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Pubbl. Ven, 7 Giu 2024

Il tasso euribor manipolato e la sorte dei contratti a valle di un´intesa restrittiva della concorrenza

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Giulio Falcone
Praticante AvvocatoUniversità della Campania Luigi Vanvitelli



La nullità, nonostante venga tradizionalmente definita quale vizio originario dell´atto, non sempre si palesa in modo diretto ed immediato nel negozio giuridico interessato, ben potendo essa derivare dalla dichiarata nullità di un altro contratto, anche in assenza di un collegamento negoziale propriamente detto. Questo è il caso della nullità derivata, tema già affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2021 e ripresentatosi all´attenzione della suddetta in tempi recenti limitatamente alla sorte dei contratti di mutuo a tasso variabile indicizzati al parametro del cd. ”Euribor manipolato”.


ENG

The manipulated euribor rate and the consequences for contract based on an agreement restricting competition

Nullity, despite being traditionally defined as an original defect in the act, does not always manifest itself directly and immediately in the contract, as it may derive from another contract, even in the absence of a connection between them in the strict sense. This is the case of derivative nullity, a topic already addressed by the Supreme Court of Cassation in the United Sections in 2021 and which has come back to her attemption in recent times limites to the fate of variable rage loan contract indexed to the ”Euribor manipulated”.

Sommario: 1. Premessa; 2. La superata questione del regime di invalidità dei contratti a valle di intesa restrittiva della concorrenza; 3. Il caso “Euribor manipolato” e la decisione della Commissione Europea del 2013; 4. La sorte delle clausole – e dei relativi contratti – riproduttive del tasso Euribor secondo la recente pronuncia della III Sezione della Corte di Cassazione; 5. Conclusioni.

1. Premessa.

Nell’analisi della categoria giuridica dell’invalidità assume rilievo l’istituto della nullità, quale estrema forma patologica degli atti di autonomia privata. Essa si risolve in un giudizio normativo di riprovazione derivante da un grave vizio strutturale o dal carattere socialmente deplorevole dell’atto, il quale è quindi ab origine inefficace, ragione per cui la sentenza che ne accerta la nullità è meramente dichiarativa di tale condizione e non di essa costitutiva, diversamente dalla pronuncia che dichiara la forma più tenue di invalidità, ovvero l’annullabilità.

L’art. 1418 del Codice civile individua tre forme di nullità: la nullità virtuale (co. 1); la nullità strutturale (co. 2); e la nullità testuale (co. 3). Ognuna di esse preordinata alla tutela di interessi diversi che, inoltre, nel caso della nullità virtuale possono non essere - a priori - facilmente determinabili, essendo demandata all’opera dell’interprete l’individuazione delle norme imperative la cui violazione determina la nullità dell’atto.

Ebbene, a fronte di tale sistema chiuso, ove i casi di nullità sono quelli e solo quelli espressamente indicati dalla disciplina codicistica (co. 2 dell’art. 1418 c.c.) ovvero, più in generale, dalla legge (commi 1 e 3 dell’art. 1418 c.c.), nel recente passato si è posto un problema in ordine al regime di validità dei negozi riproduttivi (in tutto o in parte) del contenuto di intese restrittive della concorrenza, vietate a pena di nullità (art. 2 e 3, L. n. 287/1990).  Se da un lato, infatti, l’art. 2 della legge Antitrust qualifica espressamente in termini di nullità (nullità testuale) il vizio che affligge tali accordi, demandando all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato il compito di individuare e bandire tali fenomeni distorsivi, dall’altro lato non si rinviene nell’ordinamento un’espressa previsione in ordine al (possibile) regime di invalidità del negozio a valle, ovvero del negozio riproduttivo dell’intesa a monte, dichiarata nulla dalla competente Autorità amministrativa indipendente.

