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Pubbl. Mer, 3 Feb 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

L’ombra della “Sentencing Disparity”: casi giudiziari analoghi e conclusioni differenti

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Fabio Zambuto


Non di rado capita di chiedersi quali sono le reali dinamiche di gruppo all’interno dei collegi giudicanti. Il “come” veniamo giudicati, certe volte, è più importante del “perché”. Ma cosa accadrebbe se un processo incardinato innanzi ad una Corte d’Assise venisse trattato da un Tribunale in composizione Monocratica? Molteplici studi hanno dimostrato l’infallibilità della giustizia e dei processi. Con questo breve saggio ci si propone di analizzare proprio i metodi adottati dai Tribunali e dalle Corti per pervenire ad un giudizio di assoluzione o di colpevolezza, e l’esito, come si vedrà, è tutto fuorché rassicurante.


I. Premessa Storica: dalle “giurie” alla Corte d’Assise

La risoluzione pacifica, attraverso il diritto, dei conflitti fra i singoli è oggi in gran misura affidata a esperti qualificati dalla loro conoscenza del diritto. Non sempre però è stato così, né può dirsi che oggi sia così dappertutto, poiché tale compito è stato assegnato anche ai comuni cittadini[1]. La crisi della fiducia nei confronti della passività della decisione giudiziaria ha stimolato un forte interesse nei riguardi delle dinamiche e della variabilità dei processi decisionali in ambito giudiziario[2].

In particolare le ricerche sui processi decisionali in ambito giudiziario, condotte precipuamente nei paesi anglosassoni, hanno interessato in prevalenza l’ambito della giustizia penale e si sono focalizzate sui comportamenti dei membri delle giurie popolari piuttosto che su quelli dei giudici togati.

L’istituto della giuria popolare in Italia ha assunto nel dibattito quotidiano corrente una posizione di gran lunga marginale rispetto a quella rivestita in passato. Com’è noto, e come si è visto nel capitolo precedente[3], nel sistema penale di bandiera vi sono giudici monocratici e collegi giudicanti.

E’ innegabile l’assunto per cui il processo decisionale di questi ultimi sia accompagnato da dinamiche differenti e riferibili a momenti comuni di interazione di gruppo. E’ quindi importante, al fine di comprendere i processi decisionali che si celano dietro la sentenza, esaminare il ruolo che può giocare l’interazione fra i componenti del collegio giudicante.

Prima di ogni cosa è opportuno capire quale sia la ratio sottesa ad una composizione di questo tipo. Nei «Dei delitti e delle pene, Beccaria, auspicava già la istituzione di forme di partecipazione popolare nel processo come forma di garanzia del processo stesso: “se nel cercare le prove di un delitto richiedesi abilità e destrezza, se nel presentarne il risultato è necessario chiarezza e precisione, per giudicare del risultato medesimo, non vi si chiede che un semplice buon senso, men fallace che il sapere di un giudice assuefatto a trovare rei, e che tutto riduce ad un sistema fittizio imprestato dai suoi studi. Felice quella nazione dove le leggi non fossero che una scienza[4]".

Una prima apparizione di istituti di decisione collegiale si ebbe durante il periodo delle Repubbliche poiché molte costituzioni diedero vita al sistema di corte d’assise misto con i giudici del diritto e i giudici del fatto.

Seppur nel periodo Napoleonico si dovette assistere alla scomparsa delle giurie, un eccezione venne operata dalla Costituzione siciliana del 1812 la quale affidò ad un “jurì” la decisione di tutte le materie di fatto nei giudizi civili e criminali. Successivamente, con un editto di poco successivo all’emanazione dello Statuto Albertino, il n.695/1848, vennero disciplinate nuovamente composizione, ruolo e funzionamento delle giurie, e contestualmente venne loro attribuita la competenza decisionale sui reati di stampa e opinione[5]. L’art. 58 del menzionato editto prevedeva la figura del “magistrato d’appello coll’aggiunta dei giudici di fatto”, come “elemento essenziale dell’opinione pubblica saggiamente rappresentata”. La decisione era presa in camera di consiglio a maggioranza ed il verdetto veniva poi letto in udienza dal “portavoce” dei giurati.

Posto che l’obbligo di motivazione era garanzia ancora ben lontana, furono emanati dai giudici popolari parecchi verdetti di assoluzione immotivati che facevano da contraltare alle forme di repressione esercitate dallo stato sui reati di opinione. Ne risultò così la sfiducia dell’istituto tanto che si dovette procedere a numerose modifiche strutturali ed essenziali.

Nel 1865, con la legge di unificazione  il parlamento emanò il primo codice di procedura penale unitario e contestualmente la legge sull’ordinamento giudiziario (L. n. 2626/1865).

Venne istituita la Corte di Assise, composta da tre giudici togati e dodici giurati, competente a conoscere dei reati contro la sicurezza dello Stato, degli attentati all’esercizio dei diritti politici, del reato di pubblica istigazione a commettere delitti contro i poteri dello Stato.

Ai giurati vennero affidati poteri fino ad allora inimmaginabili tanto che questi avevano la possibilità di interagire personalmente con i testimoni, i consulenti e gli imputati. In questa cornice, la decisione in camera di deliberazione avveniva con votazione scritta e segreta sulle singole questioni a maggioranza semplice, ed in caso di parità prevaleva l’opinione favorevole al reo. Tale assetto perdurò fino all’avvento del regime fascista che con il r.d. n.249 del 1931 riordinò i giudizi d’assise sopprimendo la giuria e i giurati[6].

