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Pubbl. Gio, 23 Mag 2024

La recidiva: effetti diretti ed indiretti della circostanza di cui all´art. 99 c.p.

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Jolanda Papaccio
Praticante AvvocatoUniversità della Campania Luigi Vanvitelli



La dibattuta questione della produzione degli effetti indiretti- con particolare riferimento alla prescrizione - in caso di equivalenza o subvalenza della recidiva a seguito del giudizio di bilanciamento con altre circostanze attenuanti.


Sommario: 1. Circostanze: definizione e classificazione; 2. Bilanciamento delle circostanze; 3. Natura e disciplina della recidiva; 4. Effetti diretti e indiretti delle circostanze ad effetto speciale: in particolare, la recidiva; 5. Effetti indiretti della recidiva a seguito del giudizio di equivalenza; 6. Effetti indiretti della recidiva a seguito del giudizio di subvalenza; 7. Conclusioni

1. Circostanze: definzione e classificazione

In diritto penale si definiscono circostanze del reato, dal latino circumstantia (circumstare ovvero stare attorno), quelle situazioni che sono prese in considerazione dal legislatore ai fini della determinazione della gravità del reato, influendo dunque sulla commisurazione della pena e comportandone una variazione di tipo quantitativo ovvero qualitativo. Si tratta, pertanto di situazioni che accedono ad una fattispecie di reato già perfetta, costituendone  elementi accessori ed eventuali.

Le circostanze assolvono ad una duplice funzione: l’una di adeguamento della pena rispetto al caso concreto, - non potendosi prescindere dall’offesa sostanzialmente arrecata al bene giuridico tutelato ai fini della quantificazione della pena -; l’altra di delimitazione del potere discrezionale del giudice nella fase dell’applicazione delle pene.

A differenza dell’art. 133 c.p. che, per il tramite di una serie di indici, permette al giudice di desumere la gravità del reato al fine di determinare la pena da applicare al caso concreto muovendosi entro i limiti della cornice edittale fissata dal legislatore; le circostanze consentono al giudice un quid pluris. Avendo queste ultime il carattere della extra-edittalità, innovano la cornice edittale, consentendo l’applicazione di una pena che varia, nel minimo ovvero nel massimo edittale, rispetto a quella prevista dal legislatore in riferimento alla fattispecie astratta.

Le circostanze possono essere variamente classificate.

La prima distinzione operata dal legislatore è tra circostanze aggravanti ed attenuanti, a seconda che determinino un aumento ovvero una riduzione della pena.

Le circostanze poi possono essere suddivise in comuni e speciali, laddove le prime sono applicabili rispetto ad ogni reato, mentre le seconde risultano riferibili solo a taluni reati.

Ancora, le circostanze si scindono in soggettive ed oggettive; a tal riguardo di fondamentale rilievo è la classificazione fornita dall’art. 70 c.p., che espressamente definisce come oggettive le circostanze che concernono la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell'offeso; qualificando all’opposto come soggettive quelle che concernono l’intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l'offeso, ovvero quelle che ineriscono la persona del colpevole.

Ulteriore distinzione è tra circostanze ad effetto comune e ad effetto speciale, queste ultime a loro volta suddivisibili in circostanze autonome ed indipendenti. Proprio in riferimento alle circostanze indipendenti occorre dare atto del mutamento del testo dell’art. 63 c.p. che, nell’attuale formulazione, fa esplicitamente riferimento alle sole circostanze autonome e non più anche a quelle indipendenti, creando dubbi sulla effettiva natura di circostanza ad effetto speciale riguardo a queste ultime.

Sono circostanze ad effetto comune quelle che determinano un aumento ovvero una riduzione della pena inferiore ad un terzo; per contro invece sono ad effetto speciale le circostanze che determinano un aumento ovvero una riduzione della pena superiore ad un terzo. Tale distinzione non è di poco momento, difatti le circostanze ad effetto speciale determinano, oltre che tale effetto diretto di innalzamento o di riduzione della pena, anche ulteriori effetti cd. indiretti, tra cui di rilievo particolare sono le conseguenze che ne discendono in tema di prescrizione ex art 157 comma 2 c.p. e sulle quali si ritornerà più specificamente nel prosieguo della trattazione.