Intervenute a sopire il contrasto sviluppatosi intorno alla questione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. n. 41994/2021) hanno offerto non solo la soluzione al caso concreto, ma anche gli strumenti per discernere quando ed in che misura un contratto cd. a valle possa patire degli effetti derivanti dalla dichiarata nullità dell’intesa - cd. a monte - restrittiva della concorrenza. Strumenti che risultano, ad oggi, più che utili a fronte del noto caso “Euribor”, tasso d’interesse manipolato - per un certo periodo di tempo - da un cartello composto dalle più influenti banche europee (Barclays, Deutsche Bank, Société Générale ed il gruppo Royal Bank of Scotland).  Infatti, a seguito della decisione della Commissione Europea del 2013 con la quel venne accertata l’esistenza di questo cartello, limitativo della concorrenza all’interno dell’Unione, si impose all'interno della scienza giuridica la questione in ordine alla possibile nullità di tutte le pattuizioni che avevano determinato il tasso di interesse ancorandolo al parametro “Euribor” (dal 28 settembre 2005 al 30 maggio 2008). Soluzione che, ad oggi, non può prescindere dall’applicazione della regola di diritto stabilita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

2. La superata questione del regime di invalidità dei contratti a valle di intesa restrittiva della concorrenza.

Prima di esporre i termini della questione, è necessario ripercorrere velocemente le tappe che hanno condotto la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sent. n. 41994/2021) a pronunciarsi in ordine al regime di invalidità degli accordi riproduttivi di intese restrittive della concorrenza.

La problematica di fondo era più che evidente: la L. n. 287/1990 riconosceva espressamente la nullità delle intese in esame, ma nulla diceva in ordine alla sorte dei contratti a valle. Rebus sic stantibus, le esigenze di tutela del mercato e della concorrenza sarebbero state inevitabilmente compromesse dall’impossibilità di colpire con la nullità anche quei singoli negozi che di quell’accordo costituivano una diretta, ovvero anche indiretta applicazione. Sarebbe stato altresì paradossale invalidare un accordo di tipo programmatico, avente una funzione di direzione macroeconomica e non travolgere quei negozi che si coniugavano come traduzione in atto del “piano” distorsivo. Tale ineludibile esigenza, invero, non poteva che confrontarsi con un dato tecnico giuridico, cioè la difficoltà di ammettere che dalla caducazione di un negozio derivasse il travolgimento di un altro; operazione in assoluta distonia con il principio di relatività del contratto, nonché con le regole del collegamento negoziale (escluso dalla giurisprudenza maggioritaria nell'ipotesi in esame).

Le tesi che si contendevano il campo erano essenzialmente riconducibili a due contrapposte linee interpretative: la prima faceva leva sul rimedio dell’invalidità; la seconda sul rimedio della responsabilità. Insomma, si discuteva se dalla riproduzione dell’intesa poi dichiarata nulla derivasse la violazione di una regola di validità, ovvero di comportamento.

Tra chi sosteneva la violazione di regole di validità, poteva distinguersi ulteriormente chi riteneva sussistente una ipotesi di nullità virtuale per violazione dell’ordine pubblico, chi riteneva sussistente una ipotesi di nullità strutturale per illiceità della causa e chi, invece, riteneva sussistesse una ipotesi di nullità strutturale per illiceità dell’oggetto; senza escludere da tale considerazione quanti rievocavano una ipotesi di collegamento negoziale tra i due negozi con conseguenziale invalidità ad effetto viziante del contratto a valle come diretta ed immediata conseguenza della caducazione dell’intesa a monte.

