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Pubbl. Sab, 16 Gen 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Riconoscimento della protezione internazionale nella forma della protezione sussidiaria per giovane originario del Mali, soggetto a obbligo di leva.

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Salvatore Milazzo


Riconoscimento della protezione internazionale nella forma della protezione sussidiaria per giovane originario del Mali, ancora soggetto all’obbligo di leva nel Paese di provenienza. Commento a Tribunale di Milano, I sezione civile, ordinanza del 3 dicembre 2015.


Ha diritto alla protezione sussidiaria, ex art. 14 lett. c) D. L.vo 251/07, il soggetto sottoposto all’obbligo di leva in Mali, che abbia lasciato il proprio paese e si trovi nel territorio italiano.

Infatti, sussiste concretamente il pericolo di grave danno da violenza indiscriminata, cui egli andrebbe incontro ritornando nel paese di origine, ove verrebbe certamente aggregato alle truppe governative ed inviato nel nord del paese, ove ancora vi sono episodi di violenza generalizzata ancora non contenuti dalle forze governative in un contesto di pieno rispetto dei diritti umani.

 

Sommario: 1. Il caso. 2. La ricostruzione giuridica e la decisione del Tribunale

1. Il caso

Nel marzo del 2015, un cittadino del Mali, mediante ricorso ex art. 35 D.L.vo 28 gennaio 2008, n. 25, proponeva opposizione avverso il provvedimento della Commissione Territoriale per il Riconoscimento dello Status di Rifugiato di Milano che respingeva la sua richiesta di protezione internazionale.

Il ricorrente, giovane ventiduenne, faceva presente di essersi convinto necessariamente ad abbandonare dal proprio Paese, a causa del fondato timore di essere costretto a svolgere il servizio militare e di essere conseguentemente inviato nel nord del paese a combattere con le forze ribelli tuareg. In tali combattimenti, sottolinea, aveva già perso la vita il padre.

Come noto, dopo aver vissuto fra il 1992 e il 2012 un ventennio istituzionale democratico, la Repubblica del Mali è stata sconvolta dalla guerra civile e dal colpo di Stato militare sorti fra il 2012 e il 2013, e da una ripresa degli scontri nella primavera del 2014.

Dopo decenni di rivolte, tregue e rivendicazioni una ribellione dei tuareg, alimentata da armi e combattenti giunti dalla Libia, attacca le guarnigioni governative del Nord nel gennaio 2012: è l’avvio di uno scontro senza precedenti.

E’ altresì noto che nel corso delle operazioni belliche i militari maliani si siano resi artefici nonché vittime di gravi crimini e violazioni dei diritti umani e che il servizio di leva in Mali sia contrassegnato normativamente da un regime di obbligatorietà.
Alla luce di tali ultime considerazioni, il ricorrente ritiene che sussistano i presupposti per ottenere la protezione internazionale, anche in virtù del fatto che qualora egli tornasse nel predetto Paese, rischierebbe di subire un danno grave a causa della ancora non normalizzata situazione di violenza diffusa caratterizzata da violenti scontri tra tuareg ed esercito maliano non propriamente controllata dalle autorità statali.

 

2. La ricostruzione giuridica e la decisione del Tribunale

Il tribunale di Milano ritiene che il ricorso debba avere accoglimento, seppur parzialmente.

Per giungere a tale conclusione, l’organo giudicante opera una compiuta disamina normativa relativamente alla sussistenza dei presupposti per la concessione e dello status di rifugiato e della protezione internazionale nella forma sussidiaria.

In particolare, è rilevato che l’art. 2 del D.Lvo 19.11.2007 n. 251 sancisce che, conformemente alla Convenzione sullo status dei rifugiati firmata[1], deve considerarsi “rifugiato” il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi lontano dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o non vuole avvalersi della protezione di tale Paese.

L’art. 3 della predetta Convenzione, inoltre, prevede che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o dell'attribuzione della protezione sussidiaria, il richiedente debba evidenziare agli organi deputati tutti gli elementi e la documentazione necessaria a fondamento della relativa domanda. In virtù degli art. 5 e 7 del medesimo D.lgs., ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale, gli atti di persecuzione paventati debbono essere sufficientemente gravi, per natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali. Tali atti possono assumere la forma di atti di violenza fisica o psichica, di provvedimenti legislativi, amministrativi e giudiziari discriminatori.

Responsabili della persecuzione o del danno grave debbono essere lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato od una parte consistente del suo territorio; soggetti non statuali, se i soggetti sopra citati, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione.

È invece persona ammissibile alla protezione sussidiaria[2] il "cittadino di un Paese non appartenente all'Unione Europea o apolide che non possiede i requisiti per essere rifugiato, ma nei cui confronti sussistano fondati motivi di ritenere che se ritornasse nel Paese d'origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dall'art. 14 del decreto legislativo 19 novembre 2007 n. 251, e il quale non può, o a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese".

Nello specifico, secondo il citato art. 14 "sono considerali danni gravi: a) la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale".

All’interno della ricostruzione operata dal giudice meneghino, non manca altresì la parte dedicata all’onere probatorio richiesto per la concessione dei predetti status e protezione sussidiaria.

