Pubbl. Mar, 1 Ago 2023
La forma del contratto: regola ed eccezioni, polifunzionalità e contratti strumentali
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Raffaele Granata
La forma del contratto costituisce da sempre argomento di grande rilevanza all´interno del dibattito scientifico, capace di assumere una centralità ancora più marcata stante le numerose funzioni ad essa attribuite. Nell´elaborato, oltre ad una descrizione sintetica e senza pretesa di esaustività della disciplina del codice civile, si dà conto dell´innovativo concetto di forma funzionale, introdotto dalla Cassazione, che consente all´interprete di affrontare da una prospettiva diversa le questioni concernenti la forma del contratto. In ultimo si elencano una serie di fattispecie di contratti accessori (o dipendenti), la cui forma è stata individuata di volta in volta in maniera differente dalla Corte di Cassazione secondo ragionamenti animati da logiche diverse.
The form of the contract: rule and exceptions, multifunctionality and instrumental contracts
The form of the contract has always been a topic of great importance within the scientific debate, which has become even more central due to the numerous functions attributed to it. In addition to a concise and non-exhaustive description of the Civil Code regulations, the paper takes account of the innovative concept of functional form, introduced by the Supreme Court, which allows the interpreter to approach questions concerning the form of the contract from a different perspective. Lastly, a series of cases of ancillary (or dependent) contracts are listed, the form of which has been identified differently each time by the Supreme Court according to reasoning driven by different logics.Sommario: 1. La forma del contratto. Il concetto di “forma-contenuto” 2. Le eccezioni al principio di libertà delle forme 2.1 L’art. 1350 c.c. 2.2 Contratti stipulati dalla p.a. 2.3 Contratti monofirma. Forma funzionale 3. Forma nei contratti strumentali o dipendenti 3.1 Il mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili 3.2 La procura per la diffida ad adempiere 3.3 Il negozio di accertamento 3.4 La risoluzione della donazione.
1. Forma del contratto. Il concetto di “forma-contenuto”.
Quando si discute di “forma” del contratto è opportuno effettuare una distinzione preliminare tra forma in senso stretto ed in senso lato[1].
Per forma in senso lato si intende la modalità con la quale il contratto si manifesta all’esterno[2]. Gli atti che hanno o che intendono avere una rilevanza sul piano giuridico necessitano di una modalità di estrinsecazione[3]. Si discute a tal proposito della questione della necessaria manifestazione della volontà dei contraenti, senza la quale il vincolo di fatto non può dirsi sussistente. Il principio di libertà delle forme, la cui vigenza ha rappresentato argomento di dibattito in letteratura[4], consente alle parti, almeno astrattamente, di manifestare il proprio consenso nei modi che più sono ritenuti opportuni dalle stesse, fatte salve le espresse eccezioni.
La forma, latamente intesa, costituisce lo strumento apposto dal legislatore a tutela di ciascuna parte del contratto, la cui attenzione è richiamata sulla portata giuridica e sulle conseguenze economiche connesse alla stipula del contratto[5]. Di conseguenza le parti devono regolarsi in virtù dell’obiettivo che intendono raggiungere mediante la stipula nel decidere che forma attribuire alla pattuizione.
La forma in senso stretto costituisce invece un requisito autonomo del contratto. In dette ipotesi costituisce un elemento essenziale del contratto, stante la solennità che il legislatore ha sancito per alcune tipologie di contratti tassativamente individuati.
La mancata formalizzazione del regolamento contrattuale, laddove vi sia uno specifico standard fissato dalla legge, implica la nullità del negozio, eventualmente rilevabile anche di ufficio dal giudice, così come stabilito dal combinato disposto degli artt. 1418 e 1421 c.c. e come ribadito recentemente dalla giurisprudenza di legittimità[6].
Forma e pubblicità rappresentano due concetti contigui ma distinti. La forma costituisce il prerequisito necessario di quest’ultima, poiché senza un contratto formale non è possibile effettuare alcuna registrazione dello stesso mediante iscrizione nei pubblici registri. Non mancano tuttavia ipotesi di pubblicità che si realizzano mediante la forma, come accade nell’ipoteca e nel contratto di vendita di autoveicoli (il quale, pur potendo concludersi secondo autorevole dottrina con “una stretta di mano”, richiede in ogni caso almeno una dichiarazione autenticata del venditore[7] per l’iscrizione al p.r.a.).
