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Pubbl. Ven, 5 Feb 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Mandato di arresto europeo ed estradizione: la violazione dell´obbligo di allegazione e il luogo di esecuzione dei provvedimenti

Aldo Cimmino


L’autonomia procedimentale dell’euro-mandato rispetto alla disciplina estradizionale: l’inquadramento della sentenza di rigetto della consegna per violazione dell’obbligo di allegazione e la determinazione del luogo di esecuzione dei provvedimenti limitativi della libertà. Nota a Cass. Pen. Sez. VI, Sent. 15 ottobre 2015, n. 41516 – Milo, Presidente – Petruzzellis, Relatore – P.G. (Iacoviello)


Sommario: 1. Premessa; 2. Il caso affrontato dalla Suprema Corte; 2.1. l’asserita autonomia tra i procedimenti rispettivamente di MAE ed estradizionali; 2.2. Il contenuto del MAE ed “i requisiti strutturali della richiesta”; . 3. Il luogo dell’esecuzione dell’euromandato; 3.1. La condizione di cittadino ex art. 19 lett. c), legge 69/2005…;  3.2 (segue) …ed il concetto di residenza alla luce delle giurisprudenza della CGUE.

Sommario: 1. Premessa; 2. Il caso affrontato dalla Suprema Corte; 2.1. l’asserita autonomia tra i procedimenti rispettivamente di MAE ed estradizionali; 2.2. Il contenuto del MAE ed “i requisiti strutturali della richiesta”; . 3. Il luogo dell’esecuzione dell’euromandato; 3.1. La condizione di cittadino ex art. 19 lett. c), legge 69/2005…;  3.2 (segue) …ed il concetto di residenza alla luce delle giurisprudenza della CGUE.

1. Premessa

In osservanza del mutuo riconoscimento dei provvedimenti giudiziari, il mandato d’arresto europeo costituisce un ulteriore strumento di attuazione della cooperazione giudiziaria in materia penale, favorendo una maggiore semplificazione e rapidità alle procedure di circolazione dei provvedimenti giudiziari e, dunque, la realizzazione degli scopi di politica comunitaria che hanno da sempre ispirato l’idea di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, idea che era alla base del cosiddetto terzo pilastro e dei numerosi settori GAI.

Non va poi ignorata la circostanza per cui l’iter legislativo, che ha condotto alla fonte sovranazionale introduttiva dell’euromandato, non è stato diretto, tant’è che era stata presentata dapprima una Convenzione sull'estradizione semplificata (Bruxelles, 10 marzo 1995) e successivamente una Convenzione di estradizione (Dublino, 27 settembre 1996), poi sostituite dall’adozione della decisione-quadro 584 del 2002.

Un quadro, quello della cooperazione giudiziaria in materia penale, in continua evoluzione[1] che non può pregiudicare i diritti fondamentali riconosciuti dalle Carte nazionali e sovranazionali.

Non a caso il legislatore italiano, con legge 22 aprile 2005, n. 69 recante “Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione-quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri”, ha recepito la disciplina del MAE, avviando le procedure interne al fine di rendere le disposizioni comunitarie conformi all’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali.

2. Il caso affrontato dalla Suprema Corte

Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte di Cassazione è chiamata a decidere tanto sull’applicabilità delle norme del codice di procedura penale alle ipotesi sottoposte alla disciplina del mandato d’arresto europeo, quanto sulla sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per l’esecuzione, nel luogo di residenza, della misura limitativa della libertà personale ex art. 19, lett. c), legge n. 69/2005.

Sul primo profilo  la Corte Suprema di Cassazione conclude per l’autonomia del procedimento di esecuzione del MAE rispetto al procedimento estradizionale[2], risolvendo una questione definita di rito, che ha però specifiche ricadute sul rispetto delle garanzie minime processuali.

In particolare la Suprema Corte richiama il fondamentale principio del favor sulla collaborazione tra gli Stati membri.

Tale principio, a parere della cassazione, è dirimente in quanto imporrebbe  all’autorità giudiziaria di interpretare le disposizioni in materia di cooperazione giudiziaria nel senso di favorire la circolazione dei provvedimenti giudiziari e, più in generale, di dare piena e completa attuazione al principio del mutuo riconoscimento.

In realtà, tale orientamento è stato indirettamente confermato, di recente, dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, con particolare riferimento agli articoli 15 e 17 della decisione-quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, in relazione ai termini imposti della decisione-quadro.

Quest’ultima, infatti, prevede espressamente che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione decide la consegna della persona nei termini previsti dalla decisione-quadro medesima.

Tuttavia restano dubbie le conseguenze legate allo spirare dei termine ex art. 17 della decisione-quadro, e cioè se l’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione possa comunque decidere sulla richiesta di consegna della persona anche nell’ipotesi in cui, appunto, il termine sia spirato.