All’uopo, giova ricordare, come peraltro fa il Tribunale, che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto modo al riguardo di chiarire che “L'onere probatorio, deve dunque essere assolto seppur in via indiziaria tenendo conto delle difficoltà connesse a volte ad un allontanamento forzato e segreto, ma comunque a mezzo elementi aventi carattere di precisione, gravità e concordanza, desumibili dai dati, anche documentali, offerti al bagaglio probatorio (…)Il fatto che tale onere debba intendersi in senso attenuato non incide sulla necessità della sussistenza sia della persecuzione sia del suo carattere personale e diretto per le ragioni rappresentate a sostegno della sua rivendicazione[3]), e soprattutto non pone a carico dell'amministrazione alcuno speculare onere ne' di concedere il beneficio del dubbio, ne' di smentire con argomenti contrari le ragioni addotte dall'istante.”[4]

Ciò premesso, il Tribunale lombardo ritiene che le vicende rappresentate dal ricorrente, seppur siano da considerarsi veritiere, non costituiscono né motivo di persecuzione né comportamento comunque legato alle categorie indicate dalla legge. In tal senso, non può esser concesso lo status di rifugiato.

Diversamente, l’organo giudicante ritiene sussistenti le condizioni la protezione sussidiaria, visto il perdurare del conflitto in Mali. Invero, il giudice meneghino tiene a precisare che le esigenze di protezione internazionale derivanti da violenza indiscriminata non possono essere limitate a situazioni di guerra dichiarata o a conflitti internazionali riconosciuti. Infatti, si ritiene che sia possibile ammettere una definizione del termine “conflitto armato interno” che sia di portata più ampia di violenza indiscriminata non combattuta adeguatamente dallo Stato di appartenenza.

Ancora, è rilevato che il corretto significato da attribuire al “conflitto armato interno”, in assenza di una definizione legale o un’interpretazione unanimemente riconosciuta, dovrà ispirarsi al diritto internazionale umanitario, in particolare all’art. 1 del Protocollo II della Convenzione del 1949. In virtù di tale norma, per verificare la sussistenza di un conflitto armato interno, dovrebbero essere considerati quali requisiti sufficienti l’esistenza di chiare strutture di comando tra le parti in conflitto ed un controllo sul territorio tali da soddisfare quanto indicato nel Protocollo II.

Il tribunale di Milano, continuando nelle sue argomentazioni, rileva che, come affermato dalla Corte di Giustizia, “nei casi di violenza indiscriminata nel Paese di origine causata da un conflitto armato, colui che richiede la protezione sussidiaria in uno Stato membro non deve provare di essere minacciato personalmente proprio a causa dell'eccezionalità della situazione che di per sé fa supporre l'esistenza di un rischio effettivo per l'individuo di subire minacce gravi e individuali, nel caso di rientro nello Stato di origine, proprio a causa dell'elevato livello di violenza[5].

Va sottolineato poi che, secondo i più recenti assunti della Corte di Cassazione[6], il giudice nazionale ai fini dell’accertamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698 comma primo c.p.p., può fondare la propria decisione in ordine all’esistenza di violazioni dei diritti umani elaborati nel Paese richiedente anche sulla base di documenti e rapporti elaborati da organizzazioni non governative.[7]

Alle stesse conclusioni giunge pure la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani, che da diverso tempo riconosce la piena rilevanza ed utilizzabilità dei rapporti informativi redatti da organizzazioni internazionali impegnate nella tutela dei diritti umani[8].

Chiariti tali aspetti, nella sentenza in commento sono evidenziate le condizioni di guerra civile già menzionate, nelle quali versa il Mali, specialmente nel Nord Est del Paese.

Tale grave situazione di conflitto, esacerbata dalla sussistenza di numerosissimi episodi di violenza, unitamente alla circostanza che nel 2014 il servizio militare di leva è divenuto obbligatorio in Mali e che il ricorrente sia un giovane ragazzo di 22 anni e quindi ancora soggetto all'obbligo di leva, rende attuale e concreto, secondo il giudice,  il pericolo di grave danno che egli incontrerebbe ritornando nel paese di origine. Infatti, è ragionevole ritenere che in Mali il giovane verrebbe forzatamente aggregato alle truppe governative ed inviato nel nord del paese, ove, come già ricordato, persistono senza soluzione di continuità episodi di violenza generalizzata ancora non contenuti dalle forze governative in un contesto di pieno rispetto dei diritti umani.

Sulla base di tali elementi, il Tribunale prende atto della sussistenza di una situazione di pericolo grave per l’incolumità delle persone derivante da violenza indiscriminata ancora presente in loco, facendone così discendere, ai sensi dell’art. 14 lett. c) D. L.vo 251/07, il diritto il diritto alla protezione sussidiaria.


Note e riferimenti bibliografici

[1]Convenzione firmata a Ginevra il 28.7.1951 e ratificata con L. 24.7.1954 n. 722

[2] Essa comporta il rilascio di un permesso di soggiorno. Il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria viene riconosciuto dalla Commissione territoriale competente e rilasciato dalla Questura a chi ne fa richiesta attraverso apposita domanda. Il permesso ha una durata di tre anni e i titolari possono avere accesso allo studio e al lavoro, iscriversi al servizio sanitario, e godere di alcune prestazioni assistenziali Inps, come l’assegno sociale e la pensione agli invalidi civili. Inoltre, il possessore di tale permesso può richiedere il ricongiungimento familiare.

[3] cfr. Cass., sez. I, 2/12/2005, n. 26278

[4] Vd. Cass., sez. I, 23/08/2006, n. 18353

[5] Cfr. Corte di Giustizia, Grande Sezione, 17/2/2009, n. 465. La necessità di operare una valutazione apposita, proporzionale al grado di violenza presente nel paese o nella zona del paese di provenienza è stata ribadita anche dalla recentissima sentenza Cass. Sez. VI, 18/06/2014, n.24111/2015

[6] Cfr. Cass., 08/07/2010, n. 32685;

[7] Il Tribunale cita come esempi Amnesty International e Human Rights Watch

[8] cfr. Corte Europea dei diritti dell’uomo, 28.2.2008, Saadi c. Italia