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Pubbl. Mer, 14 Feb 2024

I presupposti della continuazione tra reato associativo e reati fine

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Lorenzo Vasile
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Roma La Sapienza



la Suprema Corte di cassazione, con la sentenza del 5 gennaio 2024 n. 424,torna sulla vexata quaestio della configurabilità della continuazione tra reato associativo e reati fine, soffermandosi sui suoi presupposti e, in particolare, sulla relazione tra l´istituto e la natura dei consorzi stessi.


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The assumptions of the continuation between associative offense and fine offenses

The Supreme Court of Cassation returns to the vexatious question of the configurability of the continuation between associative crime and fine crimes, focusing on its assumptions and, in particular, on the relationship between the institution and the nature of the consortia themselves.

Sommario: Premessa; 2. Il reato continuato; 3. Il reato continuato applicato ai reati associativi; 3. La sentenza; 4. Conclusioni.

1. Premessa

La sentenza n. 424 del 5 gennaio 2024, emessa dalla I Sezione penale della Corte Suprema di cassazione il 23 novembre 2023 è intervenuta sulla vexata quaestio dell’applicabilità dell’istituto della continuità ai reati associativi.

Il tema trattato non è nuovo al dialogo giuridico, essendo stato oggetto di numerose pronunce della Corte di piazza Cavour, della Corte Costituzionale, di correzioni legislative e pregevolissimi interventi dottrinali; dinnanzi a cotanta fertilità intellettuale, il presente elaborato si colloca a metà tra una summa di quanto già evidenziato da altri e più autorevoli giuristi e un tentativo di aggiornare il lettore su quelle che sono state le più recenti fonti del sapere ed innovazioni in materia (di cui la sentenza in epigrafe, ovviamente, è esempio).

Pertanto, non ci si stupisca se si ha scelto di dare più spazio a pronunce e testi “giovani”, ma l’intento dell’autore è proprio quello di cercare di dare un apporto al predetto dialogo e non potendo, ahimè, competere col sapere dei Maestri, deve necessariamente ricercarlo nella novità.

2. Il reato continuato

Il reato continuato, figura giuridica disciplinata dall’art. 81, co. 2, c.p., si realizza quando l’agente «con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge»; trattasi, pertanto, di concorso materiale di reati, unificati da un medesimo disegno criminoso[1], espressione di più condotte diverse, ma allo stesso tempo «parte integrante di un unico programma criminoso, che deve essere deliberato per conseguire un determinato fine, per il quale si richiede l'originaria progettazione di una serie ben individuata di reati, già concepiti nelle loro caratteristiche essenziali» (Sez. 5, n. 1766 del 06/07/2015, Esposti, Rv. 266413; Sez. 1, n. 11564 del 13/11/2012, Daniele, Rv. 255156-; Sez. 1, n. 44862 del 05/11/2008, Lombardo, Rv. 242098).

Profilo essenziale dell’unità delle condotte è, pertanto, l’esistenza di un disegno criminale unitario; relativamente alla nozione in appendice, recente dottrina[2], in uno studio dalla pregevolissima fattura, riporta una tripartizione dei principali orientamenti dottrinali: un primo indirizzo[3], c.d. volitivo, identifica il medesimo disegno criminoso con la volontà iniziale di ogni reato, causando un inevitabile confusione tra programma unitario ed elemento volontaristico nei singoli doli; una seconda tesi[4], c.d. intellettiva, ritiene che il medesimo disegno criminoso debba implicare che i reati commessi siano, nella concezione mentale dell’agente, ricompresi in un programma unitario[5]; ed, infine, la terza tesi[6], c.d. teleologico-programmatica, maggioritaria in dottrina, che ritiene invece che, oltre alla prefigurazione mentale, sia necessario anche un elemento finalistico costituito dall’unicità dello scopo dell’intero programma delinquenziale.