I sostenitori della prima tesi partivano da una premessa di ordine sistematico che ad oggi costituisce un dato acquisito all’interno della scienza giuridica “è noto che la mancanza di una espressa sanzione di nullità non è decisiva al fine di escludere la nullità dell'atto negoziale in conflitto con norme imperative, potendo intendersi che ad essa sopperisca l'art. 1418 C.C., comma 1 in quanto letto come espressivo di un principio di indole generale, rivolto a prevedere e disciplinare proprio il caso in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagni una previsione espressa di nullità del negozio”[1]. Ad oggi, per effetto di questo dato acquisito, le norme imperative, la cui violazione determina la nullità del contratto, essenzialmente si dividono: in quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti, ravvisando il fondamento della disciplina della nullità nelle idea della incompletezza o imperfezione della fattispecie negoziale per mancanza di requisiti necessari, ovvero in quelle norme poste a presidio di interessi generali (tenendo da parte, nella seguente disamina, la questione in ordine alle critiche mosse dalla dottrina al passaggio dal cd. “dogma della fattispecie” al “dogma dell’interesse pubblico”).

Ciò premesso, venendo all'ipotesi specifica della sorte dei contratti a valle, l’art. 2 della L. n. 287/1990, prevedendo la nullità delle intese restrittive a monte, si riteneva affermasse un principio di ordine pubblico, in base al quale non potevano esserci distorsioni del mercato anticoncorrenziali. Norma imperativa a tutela della concorrenza intesa quale interesse a carattere generale. Da ciò, seguendo questo orientamento, “nel dichiarare la nullità delle intese vietate l’art. 2, l. n. 287/1990 prende in considerazione non solo il negozio giuridico posto all'origine della violazione, ma tutta la serie dei fatti distorsivi della concorrenza, anche successivi a quel negozio. Ne deriva che la nullità si riferisce anche ai contratti a valle, pure se questi siano stati stipulati prima che l'intesa fosse accertata dall'autorità amministrativa preposta alla vigilanza del mercato concorrenziale, a condizione che essa si sia realizzata in un momento precedente al negozio denunciato come nullo.”[2].

Diversamente, orientamenti minoritari ritenevano sussistente un'ipotesi di nullità per illiceità della causa ovvero dell’oggetto, ritenendo rispettivamente che il negozio a valle mutuasse l'illiceità della causa dell'intesa a monte ovvero riproducesse interamente le clausole dello stesso, rendendo l'oggetto del negozio vietato.

Ulteriormente, non è mancato chi vedeva in tali fattispecie ipotesi di nullità derivante da collegamento negoziale tra intesa a monte e negozio a valle. Un rapporto di dipendenza tra fattispecie negoziali evocante lo schema dell'invalidità con effetto viziate proprio del diritto amministrativo. Tesi criticata dalla dottrina maggioritaria in considerazione dell'assenza degli elementi costitutivi del collegamento negoziale, ovvero l'unità della causa, la comunanza delle parti e la loro univoca volontà.

In ultimo, all'interno del medesimo filone interpretativo, poteva distinguersi tra coloro che configuravano un'ipotesi di nullità totale e chi ravvisava invece una ipotesi di nullità parziale. I primi ritenevano la nullità assoluta in quanto la gravità della violazione comportava un effetto distorsivo della concorrenza con pregiudizio dei supremi valori di solidarietà sanciti dalla Costituzione. I secondi ritenevano la nullità solo parziale in quanto limitata alle sole clausole riproduttive dell'intesa monte; ferma la possibilità di indagare sull'essenzialità di tali clausole secondo il principio sancito dall’art. 1419 c.c.

Di contrario avviso, invece, erano quanti ravvisavano una violazione non tanto di regole di validità quanto di regole di comportamento, dalle quali scaturiva una responsabilità dell'impresa che aveva riprodotto l'accordo.

Secondo un orientamento riconducibile a tale filone interpretativo, doveva invocarsi l'ipotesi di responsabilità precontrattuale per dolo incidente. A fronte dell'intesa a monte restrittiva della concorrenza a vantaggio delle imprese, il cliente a valle si riteneva non avesse una piena e vera libertà di determinazione e scelta, subendo il conseguente danno alla propria libertà negoziale. Quindi, essendo valido il negozio a valle in quanto l’art. 2 l. 287/1990 sanziona (ancora oggi) solo l'intesa a monte, restava al cliente dell'impresa il solo rimedio risarcitorio, sussistendo un dolo incidente ex art. 1440 c.c. per la malafede dell'impresa. Risarcimento commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede (il cd. "interesse differenziale").