Venne a formarsi un unico collegio composto da due giudici togati e cinque giudici laici denominati “assessori”, con il compito di decidere con sentenza motivata sia in fatto che in diritto.

Seppur con la caduta del regime venne nuovamente reintrodotta la giuria popolare con il r.d. 560/1946 (decreto Togliatti), questa costituì comunque argomento di dibattito all’interno dell’Assemblea costituente, ed il risultato fu quello di un compromesso fra lo schieramento sfavorevole al ripristino dell’istituto e quello favorevole all’intervento del popolo nell’esercizio della funzione giurisdizionale[7].  

L’articolo 102, terzo comma, della carta Costituzionale consacra il diritto del popolo alla partecipazione diretta all’amministrazione della giustizia. Tale precetto trova così applicazione nella composizione delle Corti d’Assise di primo e secondo grado, organi caratterizzati dalla presenza di giudici popolari, chiamati a decidere di fianco ai giudici togati, di crimini particolarmente gravi.

La legge 10 Aprile 1951, n. 287, regola le funzioni e il reclutamento di questo collegio giudicante a composizione mista che decide unitariamente il fatto e il diritto, prevedendo finanche ipotesi di incompatibilità fino a quel momento rimaste fuori dal dibattito istituzionale; in particolare presuppone una composizione di due magistrati togati e sei giudici popolari e presieduto, in primo grado da un giudice d’appello e in secondo da un magistrato di Cassazione.

Le decisioni della Corte d’Assise vengono prese a maggioranza dei voti espressi da tutti i membri del collegio, che fra i giudici togati e popolari sono otto, ed in caso di parità viene adottata la soluzione più favorevole al reo. La presenza dei giudici popolari è concepita come strumento di controllo democratico popolare sulla gestione della giustizia da parte del potere giudiziario ed introduce il temperamento della comune ragionevolezza nel rigore tecnico del sillogismo giudiziario che conduce alla sentenza.

E’ bene precisare che l’ordinamento vigente prevede la presenza di giudici togati di carriera e giudici laici popolari anche nei Tribunali per i minorenni e nella sezione della corte d’appello per i minorenni. In questi casi i laici sono scelti sulla base del possesso di conoscenze e competenze in ambiti legati ai processi di sviluppo psicologico e sociale del minore e rispetto ai giudici popolari delle corti d’assise hanno la possibilità di “familiarizzare” e familiarizzarsi nella decisione comune, avendo almeno tre anni a disposizione e parlando, spesso, il medesimo linguaggio derivante da una affine cultura professionale[8].

L’introduzione di componenti esperti nei Collegi minorili è giustificata dalla necessità, per la giustizia, di dotarsi di competenze non disponibili al proprio interno. Risulta chiaro che il componente privato del tribunale per i minorenni abbia una minore forza decisoria all’interno del collegio di quanta ne è affidata a quello delle Corti d’Assise, e ciò lo si deve chiaramente alla composizione (due togati e due privati nel Tribunale, tre togati e due privati in Corte d’Appello).

 

II. Le curiose dinamiche della decisione giudiziale di gruppo

Una differenziazione essenziale dei ruoli ricoperti dai componenti di un gruppo è quella tra leader e gregari: al primo spetta (e da lui ci si attende, almeno nella prospettiva dei secondi) la guida del gruppo[9]. Nei collegi giudicanti dell’ordinamento italiano, esiste un leader predeterminato, cioè il presidente, e nelle Corti d’Assise con partecipazione popolare i leader predeterminati sono almeno due, cioè i giudici togati la cui autorevolezza non potrà non avere peso determinante nella decisione del collegio; in particolar modo, ciò avviene in caso di processi “brevi”, in cui i membri laici, generalmente privi di precedenti esperienze di questo tipo, non hanno il tempo di crearsi una certa competenza personale e di svincolarsi quindi, almeno parzialmente, dalla dipendenza dai membri togati[10].

E’ indubbio ritenere che i collegi misti ripropongono in maniera ancora più evidente delle giurie composte da soli giudici popolari, il conflitto tra il principio della partecipazione della collettività all’amministrazione della giustizia e la competenza dei “profani” a giudicare[11].

Già Freud mise in luce come in ogni esperienza di gruppo esisterebbe sia un livello conscio (esplicito) sia uno inconscio dominato dalla conflittualità[12]. Ed in questo secondo livello rientrerebbe il ruolo vissuto dalle emozioni nelle attività collegiali, che faciliterebbe l’insorgere di indecisioni, divisioni, inefficienze e degenerazioni del comportamento e delle decisioni di gruppo.

Componente distorcente dell’operato di un collegio, che comporta l’affiorare di elementi irrazionali, è il fattore dello stress dovuto dal compito gravoso di pronunciare una decisione, specie in ambito penale.

Alla leadership togata, la componente laica può d’altra parte esprimere un proprio leader che, a seconda dei casi, potrà avere un ruolo di supporto o di antagonismo nei confronti della leadership principale. In merito all’influenza che lo stile di comportamento del leader può avere sugli altri membri del collegio, risulta interessante uno studio condotto da R. White e R. Lippit[13], i quali distinsero sperimentalmente tre gruppi, imponendo a ciascuno dei leader che si comportasse, uno in modo autoritario, un altro in modo democratico e il terzo secondo uno stile laissez-faire.

Si constatò che il leader autoritario prendeva egli stesso ogni decisione sul da farsi, il leader democratico partecipava alla discussione del gruppo sulle decisioni da prendere con animo di incoraggiamento verso gli altri, e il leader che adottava uno stile laisser-faire rimaneva escluso dalle dinamiche del gruppo facendo prendere la decisione a quest’ultimo. Così si dedusse che i gruppi con una leadership più forte fossero in qualche misura più efficienti nel risolvere il problema rispetta a gruppi dotati di una leadership più debole.