È proprio quest’ultima tesi ad essere la prediletta, della dottrina e della giurisprudenza, la quale, ampliando tale ricostruzione prevede che oltre a dover essere unitaria e indirizzata ad uno scopo unico ben determinato sia fondamentale una rappresentazione, nella psiche del reo, che sia antecedente rispetto all’esecuzione del primo dei reati in concorso, in modo che sia certa la programmazione ex ante, determinata e programmata, almeno a grandi linee, del disegno criminoso (Cass. Pen. Sez. I, n. 15955 del 08 gennaio 2016, Eloumari, Rv. 266615).

Tale antecedenza è stata posta a più riprese dalla Corte Suprema di Cassazione, come profilo necessario affinché si possa applicare la misura “premiale”[7] della continuazione: «Il riconoscimento della continuazione, necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza […] del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea» (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074, ma anche Cass. Sez. III, 1° ottobre 2019, n. 45941, Kasa, CED 277269 e da ultima Cass. Sez. I, 02 luglio 2021, n. 38967); essa è derivazione del fondamento politico-criminale alla base dell’istituto stesso che: «riflette la minore riprovevolezza di chi cede ai motivi a delinquere una sola volta, quando cioè concepisce il disegno criminoso»[8].

Come giustamente sottolinea l’odierna pronuncia, l’unitarietà del programma delittuoso che persegua uno scopo determinato, non può essere desunta dalla sola identità o analogia dei titoli di reato commessi, ma deve essere rintracciata – oltre che nella sucitata preventiva ideazione progettuale criminale – nella «omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita» (sempre, ex multis, Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074).

Sono questi, quindi, ricapitolando, gli indici rivelatori della sussistenza della continuità rispetto a più azioni od omissioni penalmente perseguibili; specifica la Suprema Corte che «L'accertamento di tali indici è rimesso all'apprezzamento del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, quando il convincimento del giudice sia sorretto da una motivazione adeguata e congrua, senza vizi logici e travisamento dei fatti.» (Cass. Pen. Sez. I, 02 luglio 2021, n. 38967); essi non sono altro che la condizione necessaria affinché possa esser applicato la misura, in alternativa al cumulo materiale delle pene.

E bene sottolineare che relativamente alla ricostruzione di elementi di natura intrinseca, le Sezioni Unite, hanno ammonito che essa si possa realizzare più agevolmente attraverso indicatori logici, che possano ridurre al minimo interpretazioni eccessivamente “fantasiose”, in modo da ricercare una narrazione verosimile «la dimostrazione di un dato così “poco estrinseco” come l’atteggiamento interiore non [può] dare luogo a schemi presuntivi» (Cass. Sez. U., 29 aprile 2014, n. 38343).

Pertanto, è mediante tali elementi circostanziali che il Giudicante può accertare la verosimiglianza o meno di una progettazione criminale pregressa al fatto illecito, in modo da poterne escludere l’estemporaneità e la spontaneità; è ovvio, quindi, che l’operatività degli stessi varia in base alla loro quantità e rilevanza, essendo essi, fondamentalmente, delle variabili di probabilità per cui, in sintesi, l’interprete possa portare ad una ricostruzione dei fatti che conduca ad una volontà criminosa unitaria, che è, come illumina la Suprema corte: «non necessariamente esplicitata, in forma chiara e distinta, al momento del fatto» (Cass. Pen. Sez. I, 28 aprile 2023, n. 39858).

