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Pubbl. Dom, 3 Gen 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche tra perplessità ermeneutiche ed applicabilità in sede fallimentare

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Carla Balestrieri


L´analisi che segue intende affrontare l´evoluzione della responsabilità amministrativa da reato degli enti, ed approfondire la compatibilità della suddetta disciplina con le procedure concorsuali.


SOMMARIO: 1. Origini della riforma e perplessità ermeneutiche; 2. La natura della responsabilità; 3. Criteri di imputazione ed immedesimazione organica; 4. I reati presupposto; 5. Le sanzioni; 6. D.lgs. 231/2001 e fallimento; 7. Sequestro conservativo ex art. 19 d.lgs. 231/2001 e legittimazione del curatore fallimentare.

1. Origini della riforma e perplessità ermeneutiche.

Societas delinquere non potest. Le persone giuridiche non possono commettere reati.

Questo il principio basilare che per più di due secoli ha caratterizzato la cultura giuridica europea, soprattutto quella dei sistemi altamente dogmatici. 1

Oggi tale assunto può dirsi del tutto superato. Nella attuale realtà socio-economica infatti, le scelte di politica d'impresa possono comportare la commissione di reati, di tipo economico ed ambientale per lo più.

La radicale svolta ed il definitivo superamento della predetta impostazione la si è avuta con il d.lgs. 8 giugno 2011 n. 231.

Prima della riforma, il nostro codice penale prevedeva, nell'eventualità di reati commessi dagli amministratori di società in conseguenza all'inadempimento dei loro obblighi, delle sanzioni pecuniarie in termini di multe ed ammende. Delle stesse multe ed ammende avrebbe risposto l'ente soltanto nel caso in cui l'amministratore suddetto non fosse stato in condizione di potervi adempiere, quindi in via puramente sussidiaria ed eventuale, nonché simbolica se si considera che comunque il giudice penale la sanzione anzidetta la calibrava sulle possibilità economiche della persona fisica imputata.

Con la riforma del d.lgs. 231/2001 la società diventa direttamente responsabile dei reati, ed invertendo in modo radicale la precedente impostazione, solo in via eventuale si delinea la responsabilità concorrente dell'autore materiale del reato.

Tale impostazione è stata recentemente ribadita dalla Corte di Cassazione 2: "Ai fini della responsabilità amministrativa dell'ente, stante il disposto dell'art. 8 del d.lgs. 231/2001, è necessario che venga compiuto un reato da parte di un soggetto riconducibile all'ente, ma non è necessario che tale reato venga accertato con individuazione e condanna del responsabile, con la conseguenza che la responsabilità penale presupposta può essere ritenuta incidenter tantum (ad esempio, perché non si è potuto individuare il responsabile o perché questi non è imputabile) e ciò nonostante può essere sanzionata in via amministrativa (il corsivo è in questa sede aggiunto) la società".

Il caso di specie riguardava in particolare la commissione del reato presupposto di aggiotaggio in una vicenda in cui l'autore era stato assolto, ma era comunque risultata la commissione del reato presupposto da parte di altri soggetti, pur non compiutamente identificati, ma comunque riconducibili alla società che ne aveva tratto vantaggio e nel cui interesse il reato era stato commesso.

2. La natura della responsabilità.

La natura della responsabilità attribuibile oggi senza indugio all'ente, è oggetto di ampio dibattito dottrinale, e di dubbia ritrosia giurisprudenziale.

La natura di tale responsabilità, infatti, potrebbe dirsi formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale. Alcuni autori hanno invece identificato un tertium genus.

La difficoltà nell'inquadrare tale responsabilità come formalmente e sostanzialmente penale, e la conseguente accennata ritrosia giurisprudenziale, deriva di fatto da limiti di diversa origine.

Anzitutto dei limiti di tipo costituzionale: ammettere la responsabilità puramente penale di un ente, impone rivalutazioni e modifiche degli artt. 25 e 27 Cost. anche al fine di determinare in modo più chiaro la posizione di garanzia costituzionale in questo ambito.