Si annoverano, invece, quali circostanze autonome quelle che comportano la comminazione di una pena di specie diversa rispetto a quella prevista dal legislatore con riferimento alla fattispecie astratta, ossia con riferimento al reato semplice. Rientrano, per contro, tra le circostanze indipendenti quelle che determinano una nuova cornice edittale rispetto a quella prevista dal legislatore per la fattispecie non circostanziata.

Le circostanze possono poi essere intrinseche, ossia attinenti alla condotta o ad elementi del fatto tipico; ed estrinseche, ovvero estranee alla consumazione del reato, in quanto basate su elementi, per l’appunto, estrinseci rispetto ad esso. A titolo esemplificativo, rientrano tra le circostanze intrinseche quella di cui all’art. 61 numero 3 c.p. ossia “l’avere nei delitti colposi agito nonostante la previsione dell’evento”; rientra invece nel novero delle circostanze estrinseche quella di cui all’art. 62 numero 6 c.p., ossia “l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno”.

In ultimo le circostanze possono distinguersi in base al momento in cui le stesse si verificano rispetto alla condotta, ossia avendo riguardo ad un aspetto di carattere cronologico, si parla a tal riguardo di circostanze antecedenti, concomitanti e susseguenti.

2. Bilanciamento delle circostanze

Il giudice, ai fini della quantificazione della pena deve, come anticipato, tener conto di tutte le circostanze che caratterizzano il caso concreto sottoposto al suo giudizio.

L’operazione del bilanciamento si sostanzia nel potere riconosciuto al giudice di addivenire ad una soluzione sanzionatoria trovando un equilibrio tra pesi e contrappesi, arrivando a determinare il disvalore complessivo del fatto di reato.

Imprescindibile è partire dall’analisi dell’art. 69 c.p. rubricato “concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti”, che disciplina l’ipotesi di concorso eterogeneo di circostanze, ossia l’ipotesi in cui, rispetto ad un medesimo fatto di reato, concorrano contemporaneamente circostanze di segno positivo e di segno negativo, ossia circostanze aggravanti ed attenuanti.

Al comma 1 dell’art. 69 c.p. il legislatore chiarisce che laddove le circostanze aggravanti risultino, a seguito del bilanciamento, quali prevalenti rispetto alle attenuanti “non si tiene conto delle diminuzioni della pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti della pena stabiliti per le circostanze aggravanti”. Il comma 2 dell’art. 69 c.p. ripropone il medesimo principio anche nell’ipotesi opposta, ossia laddove, all’esito del bilanciamento, a prevalere siano le circostanze attenuanti. Il comma 3, invece, guarda all’ipotesi in cui il giudice, all’esito del bilanciamento, ritiene che vi sia equivalenza fra circostanze aggravanti ed attenuanti, sancendo che “si applica la pena che sarebbe stata inflitta se non concorresse alcuna circostanza”.

Il potere discrezionale riconosciuto al giudice, in sede di bilanciamento, trova il suo limite nelle circostanze cd. blindate. Più specificamente, le circostanze possono essere a blindatura debole, laddove nel giudizio di bilanciamento possono risultare solo prevalenti ovvero equivalenti rispetto alle altre circostanze sussistenti; di converso la blindatura sarà forte tutte le volte in cui la circostanza non potrà che prevalere rispetto alle altre circostanze concorrenti, essendo sottratta al giudice la possibilità di giungere ad un giudizio di equivalenza delle circostanze in concorso.

Dunque, all’interno del codice si rinvengono varie deroghe al principio del bilanciamento che, secondo la giurisprudenza, sono compatibili con il principio di ragionevolezza laddove siano supportate da ragioni logiche e dunque non arbitrarie. Si pensi, in primo luogo all’art. 270bis.1 c.p. che introduce una circostanza a blindatura forte nella parte in cui prevede che “quando concorrono altre circostanze aggravanti, si applica per primo l'aumento di pena previsto per la circostanza aggravante di cui al primo comma. Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 , concorrenti con l'aggravante di cui al primo comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato, e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alle già menzionate aggravanti”. Dunque, dinanzi all’aggravante delle finalità di terrorismo o di evasione dell’ordine democratico non è consentito al giudice procedere né ad un giudizio di prevalenza né di equivalenza delle circostanze attenuanti, ciò al fine di evitare di porre nella assoluta inutilità gli interventi effettuati dal legislatore per fronteggiare la lotta al terrorismo.

