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Pubbl. Mar, 12 Gen 2016

Offese a pubblico ufficiale? Possono costare care

Gianandrea Serafin


Offendere un Pubblico ufficiale in servizio può costare davvero caro, almeno secondo quanto è stato stabilito dalla Sezione IV penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 45668 del 16.09.2015 (dep. il 17.11.2015 - Pres. Vessichelli).


Infatti secondo quanto è previsto dal reato di ingiuria ai sensi dell’art 594 c.p. chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito, con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516. La norma prevede, altresì, che la pena sia della reclusione fino a un anno o della multa fino a euro 1.032 se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Inoltre vi è un ulteriore aumento delle pene, ai sensi dell’art 64 c.p., quando le offese vengano commesse alla presenza di più persone.

Infatti secondo quanto è previsto dal reato di ingiuria ai sensi dell’art 594 c.p. chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito, con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516. La norma prevede, altresì, che la pena sia della reclusione fino a un anno o della multa fino a euro 1.032 se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Inoltre vi è un ulteriore aumento delle pene, ai sensi dell’art 64 c.p., quando le offese vengano commesse alla presenza di più persone.

Il caso de quo, infatti, vedeva P.P.M. ricorrere in Cassazione ad una sentenza del Giudice di pace di Grumello del Monte, poi confermata anche dal Tribunale di Bergamo, che lo condannava, per il reato di ingiuria continuata e aggravata in danno di un funzionario della Polizia locale che lo aveva invitato a tenere legato il cane di proprietà, alla pena di euro 2.000, oltre al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, che nel frattempo si era costituita parte civile, quantificati in euro 900. 

Nelle more del ricorso per Cassazione il ricorrente lamentava tre motivi di doglianza:

1. Nel primo si doleva della mancata applicazione da parte del giudice d’appello della causa di non punibilità prevista dall’art. 599 co.1 e 2 c. p., poiché a suo dire, la parte offesa si era intromesso arbitrariamente nella discussione che l’imputato stava conducendo con terze persone, redarguendolo alla presenza di tutti e senza chiedere scusa per l’intrusione. Inoltre, perché, pur conoscendolo personalmente, ne aveva pretese l’esibizione dei documenti e, non ricevendoli, aveva chiamato i carabinieri.

2. Con il secondo lamentava l’aumento di pena disposto per la continuazione del reato, nonostante le espressioni ingiuriose “vaffanculo” e “non rompere i coglioni” fossero state pronunciate in un medesimo iter criminis.

3. Infine col terzo l’imputato contestava la violazione dell’art. 92, co. 2, c.p.c. e dell’art. 12, co. 3 del D.M. n. 140 del 20 luglio 2012, sottolineando come avendo la persona offesa chiesto un risarcimento di € 10.000 e poiché il giudice di prime cure ne aveva liquidato solo 900 euro, questi avrebbe dovuto tener conto, nella liquidazione delle spese legali, del risultato del giudizio. Il che non sarebbe avvenuto visto la condanna ad euro 2.000 di spese legali. 

Sul primo punto de quo gli ermellini hanno ritenuto la motivazione adotta dal ricorrente infondata. Infatti anche se è vero che a nome dell’art. 599 co.1 e 2 c. p.[1]Ritorsione e provocazione”, se le offese sono reciproche[2], il giudice può dichiarare non punibili uno o entrambi gli offensori, causa di non punibilità questa che era stata invocata dal ricorrente e che prevede altresì la non punibilità per chi ha commesso il reato (p. e p. dagli articoli 594 e 595 c.p.) nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e/o subito dopo di esso[3] – nel caso in esame rilevano anche comportamenti tenuti dalla persona offesa, che siano lesivi di regole comunemente accettate nella civile convivenza. Questa situazione non ricorre in quanto non è ravvisabile, nemmeno nella prospettazione della difesa, la violazione di tali regole poiché il funzionario di polizia locale, una volta accertata la violazione di una norma del regolamento comunale, aveva l’obbligo di procedere alla sua contestazione al trasgressore, senza per altro chiedere il “permesso per farlo”, né scusandosi per l’intrusione nella conversazione altrui, né chiamandolo in disparte.