Sul punto la Corte di Giustizia ha sottolineato che, in relazione alla questione pregiudiziale sollevata, è giocoforza ritenere che l’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione debba dare seguito alla richiesta, ponendosi il rifiuto, altrimenti, in contrasto non solo con la collocazione sistematica delle norme contenute negli artt. 15 ss. della decisione-quadro, ma soprattutto con lo spirito stesso della fonte sovranazionale, il cui principale obiettivo è quello di realizzare e rafforzare uno spazio comune di libertà e sicurezza, attraverso la semplificazione e rapidità del confronto giudiziario.

In altri termini,  i giudici della Corte del Lussemburgo hanno ribadito che la decisione-quadro è diretta, mediante l’instaurazione di un nuovo sistema semplificato e più efficace di consegna delle persone condannate o sospettate di aver violato la legge penale, a facilitare e ad accelerare la cooperazione giudiziaria, allo scopo di contribuire a realizzare l’obiettivo assegnato all’Unione di diventare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia fondandosi sull’elevato livello di fiducia che deve esistere tra gli Stati membri.[3]

Quanto alla sussistenza dei presupposti ex art. 19, lett. c), legge n. 69/2005, il Supremo Collegio, al contrario, ne afferma l’insussistenza e, conseguentemente, conclude per l’annullamento della sentenza, impugnata dal Procuratore Generale, nella parte in cui ha previsto l'espiazione dell'eventuale pena in Italia, assumendo che le condizioni di fatto accertate nel procedimento escludessero l'estremo della residenza e del radicamento in Italia del richiedente, unica condizione che legittima l'applicazione di tale disposizione alla persona che non possegga la cittadinanza dello Stato richiesto.

2.1. L’asserita autonomia tra i procedimenti rispettivamente di MAE ed estradizionali

In particolare con la sentenza in commento, il giudice di legittimità respinge le doglianze sollevate dal ricorrente, in relazione all’asserita violazione dell’art. 707 c.p.p. – la cui applicazione sarebbe richiamata dalla clausola di chiusura contenuta nell’art. 39 l. n. 69/2005[4] – per cui la sentenza con la quale lo Stato richiesto nega la consegna (sentenza contraria all’estradizione), preclude la pronuncia di una successiva sentenza favorevole a seguito di ulteriore domanda presentata per i medesimi fatti dal medesimo Stato, salvo che la stessa sia fondata su elementi che non siano stati valutati dall’autorità giudiziaria.[5]

A parere del ricorrente, infatti la Corte territoriale ha già pronunciato il rigetto della richiesta di consegna, con sentenza divenuta definitiva. A causa della mancata trasmissione degli atti a sostegno del MAE e in ragione dell'inutile decorso del termine fissato, si è ritenuto che la formazione del giudicato sulla sentenza denegatoria rappresenti un elemento ostativo ad una successiva pronuncia favorevole alla consegna, la quale sia occasionata solo dalla ricezione, successiva alla prima sentenza di segno negativo, della documentazione richiesta dall’autorità giudiziaria procedente.

In altri termini, il ricorrente, a fronte della successiva sentenza che autorizza la consegna dell’imputato sottoposto a MAE,  ritiene violato l’art. 39 l. n. 69/2015 in riferimento all’art. 707 c.p.p. la cui applicazione sarebbe richiamata proprio dalla clausola di chiusura prevista dalla legge.

La Corte di Cassazione, nel rispondere ai dubbi di legittimità mossi dal ricorrente, che ha adito, appunto, il Supremo Collegio per violazione delle disposizioni contenute negli artt. 39 l. n. 69/2005 e 707 c.p.p., sostiene che nelle procedure attivate per MAE, la pronuncia di una sentenza che per motivi estranei ai requisiti strutturali della richiesta ed a valutazioni di merito, non dispone l’esecuzione del mandato, non preclude l’efficacia giuridica del provvedimento che permane quale istanza di consegna.

Al massimo, avverte la Corte, viene meno la idoneità del provvedimento a consentire l’emissione di un provvedimento restrittivo sulla base dei medesimi presupposti.

I Giudici di Piazza Cavour, dunque, risolvono il contrasto affermando non solo una distinzione strutturale tra il procedimento estradizionale e quello disciplinato dalla legge del 2005, ma ritengono, inoltre, l’assoluta indipendenza tra i due procedimenti, tanto da ritenere inapplicabile la norma dell’art. 707 c.p.p. attesa la diversa natura dei due procedimenti in questione.

2.2. Il contenuto del MAE ed “i requisiti strutturali della richiesta”

Se così stanno le cose, vien da domandarsi quali siano i confini dell’espressione di principio “requisiti strutturali della richiesta” pronunciata dalla Suprema Corte.

In altri termini ci si chiede quali siano i “requisiti strutturali” che sono posti alla base della richiesta di mandato d’arresto europeo.