È, inoltre specificato; essa è da ritenersi fondata, allorquando, si riconosca che la compresenza di una pluralità di essi, anche tenendo conto della loro rilevanza, consente di formulare

Statuisce, sempre la giurisprudenza di legittimità, che la presenza di uno solo di tali indici non è in sé indicativo dell'esistenza di una cornice deliberativa comune ai singoli episodi (Cass. Pen. Sez. I, 17 marzo 2010, n. 12905, Bonasera, Rv. 246838), così come non è necessaria la contemporanea presenza di tutti i predetti indici, potendo esser riscontrata la continuità anche in presenza di solo alcuni dei detti elementi, purché di significativo rilievo (ex multis Cass. Pen. Sez. I, 02 luglio 2021, n. 38967, che ribadisce quanto, sempre dalla I Sez., precedentemente affermato nelle pronunce n. 8513 del 09/01/2013, Cardinale, Rv. 254809; n. 44862 del 05/11/2008, Lombardo, Rv. 242098); spetta, pertanto, esclusivamente al Giudice di merito e al suo apprezzamento, l’accertamento di tali caratteri e la sussunzione delle singole fattispecie «secondo l'unica prospettiva ragionevolmente plausibile, [applicando] un giudizio di maggiore probabilità o di più spiccata verosimiglianza che essi siano riconducibili a una stessa risoluzione criminosa» (Cass. Pen. Sez. I, 17 marzo 2010, n. 12905, Bonasera, Rv. 246838).

Tale percorso logico è «insindacabile in sede di legittimità, quando il convincimento del giudice sia sorretto da una motivazione adeguata e congrua, senza vizi logici e travisamento dei fatti; è, quindi, conclusivamente, espressione dell’attività ermeneutica del giudicante e, di riflesso, oggetto di probatio e soggetta alla sua libera valutazione ex art. 192 c.p.p.; questo si traduce nell’inammissibilità della richiesta in executivitis di cui all’art. 671 c.p.p. laddove il Giudice di prime cure abbia rigettato l’ipotesi continuativa nel giudizio di cognizione.

È premura della giurisprudenza ammonire il giurista rispetto ad un aspetto fondamentale, ovvero, la distinzione tra l’istituto in esame e la mera tendenza al crimine del reo; la continuazione è, infatti, una misura volta al deflettere il cumulo materiale delle pene, laddove più azioni od omissioni siano frutto di un’unica proiezione mentale illecita, con una rappresentazione dell’agente, antecedente ai fatti, che ricomprenda tutta la serie dei reati del progetto scellerato e che, essi, non si discostino dalle linee essenziali, precedentemente immaginate; ben diverso sarebbe, invece, invocarla dinnanzi a condotte autonome, sintomo di una personalità del reo tendente al crimine; statuisce la Corte: «L’unicità del programma criminoso, a sua volta, non deve essere assimilata a una concezione esistenziale fondata sulla serialità delle attività illecite del condannato, perché in tal caso "la reiterazione della condotta criminosa è espressione di un programma di vita improntato al crimine e che dal crimine intende trarre sostentamento e, pertanto, penalizzata da istituti quali la recidiva, l'abitualità, la professionalità nel reato e la tendenza a delinquere, secondo un diverso ed opposto parametro rispetto a quello sotteso all'istituto della continuazione, preordinato al favor rei» (Cass. Pen. Sez. V, n. 10917 del 12/01/2012, Abbassi, Rv. 252950-01).

È possibile, o anzi, è anche frequente, la contemporanea sussistenza della continuità e della tendenza/professionalità nel delinquere; in tali casi – e di notevole frequenza l’eventualità di un tale connubio nei procedimenti relativi a reati di natura associativa – può apparire arduo il rintracciare quali delle condotte illecite del reo siano da ricomprendersi nella continuazione ed è, di nuovo, la giurisprudenza di legittimità a sciogliere il nodo gordiano, affermando che vada esclusa l’unicità del disegno criminis per quei tipi di reato che, non essendo stati preventivati inizialmente, sono il risultato di decisioni assunte solo nel corso dell’esecuzione del programma (Cass. Pen. Sez. III, 17 novembre 2015, n. 896, Hamami, CED 266179) oppure risultino frutto di determinazione estemporanea (Cass. Sez. Un. 18 maggio 2017, n. 28656, Gargiulo, CED 270074); inoltre, non basta che essi siano appendice di un medesimo impulso o scelta di vita, ma devono conseguire ad uno scopo unico.[9]

3.La continuazione applicata ai reati associativi

Posta questa ampia premessa di natura generale, si affronterà il tema nell’applicazione particolare, relativamente ai reati associativi.