Delle eccezioni al principio del bilanciamento sono, talvolta, state introdotte anche dalla Corte costituzionale. Difatti con la sentenza n. 198\1994 la Consulta, al fine di evitare l’applicazione della pena dell’ergastolo rispetto a soggetti di minore età imputabili, ha sancito che laddove al soggetto in questione sia applicabile un’aggravante che comporta la pena dell’ergastolo, quest’ultima non potrà mai essere considerata prevalente rispetto all’attenuante della minore età; del pari laddove il minore sia condannato per un reato punito con l’ergastolo, nessuna circostanza aggravate potrà essere considerata equivalente ovvero prevalente rispetto alla circostanza attenuante della minore età.

Dubbi sono sorti, in dottrina ed in giurisprudenza, in ordine alle modalità attraverso le quali il giudice dovesse effettuare il bilanciamento nell’ipotesi in cui concorressero circostanze bilanciabili e circostanze non bilanciabili. Si evidenzia sul punto un recente intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che con la sentenza n. 42414\2021, ed in particolare in riferimento alla fattispecie del furto in abitazione ex articolo 624-bis co 4 cp, hanno sancito il principio secondo cui “Le circostanze attenuanti che concorrono sia con circostanze aggravanti soggette a giudizio di comparazione ai sensi dell’art. 69 c.p., sia con circostanza che invece non lo ammette in modo assoluto, devono essere previamente sottoposte a tale giudizio e, in caso di ritenuta equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta – per il reato aggravato da circostanza “privilegiata” – se non ricorresse alcuna di dette circostanze”.

Le conseguenze applicative che ne derivano sono le seguenti: se all’esito del bilanciamento deriva un’equivalenza tra le circostanze (bilanciabili), allora la pena concretamente inflitta sarà quella risultante dall’applicazione della sola circostanza blindata. Per contro, laddove da tale bilanciamento non dovesse risultare un giudizio di equivalenza bensì di prevalenza della circostanza aggravante ovvero di quelle attenuanti (bilanciabili), la pena finale risulterà dall’applicazione, al reato già aggravato dalla circostanza a blindatura forte, di quanto risultante dal bilanciamento delle altre circostanze concorrenti.

3. Natura e disciplina della recidiva

L’istituto della recidiva, introdotto per la prima volta dal codice Zanardelli, è stato interessato da una lunga e rilevante evoluzione di cui, seppur brevemente, occorre dare atto.

L'art. 80 del codice Zanardelli stabiliva che “colui che, dopo una sentenza di condanna e non oltre i dieci anni dal giorno in cui la pena fu scontata o la condanna estinta, se la pena era superiore ai cinque anni di durata, o non oltre i cinque anni negli altri casi, commette un altro reato non può essere punito col minimo della pena incorsa per il nuovo reato”.

Con l’introduzione del codice Rocco la disciplina della recidiva è stata interessata da importanti novità, difatti fu espunto ogni tipo di riferimento alla espiazione della pena, per poi eliminare ogni riferimento a limiti di carattere temporale (si parla a tal riguardo di perpetuità della recidiva).

Con la L. n. 220 del 1974 altrettante incisive modificazioni hanno interessato la recidiva, tra queste occorre annoverare la facoltatività dell’aumento della pena al cospetto della circostanza aggravante di cui si tratta, facoltatività che però era limitata al solo aumento della pena, non potendo il giudice, nell’esercizio della discrezionalità attribuitagli, escludere gli ulteriori effetti della recidiva. Fu, in secondo luogo, fissato un limite agli aumenti di pena coincidente con il cumulo delle pene risultate dalle condanne precedenti alla commissione di un nuovo reato – novità, quest’ultima, che ha determinato il sorgere di non pochi dubbi in giurisprudenza, specie in riferimento alla idoneità della recidiva, che per effetto del limite di cui si tratta non abbia determinato un aumento pari almeno ad un terzo, di produrre i suoi effetti indiretti. 

La disciplina della recidiva ha poi subito un’interessante modifica con la Legge ex Cirielli (L. n.251 del 2005). L’intervento normativo di cui si tratta ha innovato la nozione di recidivo, restringendola solo a chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro. La riforma ha poi inasprito il trattamento sanzionatorio previsto per i recidivi e, in ultimo, ha introdotto il cd. doppio binario per ciò che attiene al regime della recidiva: in particolare dinanzi ai delitti di cui all'articolo 407 comma 2 lettera a) c.p.p. l'aumento della pena per la recidiva è ora prescritto come obbligatorio, mentre per tutti gli altri delitti esso rimane facoltativo.