La forma può inoltre assumere un ruolo meramente probatorio, a differenza delle ipotesi previste sinora di forma ad substantiam. In questi casi si ritiene che il contratto sia valido ed efficace anche in assenza di forma scritta, poiché essa funge solo come “forma della prova”. Ne discende l’eseguibilità, l’accertamento e la ricognizione anche dei contratti la cui forma è richiesta ad probationem quando gli stessi non sono stati stipulati in forma scritta. Tra essi vi rientrano il contratto di assicurazione (art. 1888 c.c.), di transazione (art. 1967 c.c.) e il patto di non concorrenza (art. 2596 c.c.).
Non mancano inoltre fattispecie di contratti la cui forma scritta attiene esclusivamente al profilo della opponibilità ai terzi (contratto di pegno, art. 2787 co. III).
A differenza del diritto romano, nel quale la stragrande maggioranza dei negozi giuridici richiedeva un rispetto sacrosanto della forma prevista e senza la quale non era possibile vincolarsi giuridicamente, nel nostro ordinamento vige, seppur con numerose eccezioni, il principio di libertà delle forme, la cui sussistenza è desumibile dal combinato disposto degli artt. 1325 n. 4 e 1350 c.c.
Il principio è in linea con la generale esaltazione dell’autonomia negoziale. Alle parti si attribuisce il potere di individuare la forma che più ritengono corretta ai fini della stipula del proprio contratto[8]. Qualsiasi imposizione formale ai contraenti costituisce una limitazione dell’autonomia negoziale, che richiede specifiche ragioni e che va necessariamente interpretata in maniera restrittiva. Non sono ammesse in alcun caso interpretazioni estensive delle disposizioni di legge che impongono oneri formali in capo alle parti.
La tutela della libertà negoziale, intesa secondo alcuni quale “diritto di libertà” e dunque come diritto fondamentale della persona[9], trova un suo fondamento nella Carta costituzionale. Costituisce infatti opinione diffusa che la Costituzione individui, tra le modalità di esplicazione della personalità umana di cui all’art. 3, anche l’autonomia privata, nella quale si ricomprende quella negoziale.
All’individuo non è tuttavia concesso un arbitrio assoluto, essendo necessario che egli agisca secondo le regole giuridiche ed economiche che disciplinano il mercato. Da simili esigenze nascono una serie di limitazioni alla libertà negoziale, ivi incluse quelle attinenti alla forma del contratto. D’altronde nessun diritto (o nessuna libertà) può reputarsi in posizione di piena prevalenza sugli altri. Vanno a tal proposito rammentate le parole della Consulta, secondo la quale «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri», poiché diversamente «si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute»[10].
Le limitazioni dell’autonomia negoziale, che nel caso di specie si traducono nella configurazione di alcuni specifici oneri formali in capo alle parti, sono pertanto giustificabili solo se connesse al rispetto di valori che trovano un riconoscimento nel nostro ordinamento.
Così come il fondamento costituzionale dell’autonomia negoziale risiede negli artt. 2, 3 e 41 della Costituzione, al contempo le medesime disposizioni ne segnano il limite. Tra le ragioni poste a fondamento dei limiti all’autonomia negoziale, con specifico riferimento alla tematica ivi trattata, la dottrina è solita includere la responsabilizzazione del consenso e la certezza dell’atto (e dunque del diritto), elementi imprescindibili nello sviluppo economico e sociale. La certezza del regolamento scritto e da sottoscrivere, inoltre, impongono alle parti l’importanza degli impegni che gli stessi si apprestano ad assumere, i quali sono accettati (presumibilmente) solo a seguito di un’adeguata ponderazione. Le limitazioni all’autonomia possono superare, in questo senso, l‘eventuale censura di legittimità[11].
Il concetto di forma del contratto, con il tempo e con l’innovazione dell’ordinamento, non è rimasto sempre uguale, ma si è evoluta, anche sotto la spinta del diritto comunitario. Una conquista oramai assodata del diritto europeo è consistita nella elaborazione del concetto di forma-contenuto, che impone in alcune e selezionate fattispecie dei maggiori vincoli di forma.