Tesi criticata da quanti sostenevano come tale orientamento rischiasse di indebolire l'efficacia sanzionatoria e dissuasiva della legge antitrust, limitando le tutele all'unico rimedio risarcitorio, il quale ontologicamente non poteva che essere subordinato all'effettiva sussistenza e prova di un danno a carico del cliente dell'impresa.

In ultimo non può omettersi dalla trattazione una tesi mediana secondo la quale al consumatore era riconosciuta la possibilità di esercitare non solo l'azione di nullità dell'intesa a monte (non riservata alle imprese parti dell'accordo o concorrenti), ma anche l'azione risarcitoria. Si riteneva che “siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall'ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l'effetto di una collusione a monte, ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l'azione di accertamento della nullità dell'intesa e di risarcimento del danno di cui alla L. n. 287/1990, art. 33”[3].

A risolvere il contrasto interpretativo intervennero le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2021 le quali, con la sentenza n. 41994 stabilirono, con specifico riguardo alla sorte delle fideiussioni omnibus stipulate sul modello di una intesa tra operatori, poi censurata dall’Antitrust (ma in forza di un ragionamento spendibile in ordine alla sorte di qualsiasi contratto a valle di intesa restrittiva), che nell'ipotesi in esame veniva in rilievo una nullità derivata, speciale, parziale, capace di coesistere con il rimedio risarcitorio e con la ripetizione di indebito.

Le SU escludevano l’applicazione della regola di cui al brocardo “simul stabunt simul cadent” data l’assenza dei presupposti di un collegamento negoziale (l’unità della causa ed il comune intento delle parti). Inoltre, una eventuale nullità totale si sarebbe risolta in danno al contrante debole, che avrebbe visto inficiata anche la parte del contratto a valle del tutto estranea alle previsioni dell’intesa vietata.

Ebbene, pur in assenza di un collegamento negoziale in senso stretto, secondo la Suprema Corte, sussiste comunque un più lato nesso funzionale. Il contratto a valle è comunque lo sbocco anticoncorrenziale dell'intesa monte, per cui non vi è la caducazione totale ed automatica propria del collegamento negoziale, ma vi è una nullità derivata. La nullità dell'intesa a monte determina, dunque, la nullità derivata del contratto a valle, ma limitatamente alle clausole che costituiscono pedissequa applicazione degli articoli dello schema censurato. Nullità derivata non frutto del collegamento negoziale ma dalla circostanza che il negozio a valle ripete uno o più clausole dell'intesa a monte, concretizzando e attuando l'effetto distorsivo della concorrenza.

Si tratta, inoltre, di una nullità speciale, posta - attraverso le previsioni di cui all’art. 101 del T.F.U.E. e della L. n. 287/1990, art. 2, lett. a), che del primo costituisce applicazione diretta - a presidio di un interesse pubblico, nella specie dell'ordine pubblico economico. Una nullità, dunque, ulteriore rispetto a quelle conosciute dal sistema (non solo codicistico, ma anche ordinamentale, come le nullità di protezione del consumatore ovvero nei rapporti tra imprese; i cc.dd. secondi e terzi contratti), in quanto colpisce combinazioni di atti avvinti da un nesso funzionale. La ratio di tale regime speciale si individua nell'esigenza di salvaguardia dell'ordine pubblico economico a presidio del quale sono state dettate le norme imperative nazionali ed Europee Antitrust.

In ultimo, si tratta di una nullità parziale in quanto limitata alle sole clausole che riproducono quello schema unilaterale rappresentante l'intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti.

Nullità rilevabile d’ufficio e cumulabile con l’azione risarcitoria e di ripetizione dell’indebito.