Dal quadro così delineato è possibile affermare, senza dubbio alcuno, che nel vigente sistema normativo la recidiva è sempre facoltativa, con la necessaria precisazione che la facoltatività di cui si tratta investe il piano del suo riconoscimento, mentre risulta estranea al piano degli effetti; ciò sta a significare che la discrezionalità riconosciuta al giudice è perimetrata al momento del riconoscimento,  dispiegandosi o rimanendo inespressi i proprie effetti a seconda che l'aggravante sia ritenuta o esclusa.

La funzione assolta dalla recidiva, ed in modo particolare dalla facoltatività nell’applicazione della stessa, assume non poco rilievo, iscrivendosi nel processo di “conformazione del diritto penale nazionale alle funzioni che la Carta costituzionale assegna alla pena”, tra le quali assume preminenza la funzione rieducativa, espressamente sancita all’interno della Carta Costituzionale all’art. 27 comma 3, che implica “un costante principio di proporzione" tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa dall'altra”.[1]

Trattasi di una finalità alla quale i Giudici delle leggi hanno più volte operato un richiamo per cogliere i profili di illegittimità costituzionale nella disciplina in tema di recidiva. come meglio si avrà modo di evidenziare di seguito.

Fatto queste breve excursus storico, occorre soffermarsi sulla natura giuridica della recidiva, anch’essa oggetto di contrasti in dottrina. In particolare, fino all’intervento del supremo organo di nomofilachia, parte della dottrina finiva per non ritenere la recidiva quale circostanza in senso tecnico. La Suprema Corte, ponendo così fine ad un annoso dibattito, ha, nel 2011 con la sentenza n. 20798, configurato la stessa quale circostanza aggravante in considerazione del fatto che, al pari di ogni altra circostanza esplica una efficacia extra edittale e, allo stesso tempo, fungendo da strumento di adeguamento della pena alle peculiarità del caso concreto, assolve all’ulteriore funzione propria delle circostanze, ossia alla funzione adeguatrice della pena.

Passando all’analisi dell’art 99 c.p. e delle varie forme di recidiva in esso previste, occorre distinguere tra:

  • recidiva semplice, di cui all’art. 99 comma 1, che sussiste nelle ipotesi in cui l’agente, dopo aver riportato una condanna per un delitto non colposo, ne commette un altro, di diversa indole, oltre i 5 anni dalla condanna precedente. Il comma in esame riconosce al giudice la possibilità di comminare al recidivo un aumento della pena pari ad un terzo o, meglio, fino ad un terzo, rispetto alla pena prevista per il reato base.
  • Recidiva aggravata, di cui al secondo comma del medesimo articolo, che sussiste laddove il nuovo delitto non colposo commesso sia della stessa indole di quello per il quale si è ottenuta la precedente condanna (c.d. recidiva specifica); il nuovo delitto non colposo sia stato commesso entro i 5 anni successivi alla condanna precedente (c.d. recidiva infra quinquennale); il nuovo delitto non colposo sia stato commesso durante o dopo l'esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena. Laddove ricorra, nel caso concreto, solo una delle ipotesi sopracitate ci si troverà dinanzi ad una “recidiva mono aggravata”, al cospetto della quale è data al giudice la possibilità di aumentare la penale fino alla metà, o come specificato dalla giurisprudenza da un terzo fino alla metà. Laddove invece coesistessero più delle ipotesi sopracitate allora la recidiva si dirà “pluriaggravata” e l’aumento della pena sarà della metà.

L’utilizzo di tale dicitura “l’aumento della pena è della metà”, a fronte della possibilità riconosciuta al giudice in riferimento alla recidiva mono aggravata, ha portato parte della dottrina a ritenere che in tale ipotesi, così come in costanza di una recidiva reiterata, l’applicazione di tale circostanza aggravante debba ritenersi obbligatoria. Invero, a tal riguardo, pare necessario porre l’attenzione su due pronunce della Corte Costituzionale (numero 192\2007 e numero 32875\2007)  dalla quale si desume con chiarezza come sia nel caso di recidiva reiterata che pluriaggravata l’aumento della pena deve ritenersi sempre facoltativo. Anche le Sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 20789\2011 si sono espresse in tal senso, sancendo la necessità di evitare ogni automatismo e rimarcando come  sia compito del giudice verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito abbia determinato effettivamente la maggiore pericolosità del reo nonché la maggior riprovevolezza della condotta allo stesso ascrivibile, giustificandosi solo in tale ipotesi l’applicazione della circostanza aggravante di cui si tratta, e ciò anche laddove ricorra la cd. recidiva reiterata.