Del tutto irrilevante appare anche il fatto che il pubblico ufficiale pur conoscendo l’imputato avesse, in quella circostanza richiesto l’ausilio dei carabinieri vedendosi negare, dopo averli richiesti, l’esibizione dei documenti. Irrilevanza di specie, come sottolineato dalla Corte, “sia perché la circostanza è dedotta e non dimostrata, sia perché non è affatto detto che S. conoscesse esattamente le generalità del trasgressore”.

Anche per quanto attiene alla mancanza di “educazione” invocata dal ricorrente va precisato che tale attitudine può avere un fondamento nei rapporti tra privati, ma non è ravvisabile nell’ambito dell’esercizio dei poteri autoritativi tipici del pubblico ufficiale. A mente dell’art. 357 c.p., infatti, rivestono la qualifica di pubblici ufficiali ex lege tutti coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. La norma specifica, altresì, che si considera pubblica anche la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi, certificativi[4], o di coazione[5] anche saltuari[6]. Tale definizione si differenza da quella di incaricato di pubblico servizio, ex art. 358 c.p. per coloro i quali, prestano un pubblico servizio a qualunque titolo. Con il co. 2, della Legge. n. 86/1990 e successivamente con la Legge n. 181/1992, si volle specificare che per “pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.

Sul punto si precisa, altresì, che seppure tali poteri del pubblico ufficiale siano esercitati con perentorietà nel caso de quo non rileva il fatto, ai sensi della norma di cui all’art. 393-bis c.p., come stante l’arbitrarietà del comportamento di cui sopra, non si esaurisca nella sua illegittimità, occorrendo in tale ipotesi che vi sia nell’agente la consapevolezza di voler realizzare e tenere un comportamento che esorbiti dai limiti delle proprie attribuzioni. Pertanto si evince, da giurisprudenza costante, come l’atto si può ritenere arbitrario ogni qual volta l’agente voglia espressamente perseguire scopi assolutamente estranei alle finalità strumentalizzando il potere che gli riconosce la legge[7]. Inoltre secondo quanto affermato dalla sentenza della Corte Cost. n. 140 del 23 aprile 1998[8], ed in altre pronunce, anche quando per la scorrettezza, la sconvenienza, l’inurbanità, l’inutile offensività delle modalità di svolgimento di una attività astrattamente legittima si possa giustificare la reazione del privato, è stato sempre precisato che occorre che via sia sempre il consapevole travalicamento da parte del pubblico ufficiale dei limiti e delle modalità entro cui esercitare le proprie funzioni pubbliche[9] e che occorra comunque una proporzione nella reazione[10].

Infatti l’applicazione al caso di specie dei criteri sic et simpliciter poc’anzi rilevati sembra evidenziare altresì come l’arbitrarietà lamentata dal ricorrente sia del tutto insussistente, visto che il funzionario di polizia locale si trovava ad adempiere ad un dovere del proprio ufficio, e che la reazione dell’imputato che in tale circostanza proferiva parole quali “vaffanculo” e “non rompere i coglioni” erano sicuramente espressioni “al di sopra delle righe” e pertanto offensive dell’onore e del decoro del p.u.

Inoltre sul secondo punto di doglianza ravvisa la Corte che non vi è stata esatta determinazione da parte del Giudice di merito della pena per il reato in titolo. Per la Cassazione, infatti, “le espressioni ingiuriose, infatti, quando pronunciate in un unico contesto, integrano un unico reato, e non una pluralità di reati - quante sono le parole ingiuriose - unificati dal vincolo della continuazione. Si impone, pertanto, sotto questo aspetto, il rinvio al giudice a quo per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, non essendo stato specificato l’aumento, per continuazione e non potendosi elidere […] il quantum di pena illegalmente disposto”. 

In tema di reato continuato, infatti, l’art. 81 c.p. prevede che sia “punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge”, e al secondo comma recita che “alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge[11].

