sorta di chronic malfunction gravante sull'intero sistema penitenziario italiano nel suo complesso e, pertanto, nega la concessione dell'estradizione che comporterebbe una pressoché certa violazione dei diritti umani dell'estradando in violazione dell'art. 3 CEDU. Il secondo caso origina dalla richiesta avanzata dalla Procura di Palermo alla Westminster Magistrates' Court di Londra in ordine all'estradizione di Domenico Rancadore, arrestato lo scorso agosto nella capitale britannica dalla polizia inglese su indicazione delle autorità italiane dopo venti anni di latitanza e condannato in contumacia a sette anni di reclusione per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione ed altri gravi delitti. Il giudice, pur inizialmente persuaso dalle rassicurazioni offerte dal Governo italiano, rigetta l'istanza di estradizione, giudicando sussistente un elevato rischio di trattamenti disumani e degradanti in violazione degli standard di tutela sanciti dalla CEDU  e di cui lo Stato italiano è tenuto ad attuare in esecuzione della sentenza pilota Torreggiani e altri c. Italia.
[19] Oltre che per violazione dell'art. 13 CEDU per l'assenza di rimedi effettivi a tutela dei diritti fondamentali dei detenuti.
[20] Al momento della redazione della sentenza erano infatti pendenti ben oltre 450 ricorsi nei confronti dell'Ungheria per la violazione dell'art. 3 CEDU. Secondo una valutazione della Corte, inoltre, il numero dei ricorsi è solamente indicativo ed è destinato inevitabilmente a crescere.
[21] Su tutti, si segnala il cd. "decreto svuota-carceri" (Decreto Legge, testo coordinato 23/12/2013 n° 146, G.U. 21/02/2014).
[22] In questi termini si è espresso il Ministro della Giustizia Orlando in occasione delle celebrazioni per il 25 aprile 2015.
[23] Dovrebbero infatti rappresentare la regola, non più l'eccezione.
[24] Viene elevato fino a 4 anni il limite di pena (anche residua) che consente l'affidamento in prova ai servizi sociali, ma su presupposti più gravosi (periodo di osservazione) rispetto all'ipotesi ordinaria che resta tarata sui 3 anni. Si rafforzano inoltre i poteri d'urgenza del magistrato di sorveglianza.
[25] In via temporanea (dal 1° gennaio 2010 al 24 dicembre 2015).
[26] In questi termini si è espresso l'autorevole giurista Spangher nel suo commento alla novella intitolato "Brevi riflessioni sistematiche sulle misure cautelari dopo la L. n. 45 del 2015", pubblicato su penalecontemporaneo.it
[27] Nuovi artt. 280 e 274, lett. c, c.p.p.
[28] Nuovo comma 1 bis dell'art. 275 c.p.p
[29] Cenni riassuntivi della vicenda giudiziaria. «Il caso origina dal ricorso del cittadino italiano Bruno Contrada, la cui vicenda giudiziaria è alquanto nota e controversa: dirigente generale dell'Amministrazione della Polizia dello Stato, accusato di aver collaborato sistematicamente con "Cosa Nostra", il 15 aprile 1996 veniva condannato dal Tribunale di Palermo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso pluriaggravata ex artt. 110 e 416 bis c.p.3 sulla base delle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia (tra cui Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi) alla pena principale di dieci anni di reclusione ed alla pena accessoria della perpetua interdizione dai pubblici uffici, con applicazione, a pena espiata, della misura di sicurezza della libertà vigilata per tre anni. Con sentenza del 4 maggio 2001, la Corte di appello di Palermo assolveva Contrada dei reati di cui ai capi di imputazione "perché il fatto non sussiste", non essendo stata raggiunta piena prova circa le "manifestazioni significative" della volontà dello stesso di "prestare sostegno all'associazione", ritenendo qualificabile nel caso di specie invece un'ipotesi (non coltivata in corso di indagini preliminari), peraltro colpita anche da prescrizione, di favoreggiamento personale. Gravata dal ricorso per Cassazione del Procuratore generale della Repubblica di Palermo, la Suprema Corte con sentenza della Sezione seconda penale il 12 febbraio 2002 riteneva pienamente fondato il ricorso del pubblico ministero e, per l'effetto, annullava con rinvio per nuovo giudizio la sentenza di appello del 4 maggio 2001. Il giudizio di rinvio di secondo grado svoltosi innanzi alla Corte di appello di Palermo (lungo un iter processuale di ben 31 udienze) riconosceva Contrada colpevole di concorso esterno nell'associazione mafiosa "Cosa Nostra" e, perciò, lo condannava definitivamente alla pena di dieci anni di reclusione, confermando integralmente la sentenza di condanna di primo grado emessa dal Tribunale di Palermo il 5 aprile 1996. Avverso la sentenza di rinvio emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, Contrada proponeva ricorso per Cassazione mediante l'allegazione di corposi motivi di ricorso, a cui faceva seguito, peraltro, il deposito di ulteriori profili di censura. Con sentenza del 10 maggio 2007, depositata l'8 gennaio 2008, la Suprema Corte, Sezione sesta penale, rigettava il ricorso dell'imputato, confermando definitivamente le statuizioni della sentenza di rinvio di secondo grado del 25 febbraio 2006. Il 2 gennaio 2008 Contrada incaricava il proprio legale di presentare istanza di revisione del processo di condanna: anche se il 24 settembre 2011 la Corte di appello di Caltanissetta riteneva "non manifestamente infondata" la richiesta di revisione del processo, il 25 giugno 2012 la Cassazione dichiarava inammissibile la richiesta di revisione, con cui terminava definitivamente la vicenda giudiziaria di Contrada». La presente sintesi è di V. Manca, su penalecontemporaneo.it.
[30] C. eur. dir. uomo, 29 gennaio 2009, Antropov c. Russia, ric. n. 22107/03; C. eur. dir. uomo, 30 settembre 2010, Pakhomov c. Russia, ric. n. 44917/08; C. eur. dir. uomo, 7 dicembre 2010, Porumb c. Romania, ric. n. 19832/04; C. eur. dir. uomo, 16 dicembre 2010, Kozhoar c. Russia, ric. n. 33099/08.
[31] C. eur. dir. uomo, 26 ottobre 2000, Kudla c. Polonia, ric. n. 30210/96.
[32] In particolare, nel caso di specie si trattava di frodi IVA.
[33] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. 19, 1763.
[34] Sent. Torreggiani
[35] Dichiarazioni riportate nell'articolo pubblicato a riguardo su Corriere.it e disponibile all'indirizzo http://reportage.corriere.it/esteri/2015/bastoy-il-a-senza-sbarre-dove-i-detenuti-sognano-di-entrare/?refresh_ce-cp
[36] L'estratto è ancora tratto dall'articolo di Corriere.it sopraindicato.
[37] Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 16 luglio – 13 ottobre 2014, n. 42825, Presidente Palla – Relatore Settembre.