In questi casi si assiste ad una commistione tra la forma ed il contenuto del contratto. La prima, infatti, costituisce il mezzo necessario attraverso il quale esprimere il secondo. Si discute a tal proposito di “neoformalismo comunitario”. Trattasi di una modalità di protezione del contraente debole, che mira ad assicurare a quest’ultimo, situato in una posizione di strutturale ed inevitabile debolezza, la conoscenza di tutte le informazioni che possono determinare un’alterazione del normale equilibrio tra diritti ed obblighi all’interno del rapporto giuridico scaturente dal contratto.
Per garantire massima trasparenza e per far sì che la parte debole possa contrarre liberamente e sia consapevole di tutti gli obblighi nascenti dal contratto, quest’ultimo deve essere redatto per iscritto. La forma scritta vede dilatato il suo ambito oggettivo, dato che rientrano al suo interno sia il contenuto del contratto sia gli obblighi informativi ad esso connessi, attinenti alle fasi prodromiche dello stesso[12].
La conseguenza che l’ordinamento prevede a seguito del mancato rispetto delle prescrizioni di forma contenuto possono variare da sanzioni meno incisive, quali ad esempio l’estensione del termine a favore della parte debole per esercitare il proprio diritto di recesso, alla nullità.
La Corte di cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 26725 del 2007, è intervenuta in tema di violazione dei doveri di informazione del cliente nei contratti di intermediazione finanziaria ed ha avuto modo di ribadire alcuni concetti connessi alle ipotesi di forma-contenuto previste dall’ordinamento. Il soggetto autorizzato a fornire prestazioni di servizi di investimento finanziario inadempiente rispetto agli obblighi di informazione va incontro a responsabilità precontrattuale, e quindi è tenuto al risarcimento dei danni, qualora l’inadempimento attenga alla fase immediatamente precedente alla conclusione del contratto o corrispondente alla conclusione del contratto.
Secondo la Corte di cassazione «la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto». In tal caso il risarcimento va proporzionato al minor vantaggio o al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede[13].
A seguito della conclusione del contratto la responsabilità ha natura contrattuale. Nel richiamato arresto giurisprudenziale il Supremo Consesso afferma che la violazione dei doveri dell'intermediario riguardanti la fase successiva alla stipulazione del contratto d'intermediazione può assumere i connotati di un inadempimento o di un non esatto adempimento.
Tali doveri derivano da norme cogenti, con la conseguenza che integrano a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. L’eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori, può finanche causare la risoluzione del contratto, a patto che sussistano gli estremi di gravità postulati dall'art. 1455 c.c.
2. Le eccezioni al principio di libertà delle forme.
2.1 Art. 1350 c.c.
La regola stabilita dall’art. 1350 c.c. sancisce la necessità della forma scritta per i contratti che hanno ad oggetto beni immobili o che sono suscettibili di determinare un effetto reale, per i contratti che costituiscono diritti personali di godimento su beni immobili o che incidono sulla posizione del proprietario, per i contratti che costituiscono società.
Detti contratti devono essere stipulati secondo l’atto pubblico, dunque da un notaio o da altro pubblico ufficiale e fanno piena prova fino a querela di falso delle dichiarazioni in esso contenuto.
L’orientamento prevalente, a tal proposito, ritiene che l’obbligo formale riguardi esclusivamente gli elementi essenziali del contratto[14] e dunque il contenuto minimo o essenziale della pattuizione[15]. Non è dunque necessario che le clausole che disciplinano la fase esecutiva della pattuizione siano redatte in forma scritta[16], né tantomeno che elementi accidentali dello stesso rientrino nell’ambito oggettivo della forma solenne.
Le ragioni connesse alla previsione della forma ad substantiam nei casi suindicati costituisce una scelta del legislatore che può spiegarsi in ragione della rilevanza che ricoprono i contratti ed i diritti che ne costituiscono l’oggetto, sia per i contraenti che per i terzi.
Solo mediante la forma scritta le parti del contratto possono avere contezza degli effetti degli stessi sulla propria sfera giuridica a seguito della stipula.
Inoltre è opportuno ricordare che debbono poter fare affidamento sui contratti sottoposti ad un particolare regime formale anche i terzi. Questi, pur restando al di fuori del novero dei contraenti, di fatto possono subire gli effetti indiretti della pattuizione. I diritti reali, infatti, hanno effetto erga omnes, motivo per il quale i terzi hanno il diritto di conoscere a chi i diritti fanno capo ed in che misura essi si espandono.