Alla base della leadership c’è sempre un processo di interazione che può dipendere dal compito, dal gruppo, dalle circostanze e che, di conseguenza, mentre non esistono tratti peculiari della personalità del buon leader, l’efficacia di un tipo di leadership può variare fra un gruppo e l’altro[14].

Nel caso particolare di un collegio formato da giudici togati e giudici laici, i primi rimarranno, in qualche misura, “fuori dal gruppo”, in quanto la loro autorità deriverà dal fatto che essi possiedono già capacità e conoscenze da cui anche gli altri possono trarre beneficio, ed il modo in cui i membri togati svolgeranno il proprio compito dipenderà in larga misura dal loro modello di percepire il proprio ruolo all’interno del gruppo.

Il codice di procedura penale vigente, per ridurre gli aspetti meno vantaggiosi dell’influenza della leadership, o comunque di alcuni comportamenti del collegio sugli altri, fornisce alcune disposizioni tra cui l’art. 527 comma 2, il quale prescrive che tutti i giudici enunciano le ragioni della propria opinione e votano su ciascuna questione qualunque sia stato il voto espresso sulle altre; il presidente poi deve raccogliere i voti cominciando dal giudice con minore anzianità di servizio e vota per ultimo;  nei giudizi dinanzi alla Corte d’Assise votano per primi i giudici popolari, cominciando dal meno anziano per età e solo successivamente si esprimono i due giudici togati, prima il consigliere a latere e infine il Presidente.

Il giudice popolare opera quindi solo nella fase di verifica della fondatezza delle prove acquisite e concorre al giudizio con gli stessi poteri dei giudici togati.

La discussione in camera di consiglio è diretta dal presidente del collegio, un giudice togato, e da questi sono individuate le questioni da risolvere e da porre in decisione. Il mancato rispetto di queste regole di priorità nell’ordine di manifestazione delle opinioni può amplificare le differenze di competenze tra i giurati e orientare le decisioni. Tale regola sembra ispirarsi a una teoria implicita dei processi di influenza che fa discendere questa dallo status (legato al possesso di competenze tecniche e all’esperienza in un dato dominio) e dall’età[15].

Orbene, ciò che è dato sapere dei collegi giudicanti è solo deducibile dalle regole procedurali che presiedono alla formazione ed estrinsecazione delle singole opinioni; che cosa nella realtà accada non è dato sapere.

Poiché un collegio possa funzionare come struttura decisionale efficiente, è necessario che i componenti di esso imparino a trattare le idee con rispetto e a lavorare con esse in modo efficiente e produttivo nelle tre principali fasi in cui si struttura il dibattito e la decisione, cioè nella generazione, strutturazione e comunicazione delle idee[16].

Così si è anche tentato di individuare alcuni metodi per stimolare la produttività delle idee partendo dall’ipotesi secondo la quale una maggiore produttività intellettuale può essere raggiunta tanto dai gruppi quanto dagli individui attraverso una consapevole separazione dell’attività mentale in differenti azioni ideative.

Uno dei metodi utilizzati, il brainwriting pool[17] utile nel processo decisionale giudiziario di gruppo, può essere descritto in questo modo: si ipotizza che un piccolo gruppo debba fornire idee rilevanti alla soluzione di un problema specifico, come l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato; il gruppo quindi viene fatto sedere intorno ad un tavolo mettendo a disposizione vari fogli sui quali vengono previamente annotate una o due idee rilevanti per la verifica dell’ipotesi; ciascun membro del gruppo quindi, preso il foglio dal tavolo, annota le proprie idee sulla carta analizzata e la ripone al centro per poi prendere un altro foglio e procedere con la medesima operazione.

In questo processo di cumulo delle idee non si svolge nessuna conversazione tra i partecipanti, ed il procedimento termina quando il gruppo sembra aver esaurito ogni idea.

A questo punto le idee vengono radunate dando avvio alla fase deliberativa; tale metodo può essere utile per evitare vari inconvenienti nei giudizi collegiali quale potrebbe essere l’acquiescenza da parte degli altri componenti del collegio nei confronti del membro o dei membri più autorevoli e il contagio dei pregiudizi di qualcuno. In questo modo tutti i membri del collegio possono operare parallelamente evitando reciproche inferenze, stimolando la riflessione di ciascuno ed evitando la dispersione delle idee; in aggiunta a ciò i conflitti esistenti all’interno del gruppo hanno minore possibilità di alterare il risultato della decisione.

La questione che comunque risulta di evidente importanza resta pur sempre quella di intendere chi sia effettivamente a decidere all’interno del collegio giudicante.

In una giuria formata da soli giurati popolari, lo stile di comportamento, il censo, l’appartenenza etnica e di genere, il livello di istruzione, le condizioni di ambientazione spaziale, sono alcuni dei fattori che possono concorrere alla strutturazione delle differenze di status e a orientare i processi di influenza nel gruppo.

 

III. Le particolari dinamiche decisionali della Corte d’Assise raccontate da un Giudice

Nel caso dei collegi giudicanti a composizione mista è presente un altro fattore di disparità non meno importante, quello che deriva dal diverso status del giudice popolare rispetto a quello togato.