A tal proposito appare utile richiamare il dato normativo comunitario. Le disposizioni della decisione-quadro 2002/584/GAI attribuiscono rilievo alla documentazione che deve essere allegata all’euromandato.

Non a caso l’art. 8 della decisione-quadro, rubricato “Contenuto e forma del mandato d’arresto europeo”, indica i documenti che sono necessari a determinare il contenuto stesso del mandato d’arresto. E questa è una norma che opera un riferimento diretto all’obbligo di allegazione da parte dello Stato d’emissione.

Ma v’è di più. Agli artt. 3 e 4 della decisione-quadro, si fa riferimento ai motivi di non esecuzione, rispettivamente, obbligatoria e facoltativa del mandato d’arresto.

Il legislatore europeo ha quindi previsto che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione svolga delle valutazioni “in base ad informazioni in suo possesso[6].

Ne consegue che è fatto indiretto riferimento ad un generale obbligo di allegazione che possa consentire al giudice dell’esecuzione dell’euromandato le fondamentali valutazioni che potrebbero anche determinarlo a non dare esecuzione al MAE.

Tale impostazione sembra coerente alla luce delle norme introdotte dal legislatore italiano in sede di attuazione della decisione-quadro.

Innanzitutto ci si riferisce alla fase preliminare e alle informazioni integrative previste dalla legge italiana sull’euromandato.

Più precisamente la Corte è chiamata a dare avvio ad una vera e propria fase preliminare nel corso della quale valuta la documentazione posta a base del MAE.

Nell’ipotesi che l’autorità giudiziaria non ritenga congruo il materiale documentale a sostegno della richiesta, infatti, ordina che siano trasmesse informazioni integrative entro un termine, che la dottrina definisce perentorio, di trenta giorni.

Allo spirare del termine fissato per la ricezione, la Corte d’Appello oppone il proprio rifiuto all’esecuzione del mandato d’arresto.

Oltretutto la dottrina precisa che non sembra ammissibile un ripensamento della Corte e dunque una sorta di sanatoria allorquando le informazioni emergano durante la discussione in camera di consiglio, ovvero siano contenute nelle memorie depositate in cancelleria prima dell’udienza.[7]

Ci si riferisce, specificatamente, alle disposizioni contenute nell’art. 6 della l. n. 69/2005 che disciplina il contenuto del mandato d’arresto europeo nella procedura passiva di consegna.

A tal proposito, si rende necessario il riferimento ai commi 3 e 4 dell’art. 6 citato, che prevedono l’obbligo di allegazione in capo all’autorità giudiziaria dello Stato membro di emissione.

Precisamente, il comma 3 stabilisce che la consegna è consentita soltanto se alla richiesta sono allegati i provvedimenti giurisdizionali emessi dall’autorità giudiziaria dello Stato membro richiedente.[8]

Ad adiuvandum è la disposizione del successivo comma 4, a norma del quale al mandato d’arresto europeo devono essere allegati i documenti necessari non solo alla identificazione del ricercato, ma soprattutto indicativi del fatto commesso e della sua qualificazione giuridica, delle norme che si assumono violate e l’indicazione delle fonti di prova.

Viene, dunque, da porsi una seconda domanda, e cioè se l’allegazione, ovvero la consegna, dei documenti a sostegno della domanda non sia, alla luce della complessiva ricostruzione normativa operata, requisito strutturale della richiesta.

Del resto l’orientamento dottrinario prevalente ritiene che la mancanza della documentazione richiesta ex artt. 6 e 16 l. n. 69/2005 rientri tra le ipotesi in cui l’autorità giudiziaria italiana è obbligata al rifiuto.[9]

In particolare, la dottrina precisa che l’allegazione della documentazione richiesta dalla normativa vigente è condizione necessaria per l’esame della richiesta di esecuzione, e che tale iter procedimentale è posto a tutela delle garanzie minime processuali costituzionalmente previste.

Si è sottolineato, infatti, che tale controllo, sebbene contrario allo spirito di armonizzazione e mutuo riconoscimento dei provvedimenti emessi dalle autorità giudiziarie degli Stati membri, si rende necessario in quanto ancora non si è realizzato l’obiettivo fondamentale dell’effettiva libera circolazione delle pronunce giudiziarie.[10]

In definitiva, la legislazione italiana prevede un generale obbligo di allegazione rivolto agli organi procedenti dello Stato di emissione.

Si è discusso della legittimità delle disposizioni normative interne, considerato che le stesse richiederebbero un quid pluris rispetto a quelle sovranazionali, tuttavia è pur vero che fin quando queste restano in vigore, disegnano i presupposti di validità del MAE, in assenza dei quali l’autorità giudiziaria italiana è obbligata a rifiutare la consegna.

Corollario di tale impostazione sembra essere la conclusione per la quale il MAE è richiesta valida se contiene, e vi sono allegati, le informazioni ed i documenti richiesti dalla legge.