3. Il caso “Euribor manipolato” e la decisione della Commissione Europea del 2013.

Da questa presa di posizione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, seguita anche in epoca successiva dalla giurisprudenza di legittimità, ben possono derivarsi importanti indici utili per la risoluzione di un ulteriore questione che ha interessato le aule di giustizia, ovvero la asserita invalidità dei contratti di mutuo ancorati, limitatamente al tasso di interesse, al parametro del cd. “Euribor manipolato”. L’Euribor è il tasso interbancario di riferimento diffuso giornalmente dalla Federazione Bancaria Europea come media ponderata dei tassi di interesse ai quali le Banche operanti nell'Unione Europea cedono i depositi in prestito. È utilizzato come parametro di indicizzazione dei mutui ipotecari a tasso variabile.

Ebbene, con decisione del 4 dicembre 2013, la Commissione Europea accertava la violazione della disciplina Europea a tutela della concorrenza da parte di un gruppo di istituti di credito (tra i più influenti del settore nel territorio Europeo) attraverso la manipolazione del suddetto tasso, grazie a comportamenti finalizzati alla sua alterazione.  L’accertata esistenza del cartello con finalità manipolative del tasso di interesse Euribor (le banche interessate erano: la Barclays, la Deutsche Bank, la Société Générale ed il gruppo Royal Bank of Scotland), quantomeno dal 28 settembre 2005 al 30 maggio 2008, indusse la Commissione a ritenere violata la previsione di cui all’art. 101, paragrafo 1 del TFUE , il quale bandisce qualsiasi accordo tra imprese, decisioni di associazioni di imprese e pratiche concordate che incidano sul commercio tra paesi dell’UE diretti, anche potenzialmente, ad impedire, limitare o falsare la concorrenza.

4. La sorte delle clausole – e dei relativi contratti – riproduttive del tasso Euribor secondo la recente pronuncia della III Sezione della Corte di Cassazione.

La tematica che qui interessa, invero, esula dalla disamina delle regole che governano i contratti di mutuo a tasso variabile indicizzati sul parametro Euribor e dallo studio dell’incidenza della manipolazione del tasso sulle obbligazioni nascenti dai contratti di mutuo ad esso parametrati, ma concerne, più squisitamente, le conseguenze giuridiche, soprattutto traslate nel diritto interno dei contratti, che derivano dalla decisione del 2013 della Commissione Europea.

Si tratta, invero, di una questione non propriamente degna di nota all’interno della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione in quanto affrontata, in termini generali, solo in pochi interventi, tra cui uno neanche in forma di sentenza. Si fa qui riferimento all’ordinanza n. 34889 del 13 dicembre 2023 della Sez. III, Cort. Cass ed alla recente sentenza n. 12007/2024, Sez. III, Cort. Cass.

Con il primo intervento (con il quale veniva cassata una decisione di merito che aveva escluso in radice la possibilità di ritenere nulla la clausola di un contratto di leasing che prevedeva un tasso di interesse parametrato all’Euribor, nonostante fosse stata accertata da una decisione della Commissione Europea l’avvenuta violazione dell’art. 101 del TFUE, per l’esistenza di un cartello tra otto delle principali banche europee finalizzato alla manipolazione dei tassi sulla scorta dei quali viene determinato il suddetto Euribor) la Corte di Cassazione aveva considerato affetta da nullità la previsione contrattuale che prevedeva la determinazione del tasso d’interesse in misura variabile con parametrizzazione al ridetto saggio Euribor anche se l’istituto mutuante non rientrava tra quelli sanzionati per aver preso parte all’intesa manipolativa.

Un intervento, invero, non scevre da critiche, anche e soprattutto nella giurisprudenza successiva della stessa Corte la quale, con la sentenza n. 12007/2024 ha avuto modo di chiarire i termini in cui il vizio derivato dall’intesa a monte si risolve nei contratti a valle.