Mosso dal particolare quanto sensato bisogno di capire quale ruolo concreto svolgano i giudici popolari nei processi di decisione che si esprimono nella sentenza, un magistrato con una sconfinata esperienza giurisdizionale all’interno dei collegi misti, Luigi Lanza[18], ha condotto una ricerca sulle dinamiche decisionali in Corte d’Assise. «Per quanto riguarda i rapporti tra i membri del collegio, mentre quelli tra i giurati laici vengono definiti per lo più “amichevoli” (78,3%), quelli con la componente togata sono prevalentemente formali e rispettosi (63,6%). In camera di consiglio, luogo della decisione, si verificano raramente conflitti e tensioni tra i giurati laici (4,2%) mentre più consistenti sono le frizioni percepite tra questi e i giudici togati (18,2%). Spesso le conflittualità vengono risolte grazie ad una discussione pacata (66,7%) ma capita anche che ciò avvenga attraverso una scelta autoritaria del presidente (25%)[19]».

Oltre a rilevarsi dati relativi all’interazione, dalle ricerche condotte si è potuto evincere come i giudici popolari abbiano nella maggior parte dei casi una serie difficoltà di comprensione circa il linguaggio giuridico anche se ritengano di essere stati prontamente informati sulle norme sostanziali e processuali. I giudici laici, poi, dichiarano pur sempre la propria totale autonomia da condizionamenti interni al collegio ed escludono l’ipotetica tendenza di accorpamento tra loro. Non mancano coloro che ritengono che la conoscenza che viene loro garantita sia insufficiente per una corretta decisione, né quelli che hanno avuto la sensazione che i giudici togati abbiano voluto orientare la loro opinione sia sulle questioni di fatto che, ancora di più, su quelle di diritto. «Nonostante gli aspetti critici denunciati, l’84% degli intervistati esprime comunque un giudizio favorevole sull’attuale assetto del collegio giudicante. A conclusione della sua analisi, Lanza riconosce che i sei giudici popolari […] presentano grosse difficoltà di comprensione del linguaggio giuridico e dei singoli passaggi procedurali e problemi di adattamento in un ambiente operativo fortemente formalizzato. C’è il rischio che prevalga il potere della componente togata che potrebbe, senza difficoltà influenzare la maggioranza costituita dai giudici laici[20]».

Lanza, poi, individua nove variabili teoriche dello scenario della decisione che hanno una influenza diretta sulla qualità delle decisioni prodotte in camera di consiglio[21].

E’ infatti auspicabile che siano presenti nel repertorio del giudice strategie di gestione del gruppo derivanti dall’esperienza o da una formazione specifica; bisogna considerarsi che le decisioni del giudice monocratico risultano “più a rischio” rispetto a quelle assunte da un collegio ove è presente il confronto; in presenza di giudici laici il presidente deve poter essere in grado di trovare un equilibrio tra la mera rappresentazione dei fatti e delle norme ed una comunicazione manipolatoria e intrusiva; rientra poi tra la competenza di un buon leader tracciare la strada della decisone dando senso critico ai pareri dissenzienti soprattutto se provenienti da un giudice laico, evitando comunque che blocchino il processo decisorio; bisogna sempre considerare gli aspetti insiti nella personalità di ciascuno e i risvolti dinanzi alla gravità dell’imputazione, alle qualità dell’imputato e della vittima, alla professionalità e autorevolezza delle parti processuali a all’interesse dei media ai risultati del processo[22].

Nonostante i risultati ottenuti, Lanza sostiene che siffatta struttura abbia una propria «indubbia valenza e positiva praticità[23]»; ciò è dovuto anche al fatto che «il prevalente peso numerico dei giudici non professionali trova armonico equilibrio nei processi di decisione, in un gioco di forze contrapposte, con lo strapotere cognitivo e tecnico dei giudici togati [24]».

 

IV. Ed il tribunale?

Un breve accenno è opportuno dedicarlo al tribunale. Esso ha da un lato una competenza “residuale” a giudicare i reati non appartenenti alla competenza della Corte d’Assise o del giudice di pace, dall’altro una competenza “qualitativa” a giudicare reati che sono previsti in modo specifico da singole norme di legge e che presuppongono che il magistrato giudicante conosca materie tecniche o di una qualche complessità.

Il tribunale in composizione collegiale è formato da tre giudici togati, e conosce i reati puniti, anche nelle ipotesi di tentativo, con una pena detentiva superiore nel massimo a dieci anni, ma inferiore a ventiquattro anni, purché non siano di competenza della Corte d’Assise [25].

Al tribunale in composizione monocratica sono attribuiti molti reati che presentano un notevole tasso di pericolosità sociale, come ad esempio i delitti contro l’incolumità pubblica.

La legge n. 479 del 1999 ha aumentato la competenza del giudice singolo da quattro a dieci anni di pena edittale nel massimo, e tale scelta ha comportato numerose conseguenze.

E’ sorto in questo modo il pericolo che il giudice monocratico, non essendo coadiuvato dai colleghi nell’esercizio delle sue funzioni, non approfondisca i punti posti in discussione e finisca per “appiattirsi” sulla tesi sostenuta dalla parte più “forte”.

Invero, il giudice singolo ha una esposizione sociale molto elevata: proprio nei casi più gravi, in cui è chiamato a prendere una decisione impopolare perché ritiene che l’accusa non abbia eliminato il ragionevole dubbio, l’essere solo nel decidere può indurlo ad assecondare la piazza [26].

Viceversa il collegio ripartisce tra più giudici l’esposizione sociale ed è maggiormente idoneo a resistere alle sollecitazioni dell’opinione pubblica. Le dinamiche decisionali del giudice singolo, poi, sono in taluni casi maggiormente influenzabili dalle parti, le quali possono trarre a proprio favore eventuali atteggiamenti e attitudini del giudice. Lo stesso non può dirsi per le dinamiche interne al collegio giudicante ove avviene un indubbio controllo di relazione tra i membri del tribunale.