Trattasi di delitti disciplinati dall’art. 416 c.p. o da norme, sì, autonome, ma che ne ricalcano gli aspetti essenziali; ne sono un esempio l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, di cui all’art. 74 T.U. stup., nel quale il legislatore ha specializzato il “tipo” attraverso l’identificazione dei delitti-fine e dello scopo che caratterizzano i consorzi puniti[10]e l’associazione a delinquere di stampo mafioso di cui all’art. 416-bis, vera e propria ipotesi speciale dell’art. 416 c.p.. [11]

Questa sotto categorizzazione di reati presentano un nucleo strutturale omogeneo; di particolare importanza – rispetto alla continuazione di cui all’art. 81, co. 2, c.p. – è risultato il carattere indeterminato[12] comune alle varie figure associative, essendo esse[13], volte ad assicurare una prosecuzione nel tempo indefinita e duratura – e quindi di una serie indeterminata di delitti – dei propri intenti delittuosi; tale aspetto è stato interpretato, inizialmente, come ostativo alla determinatezza imposta come presupposto della continuazione.

Parte della giurisprudenza era solita, giustificare tale incompatibilità con quella che è la struttura permanente del reato, tesi da considerarsi, a parere dell’autore, ormai largamente superata[14]; essa si fondava sull’indeterminatezza del programma e sui rischi imprevedibili – quali eventuali carcerazioni o latitanze – legate a tali contesti delinquenziali, ma l’odierno scrivente preferisce aderire all’orientamento più recente, tracciato dalla Sent. n. 38486 del 19 maggio 2011 (Cass. Pen. Sez. I, Rinzivillo, Rv. 251364) per cui «il vincolo della continuazione non è incompatibile con un reato permanente, ontologicamente unico, come quello di appartenenza ad un'associazione di stampo mafioso, quando il segmento della condotta associativa successiva ad un evento interruttivo – costituito da fasi di detenzione o da condanne – trovi la sua spinta psicologica nel pregresso accordo per il sodalizio».

In particolare, la concezione della detenzione ricopriva un aspetto decisivo a riguardo, essendo stata agli occhi degli interpreti alla stregua di una “pensione” nella carriera criminale; al contrario, ad oggi statuisce la Suprema corte (Sez. II, n. 8461 del 24 gennaio 2017, De Notaris, Rv. 269121) che essa non determina, la necessaria ed automatica cessazione della partecipazione al sodalizio da parte dell’agente, atteso che la relativa struttura comporta l’accettazione del rischio di periodi di «detenzione degli aderenti, soprattutto in ruoli apicali, alla stregua di eventualità che, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non ne impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo ed alla programmazione delle sue attività e, dall'altro, non ne fanno venir meno la disponibilità a riassumere un ruolo attivo alla cessazione del forzato impedimento».

È possibile, quindi, affermare, pacificamente, che in tema di continuazione applicata in fase esecutiva, la detenzione o altra misura limitativa della libertà personale non sono di per sé idonee ad escludere l’identità del disegno criminoso (Cass. Pen. Sez. I 05 aprile 2019 n. 37832 Okoronko, Rv. 276842).

La compatibilità tra reati permanenti e l’istituto della continuazione è stata oggetto di analisi nella sentenza n. 53 del 2018 della Corte Costituzionale, la quale, partendo da un giudizio de quo relativo al reato di cui all’art. 570 c.p., ne ha statuito la compatibilità, in particolare al caso in cui essa sia oggetto di applicazione in executivis, ovvero, mediante lo strumento dell’art. 671 c.p.p.; la pronuncia si è soffermata a chiarirne la coniugazione con la realtà processuale, che prevede, o meglio esige, soventemente giudizi di cognizione frazionati su singoli segmenti temporali, in particolare nelle condotte di stampo associative, nelle quali l'azione penale spesso è promossa durante l’attività del consorzio e, in molti casi, non riesce ad interromperla (neppure in caso di detenzione o di latitanza).