Ebbene, la questione di diritto esaminata ha avuto ad oggetto la validità delle clausole contrattuali che, al fine di determinare il tasso di interesse, moratorio o convenzionale, relativo ad obbligazioni assunte dalle parti, facevano espresso riferimento (in tutto o in parte) al parametro costituito dall’Euribor (EURo Inter-Bank Offered Rate: tasso interbancario di offerta in Euro)[4].

Più precisamente, la pronuncia ha affrontato due questioni differenti, per quanto connesse:

  1. se le clausole contrattuali in esame costituiscono applicazione di tali intese, in analogia a quanto già in passato stabilito dalla Suprema Corte, a Sezioni Unite, con riguardo alle clausole dei «contratti di fideiussione “a valle” di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante in quanto riproducenti lo schema unilaterale costituente l’intesa vietata – perché restrittive, in concreto, della libera concorrenza e, quindi, contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del TFUE (Cass., Sez. U, Sentenza n. 41994 del 30/12/2021);
  2. se può aver rilievo, in ordine alla validità dei regolamenti negoziali in questione, il fatto che il parametro di riferimento (Euribor) per la determinazione del tasso degli interessi concordemente voluto dalle parti, possa aver subito una alterazione a causa di condotte illecite di terzi.

In ordine alla prima questione, la Suprema Corte ha disatteso in parte quanto affermato dalla stessa Sezione con la già citata ordinanza n. 34889 del 2023. Infatti, la stessa ha stabilito che “affinché possa ritenersi che, in un contratto (cd. “a valle” dell’intesa), sia fatta applicazione di una illecita intesa (o pratica non negoziale) restrittiva della concorrenza esistente “a monte”, occorre quanto meno che uno dei contraenti sia a conoscenza dell’esistenza di quella determinata intesa (o pratica non negoziale) con un determinato oggetto e un determinato scopo e intenda avvalersi del risultato oggettivo della stessa”.

“Ciò, con riguardo ai contratti di mutuo stipulati da istituti bancari, richiederebbe, dunque, l’allegazione e la prova che la banca stipulante, al momento della conclusione del contratto, fosse o direttamente partecipe di quell’intesa o, almeno, fosse consapevole della sussistenza di una intesa tra altre banche volta ad alterare il valore dell’Euribor o di una effettiva pratica non negoziale in tal senso ed abbia inteso avvalersi dei risultati di questa”. (Ipotesi, questa, riflessa nei contratti a valle, di nullità derivata ed originaria).

La Suprema Corte, in estrema sintesi, quindi, ha stabilito che non tutti i riferimenti al parametro Euribor, per il periodo interessato dalla decisione della Commissione Europea del 2013, hanno dato vita a contratti illeciti quali manifestazioni di una alterazione della libera concorrenza. Ciò, invero, solo laddove si sia inteso consapevolmente far riferimento al parametro alterato (anche da parte di un solo dei contraenti).

Quindi, in mancanza di consapevolezza da parte dei contraenti dell’alterazione, il contratto non potrebbe in alcun modo ritenersi, di per sé, “una consapevole o volontaria applicazione di intese illecite dirette ad alterarlo”.

Diversamente, quando le parti stipulanti non erano consapevoli all’atto di sottoscrizione del contratto della suddetta alterazione posta in essere da terzi, ma nonostante questo, tali intese, hanno effettivamente raggiunto il risultato dell’effetto manipolativo perseguito, applicando ugualmente quel parametro, non può sottacersi che quel regolamento di interessi resterebbe alterato a danno di uno dei contraenti. “Potrebbe allora ritenersi che ciò determini comunque, in qualche modo, una oggettiva applicazione degli effetti dell’illecita intesa (o pratica non negoziale) restrittiva della libera concorrenza nell’ambito di quel singolo contratto, in danno di uno dei contraenti, in contrasto con le norme dirette a vietare siffatte intese o pratiche”. Questo in quanto, secondo la Corte, la convenzione relativa agli interessi non sarebbe validamente stipulata, in ossequio al disposto dell’art. 1284, co. 3 c.c., perché il relativo tasso non risponderebbe ai canoni di determinatezza, ovvero determinabilità, e controllabilità in base a criteri oggettivamente indicati[5].