Allo stesso tempo, però, i membri togati di un collegio potrebbero dissentire su talune questioni interpretative a causa della eguale competenza che li contraddistingue.

Certamente il Presidente avrà il ruolo sopra delineato, ma nel caso in cui non sia presente una componente popolare, ma ci si trovi innanzi a soli magistrati di carriera , le discussioni potrebbero farsi più accese e dibattute.

Il pregio di un sistema collegiale composto da soli membri togati è quello per cui si pone maggiormente l’accento su questioni tecnico giuridiche, evitando eventuali componenti  emotive che più facilmente si fanno spazio in un collegio misto.

I collegi misti, dal loro canto, per quanto costernati, come qualsiasi altro tipo, da fattori “infettanti” ed eventualmente distorcenti, permettono un repentino e fisiologico “aggiornamento” a opera della collettività del sistema giudiziario che, in questo modo, si è dotato di un «meccanismo perpetuo e periodico di autogenerazione e osmosi culturale, unico tra i sistemi organizzativi statuali[27]».

Nei collegi giudicanti a composizione mista risulta fondamentale l’atteggiamento della componente togata che dovrebbe tendere al raggiungimento e al mantenimento dell’equilibrio fra il momento di confronto e quello di coesione; inoltre il contributo dei giudici popolari deve essere il più ampio possibile poiché si rischia il ridursi della decisione ad una mera partecipazione emotiva che non solo impoverisce il processo decisionale, ma rende reale il pericolo di statuizioni rischiose.[28] Nel giudice popolare, non di meno che nel collegio in re ipsa,  la consapevolezza delle responsabilità assunte insieme alle norme sociali di riferimento e alla presentazione e al rispetto delle idee sono fattori precipui rispetto ai modi nei quali il compito decisionale viene affrontato e ai quali la ricerca empirica sulla decisione giudiziaria dovrebbe dedicare certamente più attenzione.

 

V. Il nodo della questione: Sentencing Disparity

Essendo il processo un problema mal definito, non esistono procedure automatiche di risoluzione, ma è necessario ricorrere ad euristiche che, inevitabilmente, fanno sì che la decisione giudiziaria sia il risultato dell’effetto di variabili legali, concernenti effettivamente le caratteristiche del caso e le norme sostanziali e procedurali, ma anche di variabili extra-legali, che esulano dalla sfera giuridica e che riguardano fattori quali la filosofia penale del giudicante e le sue caratteristiche personali[29].

A seconda dell’esperienza acquisita, diverse sono le strategie decisionali che vengono attuate dal giudice.

A partire dagli anni Sessanta e Settanta, anni che videro un esoso sviluppo degli studi anglo-americani sulle giurie e, in generale, sul processo, diverse ricerche si occuparono della sentencing disparity, che in sintesi, analizza i «fattori responsabili delle differenze tra decisioni giudiziarie in merito agli stessi casi[30]».

In particolare questo fenomeno è definito come una forma iniqua di trattamento che è molto spesso causa di inspiegabili, incongrue e ingiuste decisioni giudiziarie. 

Occorre puntualizzare e distinguere le disparità in questione, che sorgono a causa di inspiegabili discriminazioni o di altri fattori non correlati ai problemi rilevati della causa penale specifica, da altre differenze che sorgono a causa di uso legittimo della discrezionalità di cui gode il giudice nell'applicazione della legge.

Questo fenomeno, se così può essere definito, risulta molto importante alla luce del fatto che due giudici, chiamati a pronunciarsi sulla medesima questione potrebbero dare un giudizio “ingiusto” a causa del fatto che possano essere utilizzati ragionamenti probatori ben differenti tra loro, o che siano più o meno emotivi, ovvero ancora che abbiano una maggiore o minore esperienza, o che facciano parte o meno di un collegio giudicante.

Uno studio del 2006 condotto da M. S. Crow e W. Bales ha fornito la prova di una profonda disparità di commisurazione della pena in casi analoghi tra loro; la Florida Department of Corrections fornì loro le statistiche di quei prigionieri che tra il 1990 e il 1999 ricevettero la libertà vigilata classificandoli come neri/ispanici e bianchi/non ispanici; la ricerca rilevò come i neri/ispanici avessero ricevuto sanzioni ben più intense rispetto all’altro gruppo, seppur per reati della medesima entità e per i quali si sarebbe dovuta prevedere la medesima pena[31]. Seppur in questo caso la disparità consista nelle caratteristiche fisiche, etniche e razziali, non sempre è agevole identificare l’elemento discriminante.

Emblematico risulta un caso notoriamente accaduto in Italia, in cui un avvocato, per scrupolo difensivo decise di depositare nella Cancelleria della Suprema Corte una fotocopia in più di uno stesso ricorso: per un mero disguido dell’addetto allo sportello, a quella copia aggiuntiva venne attribuito un diverso numero di protocollo; successivamente, su quei ricorsi identici, la Cassazione decideva due volte, accogliendo un ricorso e – attraverso una serie di virtuosismi letterari ed espedienti narrativi – rigettando l’altro.[32] In questo caso particolare, non è facile capire i motivi per i quali un ricorso sia stato ritenuto ammissibile e l’altro sia stato rigettato. Seppur i maggiori studi in materia riguardino prettamente la composizione delle giurie, è opportuna una breve analisi fin tanto che siano esistenti caratteristiche comuni tra i giurati di un sistema di common law e i giudici popolari italiani.