In particolare, si ha recidiva reiterata laddove il reo, già recidivo, commetta un altro delitto non colposo (art. 99 comma 4 c.p.). Anche dinanzi a tale recidiva il Giudice si vede attribuita la mera possibilità di applicare la circostanza aggravante di cui si tratta, dovendo ciò risultare da un’apposita motivazione, che la giurisprudenza prevalente ritiene dover presentare il carattere della sinteticità.  

La recidiva reiterata rientra nel novero delle circostanze a blindatura debole, sicché in caso di bilanciamento la stessa non potrà essere dichiarata soccombente rispetto alle attenuanti (art. 69 comma quarto c.p.).

A tal riguardo è opportuno segnalare che varie sono state le pronunce  del Palazzo della Consulta, volte a mettere in risalto l’irragionevolezza di previsioni normative di tal fatta, tali da vietare tout court la prevalenza di circostanze attenuanti codicistiche ovvero contenute in leggi speciali (a titolo meramente esemplificativo si tenga in considerazione la sentenza numero 94\2023, con cui la Consulta ha sancito l’illegittimità del divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata in tutti i casi in cui vengano in rilievo delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, nonché la successiva pronuncia numero 141\2023 ove la Corte Costituzionale ha riscontrato un nuovo profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 69 comma 4 c.p., ritenendone il contrasto con gli artt. 3 e 27 Costituzione, “nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 62, numero 4), c.p. sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma c.p.”).

4. Effetti diretti ed indiretti delle circostanze ad effetto speciale ed in particolare della recidiva

Come anticipato al paragrafo 1, le circostanze ad effetto speciale, tra cui rientra la recidiva di cui ai commi 2,3,4 dell’art. 99 c.p., producono effetti indiretti, cioè effetti ulteriori rispetto alla riduzione ovvero all’aumento della pena.

Con particolare riferimento alla recidiva, la L. 5 dicembre 2005 n. 251 ha introdotto una serie di effetti ulteriori ricollegabili alla sussistenza della recidiva o di alcune particolari forme di recidiva.

Uno dei principali effetti sussiste in tema di prescrizione.

In particolare la prescrizione, per cui si intende la rinuncia dello Stato a far valere la propria pretesa punitiva in considerazione del tempo trascorso dalla commissione del reato, trova la sua disciplina all’art 157 c.p. che, al secondo comma, sancisce che “per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell'aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell'aumento massimo di pena previsto per l'aggravante”.

Sempre in riferimento alla prescrizione, occorre tenere conto anche della particolare disciplina sancita dall’art. 161 c.p., così come modificato dalla legge ex Cirielli, in riferimento alla sospensione ed interruzione della prescrizione.

Proprio rispetto alla prescrizione quale effetto indiretto dell’applicazione della recidiva, nelle forme di cui ai commi 2, 3 e 4 dell’art. 99 c.p., non può tacersi l’annoso dibattito che ha interessato dottrina e giurisprudenza in ordine al il limite all'aumento di pena, di cui all’art. 99, comma 6, c.p. In particolare l’interrogativo ha avuto ad oggetto la rilevanza o meno del sopracitato limite in ordine alla qualificazione della recidiva quale circostanza ad effetto speciale e, di conseguenza, sugli effetti che ne sarebbero derivati in termini di prescrizione.

Sul punto due erano gli orientamenti che si contendevano il campo: l'uno secondo cui la recidiva di cui ai commi 2, 3 e 4 dell’art 99 c.p. rimane una circostanza ad effetto speciale anche laddove il concreto aumento di pena applicato, per effetto del criterio mitigatore previsto dall'art. 99 comma 6 c.p., sia pari o inferiore ad un terzo. L’altro, all’opposto, secondo cui la recidiva non può essere considerata una circostanza ad effetto speciale nel caso in cui il concreto aumento di pena applicato, per effetto del suddetto limite sia pari o inferiore ad un terzo, ciò in considerazione della definzione che l’art. 63 comma 3 c.p. fornisce circa le circostanze aggravanti ad effetto speciale, che sono solo quelle che determinano un aumento della pena superiore ad un terzo. 