2.2 Contratti stipulati dalla p.a.
I contratti stipulati dall’Amministrazione devono necessariamente rivestire la forma scritta. Si tratta di un principio generale, in materia amministrativa, derogatorio del principio di libertà delle forme. Tuttavia lo spostamento dal diritto civile, connotato da princìpi (almeno formali) di parità e di uguaglianza tra i contraenti, al diritto amministrativo, che si contraddistingue per la presenza di un soggetto munito di un potere autoritativo, tenuto al rispetto della legalità e di altri princìpi fondamentali ed imprescindibili (trasparenza, buon andamento et alii) rende di fatto obbligato il passaggio dal principio della libertà delle forme ad una regola più stringente e limitante per i contraenti. Il Consiglio di Stato ha infatti chiarito che «non vi è alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti in quanto vige il principio inderogabile, fissato dal legislatore per ragioni di interesse pubblico, in forza del quale, salve espresse previsioni, l’amministrazione, una volta scaduto il contratto, deve, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, effettuare una nuova gara pubblica»[17].
Quando una delle parti coincide con la p.a. è dunque essenziale che il contratto sia stipulato in forma scritta, poiché è necessario un controllo sull’attività della p.a. L’obbligo di stipulare il contratto in forma scritta trova la propria fonte legislativa nel regio decreto n. 2440/1923 (artt. 16 e 17). Trattasi di una normativa che continua a vincolare le amministrazioni pubbliche nella stipula di contratti e che trova una sponda nell’art. 97 Cost., dove sono sanciti i principi di imparzialità e buon andamento della p.a. Di fatto i contratti conclusi dalla p.a. integrano una delle ipotesi di cui agli all’art. 1350 c.c., n. 13 («devono farsi per atto pubblico [..] sotto pena di nullità [..] gli altri atti specialmente indicati dalla legge»).
Tale impostazione è stata condivisa dalla giurisprudenza dominante[18], nonché ribadita dall’ANAC in una recentissima delibera con la quale è stato ribadito che «per i contratti della pubblica amministrazione vi è l’obbligo della forma scritta ad substantiam. In ragione di ciò, la pubblica amministrazione non può assumere impegni o concludere contratti se non in forma scritta, né può darsi rilievo al rinnovo tacito dei contratti»[19].
Quanto sinora affermato in ordine ai contratti stipulati dalla p.a. nell’esercizio dell’attività amministrativa vale anche con riguardo agli accordi iure privatorum. L’amministrazione, anche quando non rappresenta la parte pubblica ma agisce nelle vesti di un soggetto privato ed è pertanto soggetto ai principi ed alle regole del codice civile, è tenuta in ogni caso al rispetto degli oneri formali e dunque della forma scritta[20]. La p.a., infatti, pur in qualità di privato resta in ogni caso soggetta ai canoni indicati dall’art. 1 legge n. 241/1990, che impongono il rispetto di determinati standard in materia di trasparenza.
Il contratto stipulato dalla pubblica amministrazione, inoltre, richiede «l’unicità del testo documentale», ferme restando le possibili eccezioni dettate dalla legge[21].
2.3 Contratti monofirma. Forma funzionale.
In ordine alla forma dei contratti un ulteriore rilevante arresto giurisprudenziale è giunto in relazione alla mancanza della firma da parte dell’intermediario finanziario nei relativi contratti.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione nel 2018, con la sentenza n. 898, hanno chiarito che il requisito della forma scritta, la cui essenzialità è sancita dall’art. 23 del d. lgs. n. 58/1998 (testo unico in materia di servizi finanziari, o TUF), è rispettato laddove il contratto sia redatto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente, ritenuta a ragione parte debole in quanto meno informata rispetto al professionista.
Secondo quanto affermato dai giudici della Suprema Corte non può ritenersi violata alcuna regola formale quando il contratto è firmato unicamente dal cliente, in virtù del fatto che il requisito di formalità sancito dalla normativa è posto a protezione unicamente di quest’ultimo. L’art. 23 del TUF determina una disposizione normativa posta a tutela unicamente del cliente, la cui ratio consiste nell’assicurare «la piena indicazione al cliente degli specifici servizi forniti [..] considerandosi che è l'investitore che abbisogna di conoscere e di potere all'occorrenza verificare nel corso del rapporto il rispetto delle modalità di esecuzione e le regole che riguardano la vigenza del contratto, che è proprio dello specifico settore del mercato finanziario»[22].