Uno studio condotto dall’Università di Chicago, che finì per diventare uno dei primi e maggiori progetti sul tema (il cosiddetto University of Chicago Jury Project), tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, e le cui conclusioni furono esposte nell’opera di H. Kalven e H. Zeisel[33], si è riproposto di ricostruire quali sentimenti o atteggiamenti abbiano i giurati, come questi costruiscano la realtà, perché fanno ciò che fanno e in che misura e per quale motivo il loro giudizio si discosta da quello del giudice togato[34].

Il progetto raccolse 3576 casi, in larga misura penali, che coprirono circa quindici tipi di reato, da un questionario fornito a 555 giudici.

Nel questionario venne richiesto ai magistrati come avesse deciso la giuria, come avrebbero deciso loro se non fosse stata presente la giuria ed in cosa pensassero risiedesse la differenza fra il giudizio dei giurati e quello proprio[35].

Lo studio permise di confrontare il verdetto che il giudice intervistato avrebbe emesso, sulla base delle prove emerse durante il processo, con quello effettivamente pronunciato dalla giuria nello stesso processo[36]; la ricerca venne anche arricchita da una serie di interviste effettuate a giurati nonché, nella misura in cui fosse possibile, dalla registrazione di ciò che avveniva in camera di consiglio (pratica che al tempo dell’indagine era consentita):

-          nel 5,5% dei casi le giurie non avevano espresso il verdetto poiché non raggiunsero l’unanimità;

-          nel 78% dei casi, in generale, i giudici avrebbero deciso esattamente come i giurati;

-          nel 64% peri casi, il giudice avrebbe condannato come la giuria; nel 14% dei casi il giudice avrebbe assolto come la giuria; 

-          ma le conclusioni più interessanti riguardano il 22% dei casi rimanenti, quelli cioè in cui non vi è accordo fra giurati e giudici: il disaccordo infatti non è al 50% poiché nel 19% dei casi i giudici avrebbero condannato, mentre la giuria ha assolto e solo nel 3% dei casi il giudice avrebbe assolto mentre la giuria ha condannato[37].

Indagini analoghe pervennero a risultati simili, attestando la maggiore indulgenza della giuria nei confronti del giudice togato, e, in conclusione, è possibile sostenere che la giuria fosse del 16% più indulgente rispetto al giudice togato.

Contestualmente a tali risultati vennero distinti i casi in cui il disaccordo tra il giudice e la giuria riguardava soltanto i fatti, i casi in cui riguardava fatti e valori, e i casi in cui riguardava esclusivamente i valori[38].

Per spiegare il disaccordo vennero quindi formulate alcune ipotesi: secondo la prima, i giurati ed il giudice attribuiscono peso diverso a singoli pezzi di prova (testimonianza, perizia) e sembra che i primi siano più scettici rispetto al secondo sull’attendibilità delle prove offerte dall’accusa[39]; la seconda ipotesi riguarda il margine di dubbio che i giudici e i giurati riescono a tollerare quando decidono di condannare, e sembra che i giurati tollerino un minor margine di dubbio.

Ecco che risultati di questo tipo inducono a considerare quanto una decisione presa da un gruppo possa essere caratterizzata da molteplici componenti che influiscono in modo tale da configurare ipotesi terminative dell’iter procedurale sostanzialmente differenti.

Un altro studioso[40] rilevò come la conclusione dei due autori circa l’assenza di differenze significative tra i verdetti delle giurie e quelli dei giudici fosse ingiustificata alla luce del fatto che il disaccordo è evidente nei casi di proscioglimento poiché rappresenta il 57%, ovvero per 1083 imputati che sono stati prosciolti dalle giurie, se si fosse proceduto dinanzi ad un giudice togato si sarebbe pervenuti alla condanna.

 

VI. Lo strumento delle “giurie ombra”

Una delle misure dell’attendibilità di uno strumento (reliability) consiste nella capacità di due sue identiche versioni di dare il medesimo risultato, quando applicate alla medesima circostanza[41].

Questo principio è posto alla base della shadow jury: la giuria può essere considerata uno strumento affidabile se due collegi giudicanti, formati attraverso le stesse procedure ed esposti alle medesime informazioni, pronunciano il medesimo verdetto.

Non mancarono neanche le ricerche effettuate sulla base di questa tecnica[42]: i giurati furono reclutati dalle stesse liste dalle quali venivano estratti i giurati che facevano parte delle giurie impegnate nei processi scelti dai ricercatori per verificare l’attendibilità delle shadow juries; i partecipanti assistevano a tutte le fasi del processo e deliberavano nello stesso momento e con le stesse modalità della giuria reale[43].

Dalle interviste svolte ai giurati “ombra” successivamente alla presentazione del verdetto da parte della giuria reale si poterono notare sconcerto e disgusto poiché molte volte accadeva che l’imputato condannato nella realtà, sarebbe stato assolto dalla giuria fittizia, e viceversa.

 

VII. Esperienza vs inesperienza: disparità?

In una ricerca[44] sul ragionamento svolto da magistrati esperti (ME) e inesperti (MI), è emerso che i primi controllano maggiormente il proprio ragionamento utilizzando il forward, ovvero quel ragionamento “in avanti” che dallo stato iniziale del problema passa a quello finale attraverso una serie di passaggi collegati per i quali si considerano le azioni possibili e tra le quali viene scelta la migliore in considerazione del proprio esito, o il backward, ovvero quel ragionamento “all’indietro” attraverso cui ci si muove dallo stato finale del problema per giungere attraverso passaggi successivi allo stato iniziale[45].