Tuttavia, v’è da notare che sul punto la Corte di Cassazione non si sofferma, spostando l’asse del sindacato dalla validità della richiesta al tempo dell’adempimento di allegazione.

Ed infatti, il Supremo Collegio, sorvolando sui requisiti strutturali della richiesta del MAE, recupera la validità dell’istanza dell’euromandato osservando che, anche se successivamente ad una prima sentenza denegatoria della consegna – oltretutto passata in giudicato – lo Stato membro richiedente aveva fatto pervenire i documenti richiesti, con la conseguenza che poteva ritenersi legittima l’originaria domanda sulla cui base operare la consegna.

In conseguenza, i Supremi Giudici motivano sulla natura dei termini previsti dall’art. 17 della decisione-quadro del 2002, dichiarando che gli stessi non sono perentori ma solo ordinatori e dunque lo spirare degli stessi non aveva inficiato la validità della richiesta.

Tuttavia la Corte non considera che non è tanto il rispetto dei termini a venire in rilievo quanto la validità strutturale della richiesta stessa, che risulta pregiudicata da un inadempimento non meramente formale ma sostanziale, in quanto è presupposto fondamentale per le determinazioni del Giudice in ordine all’esistenza, o meno, dei presupposti della consegna.

In proposito pure può richiamarsi l’art. 18, comma 1, lett. g) che espressamente prevede una ipotesi di rifiuto della consegna in relazione all’emergenze dagli atti che sono posti a sostegno del MAE.

In altri termini dalla disposizione citata, ed in generale dall’art. 18 complessivamente considerato, si evince il ruolo strutturale degli atti posti a sostegno del MAE, in quanto atti su cui l’autorità giudiziaria deve effettuare una valutazione e, se del caso, rifiutare la consegna per una delle ipotesi espressamente previste dalla legge.

In conclusione, dalla rassegna delle disposizioni normative, parrebbe che la sentenza con la quale la Corte di Appello ha pronunciato il rigetto della richiesta di consegna, divenuta irrevocabile, a causa della mancanza di trasmissione da parte dell’autorità richiedente dei provvedimenti interni a sostegno del mandato d’arresto europeo, non possa essere considerata semplicemente mera sentenza in rito, ma è una pronuncia che sottolinea la mancanza di requisiti strutturali del mandato d’arresto europeo e dunque, quantomeno, imporrebbe la necessità di rinnovare la richiesta per consentire all’autorità giudiziaria dello Stato d’esecuzione, di esprimere le relative valutazioni.

3. Il luogo dell’esecuzione dell’euromandato

L’ulteriore profilo affrontato dalla Cassazione concerne quello del luogo di esecuzione dell’euromandato con particolare riferimento al concetto di residenza ben diverso, chiaramente, da quello di cittadinanza.

Va preliminarmente osservato che la materia è disciplinata, nell’ambito dell’Ordinamento italiano, dall’art. 19, lett. c), Legge n. 69/2005.

La riserva di cui alla norma citata, dunque, pone un limite all’esecuzione della pena o della misura di sicurezza limitativa della libertà personale nell’ambito dello Stato membro di emissione, subordinando, infatti, l’esecuzione del MAE al rinvio, della persona sottoposta al mandato, allo Stato membro di esecuzione.[11]

3.1. La condizione di cittadino ex art. 19 lett. c), legge 69/2005…

Il legislatore italiano, nel dare attuazione alla decisione-quadro 2002/584/GAI, ha introdotto la condizione oggi codificata all’art. 19 lett. c) della legge 69/2005.

La disposizione interna riprende il contenuto dell’art. 5, par. 3, della decisione-quadro rubricato “garanzie che lo Stato emittente deve fornire in casi particolari”.

La norma in esame, dunque, pone specifici limiti all’esecuzione del MAE a garanzia delle persone che siano cittadini dello Stato membro di esecuzione.[12]

La condizione di cittadino, dunque, non consente, fatta sempre salva la volontà della persona sottoposta a MAE, l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, se non nell’ambito dello Stato di esecuzione di cui il sottoposto al MAE è cittadino.

In altri termini, lo Stato membro di esecuzione dell’euromandato è tenuto ad accertare, eventualmente, la condizione di cittadino ed a predisporre i mezzi a tutela delle garanzie previste dall’art. 5 della decisione-quadro.

In particolare, il legislatore italiano ha recepito tale indicazione riprendendo pedissequamente il dettato dell’art. 5 della decisione-quadro, così come riportato nella versione italiana del testo della decisione stessa.

Non a caso, infatti, l’art. 19 lett. c), legge n. 69/2005 dispone che la consegna è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata allo Stato membro di esecuzione.

La Corte di Cassazione ha, peraltro, specificato che il riferimento al termine “ascolto” di cui all’art. 19, lett. c) cit. è improprio e deve comunque intendersi come partecipazione piena della persona al procedimento penale attivato a suo carico nello Stato d’emissione.