A fare chiarezza sul punto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 30046 del 2022 , escludendo che il limite all'aumento di pena previsto dall’art. 99 comma 6 c.p. rilevi in ordine alla definizione della recidiva qualificata come circostanza ad effetto speciale e che influisca sui termini di prescrizione di cui agli artt. 157 e 161 c.p., come modificati dalla legge n. 251/2005.

Altro effetto indiretto, connesso specificamente alla recidiva reiterata di cui al comma 4 dell’art. 99 c.p., attiene al rapporto con il reato continuato di cui all’art 81 c.p.

In particolare, al comma 4, l’art. 81 c.p. sancisce che “se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, comma 4, l'aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave”

A lungo discusso è stato il rapporto tra reato continuato e recidiva.

Si riteneva, infatti, una contraddizione logica applicare il più favorevole cumulo giuridico rispetto a chi persistesse nella assunzione di condotte illecite, rifiutando di adoperarsi nel rispetto delle leggi e dello Stato.

Superando tale orientamento la giurisprudenza di merito, ed in ultimo la Corte di Cassazione con sentenza numero 49092\2018, si è pronunciata nel senso che “non esiste incompatibilità tra gli istituti della continuazione e della recidiva, essendo il primo finalizzato a riconoscere il minore disvalore della progressione criminosa che si esprime in esecuzione di un medesimo disegno criminoso; mentre la recidiva è funzionale a consentire la valorizzazione, nella determinazione della sanzione, della oggettiva crescente pericolosità attribuibile all'agente che reitera condotte penalmente rilevanti”.

Altro effetto indiretto che deriva dall’applicazione della recidiva risulta dall’art 179 c.p. che, al secondo comma, sancisce che il tempo necessario ai fini della concessione della riabilitazione è necessario che siano decorsi almeno otto anni, e non tre come invece previsto dal primo comma, decorrenti dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia estinta e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta.

Di non poco momento è anche l’effetto indiretto che la circostanza aggravante di cui si tratta determina sotto il versante penitenziario.

Difatti, con la L. n. 251 del 5 dicembre 2005 sono state introdotte talune limitazioni per i recidivi rispetto ai benefici penitenziari nonché rispetto alle misure alternative alla detenzione. In particolare il regime deteriore vale per i permessi premio (art 30 quater ord. pen.), per la detenzione domiciliare (art 47 ter ord. pen.), per la semilibertà (art 50 bis ord. pen.). L’art. 58 quater ord. pen. sancisce infatti specificamente che la detenzione domiciliare, la semilibertà e l'affidamento in prova al servizio sociale non possono essere concessi ai recidivi più di una volta; inoltre il recidivo reiterato non può essere ammesso alla sospensione dell'ordine di esecuzione della condanna ai sensi dell’art 656 co 5 c.p.p.

La recidiva inoltre rileva quale presupposto soggettivo di rilevanza penale di condotte altrimenti punite quali illeciti amministrativi. Difatti con il D.L. 133\2018, convertito in L. 132\2018, è stato modificato il comma 15 bis dell’art. 7 del Codice della Strada il quale dispone che l'illecito amministrativo, in caso di recidiva, si trasforma in contravvenzione, così assumendo natura penale.

Ancora, la recidiva assume rilevanza in tema di amnistia e indulto

Occorre preliminarmente fornire una definzione di amnistia e indulto prima di passare ad analizzare le limitazioni rispetto a tali istituti espressamente sancite dal legislatore all’interno del codice penale.

L'amnistia costituisce una causa di estinzione del reato mentre l'indulto è una causa di estinzione della pena. Da ciò consegue che mediante l'amnistia lo Stato rinuncia all'applicazione della pena, invece con l'indulto si limita a condonare, in tutto o in parte, la pena inflitta, senza che vi sia la cancellazione del reato.

Difatti, l’art. 151 c.p. all’ultimo comma sancisce che l'amnistia non si applica ai recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell'articolo 99. Anche rispetto all’indulto operano le medesime limitazioni per espresso rimando ad opera dell’art. 174 c.p. alle disposizioni contenute nei tre ultimi capoversi dell'articolo 151 c.p.