Le Sezioni Unite propendono per una simile soluzione in virtù del solco tracciato da una pronuncia precedente, nella quale veniva assegnato all’interprete il compito di verificare, mediante un’interpretazione assiologica, l’eventuale necessità di una forma scritta. Nel caso sottoposto al Giudice di legittimità la nullità di protezione è posta a tutela di interessi di una sola parte, il consumatore. Poco importa se la firma non sia stata apposta dal singolo intermediario, dato che si presuppone che questo fosse a conoscenza del contenuto del contratto da lui predisposto.
La sentenza cui si ispirano le Sezioni Unite dalla Corte di cassazione è quella risalente al 17 settembre 2015, n. 18214, la quale, pur pronunciandosi su una singola questione specifica, i contratti di locazione ad uso abitativo, coglie l’occasione per una rivisitazione dell’intero sistema giuridico del contratto. La forma, afferma la Corte, costituisce l’oggetto di un’analisi assiologicamente orientata in funzione dei valori fondamentali del sistema.
L’individuazione della forma da utilizzare ai fini della conclusione di contratti appartenenti a determinati generi richiede un’indagine in concreto, che guardi allo specifico tipo contrattuale. Le Sezioni Unite rifuggono da un approccio rigido o categorico nel verificare se sussiste o meno un onere formale per un determinato tipo di contratto[23]. A detto criterio si predilige un’interpretazione che tenga in considerazione «la collocazione che la norma riceve nel sistema, la ratio che esprime, il valore che per l'ordinamento rappresenta»[24].
Detta lettura ha ricevuto l’avallo di autorevole dottrina[25], la quale ritiene superato lo schema regola/eccezione associato al rapporto tra libertà delle forme e di forma ad substantiam. In particolare si rappresenta che la modalità di estrinsecazione del contratto vada individuata secondo l’interesse di stampo “assiologico-costituzionale” alla base della normativa sulla forma del contratto che si intende stipulare.
3. Forma nei contratti strumentali o dipendenti.
Alla luce di quanto finora affermato è necessario verificare quale debba essere la forma nei contratti strumentali o dipendenti, ossia quei negozi che sono tra loro collegati da un nesso in virtù del quale un contratto ha senso solo se posto in relazione ad un altro. In sostanza ci si chiede se sia corretto affermare che nel nostro ordinamento vige un principio, oltre che di libertà, anche di “simmetria” delle forme. Quest’ultimo impone ai consociati di utilizzare la medesima forma per il negozio principale e per il negozio collegato. Se il secondo è connesso ad un contratto la cui forma scritta è prevista ad substantiam, allora anche il negozio collegato dovrà presentarsi in forma scritta.
In alcune ipotesi la legge prevede espressamente l’applicazione di questo principio: è il caso del preliminare (art. 1352 c.c.), della procura (art. 1392 c.c.) e della ratifica (art. 1399 c.c.).
La giurisprudenza ha optato per il principio di simmetrie delle forme anche in ulteriori ipotesi, come i patti modificativi o estintivi di un negozio formale[26] e i contratti di prelazione.
Tuttavia ci si interroga come i consociati debbano agire nei casi che non godano di una disciplina legislativa esplicita.
3.1 Il mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili.
La questione in realtà non è emersa solo in tempi recenti. Nel 1954 le Sezioni Unite ritennero di dover applicare questo principio di simmetria delle forme al contratto di mandato avente ad oggetto la compravendita di beni immobili[27].
La stipula del contratto di mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili comporta il dovere del mandatario di ritrasferire il bene al mandante. Trattandosi di un contratto teso al trasferimento di un bene immobile la giurisprudenza dominante richiedeva la forma scritta.
Detto orientamento è stato rimeditato nel 2013[28], quando la Corte di cassazione ha optato per una differente soluzione in ordine alla forma del contratto di mandato senza rappresentanza, anche quando viene stipulato per acquistare un bene immobile.
Non sussistono in questo caso, secondo la Suprema Corte, le esigenze di responsabilizzazione che animano il legislatore nel prevedere la forma scritta. L’onere di forma non può ritenersi necessario per il contratto di mandato, che costituisce la fonte del rapporto “interno” di gestione, posto che il mandatario può acquistare, senza la spendita del nome del mandante e dunque in nome proprio, il diritto di proprietà su bene immobile. Ciò al fine della realizzazione dell'effetto reale in capo al medesimo. Nel mandato senza rappresentanza non si costituisce infatti alcun rapporto tra mandante e terzo proprietario alienante e tutti gli effetti del contratto si producono in favore al mandatario.