Dunque, la condizione non è limitata alla mera audizione del soggetto nei cui confronti è stato emesso un mandato d’arresto europeo, bensì alla partecipazione dello stesso sino alla conclusione del processo penale che lo vede imputato nello Stato attivo.

Ne consegue che la persona consegnata dovrà essere restituita soltanto all’esito del procedimento penale, allorquando sia pronunciata a suo carico una sentenza esecutiva, secondo l’ordinamento interno dello Stato membro di emissione.[13]

La ratio di tale impostazione normativa è chiaramente da rinvenirsi nei principi costituzionali di cui all’art. 27 comma 3 Cost. sulla base della consapevolezza che intanto è possibile il recupero del condannato se è garantita la funzione risocializzante della pena la quale non può prescindere dall’effettivo contesto territoriale, lavorativo, economico ed affettivo del condannato stesso.

L’Ufficio del Massimario, inoltre, ha sottolineato che la condizione di rinvio costituisce un requisito di legittimità della decisione di consegna, ogni qual volta non via diversa richiesta dell’interessato.

Conseguentemente, ciò impone alla Corte di Appello l’effettuazione scrupolosa della verifica dello status di cittadino del richiesto, in quanto soltanto la certezza della insussistenza dello status stesso libera l’autorità giudiziaria procedente a non apporre la condizione del reinvio.[14]

Tuttavia la norma in esame equipara lo straniero residente nel nostro Paese alla condizione di cittadino.

Dunque, la Corte di Appello non è tenuta solo al vaglio dello status di cittadino ma anche a quello di residente in riferimento alla condizione dello straniero stabilmente inserito nel contesto sociale italiano.

3.2 (segue) …ed il concetto di residenza alla luce delle giurisprudenza della CGUE.

Sulla nozione di residenza appare necessario il riferimento all’opera interpretativa della Corte di Giustizia che, chiamata a decidere sul rinvio pregiudiziale proposto dalla Corte di Appello regionale di Stoccarda[15], nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto l’esecuzione di un mandato di arresto europeo, ha stabilito che l’art. 4, punto 6, della decisione-quadro 2002/584/GAI, deve essere interpretato nel senso che la persona sottoposta al MAE risiede nello Stato membro di esecuzione allorquando abbia stabilito la residenza effettiva, e, al contrario, si considera dimorante, sul territorio di quello stesso stato, nell’ipotesi in cui, a seguito di un soggiorno stabile di una certa durata, abbia stabilito legami simili a quelli instaurabili in caso di residenza.

La CGUE ha inoltre specificato che l’accertamento dell’esistenza dei legami tra la persona sottoposta a MAE e Stato membro d’esecuzione, è demandato all’autorità giudiziaria d’esecuzione, la quale è chiamata a valutare una serie di elementi quali, ad esempio, la natura della permanenza sul territorio dello stato, la durata della stessa, le modalità del soggiorno, nonché i legami familiari ed economici formatisi nel tempo.[16]

È appena il caso di sottolineare che l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia in relazione all’art. 4 punto 6 della richiamata decisione quadro 2002/584/GAI, non legittima gli Stati membri ad attribuire ai termini su indicati portata più ampia di quella descritta dalla stessa Corte di Lussemburgo.

Oltretutto le delimitazioni ermeneutiche della Corte di Giustizia, con riferimento ai termini “residenza” e “dimora”, sono state pienamente accolte dalla giurisprudenza interna, tanto di legittimità quanto costituzionale.

Non a caso la Corte costituzionale, con sentenza del 21 giugno 2010 n. 227, dopo aver affrontato la questione inerente i rapporti tra ordinamento interno ed ordinamento sovranazionale, alla luce delle interpretazioni della Corte UE e dei parametri interposti di costituzionalità di cui agli artt. 11 e 117 Cost., ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione di cui all’art. 18, comma 1, lett. r) della legge 69/2005 per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., nella parte in cui, in tema di rifiuto alla consegna di persona sottoposta al MAE, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell'esecuzione della pena detentiva in Italia, non ha previsto che tale rifiuto sia opponibile anche in caso di cittadino di altro Stato dell’Unione.

In particolare, la Consulta evidenzia che la disposizione interna contrastava con l’art. 4, punto 6 della decisione quadro, il quale dispone che gli Stati membri siano chiamati a regolare la materia prevedendo il rifiuto alla consegna, non soltanto in favore dei cittadini della propria comunità ma anche per coloro che effettivamente risiedono o abbiano dimora presso il territorio di quello Stato.