Seguono dei limiti non meno importanti e rilevanti di tipo economico: se infatti si optasse per una natura esclusivamente e formalmente penale in modo chiaro e netto, ciò determinerebbe una contrazione economica degli investimenti esteri nel nostro Paese.

Si consideri, in ultimo, le perplessità della dottrina in merito anche alla funzionalità preventiva più o meno pregnante delle sanzioni stricto sensu penali rispetto alle altre. 3

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3615/2005 paventa una responsabilità penale, per poi tornare nuovamente sull'ibrido del tertium genus con la sentenza del caso Thyssen Krupp.

I giudici del Tribunale di Torino, nel merito del caso Thyssen Krupp, delinearono una responsabilità penale della società, chiarendo infatti che il dato letterale utilizzato dall'art. 1 del d.lgs. 231 secondo il quale si tratterebbe di una responsabilità amministrativa dell'ente da reato, è solo uno degli indicatori circa la natura di questa responsabilità. Gli altri indicatori, ritenuti dai giudici torinesi ben più rilevanti, circa la gravità della sanzione e della sede di competenza giurisdizionale, non lasciavano dubbi sulla preminenza penale della responsabilità.

L'analisi, apparentemente incontestabile, appurata dai giudici di merito, non ha avuto alcun seguito in Cassazione, che come detto è tornata ad una responsabilità ibrida.

3. Criteri di imputazione ed immedesimazione organica.

La legge delimita i possibili autori individuali del reato per i quali è prevista la responsabilità dell'ente. I reati presupposto possono infatti essere commessi solo da coloro che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente. Trattasi dei così detti soggetti in posizione apicale ex art. 5 c. 1 lett. a) del d.lgs. 231, e delle persone sottoposte alla loro direzione o vigilanza. Il sistema è dualistico: se chi commette il reato è in posizione apicale, si concretizza l'ipotesi di immedesimazione organica, perciò l'ente risponderà in sostanza per fatto proprio. Potrà tuttavia dimostrare la sua estraneità se, ai sensi dell'art. 6, sarà in grado di provare:

- che l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;

- che è stato creato al suo interno, con il compito di vigilare sul funzionamento e sull'osservanza di tali modelli e di curare il loro aggiornamento, un organismo provvisto di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;

- che l'autore del reato ha agito eludendo fraudolentemente i modelli;

- che non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di controllo.

Si verifica in questo caso una sorta di rottura del rapporto di immedesimazione organica tra l'autore del fatto illecito e la persona giuridica.

Nell'ipotesi di reato commesso da soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza, la responsabilità dell'ente di cui all'art. 7 del d.lgs. 231, è invece subordinata alla condizione che il reato sia stato reso possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza da parte delle persone fisiche alle quali spetta il potere-dovere dell'una o dell'altra. Tale inosservanza va però esclusa nel caso in cui l'ente, prima della commissione del reato, abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. L'onere di provare la mancata adozione o attuazione del modello graverà, in questo caso, sulla pubblica accusa.

Il reato inoltre dovrà essere realizzato nell'interesse o vantaggio dell'ente. 4 I due criteri sono previsti dalla legge come alternativi, ma di fatto ciò che rileva resta l'elemento dell'interesse, mentre il vantaggio resta una variabile casuale, la cui sussistenza, in mancanza di interesse, non determina la responsabilità dell'ente.

Ciò che determina quindi una responsabilità dell'ente è una colpevolezza di organizzazione, ovvero la rimproverabilità per non aver adottato misure organizzative adeguate, volte alla neutralizzazione del rischio-reato. La misura organizzativa dovrà essere espressa all'interno di un modello di gestione, che dovrebbe differenziarsi dal modello di valutazione dei rischi e di prevenzione infortunistica, rappresentando una sorta di adempimento di un dovere cautelare seguendo procedure che secondo una valutazione disposta ex ante devono dimostrarsi idonee ad eliminare il rischio di reato.