Nell’arresto giurisprudenziale ora richiamato mandato senza rappresentanza e procura vengono ritenuti negozi eterogenei e non equiparabili, per cui le esigenze formali sancite dalla legge per il secondo contratto non possono ritenersi sussistenti anche per il primo.
Trattasi di una scelta che, tuttavia, non ha mancato di suscitare alcune critiche in dottrina, la quale ha messo in evidenza la necessità di un atto scritto del mandato senza rappresentanza quale atto giustificativo del trasferimento del bene immobile dal mandatario al mandante[29].
3.2 La procura per la diffida ad adempiere.
Particolare rigidità da parte della giurisprudenza si registra in relazione alla procura, negozio unilaterale a carattere autorizzatorio, nello specifico quando essa ha ad oggetto l’autorizzazione ad effettuare la diffida ad adempiere, che precede immediatamente la risoluzione del contratto (art. 1454 c.c.).
Trattasi di un atto accessorio al contratto che si intende risolvere, motivo per cui la giurisprudenza si è interrogata in ordine alla forma che lo stesso deve avere. Le interpretazioni che si sono divise il campo sono molteplici.
Da un lato si sottolinea che la mancata previsione di uno specifico onere formale da parte della legge con riferimento alla diffida ad adempiere non consente all’interprete di affermare l’esistenza di uno specifico obbligo formale. L’art. 1350 c.c. stabilisce l’obbligo della forma scritta per la conclusione o la modifica dei contratti relativi a diritti reali immobiliari, ma non risulta alcuna disposizione di legge che sancisce il medesimo requisito di forma per ogni comunicazione o intimazione riguardante l'esecuzione di detti contratti. Potrebbe dunque affermarsi la validità e l’efficacia della diffida ad adempiere un contratto preliminare di compravendita effettuata per conto e nell'interesse del contraente, da persona fornita di un semplice mandato verbale, come pure quella sottoscritta da un falsus procurator e in un secondo momento ratificata dalla parte interessata[30].
Su posizioni diverse si pone l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui resta ferma la necessità di un atto scritto. La diffida ad adempiere intimata all’inadempiente da un soggetto diverso dall’altro contraente può produrre gli effetti di cui all'art. 1454 c.c. solo se il soggetto che la propone è munito di procura scritta del creditore. La medesima procura deve essere allegata o in ogni caso portata a conoscenza del debitore, stante la capacità della diffida medesima, ad incidere sul rapporto contrattuale[31].
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno composto il contrasto giurisprudenziale[32], propendendo per la soluzione da ultimo evidenziata. Secondo la Suprema Corte la diffida ad adempiere rientra tra gli atti equiparati ai contratti. Trattasi di una manifestazione di volontà consistente nello svolgimento di un potere di unilaterale disposizione della sorte di un rapporto giuridico, idonea ad incidere direttamente nella realtà giuridica. Essa determina la risoluzione ipso iure del vincolo giuridico costituito dal contratto, senza che sia necessaria una pronuncia giudiziale, a patto che decorra il termine assegnato alla controparte.
3.3 Il negozio di accertamento.
Gli interpreti si sono interrogati in ordine al requisito della forma del negozio di accertamento, ossia il negozio atipico con cui le parti di un rapporto avente ad oggetto diritti disponibili intendono rimuovere ogni incertezza sull’esistenza, sul contenuto o sugli effetti del rapporto stesso. Tale negozio viene ritenuto dalla opinione maggioritaria ammissibile, stante il fine meritevole di tutela che i contraenti intendono perseguire, ossia la certezza del diritto e dei rapporti giuridici.
L’ammissibilità del negozio di accertamento, oramai acclarata da parte dell’interpretazione maggioritaria, implica una riflessione sulla forma che lo stesso negozio deve rivestire.