Quindi, “laddove si accerti che il parametro richiamato sia stato alterato da una attività illecita posta in essere da terzi, viene meno il risultato, almeno parzialmente prevedibile, del meccanismo costituente il presupposto del riferimento al parametro esterno voluto dalle parti: è inevitabile, allora, concludere che esso non potrebbe ritenersi più in grado di esprimere la effettiva volontà negoziale delle parti stesse, almeno con riguardo alla specifica clausola che prevede il richiamo al parametro in questione, per tutto il tempo in cui l’alterazione del meccanismo esterno di determinazione del corrispettivo dell’operazione ha prodotto i suoi effetti”. (Ipotesi, questa, riflessa nei contratti a valle, di nullità derivata e sopravvenuta).

In conclusione, in linea generale, lasciando per un momento da parte l’esame della specifica questione, si devono distinguere due ipotesi: nella prima ipotesi le parti hanno voluto parametrare il saggio degli interessi ad un valore soggetto a quantificazione oggettiva, in questo caso il richiamo nel regolamento negoziale a tale riferimento non può che esse validamente subordinato alla sua oggettività ed esso non potrà più essere utilizzato laddove non più disponibile (perché ad esempio non più reso pubblico); nel secondo caso, il parametro richiamato, invece di venir oggettivamente meno, perché in radice non più esistente, diviene sostanzialmente inidoneo a costituire l’espressione della volontà negoziale delle parti, perché alterato nella sua sostanza a causa di fatti illeciti posti in essere da terzi, tali da privarlo in radice delle caratteristiche per le quali le parti lo avevano richiamato nel contratto.

Nel primo caso la clausola contrattuale dovrà ritenersi non più efficace, a causa della sua parziale nullità sopravvenuta, per l’impossibilità di determinazione del relativo oggetto. Medesimo ragionamento nella seconda ipotesi, in siffatta situazione, l’oggetto della clausola contrattuale, se il valore “genuino” e non alterato del dato di riferimento esterno non sia ricostruibile, sarà di impossibile determinazione e la clausola stessa dovrà ritenersi viziata da parziale nullità (originaria o sopravvenuta, a seconda dei casi), limitatamente al periodo in cui manchi il predetto dato. “Laddove fosse possibile ricostruire la misura di tale tasso, “depurandola” dagli effetti delle pratiche illecite che lo hanno alterato, sarebbe quella la misura da applicare nei rapporti tra le parti. Se, invece, ciò non sia possibile, la situazione deve ritenersi equiparabile a quella che si verificherebbe se il tasso richiamato, in quel limitato periodo di tempo in cui sia stato oggetto di effettiva alterazione, non fosse stato affatto rilevato e fissato”.

5. Conclusioni.

Volendo offrire una chiosa finale, di sintesi, all’articolata argomentazione della III Sez., è evidente che l'impostazione da essa seguita differisce da quella per cui, in tali circostanze, sarebbe in ogni caso ravvisabile una nullità derivata del singolo contratto, frutto dell'illiceità dell'intesa a monte limitativa della concorrenza.