Nella sentenza n. 20900 del 26 marzo 2021, la Sezione V della Corte di cassazione è intervenuta affermando che proprio l’istituto della continuazione è strumento utilissimo a giustificare un frazionamento dei giudicati relativi ai reati permanenti e a raggirare il divieto del bis in idem evitando effetti di immunità penale. Si legge nella pronuncia: «In questa ottica, è del tutto logico che le meccaniche operative del fenomeno dell’interruzione giudiziale vadano di pari passo con quelle del ne bis in idem, rimanendo perciò collegate alle modalità di formulazione (“chiusa” o “aperta”) dell’accusa, nei termini dianzi ricordati. Sarebbe, del resto, singolare, se non anche contraddittorio, che…un segmento del reato permanente debba essere considerato fatto diverso e autonomo, ai fini dell’esclusione dell’operatività del ne bis in idem, malgrado il principio di unitarietà di tale categoria di reati, e, al contrario, porzione del fatto già giudicato – in nome di quello stesso principio – quando si tratti di stabilire se si sia al cospetto di un reato unico o di una pluralità di reati. Se si riconosce alle modalità dell’accertamento giudiziario (fattore di tipo processuale) la capacità di frantumare l’unità sostanziale del reato permanente – in risposta alle esigenze pratiche cui si è fatto cenno, giudicate ineludibili – ciò non può non valere su entrambi i versanti…Superando iniziali esitazioni, la giurisprudenza di legittimità appare, d’altro canto, ormai costante nel ritenere che, nel caso di interruzione giudiziale della permanenza, è bene applicabile ai vari segmenti di condotta autonomamente giudicati la disciplina del reato continuato, anche in sede esecutiva (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 12 luglio-13 settembre 2011, n. 33838; sezione prima penale, sentenza 19 maggio-25 ottobre 2011, n. 38486; sezione prima penale, sentenza 3 marzo-8 aprile 2009, n. 15133; sezione prima penale, sentenza 17 novembre-20 dicembre 2005, n. 46576). L’identità del disegno criminoso, richiesta dall’art. 81, secondo comma, cod. pen. al fine di cementare i vari fatti di reato, è d’altronde facilmente riscontrabile nella determinazione volitiva che sorregge le singole porzioni temporali di una condotta antigiuridica omogenea, dipanatasi nel tempo senza soluzione di continuità, quale quella integrativa del reato permanente. Al riguardo, la Corte di cassazione ha posto specificamente in risalto come l’operazione considerata – ossia l’applicazione in executivis della disciplina del reato continuato – consenta di ripristinare anche quella pena per tutto il periodo di perpetrazione del fatto di reato che sarebbe stata irrogata in modo unitario se i segmenti temporali del reato permanente fossero stati oggetto di un unico processo di cognizione (in questo senso, con particolare riguardo al caso di contestazione “chiusa”, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 7 giugno-22 luglio 2013, n. 31479).»

Dottrina e giurisprudenza sono concorde nel ritenere compatibile sia la disciplina della continuazione tra i delitti-fine, giacché «la disciplina di cui all’art. 81 c.p., nel garantire l’autonomia delle singole fattispecie, pare compatibile con il fine di commettere “più delitti” richiesto dall’art. 416 c.p.»[15] (c.d. continuazione orizzontale tra reati-scopo programmati); che tra reato associativo e delitti-fine stessi (c.d. continuazione verticale tra reato associativo e reati-scopo), ma, in tal caso, è subordinata ad alcune condizioni di seguito argomentate.