 5. Effetti indiretti della recidiva a seguito del giudizio di equivalenza

Siamo giunti così al tema centrale della trattazione, ovvero capire se nel caso in cui l’applicazione della circostanza ad effetto speciale non abbia prodotto i suoi effetti diretti, possa dirsi comunque applicata così da ammettere il perpetrarsi dei  propri effetti indiretti.

Due sono gli effetti diretti della recidiva. Come si è avuto modo già di evidenziare, il primo e più importante effetto è l’innalzamento della risposta sanzionatoria e dunque l’assoggettamento ad una pena maggiore al ricorrere della circostanza oggetto d’analisi; altro effetto diretto, che potremmo dire rappresentare l’altra faccia della medaglia, è il potere di paralizzare l’effetto, favorevole per il reo, derivante dall’applicazione, ad opera del giudice, di circostanze aggravanti.

Più volte la giurisprudenza ha statuito che all'esito dell'accertamento al quale dà via la contestazione della recidiva il giudice può fornire un esito differente. In particolare, l’interprete può giungere a negare la rilevanza aggravatrice della recidiva così da escluderne l’operatività sotto il versante dell’aumento della risposta sanzionatoria; operando, per contro, con tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi, laddove la verifica effettuata evidenzi la rilevanza della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo. Si dovranno, allora, trarre dal giudizio tutti gli effetti, diretti ed indiretti, che la legge assegna alla recidiva.

Nel fissare tale insegnamento le Sezioni Unite Calibèon[2] precisarono che la recidiva deve dirsi, oltre che "accertata" nei suoi presupposti (sulla base dell'esame del certificato del casellario), anche "ritenuta" dal giudice ed "applicata", non solo laddove determini come effetto quello tipico di aggravamento della pena, ma anche laddove svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l'effetto alleviatore di una circostanza attenuante.[3]

Quanto appena affermato rileva, altresì, rispetto agli effetti indiretti di cui si è detto rispetto alle circostanze ad effetto speciale, ed in particolare in riferimento alla circostanza aggravante ad effetto speciale della recidiva di cui ai commi 2, 3 e 4 c.p.

Specificamente in tema di prescrizione, più volte la giurisprudenza ha affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente.[4]

Per contro, la circostanza di cui si tratta non è da ritenere applicata solo allorquando, ancorché riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri, ravvisandosi la prevalenza dell’attenuante, la quale non si limita a paralizzarla ma la sopraffà, così che  l'aggravante risulta tamquam non esset. 

Questione differente, anch’essa oggetto di contrasti giurisprudenziali, e sottoposta all’attenzione del Supremo Consesso è stata sintetizzata nei termini seguenti: “Se la recidiva contestata e accertata nei confronti dell’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva o meno ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato”.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20808\2019, attenziona la questione concernente l’ammissibilità di una motivazione c.d. implicita rispetto al riconoscimento della recidiva, giungendo a sancire che una generica valorizzazione dei precedenti, svolta per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non può essere considerata idonea a svolgere tale funzione, posto che “i precedenti penali dei quali fa menzione l'art. 133 cod. pen. non sono del tutto coincidenti con quelli che contribuiscono a costituire la recidiva".

È la Suprema Corte che, nella sentenza citata, fornisce delle esemplificazioni in tal senso, evidenziando come tra i precedenti penali rilevanti ai sensi dell’art 133 c.p. rientrano “anche le sentenze che concedono il perdono giudiziale, che invece non rilevano ai fini della recidiva[5]; quelle che escludono la punibilità per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen. (soggette ad iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi dell'art. 3, lett. f, d.P.R. n. 313 del 2002 ma non valevoli ai fini della recidiva); le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono concorrere a concretare la recidiva, pur quando formatesi prima dell'entrata in vigore della legge n. 251/2005, ma che possono essere prese in considerazione nella valutazione della gravità del fatto ostativa all'ammissione all'oblazione di cui all'art. 162-bis cod. pen.[6]; le condanne per le quali si è prodotta l'estinzione di ogni effetto penale determinata dall'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale, che invece non possono essere considerate agli effetti della recidiva[7]. Allo stesso modo, mentre la riabilitazione non preclude la valutazione dei precedenti penali e giudiziari del riabilitato nell'apprezzamento del comportamento pregresso dell'imputato ai fini della determinazione della pena, ai sensi dell'art. 133 c. p.[8], l'estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna conseguente alla riabilitazione preclude che della condanna si possa tener conto ai fini della recidiva, sino a quando non sia intervenuto il provvedimento di revoca della sentenza di riabilitazione[9]. È  poi da rammentare che l'art. 133, secondo comma, n. 2, c. p. considera anche i precedenti giudiziari, certamente irrilevanti ai fini del giudizio sulla recidiva”.[10]