Conclusioni che tutelano, invero, ugualmente ed in modo adeguato i contraenti e le regole della libera concorrenza, non avendo escluso[6] che, quando una clausola negoziale contiene un riferimento ad un parametro quantitativo esterno, e questo venga illecitamente alterato, si possa configurare una nullità parziale (originaria o sopravvenuta, a seconda dei casi), per impossibilità di determinazione dell'oggetto della clausola stessa. Però, anche in caso di accertamento di pratiche illecite dirette ad alterare il valore del parametro preso a riferimento, la clausola a valle (in questo caso la clausola “Euribor”) non può dirsi di per sé nulla, in generale, perché costituente applicazione di un'intesa illecita e vietata, restrittiva della concorrenza (salvo il caso in cui almeno uno dei contraenti abbia consapevolmente inteso avvalersi degli effetti dell'illecita alterazione, al momento della stipula). Essa potrebbe risultare viziata da parziale nullità per impossibilità di determinazione del suo oggetto se ed in quanto l'intesa illecita vietata abbia in sostanza ed in concreto fatto venir meno, o comunque reso incompatibile con l'autoregolamentazione degli interessi delle parti oggetto del contratto stipulato, il parametro esterno di riferimento da queste effettivamente voluto e nei limiti in cui il parametro genuino non sia ricostruibile.

Sulla base di queste premesse, la Corte conclude sostenendo che affinché possano avere ingresso tutte le valutazioni da essa richiamate in merito alla validità ed efficacia delle clausole contrattuali contenenti il richiamo al parametro dell'Euribor, occorre che sia fornita la prova (evidentemente da chi allega la invalidità della clausola) non solo dell'esistenza di un'intesa volta ad alterare il parametro, ma anche che tale intesa abbia raggiunto il suo obiettivo e quindi che quel parametro sia stato effettivamente alterato in concreto. Accertamento che andrà compiuto dall'interprete caso per caso e solo limitatamente al periodo di tempo in cui le pratiche illecite hanno avuto un effetto distorsivo del mercato.

In questi termini, e solo limitatamente a questo aspetto, la Corte ha condiviso il precedente approdo della III Sezione sulla natura privilegiata della prova costituita dalla decisione della Commissione europea del 4 dicembre 2013. Conseguita la prova di tale intesa sarà poi indispensabile che la parte che se ne assuma danneggiata per la perturbazione del sinallagma contrattuale fornisca ulteriori elementi probatori volti a dimostrare, per il periodo in cui l'intesa ha prodotto conseguenze illecite, che l'oggetto della clausola non sarebbe stato determinabile o apprezzabile secondo l'originaria volontà delle parti.

In conclusione, tale decisione si apprezza per aver sconfessato la tesi della diffusa ed indiscriminata nullità cd. “a cascata” dei contratti a valle di intese restrittive della concorrenza dichiarate nulle, a prescindere dall’accertamento dei riflessi che la pratica illecita, distorsiva della concorrenza e del mercato, ha avuto nei confronti dei singoli negozi a valle. Negozi che, per quanto stipulati (anche limitatamente ad un loro singolo aspetto) sulla scorta di un presupposto oggetto di intesa anticoncorrenziale, potrebbero non aver per nulla risentito della pratica distorsiva. Sarà allora onere, così come stabilito dalla Suprema Corte, della parte che si assume lesa dalla pratica anticoncorrenziale dimostrare tali effetti lesivi nei confronti del contratto da essa stipulato.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] (Cfr. Cass. n. 1591 del 1960)

[2] (In questi termini cfr. Suprema Corte di Cassazione, sent. n. 29810/2017)

[3] (Cfr. Suprema Corte di Cassazione, sent. n. 13896/2007)

[4] Come già visto: tasso di riferimento per i mercati finanziari, calcolato giornalmente, che indica il tasso di interesse medio delle transazioni finanziarie in Euro tra le principali banche europee. Non ha rilievo, ai fini del presente contributo, illustrare in dettaglio i complessi meccanismi previsti per la sua concreta determinazione.

[5] Sul punto cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13823 del 23/09/2002; Sez. 2, Ordinanza n. 26173 del 18/10/2018; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 8028 del 30/03/2018.

[6] E quindi non disattendendo il principio di diritto sancito dalla medesima Corte, a Sezioni Unite, nel 2021 con la sentenza n. 41994.