L’istituto giuridico della continuazione di reati (o reato continuato) previsto al secondo comma, infatti, sanziona un’ipotesi speciale di concorso che si verifica quando con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, il soggetto agente commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa indole o di diversa disposizione di legge.  Si tratta, quindi, di una peculiare ipotesi criminosa caratterizzata dall’unicità del disegno criminoso all’interno del quale si pongono in essere le varie azioni dell’iter criminis.

Infine per gli ermellini, appare priva di apprezzabile motivazione anche la quantificazione delle spese legali operata in sede di primo grado. Infatti “a fronte di un risarcimento di € 900 a favore della parte civile, sono state quantificate spese legali per euro 2.000, senza illustrazione dei criteri seguiti (a parte il riferimento ai “limiti convenzionali”, di per sé inidonei a rendere trasparente il pensiero del giudicante)”. Si tratta ovviamente di un gravame, per altro non considerato in sede di giudizio di impugnazione, che doveva essere oggetto di peculiare attenzioni. Sul punto rileva come con “l’abrogazione delle tariffe professionali disposta dall’art. 9, comma primo, del D.L. n. 1 del 2012 (conv. in legge n. 27 del 2012) ha svincolato il giudice dai limiti tariffari minimi e massimi, obbligandolo per la determinazione dei compenso a far riferimento, con adeguata e specifica motivazione, ai parametri previsti dagli artt. 1, 12, 13 e 14 D.M. 20 luglio 2012 n. 140, concernenti l’impegno profuso nelle diverse fasi processuali, la natura, la complessità e la gravità del procedimento e delle contestazioni, il pregio dell’opera prestata, il numero e l’importanza delle questioni trattate, l’eventuale urgenza della prestazione, nonché i risultati e i vantaggi conseguiti dal cliente”.

In conclusione, alla luce di quanto esposto, non si può che condividere la pronunciata della Suprema Corte che seppur confermando in pieno la condanna dell’imputato, rigettava il ricorso e annullando la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e alle statuizioni civili ha deciso per il rinvio al Tribunale di Bergamo per un nuovo esame su detti soli punti.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche all’offensore che non abbia proposto querela per le offese ricevute.

[2] Secondo giurisprudenza, infatti, le offese devono essere reciproche e tra loro deve sussistere un rapporto di dipendenza. Pertanto è sufficiente che l’una sia la naturale conseguenza dell’altra e non dunque che siano tra loro contestuali.

[3] Si fa qui cenno alla circostanza attenuante della provocazione, figura giuridica prevista dall’art. 62 n. 2 c.p., che però non attenua la pena, ma la esclude. Si tratta di un’esimente dalla natura giuridica controversa, identificata da alcuni in una causa di giustificazione, da altri in una causa speciale di non colpevolezza, che opera al ricorrere di due requisiti: lo stato d’ira, che provoca nel soggetto un impulso irrefrenabile, e l’altrui fatto ingiusto, i quali non si richiede siano legati da un legame di immediatezza, potendo intervenire la reazione dell’agente anche dopo un intervallo di tempo più prolungato, purché ciò non spezzi la relazione con l’ingiusto comportamento del provocatore. Cfr. http://www.brocardi.it/codice-penale/libro-primo/titolo-iii/capo-ii/art62.html

[4] Cas. Sez. Un. Pen., n. 191171/1992; Cass. Pen., Sez. VI, 213910/1999; Cass. Pen., sez. VI, 7.6.2001, n. 32938.

[5] Cass. Pen., sez. VI, n. 148796/1981.

[6] Cass. Pen., sez. VI, n. 166013/1984.

[7] Cass. sez. II, 21.9.2004, n. 39874; Cass. sez. VI, 22.10.2002, n. 35518; Cass. sez. VI, 3.5.2000, n. 7014.

[9] Cass, sez. IV, 4.5.1998, n. 6564; Cass., sez. II, 24.11.1998, n. 201; Cass. Sez. VI, 21.6.2006 n. 36009; Cass., sez. VI, 15.2.2012, n. 5913. 

[10] M. Catenacci (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, Giappichelli Editore, Torino, 2015.