6. Effetti indiretti della recidiva a seguito del giudizio di subvalenza

Questione ancora aperta ed irrisolta attiene il nodo delle conseguenze da trarre in caso di recidiva che, in esito al giudizio di cui all'art. 69 cod. pen., sia valutata subvalente.

Al riguardo si evidenziano orientamenti differenti e tra loro discordanti.

Secondo parte della giurisprudenza[11] deve ritenersi applicata la recidiva, ai fini del computo del termine di prescrizione, anche laddove considerata subvalente nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti concorrenti

Per contro, un diverso orientamento, anch’esso avallato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione[12], giunge ad una soluzione differente basandosi sul presupposto secondo cui la recidiva contestata all'imputato, ritenuta e non applicata dal giudice di merito perché considerata subvalente rispetto alla circostanza attenuante, non può assumere rilievo nel calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato.

Pertanto, muovendo dal principio del favor rei che permea l’ordinamento giuridico, e che trova la sua più ampia espressione in ambito penalistico, la subvalenza della recidiva rispetto ad altra circostanza attenuante determina la mancata produzione sia di effetti diretti che di effetti indiretti.

7. Conclusioni

La recidiva è stata e continua ad essere un istituto al centro dell’attenzione non solo giurisprudenziale, come è reso evidente dalla numerose pronunce nel tempo si sono susseguite con riferimento alla circostanza aggravante oggetto d’analisi, ma anche della dottrina.

Questione di non poco momento, in quanto particolarmente controversa, attintene alla produzione degli effetti indiretti, con particolare riferimento alla prescrizione, laddove dal giudizio di bilanciamento operato dal giudice nell’esercizio della sua discrezionalità la circostanza aggravante di cui si tratta risulti equivalente ovvero sub valente.

Come evidenziato nel corso della trattazione, più volte la giurisprudenza ha sancito il principio secondo cui la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente. In tali ipotesi la circostanza aggravate di cui si discorre risulta idonea a produrre uno dei suoi effetti diretti che sta nel paralizzare la circostanza attenuante che con la recidiva entra in bilanciamento, evitando così la riduzione della pena da applicare al reo.

Altra questione è quella, invece, attinente l’idoneità della recidiva ad esplicare i propri effetti indiretti laddove risulti subvalente dal giudizio di bilanciamento operato dal giudice nell’esercizio della discrezionalità che gli appartiene.

Se rispetto all’evenienza dell’equivalenza tra circostanze attenuanti e l’aggravante di cui si tratta si ravvisa la sussistenza di un orientamento maggioritario, lo stesso non può affermarsi con riferimento al diverso caso di subvalenza.

Difatti sul punto si contendono il campo due orientamenti contrapposti, la questione così resta aperta e si auspica, pertanto, un intervento chiarificatore del legislatore.

 
 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Corte Cost. n. 341/1994.

[2] Cass. Sez. Un. n. 35738/2010

[3] Nel medesimo senso si veda anche Cass. Sez. Un. n. 31669/2016.

[4] Cass. Sez. VI, n. 39849 /2015; Sez. II, n. 35805 /2013; Sez. I, n. 26786 /2009.

[5] Cass. Sez. V, n. 2655/2015 - dep. 2016, Halilovic, Rv. 265709.

[6] Cass. Sez. III, n. 29238/2017, Cavallero, Rv. 270147, in motivazione, ove si rammenta che quella gravità va apprezzata alla luce degli indici di cui all'art. 133 cod. pen.

[7] Cass. Sez. III, n. 39550/2017, Mauri, Rv. 271342.

[8] Cfr. Cass. Sez. VI, n. 16250/2013, Schirinzi, Rv. 256186.

[9] Cass. Sez. I, n. 55359/2016, Pesce, Rv. 269042.

[10] Cfr. Cass. Sez. Un., n. 20808\2019.

[11] Cfr. Cass. n.15681\2016 e n.8079\2016

[12] Cfr. Cass. n. 48891/2018