Innanzitutto, la necessaria antecedenza dell’elemento volitivo al disegno criminoso unitario è anche in questo caso, valida, ma vi è dibattito relativamente al momento temporale in cui collocare questa coscienza: secondo il tradizionale indirizzo ermeneutico di legittimità la realizzazione dei reati-fine deve essere stata deliberata al momento della costituzione del sodalizio (Cass. Pen. Sez. I, del 4 luglio 2013, n. 40318, Corigliano, Rv.257253; Sez. I, del 21 gennaio 2009, n. 8451, Vitale, Rv. 243199; Sez. I, de1 28 marzo 2006, n. 12639, Adanno, Rv. 234100); invece, secondo giurisprudenza minoritaria, ma recentemente più quotata[16], si deve tener conto non del momento del pactum scelleris, ma di quello in cui l’individuo decide di aderire – e, quindi, di prospettarsi ed accettare l’idea di compiere una serie di delitti – al consorzio criminale (Cass. Pen. Sez. I, del 22 giugno 2020, n. 23818, Toscano, Rv. 279430; Sez. I, del 9 novembre 2017, n. 1534, Giglia, Rv. 271984)[17].

Continuando, è da escludersi la configurabilità della continuazione tra il reato associativo e quei reati fine che, sebbene siano analoghi e complementari all'ambito delle attività del sodalizio criminoso ed essendo finalizzali al suo rafforzamento, non erano programmabili ab origine perché legati a circostanze ed eventi contingenti e occasionali o, comunque, non immaginabili al momento iniziale dell'associazione (Sent. in epigrafe che riprende Cass. Pen. Sez. VI, n. 13085 del 3 ottobre 2013, Amato e altri, Rv. 259481; Sez. I, n. 13609 del 22 marzo 2011, Bosti, Rv. 249930). In altri termini, è configurabile la continuazione tra reato associativo e reati fine esclusivamente qualora questi ultimi siano stati programmati nelle loro linee essenziali sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso (sempre Sent. in epigrafe e Cass. Pen. Sez. I, n. 8451 del 21 gennaio 2009, Vitale, Rv. 243199).

Inoltre, come meglio spiegato nel paragrafo successivo, la sussistenza del vincolo della continuazione tra reati associativi diversi – nel caso in cui l’agente appartenga a diversi consorzi criminali, ipotesi molto frequente data la compatibilità del concorso tra i reati ex art. 416 e 416-bis e l’art. 74 T.U. stup. – è ammessa se è affrontata una specifica indagine sulla natura dei vari sodalizi e se risulta provata una loro concreta operatività e continuità nel tempo.

4. La sentenza

La sentenza in epigrafe si inserisce proprio all’interno di questa grande cornice, fornendo un ulteriore contributo alla comprensione di questa «…tematica complessa e spigolosa» (Corte Costituzionale sentenza n. 53 del 2018).

Oggetto dell’infondato ricorso è l’ordinanza emessa dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria che ha, giustamente secondo gli Ermellini, rigettato la richiesta ex art. 671 c.p.p. volta al riconoscimento della continuazione, in sede esecutiva, tra diverse degli artt. 73, 74 e 80 D. P. R. 309 del 1990 (t.u. stupefacenti, c.d. L. “Iervolino/Vassalli”), accertate nei diversi procedimenti penali: “Traffic” (CA di Reggio Calabria in data 18 dicembre 2006, irrevocabile il 20 marzo 2007); “Nasca e Timpano” (CA di Reggio Calabria in data 5 febbraio 2008, irrevocabile il 21 maggio 2008); “Panama” (CA di Reggio Calabria in data 6 giugno 2014, irrevocabile il 6 luglio 2016).