Detta norma – chiarisce ancora il Giudice delle leggi – come interpretata dalla Corte di Giustizia, intende accordare una particolare rilevanza alla possibilità di accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata una volta scontata la pena cui essa è stata condannata. In tal senso, il criterio per individuare il contesto sociale, familiare e lavorativo, nel quale si rivela più facile e naturale la risocializzazione del condannato, durante e dopo la detenzione, non è tanto e solo la cittadinanza, ma la residenza stabile, il luogo principale degli interessi, dei legami familiari, della formazione dei figli e di quant'altro sia idoneo a rivelare la sussistenza di un radicamento reale e non estemporaneo dello straniero in Italia.[17]

La Consulta, inoltre, ricorda che la scelta di prevedere il rifiuto era sì discrezionale ma una volta accordata la relativa tutela, la norma interna avrebbe dovuto rispettare i parametri del divieto di discriminazione in base alla nazionalità, come peraltro sancito dall’art. 12 del Trattato CE (attualmente art. 18 TFUE).

Divieto violato dal precedente testo dell’art. 18 della legge 69/2005 che, infatti, escludeva radicalmente l'ipotesi che il cittadino di altro Stato membro poteva beneficiare del rifiuto di consegna e dunque dell'esecuzione della pena in Italia.

Ciò si traduceva in una discriminazione soggettiva del cittadino di altro Paese dell'Unione in quanto straniero, che, in difetto di una ragionevole giustificazione, non risultava proporzionata.

D’altro canto, però, la dichiarata incostituzionalità della norma interna in tema di rifiuto alla consegna, non ha comportato un ampliamento dei confini del significato tanto semantico quanto giuridico della medesima disposizione.

In altri termini, se la citata disposizione ex art. 18 legge n. 69/2005 appariva incostituzionale per le ragioni sopra esposte, tuttavia la dichiarazione della Consulta non autorizza ad interpretarla travalicando i confini ermeneutici riferiti dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Con la conseguenza che, la disposizione favorevole all’esecuzione della pena in Italia potrà risultare operativa nell’ipotesi in cui ricorrano i presupposti di applicazione, e cioè i sicuri indici di effettivo e lecito radicamento in Italia.

In particolare non potrà essere rifiutata la consegna di un soggetto che non sia cittadino italiano e che, nel contempo, sia privo di qualsivoglia attività di lavoro lecita in Italia, non disponga, in Italia, di una abitazione, né sono presenti in Italia altri componenti della sua famiglia, così come non potrà essere rifiutata la consegna in presenza di mere circostanze di fatto.

Alla luce della letture giurisprudenziali delle Corti è ben evidente, per esempio, che la nozione di stabile residenza, funzionale alla “risocializzazione del condannato durante e dopo la detenzione”, è qualificata da un immanente e imprescindibile requisito strutturale. Requisito che non può che essere formato dalla pregiudiziale “legalità” di tale residenza.

Così, dunque, non potrà essere opposta alla decisione della Corte territoriale di dare esecuzione al MAE, la circostanza per la quale i precedenti penali e giudiziari del soggetto richiesto in consegna da uno Stato della UE, per motivi di esecuzione penale, rappresentino elementi di fatto idonei ad accreditare l'esistenza di un radicamento territoriale stabile del consegnando.[18]

Così come il riferimento a mere  circostanze di fatto, quale la pretesa presenza in Italia da circa tre

anni, in assenza di una occupazione stabile, ma saltuaria e temporanea e circoscritta a periodi recentissimi, sono elementi che, proprio sulla base dei principi sopra richiamati, escludono la ricorrenza della condizione ritenuta rilevante al fine di accertare, nel concreto, il presupposto del radicamento.[19]

La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ricorda che dai predetti elementi sintomatici di un effettivo radicamento italiano del consegnando è possibile prescindere solo in favore di un cittadino comunitario che abbia acquisito il diritto di soggiorno permanente per effetto di ininterrotta presenza in Italia per un periodo di almeno cinque anni.[20]

In definitiva, se è apparso del tutto razionale il pronunciamento della Corte Costituzionale volto a correggere l’impostazione della normativa interna sul MAE, allineandola non solo alla ratio normativa della decisione quadro e a quella dei principi sovranazionali, ma soprattutto al principio costituzionale di cui all’art. 27 comma 3 Cost., appare altrettanto razionale la decisione della Corte regolatrice, in commento, di ancorare il rifiuto alla consegna di un cittadino straniero a sicuri indici di radicamento territoriale e sociale del consegnando nel territorio dello Stato italiano, proprio al fine di rendere effettiva la lettera del richiamato art. 27 comma 3 Cost. e dunque rendere concretamente operativa la funzione rieducativa e risocializzante della pena.

 

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Si pensi alla recente direttiva 2014/41/UE, sull’ordine europeo di indagine penale (OEI) che ha previsto un complesso meccanismo di acquisizione della prova, a livello europeo, e che però ha già destato preoccupazioni per un meccanismo acquisitivo unico che potrebbe determinare lo sconfinamento delle autorità giudiziarie, oltre i poteri loro consentiti. Pericolo che, come dimostrano alcune decisioni in tema di MAE,  la Corte di giustizia dell’Unione Europea non è stata in grado di fronteggiare. Sul punto cfr. M. Daniele, La metamorfosi del diritto delle prove nella direttiva sull’Ordine Europeo di Indagine penale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it

[2] In questo senso, del resto, si era già espressa Corte Cost., 21 ottobre 2011, n. 274, la quale aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata, dalla Corte di Cassazione, nei confronti degli articoli 705 c.p.p. e 40 legge 69/2005 in quanto violativi degli artt. 3, 27 comma 3 e 117 Cost. 