4. I reati presupposto.

L'art. 2 del d.lgs. 231/2001 determina che "l'ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa, in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto". In questo modo il legislatore ha codificato non solo il principio di legalità, ma anche quello di specialità, rispondendo l'ente solo di illeciti penali di cui una norma di legge speciale ne prevede la responsabilità. Il catalogo dei suddetti reati è stato gradualmente ampliato negli anni, includendo alcune fattispecie indubbiamente rilevanti, quali la corruzione, la truffa ed il riciclaggio.

5. Le sanzioni.

Anzitutto la sanzione pecuniaria trova sempre applicazione ai sensi dell'art. 10 c.1 d.lgs. 231/2001. La novità più rilevante in tal caso riguarda l'adozione di un sistema commisurativo per quote, caratterizzato dal fatto che il giudice determina anzitutto il numero di quote che non può essere inferiore a cento né superiore a mille, tenendo conto della gravità del fatto, del grado di responsabilità dell'ente, nonché dell'attività post delictum svolta per eliminare o attenuare le conseguenze, o prevenire la commissione di ulteriori illeciti (art. 11 d.lgs. 231/2001). Infine calcola le singole quote "sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente allo scopo di assicurare l'efficacia della sanzione", art. 11 c.2 d.lgs. 231/2001.

L'importo della sanzione da applicare non è altro che il prodotto della moltiplicazione dei due fattori, quindi numero delle quote per l'ammontare delle stesse. Sussiste inoltre una vasta gamma di sanzioni interdittive, che possono però essere applicate sempre e soltanto in caso di espresso richiamo delle singole norme incriminatrici, di durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni. Le sanzioni interdittive inoltre possono anche essere applicate come misure cautelari su richiesta del PM in caso di sussistenza di gravi indizi di responsabilità.

6. D. Lgs. 231/2001 e fallimento.

Anche se sottoposta a procedura concorsuale, la società resta soggetta alle sanzioni del d.lgs. 231/2000 per responsabilità amministrativa da reato degli enti. Il principio espresso dalla Corte di Cassazione 5 infatti chiarisce che il fallimento non è equiparabile alla morte del reo e non determina l'estinzione della sanzione.

Affinché possa essere dedotta l'estinzione della società, assimilabile alla morte del reo, dovrebbe infatti essere stata precedentemente disposta la sua cancellazione dal Registro delle Imprese con atto formale. Deve però evidenziarsi che, per espressa disposizione dell’art. 10 l.f.- la cui ratio è rinvenibile nell’osservanza del principio generale di certezza delle situazioni giuridiche -, gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti (anche) nel termine di un anno dalla intervenuta cancellazione dal registro delle imprese, a condizione che lo stato d’insolvenza si sia manifestato antecedentemente alla stessa o entro l’anno successivo. Soltanto da questo momento, infatti, a parere dei giudici di legittimità, la cessazione dell’attività viene formalmente portata a conoscenza dei terzi, salva la dimostrazione di una continuazione di fatto dell’impresa anche successivamente. 6

Il fallimento quindi non è assimilabile alla morte del reo, se non in caso di cancellazione dal Registro delle Imprese, ciò in quanto il fallimento non esclude un ritorno in bonis della società. Per la Cassazione in sostanza il fallimento potrebbe essere comparato al caso di malattia grave, che potrebbe comportare la morte, ma di cui resta incerto il se ed il quando.

Deve quindi ammettersi l'irrogazione della sanzione del d.lgs. 231/2001, attraverso l'insinuazione nel passivo da parte dello Stato, considerando inoltre che tale credito è assistito da privilegio.