Sia i magistrati esperti sia quelli inesperti utilizzano la strategia della scomposizione per cui il problema viene scomposto in sottoproblemi da risolvere autonomamente, ma i ME organizzano i sottoproblemi in modo gerarchico, da quelli più generali a quelli più specifici subordinati ai primi. I magistrati inesperti tendono poi ad “abbracciare” precocemente una delle parti precostituite concentrandosi sulla riflessione giuridica, mentre i ME procedono ad una autonoma ricostruzione del problema e dei fatti[46]. Ancora, i MI tendono ad ancorarsi alla prima ipotesi formulata e comunque a prenderne in considerazione una alla volta attraverso una procedura di verificazione al contrario dei ME che considerano varie ipotesi alternative utilizzando eventualmente procedure di falsificazione. Mentre i magistrati esperti formulano anche versioni alternative e prospettano storie possibili, i magistrati inesperti tendono a costruire una sola storia del caso; nella fase di valutazione della soluzione i ME utilizzano maggiormente strategie argomentative atte a giustificare la propria decisione e smentire quelle alternative (proprie o proposte/proponibili da altri). Infine, per quanto riguarda il passaggio dal fatto al diritto, mentre i magistrati esperti compiono un maggior numero di inferenze rilevanti ed utilizzano un metodo analogico, attraverso un processo di astrazione per collegare le due fattispecie, i MI tendono a riferirsi prevalentemente al diritto (a scapito della costruzione dei fatti) o a conoscenze non normative (a scapito del diritto) o a collegare direttamente fatti e codice (a scapito di entrambi). Tendono così a ricollegare il caso alla “casella” prevista dalla legge, saltando alcune tappe del processo di ricostruzione dalla fattispecie concreta.

Come è stato già detto, a seconda dell’esperienza acquisita variano anche le strategie decisionali utilizzate dal giudice. Essendo la sentenza il risultato dell’interazione di diverse tipologie di variabili, l’intero percorso seguito dal giudice muterà a seconda dell’incidenza, estensione e dirompenza di esse. Il MI si pone come obiettivo del giudizio una sentenza equa secondo l’assunto per cui “ad ogni crimine corrisponde una pena precisa indicata dal codice”; i ME si pongono come obiettivo del giudizio e della sentenza il trattamento/recupero del reo per evitare che questo commetta ulteriori reati, secondo un’ideologia a metà strada tra quella rieducativa del trattamento e quella di difesa sociale: così la selezione delle informazioni viene posta in essere attraverso complessi schemi precostituiti di lettura della realtà[47]. I ME, in virtù dell’esperienza accumulata possiedono script di approccio e risoluzione dei casi che li guidano nella raccolta delle informazioni e nel processo di decisione e tendono a portarli ad avere obiettivi e prospettive simili rispetto alla funzione della pena e al giudizio in generale. Tali schemi non sono però neutrali ma influenzati dalle preconfezioni possedute che si rinforzano all’accumularsi dell’esperienza.

Occorre in ultimo fare un accenno ad un ulteriore ricerca condotta a Toronto[48] su 71 magistrati ove si sono correlate filosofie penali dei giudici, attraverso cinque scale, ed il loro comportamento nelle sentenze.

Un orientamento verso il reato piuttosto che il reo (scala giustizia) porta a sentenze più severe per reati gravi e più lievi per reati minori attraverso un ragionamento giudiziario stereotipato; le pene più severe si hanno con l’atteggiamento “difesa sociale” in cui la pena è concepita in chiave retributiva e preventiva senza alcuna funzione rieducativa; gli atteggiamenti meno punitivi sono caratterizzati da complessità e articolazione di ragionamento.[49]

Il campione di giudici esaminati tendevano a minimizzare le differenze tra i loro punti di vista personali e le finalità delle norme superando la dissonanza cognitiva.

Ben il 50% delle differenze tra sentenze a parità di prove, era correlata agli atteggiamenti dei magistrati, mentre solo il 9% era correlato ai fatti; così la conclusione degli autori, che peraltro risulta condivisibile in quest’ottica, è quella per cui la sentenza è un processo dinamico in cui il fatto, il diritto e la situazione sociale sono utilizzati e valutati in modo che siano compatibili con gli atteggiamenti personali del giudicante.

Per quanto condivisibile sul piano attuativo, ciò non significa che sia corretto sul piano teorico.

 

VIII. Conclusioni

Certamente è vero che l’ordinamento giuridico impone di lasciare fuori dalle aule di giustizia eventuali componenti distorcenti, ma se questo può considerarsi un traguardo raggiungibile, quantomeno in parte, per un giudice togato, sicuramente risulterà di gran lunga più arduo per chi, come il giudice laico non è abituato a scindere elementi infettanti la composizione del collegio diviene elemento imprescindibile della propria strategia processuale a tal punto da condizionare anch’essa l’esito finale in quanto rientrante nella categoria delle variabili legali. Nei collegi giudicanti a composizione mista risulta fondamentale l’atteggiamento della componente togata che dovrebbe tendere al raggiungimento e al mantenimento dell’equilibrio fra il momento di confronto e quello di coesione; inoltre il contributo dei giudici popolari deve essere il più ampio possibile poiché si rischia il ridursi della decisione ad una mera partecipazione emotiva che non solo impoverisce il processo decisionale, ma rende reale il pericolo di statuizioni rischiose. Nel giudice popolare, non di meno che nel collegio in re ipsa,  la consapevolezza delle responsabilità assunte insieme alle norme sociali di riferimento e alla presentazione e al rispetto delle idee sono fattori precipui rispetto ai modi nei quali il compito decisionale viene affrontato e ai quali la ricerca empirica sulla decisione giudiziaria dovrebbe dedicare certamente più attenzione.