In effetti la Corte di Cassazione aveva ritenuto che l’impossibilità di estendere la previsione contenuta nella legge italiana di recepimento della decisione-quadro sul mandato d’arresto europeo (art. 18, lett. r), della legge) per i delitti commessi anteriormente alla data del 7 agosto 2002, secondo cui, al cittadino dell’UE stabilmente residente ed integrato in Italia, è garantita la possibilità di scontare nel nostro Paese la pena divenuta definitiva nello Stato membro richiedente, risultava lesiva dei principi costituzionali ex artt. 3, 27 comma 3 e 117 Cost.

Tuttavia, la Corte Costituzionale evidenziò che “le differenze intercorrenti tra il mandato d’arresto europeo e l’estradizione inducono però i giudici costituzionali a non accogliere la tesi della Cassazione.

Mentre il primo si fonda sui rapporti diretti tra le varie autorità giurisdizionali dei Paesi membri dell’UE e realizza un sistema semplificato di consegna delle persone condannate o imputate, il secondo postula l’esistenza di un rapporto intergovernativo ed è basato su principi diversi.

Ebbene, l’applicazione all’estradizione di un caso di rifiuto di consegna del reo espressamente previsto solo per il mandato d’arresto europeo implica l’inserimento nel procedimento di estradizione di un istituto ad esso estraneo. Conclude la Corte che tale innesto, che comporterebbe un intervento significativo sull’art. 40 della legge n. 69/2005, darebbe luogo ad un sistema “spurio” rispetto alle normative regolanti il mandato d’arresto europeo e l’estradizione — o, come affermato dall’avvocatura dello Stato, ad un’«inammissibile ortopedia del sistema» —, configurante un’operazione ermeneutica che, per costante giurisprudenza costituzionale, non puo` essere ritenuta ammissibile (in senso conforme, ordinanze nn. 355/2003 e, ex multis, 193/2009). Sul punto V. Giur. It. – maggio 2012, p. 1009

[3] Sul punto cfr. Corte giust. UE, 16 luglio 2015, C-237/15 la quale ha ribadito che: “la decisione-quadro è quindi diretta, mediante l’instaurazione di un nuovo sistema semplificato e più efficace di consegna delle persone condannate o sospettate di aver violato la legge penale, a facilitare e ad accelerare la cooperazione giudiziaria allo scopo di contribuire a realizzare l’obiettivo assegnato all’Unione di diventare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia fondandosi sull’elevato livello di fiducia che deve esistere tra gli Stati membri (sentenze Melloni, C399/11, EU:C:2013:107, punto 37, e F., C168/13 PPU, EU:C:2013:358, punto 35.

Detto obiettivo di accelerare la cooperazione giudiziaria è presente in vari aspetti della decisione-quadro e, in particolare, nella disciplina dei termini per l’emanazione delle decisioni relative al mandato d’arresto europeo (sentenza F., C168/13 PPU, EU:C:2013:358, punto 58).

[4] L’art. 39 della legge n. 69/2005 ha infatti introdotto una clausola di chiusura che rinvia all’applicazione delle norme del c.p.p. in materia di estradizione, per tutto quanto non espressamente disciplinato dalla legge medesima.

[5] Secondo una ricostruzione dottrinaria la pronuncia di una sentenza contraria all’estradizione non preclude la concessione dell’estradizione stessa purché venga rinnovata la domanda e quest’ultima sia fondata su elementi che il giudice non ha già avuto modo di valutare in precedenza, in www.plurisonline.it

[6] Così dispone l’art. 3 della decisione-quadro 2002/584/GAI: “se in base ad informazioni in possesso dell'autorità giudiziaria dell'esecuzione risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza definitiva per gli stessi fatti da uno Stato membro a condizione che, in caso di condanna, la sanzione sia stata applicata o sia in fase di esecuzione o non possa più essere eseguita in forza delle leggi dello Stato membro della condanna”.

[7] Sul punto cfr. M. R. Marchetti, Mandato d’arresto europeo, in Enc. dir., 2008,  la quale afferma che: in altri termini, successivamente alla ricezione del mandato d'arresto europeo la corte d'appello competente verifica la documentazione e le informazioni trasmesse e, qualora non le ritenga sufficienti ai fini della decisione, può chiederne l'integrazione. Come è stato segnalato dalla dottrina, il legislatore ha configurato «una vera e propria fase preliminare» nel corso della quale l'autorità giudiziaria effettua un controllo che riguarda anzitutto la completezza dei dati richiesti dall'art. 6, i quali devono necessariamente essere presenti; in secondo luogo, ne valuterà la sufficienza a fini decisori, potendo disporne eventualmente l'integrazione.