Il ricorso della difesa denuncia un vizio di motivazione relativamente agli artt. 125, 671 c.p.p. e 81 c.p. fondamentalmente incentrato sulla circostanza che voleva il proprio assistito condannato per condotte relative ai medesimi reati, in un arco temporale – considerato dalla Pubblica accusa e dall’On. Corte giudicante troppo ampio – che andava dall’agosto 2001 al settembre 2006; tale lasso temporale contiene anche, secondo la ricostruzione difensiva, un periodo di latitanza durante il quale il reo pare abbia continuato a mantenere intensi rapporti con i consorzi criminali, mantenendo un ruolo attivo nell’organizzazione, funzionale ad un disegno criminoso comune nel settore del traffico degli stupefacenti.

Tale tesi è, però, negata dal Giudice dell’esecuzione e, in seguito all’invano ricorso, anche dalla Corte di Piazza Cavour; a motivare, in estrema sintesi, il rigetto è la non sussistenza della condizione dell’unicità del disegno criminoso, base della teoria del reato continuato.

Tale non sussistenza è motivata dall’arco temporale non esiguo tra le varie condotte e, soprattutto, dal fatto che la struttura, i componenti e lo spazio in cui operavano le associazioni a delinquere, di cui il reo risulta a vario ruolo componente, non fossero omogenei.

Infatti, sebbene le violazioni commesse dall’imputato, giudicate nei tre processi diversi, offendano i medesimi beni giuridici, esse si sono realizzate in un arco temporale, giudicato, troppo ampio, in ambienti diversi e sono il risultato delle azioni di eterogenei consorzi criminali; le azioni illecite del reo si sono trascinate per anni e sebbene mantenessero un centro decisionale comune, esse si realizzavano mediante strutture criminali sempre diverse, variando la compagine, i canali di approvvigionamento, il modus operandi e le condotte partecipative.

I Giudici di merito hanno attribuito quindi l’omogeneità delle norme violate non ad un medesimo progetto criminale, ma, bensì, ad una scelta di vita ben precisa dell’imputato, da non confondersi (come spiegato al paragrafo 2 dello studio) con la sussistenza di un reato continuato.

Ben più verosimile, infatti, una ricostruzione dei fatti che vuole l’agente abitudinario alla consumazione di illeciti, le cui condotte reiterate sono avulse da progettazioni di natura unitaria; queste le motivazioni per cui, correttamente è stato rigettato il libello difensivo.

4.Conclusioni.

A parere dello scrivente, il vero e proprio vulnus, dell’argomentazione difensiva è da rintracciarsi nella mancata identità tra i vari sodalizi criminali; laddove, infatti, fosse stata provata l’appartenenza dell’imputato ad un’unica associazione criminale, continuativa nel tempo, in grado di resistere al trascorrere degli anni e alla latitanza dei suoi partecipi, probabilmente l’esito del giudizio sarebbe stato diverso.

Il fattore spazio-temporale appare, quindi, di secondo piano rispetto alla totale estraneità tra i diversi consorzi, i quali oltre ad un centro decisionale comune (la provincia di Reggio Calabria) non condividevano né compagine “sociale”, né modus operandi e neppure canali di approvvigionamento.

Rispetto all’ammissibilità della continuazione, è stata a più riprese statuita dalla giurisprudenza l’importanza fondamentale dell’omogeneità dell’associazione di appartenenza del reo; essa è, infatti, riconosciuta solo laddove sia dimostrabile la capacità del consorzio a perseguire il proprio scopo nonostante il trascorrere del tempo e l’eventuale latitanza o detenzione dei partecipi, «in tema di continuazione, qualora sia riconosciuta l'appartenenza di un soggetto a diversi sodalizi criminosi, è possibile ravvisare il vincolo della continuazione tra i reati associativi solo a seguito di una specifica indagine sulla natura dei vari sodalizi, sulla loro concreta operatività e sulla loro continuità nel tempo, avuto riguardo ai profili della contiguità temporale, dei programmi operativi perseguiti e del tipo di compagine che concorre alla loro formazione, non essendo a tal fine sufficiente la valutazione della natura permanente del reato associativo e dell'omogeneità del titolo di reato e delle condotte criminose.» (Cass. Pen. Sez. VI sent. n. 6851 del 9 febbraio 2016, Malorgio, Rv. 266106).