Le considerazioni fin qui svolte non inducono certamente a ritenere che tanto il ragionamento del giudice quanto il suo contesto operativo siano privi di ombre o immuni da vizi perturbanti, ma al contrario muovendo da queste premesse e discostandosi dallo scetticismo che ha pervaso l’esperienza umana in materia, è possibile inquadrare il dibattito sui rapporti tra l’io consapevole del giudice, la funzione giurisdizionale e la sovranità popolare per consentire di giungere a soluzioni processuali non solo oggettivamente accettabili ma ancor più tacitamente sostenibili e razionalmente verificabili rifiutando fallacie descrittivistiche e irrazionalistiche.

 

 


[1] L. CORSO, Giustizia senza toga. La giuria e il senso comune, Giappichelli, Torino, 2008, 25.

[2] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, Il Mulino, Bologna, 2008., 72.

[3]  Si veda Cap. I, par. 5.1.

[4] L. CORSO, Giustizia senza toga, cit., 49.

[5] L. CORSO, Giustizia senza toga, cit., 50.

[6] L. CORSO, Giustizia senza toga, cit., 52.

[7] L. CORSO, Giustizia senza toga, cit., 53.

[8] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, cit., 73.

[9] M. ZUFFRANIERI, I processi decisionali di gruppo in ambito giudiziario, in G. Gulotta e collaboratori, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Giuffrè, Milano, 2002, 582.

[10] G. GULOTTA, Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, in G. Gulotta (a cura di), Giuffrè, Milano, 1987, 978.

[11] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, cit., 118.

[12] G. GULOTTA, Trattato di psicologia giudiziaria, Giuffrè, Milano, 1987, 978.

[13] R. WHITE, R. LIPPIT, Autocracy and democracy, Harper and row, New York, 1960, 50.

[14] G. GULOTTA, Trattato di psicologia giudiziaria, cit., 981.

[15] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, cit., 119.

[16] G. GULOTTA, Trattato di psicologia giudiziaria, cit., 989.

[17] G. GULOTTA, Trattato di psicologia giudiziaria, cit., 991.

[18] L. LANZA, Gli omicidi in famiglia, le dinamiche della decisione in una Corte d’Assise d’appello, Giuffrè, Milano, 1994, 84.

[19] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, cit., 120.

[20] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, cit., 121.

[21] M. ZUFFRANIERI, I processi decisionali di gruppo, cit., 586.

[22] M. ZUFFRANIERI, I processi decisionali di gruppo, cit., 587.

[23] L. LANZA, Gli omicidi in famiglia, cit., 86.

[24] L. LANZA, Gli omicidi in famiglia, cit., 89.

[25] Conosce inoltre una serie di fattispecie nominativamente indicate dall’art. 33 bis, comma 1. Appartengono alla cognizione del tribunale collegiale quasi tutti i reati riconducibili all’associazione per delinquere, lo scambio elettorale politico mafioso, i delitti concernenti le armi, i reati in materia di aborto, l’usura, i reati commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, i reati commessi dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni, i reati previsti dal codice civile in materia di società e consorzi, i reati di violenza sessuale e prostituzione minorile.

[26] P. TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2011, 78.

[27] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, cit., 122.

[28] M. ZUFFRANIERI, I processi decisionali di gruppo, cit., 584.

[29] D. VITTORIA, Il ragionamento giudiziario tra argomentazione, dimostrazione e narrazione, in G. Gulotta e collaboratori, Elementi di psicologia giuridica e diritto psicologico, Giuffrè, Milano, 2002, 563.

[30] D. VITTORIA, Il ragionamento giudiziario tra argomentazione, cit., 565.

[31] M. S. CROW, W. BALES, Sentencing guidelines and focal concerns: the effect of sentencing policy as a practical constraing on sentencing decisions, in Riv. American Journal of Criminal Justice, n.2/2006, 30.

[32] Le pronunce contrastanti della Corte di Cassazione sono la n. 14608/2003 (RG 5886/1999) e la n. 19600/2005 (RG 7312/1999). Tutta la vicenda è poi riassunta nella necessaria, ulteriore sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili, n. 10867 del 30 aprile 2008.

[33] H. KALVEN, H. ZEISEL, The American jury, Little Brown, Boston, 1966, 55.

[34] L. CORSO, Giustizia senza toga, cit., 181.

[35] L. CORSO, Giustizia senza toga, cit., 182.

[36] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, cit., 86.

[37] L. CORSO, Giustizia senza toga, cit., 182.

[38] H. KALVEN, H. ZEISEL, The American jury, cit., 52.

[39] L. CORSO, Giustizia senza toga, cit., 182.

[40] G. M. STEPHENSON, The psychology of criminal justice, Blackwell, Oxford, 1992.

[41] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, cit., 86.

[42] S.  McCABE, R. PURVES, The jury at work: a study of jury trials in which the defendant was acquitted, Oxford University penal research unit, Occasional paper, 4, 1972.

[43] C. BERTI, Psicologia sociale della giustizia, cit., 86.

[44] D. VITTORIA, Il ragionamento giudiziario tra argomentazione, cit., 564.

[45] D. VITTORIA, Il ragionamento giudiziario tra argomentazione, cit., 564.

[46] D. VITTORIA, Il ragionamento giudiziario tra argomentazione, cit., 565.

[47] D. VITTORIA, Il ragionamento giudiziario tra argomentazione, cit., 566.

[48] S. HOGARTH, Sentencing as a human process, University of Toronto Press, Toronto, 1971.

[49] D. VITTORIA, Il ragionamento giudiziario tra argomentazione, cit., 567.