[8] L’art. 6 comma 3 della legge 69/2005 dispone espressamente che “La  consegna  e'  consentita,  se  ne ricorrono i presupposti, soltanto  sulla  base  di una richiesta alla quale sia allegata copia del  provvedimento  restrittivo  della  liberta'  personale  o  della sentenza  di  condanna  a  pena  detentiva  che  ha  dato  luogo alla richiesta stessa”.

[9] A. E. Ricci, Mandato d’arresto europeo, in Dig. d. pen., 2010

[10] M. Tiberi, Mandato d’arresto europeo, in Dig. d. pen., 2005

[11] Precisamente l’art. 19, lett. c), Legge 69/2005 statuisce che: “se la persona oggetto del mandato d'arresto europeo ai fini di un'azione  penale  e'  cittadino o residente dello Stato italiano, la consegna  e'  subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata  ascoltata,  sia  rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi  la  pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale  eventualmente  pronunciate  nei suoi confronti nello Stato membro di emissione.

[12] La disposizione contenuta nell’art. 5 par. 3 della decisione-quadro 2002/584/GAI dispone che “Se la persona oggetto del mandato d'arresto europeo ai fini di un'azione penale è cittadino o residente dello Stato membro di esecuzione, la consegna può essere subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro emittente.

[13] Sul punto V. Cass., Uff. Massimario, Rel. n. 28/08 sexies, Orientamento di giurisprudenza: Rapporti Giurisdizionali con Autorità Straniere - Mandato arresto europeo (M.A.E.) - Legge n. 69 del 2005 – con la quale la Suprema Corte ha inoltre specificato che “Secondo la Relazione elaborata dalla Commissione nel 2006, alcuni Stati hanno introdotto questa garanzia in forma obbligatoria: Germania (per i cittadini ed i residenti), Cipro (obbligatoria per i cittadini, facoltativa per .i residenti), Ungheria (obbligatoria per entrambi se lo richiedono), Finlandia (obbligatoria per entrambi se lo richiedono). Talvolta sono peraltro previste restrizioni per i residenti. Così la Germania richiede che il residente sia cresciuto nel Paese e vi abbia risieduto abitualmente e legalmente fin dalla minore età, ovvero che sia o sia stato in possesso del permesso di soggiorno o da tre anni del permesso di soggiorno illimitato, ovvero che sia o sia stato in possesso del permesso di soggiorno illimitato e viva con un cittadino straniero che abbia le suddette caratteristiche con il quale forma un nucleo familiare ovvero viva con un cittadino tedesco con il quale forma un nucleo familiare”.

[14] Su tale prospettiva pretoria cfr. Cass., Uff. Massimario, Rel. n. 28/08 sexies cit., par. 5.2.9.3.3. Cittadino italiano o residente (art. 19, lett. c).

[15] Cfr. Corte Giust. CE (Grande Sezione), 18 luglio 2008, C-66/08, con la quale la Corte di Giustizia, risponde alla domanda di pronuncia pregiudiziale, sollevata dall’autorità giudiziaria tedesca, vertente sull’interpretazione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro del Consiglio 13 giugno 2002, 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri.

[16] Così G. De Amicis, Primi orientamenti della Corte di Giustizia sul mandato d’arresto europeo: verso una nomofilachia “eurounitaria”?, in Diritto penale e processo, n. 8/2011.

[17] Così Corte Costituzionale, 21 giungo 2010, n. 227

[18] Sul punto cfr. Cass. pen., Sez. VI, 23 aprile 2014, n. 17706 (Est. Paoloni), con la quale gli Ermellini hanno risposto alle obiezioni sollevate dalla difesa volte a dimostrare che “gli stessi precedenti penali e giudiziari gravanti sul (omissis), valorizzati dalla Corte di Appello per considerare inapprezzabile la sua residenza italiana, rappresentano a ben riflettere l'ulteriore prova di come il Tirziman almeno da più di tre anni risulta stabilmente inserito in Italia, in modo costante e duraturo”.

[19] Così la Corte regolatrice, nella sentenza in commento, ha annullato la sentenza della Corte di Appello che aveva riconosciuto, sulla base di mere circostanze di fatto, l’operatività dell’art. 18, comma 1, lett. r) e dell’art. 19 della legge 69/2005, in assenza di indagini approfondite sull’effettivo carattere di residenzialità della permanenza del soggetto sottoposto al MAE. (Cfr, Cass. pen., Sez. VI, 15 ottobre 2015, n. 41516 (Est. Petruzzellis).

[20] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 23 aprile 2014, n. 17706 (Est. Paoloni).

Immagine di copertina: Cesare Maccari, "La Giustizia con la bilancia e la spada tra la Legge e la Forza"