In conclusione, è la cessazione dell’attività dei precedenti consorzi «…la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato, con riferimento al reato associativo, che la condotta criminosa, anche se contestata in tempi diversi, cessa solo con lo scioglimento del sodalizio criminale o per effetto di condotte che denotino l'avvenuto recesso volontario…» (Cassazione penale sez. V - 26/04/2021, n. 20900), l’assenza di un’unica struttura criminale «…occorre accertare invece se il soggetto sia passato ad una diversa organizzazione criminale, e dunque la diversità dell'accordo genetico o la sostanziale modificazione di quello originario.», ad aver reso improbabile la possibilità, che il compimento degli illeciti contestati fossero indirizzati al conseguimento di un disegno criminale precedentemente programmato e, di conseguenza, determinando l’insussistenza della richiesta ex art. 671 c.p.p..


Note e riferimenti bibliografici

[1] G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di Diritto Penale, parte generale, 2022;

[2] M. C. Canato, Il reato associativo mafioso e la continuazione con i reati scopo, in Giurisprudenza penale, 2020;

[3] M. C. Canato cita: A. Pagliaro, Cosa giudicata e continuazione di reati, in Cassazione Penale, 1987;

[4] M. C. Canato cita: U. Di Benedetto, Diritto Penale. Giurisprudenza e casi pratici, 1998;

[5]Tale tesi è stata recentemente avversata dalla Corte Suprema di cassazione che ha ammonito l’interprete a non confondere il dolo alla base dei vari reati con la volontà di perseguire un progetto unitario essendo queste due volontà distinte e allo stesso tempo, necessariamente affinché sussista la continuazione, coesistenti «dovendo le singole violazioni costituire parte integrante di un unico programma criminoso deliberato sin dall’inizio nelle sue linee essenziali, per conseguire un determinato fine, a cui, di volta in volta si aggiungerà l’elemento volitivo necessario per la sua attuazione» (Cass. Pen. Sez. I, n. 424 del 23 novembre 2023);

[6] M. C. Canato cita: G. Fiandaca ed E. Musco, Diritto Penale. Parte generale, 2003;

[7] Il riconoscimento dell’istituto comporta l’applicazione della sola pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo, invece che il cumulo materiale delle pene;

[9] G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, op. cit;

[10] M. Gambardella, I reati in materia di stupefacenti, in Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, a cura di A. Fiorella, 2019;

[11]S. Riondato e D. Provolo, Associazioni ti tipo mafioso anche straniere, in Reati contro l’ordine pubblico, a cura di G. Fornasari e S. Riondato, 2017;

[12] M. Gambardella, op. cit.;

A. Storti, La configurabilità della continuazione tra il delitto di associazione per delinquere ed i successivi reati scopo in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 03/2017;

R. Borsari, D. Provolo, Associazione a delinquere, in Reati contro l’ordine pubblico, a cura di G. Fornasari e S. Riondato, 2019;

[13] G. Leo, L’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, 2010;

[14] G. Spagnolo, Ai confini tra associazione per delinquere e di tipo mafioso, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1996;

[15] R. Borsari, D. Provolo, op. cit.;

[16] Cass. Pen. Sez. I, del 28 marzo 2023, n. 39858;

[17] In motivazione, la Corte ha aggiunto che, ove si ritenesse sufficiente la programmazione dei reati fine al momento della costituzione del sodalizio, si finirebbe per configurare una sorta di automatismo nel riconoscimento della continuazione e del conseguente beneficio sanzionatorio, in quanto tutti i reati commessi in ambito associativo dovrebbero ritenersi in continuazione con la fattispecie di cui agli artt. 416, 416-bis c.p.;