7. Sequestro conservativo ex art. 19 d.lgs. 231/2001 e legittimazione del curatore fallimentare.

Di recente la Cassazione 7 ha altresì considerato che il curatore fallimentare non ha la legittimazione a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro disposto nell'ambito della procedura di accertamento della responsabilità dell'ente da reato, ai sensi dell'art. 19 d.lgs. 231/2001.

Il caso risolto dalla Cassazione a Sezioni unite riguarda infatti un contrasto giurisprudenziale rilevante tra le ragioni del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente ai sensi dell'art. 19 d.lgs. 231 (nel caso di specie il sequestro e la confisca riguardavano due società soggette a procedimento penale e finalizzati all'accertamento di reati di formazione fittizia di capitali e l'aggiotaggio, commessi dai vertici delle medesime) sui beni di pertinenza della massa attiva del fallimento, e le pretese creditorie della procedura concorsuale.

La Cassazione ha concluso ritenendo che nel caso di intervenuta dichiarazione di fallimento nelle more del procedimento penale, deve escludersi la sussistenza di un contrasto tra le due procedure, in quanto l'art. 19 del d.lgs. 231/2001 mira a preservare i beni che si presumono acquistati illecitamente da spartizioni ed occultamenti, mentre il vincolo apposto sui beni del fallito ha indubbiamente rilevanza pubblica poiché mira allo spossessamento dei beni del fallito a garanzia della par condicio creditorum. Ne consegue che è possibile la coesistenza dei due vincoli, legittimata dalla corretta lettura dell'art. 19 del d.lgs. 231/2001 che comunque dispone la salvaguardia dei diritti acquistati dai terzi in buona fede.

Pertanto lo Stato potrà insinuarsi nel fallimento per far valere la propria pretesa, mentre il terzo che ha acquisito dei diritti su quei beni in buona fede potrà opporsi al sequestro innanzi al giudice penale, non trovando in tal caso applicazione la disciplina del codice antimafia che attribuisce tale cognizione al giudice fallimentare.

La titolarità in capo al terzo di un diritto acquisito in buona fede sarà accertata dal giudice penale, sia in sede di cognizione che di esecuzione. Il curatore fallimentare invece non ha alcuna legittimazione ad opporsi alla misura cautelare, in quanto "egli è gravato da un munus pubblico di carattere prevalentemente gestionale, che affianca il giudice delegato ai fallimenti ed il tribunale per consentire il perseguimento dei loro obiettivi, propri della procedura fallimentare", resta quindi terzo rispetto al procedimento di sequestro o confisca dei beni appartenuti alla società fallita, non potendo di conseguenza agire in rappresentanza dei creditori per opporsi alla misura cautelare. La verifica delle ragioni dei terzi, al fine di accertarne la buona fede, spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare.

 

Note e riferimenti bibliografici

1Trattasi in particolare del nostro sistema penale, ma anche di quello tedesco e spagnolo, si veda in particolare per un approfondimento K. TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1995, pp. 615 ss.;

2Cassazione Penale, sez. I, 02/07/2015, n. 35818, in Guida al Diritto, 2015, n. 44, pp.80;

3 In particolare circa tale perplessità: S. Canestrari in Manuale di diritto penale : parte generale, S. Canestrari, L.Cornacchia, G. De Simone, Il mulino, 2007;

4Si confronti a riguardo A. Astrologo, "Interesse" e "vantaggio" quali criteri di attribuzione di responsabilità dell'ente nel d.lgs. 231/2001, in Indice pen., 2003, pp. 649 ss; N. Selvaggi, L'interesse dell'ente collettivo quale criterio di attribuzione di responsabilità da reato, Napoli, 2006;

5Cass. Penale, sez. V, 15 novembre 2012, n.44824;

6Per un approfondimento si cfr. Cass. 21 maggio 2012, n. 8033; Cass. 20 dicembre 2012 n.23688; D. Fico, La cancellazione dal Registro delle Imprese e fallimento, il Fallimentarista;

7Cass. Penale, sez. unite, 17 marzo 2015 n. 11170;