A tal proposito è opportuno far riferimento al contenuto del d.l. n. 69/2013, convertito con la legge n. 98/2013, che ha introdotto la disposizione di cui al n. 12 bis dell’art. 2643 c.c., il quale prevede la trascrivibilità degli accordi di mediazione funzionali ad accertare l’usucapione. Come affermato in precedenza la trascrizione, una forma di pubblicità, ha nella forma scritta dell’atto un presupposto ineludibile. Non appare del tutto peregrina, dunque, la ricostruzione che afferma la necessità della forma scritta per i negozi di accertamento.
In linea con la necessità di una forma scritta si adduce poi l’argomentazione per cui solo mettendo per iscritto il negozio di accertamento si raggiungerebbe quel livello di certezza cui le parti aspirano.
In ogni caso l’individuazione della forma per ciascun tipo di contratto resta un’operazione interpretativa da compiere alla luce delle coordinate ermeneutiche fornite dalla Corte di Cassazione nella già menzionata sentenza del 17 settembre 2015, n. 18214.
Dinanzi a fattispecie per le quali non è stata predisposta una disciplina specifica in punto di forma è opportuno dunque optare per una valutazione che tenga in considerazione il contenuto «privilegiando il valore funzionale alla forma, da valutarsi in concreto, in relazione alla ratio espressa dallo specifico “tipo” contrattuale».
3.4 La risoluzione della donazione
La questione della forma del contratto costituisce un tema di discussione anche nella fattispecie della risoluzione della donazione, atto negoziale accessorio e dipendente rispetto alla donazione stessa. L’art. 782 c.c., infatti, stabilisce che la donazione deve essere effettuata per atto pubblico, pena la nullità della donazione medesima. Trattasi di una delle ipotesi specifiche per la quale l’atto richiede la forma scritta ad substantiam.
La formulazione netta dell’art. 782 c.c. permette di individuare con facilità la forma della donazione, mentre non sussiste alcuna indicazione specifica da parte del legislatore in ordine al negozio che mira ad eliminare gli effetti della donazione[33], ossia la risoluzione.
Secondo parte della dottrina estendere una norma eccezionale ad atti la cui forma non è preventivamente sancita dalla legge implica la violazione del principio di libertà delle forme.
La ricostruzione maggioritaria, ribadita dalla Corte di Cassazione in un recente arresto giurisprudenziale, ritiene che sia essenziale mantenere anche con riguardo alla risoluzione i medesimi standard formali previsti per la donazione[34].
Il principio della simmetria delle forme, la cui affermazione da parte del Giudice di legittimità risale al 1990[35], ha di fatto trovato continuità applicativa nel tempo (nonostante l’ondivaga interpretazione giurisprudenziale). Secondo detto principio la forma del negozio accessorio segue quella del negozio principale, cosa che deve ribadirsi anche con riguardo alla risoluzione della donazione.
In ogni caso la soluzione più ragionevole ed in linea con la funzione che l’atto risolutivo intende perseguire resta quella della forma scritta. Solo in questo modo la risoluzione può essere annotata a margine della trascrizione della donazione effettuata ed essere opponibile nei confronti dei terzi.
[1] Distinzione ripresa da M. SANTISE, Coordinate di diritto civile, ed. V, Giappichelli, Torino, 2021, 781.
[2] C. M. BIANCA, Diritto civile. Vol. III - Il contratto, ed. II, Giuffrè, Milano, 2000, 273: «la forma del contratto è il mezzo sociale attraverso il quale le parti manifestano il loro consenso».
[3] P. PERLINGIERI, Manuale di diritto civile, ed. VII, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2014, 502.
[4] N. IRTI, Studi sul formalismo negoziale, ed. VII, CEDAM, Padova, 1997, 137, secondo cui l’art. 1325 c.c. «descrive due strutture di contratto. Una nasce dalla combinazione di quattro elementi (accordo, causa, oggetto, forma); un’altra dalla combinazione di tre elementi (accordo, causa, oggetto)». La prima struttura viene denominata “forte”, la seconda “debole”. Secondo l’autore nei contratti a struttura debole non risulta alcun problema di forma, ma solo quello di accertare la presenza di un accordo.
[5] F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, ed. XIX, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2019, 923.
[6] Cass. Civ., Sez. Un., 4 settembre 2009, n. 14828: «la nullità può essere rilevata d'ufficio, in qualsiasi stato e grado del giudizio, indipendentemente dall'attività assertiva delle parti, quindi anche per una ragione diversa da quella espressamente dedotta».
[7] C. M. BIANCA, ibid., 504.
[8] A. DE CUPIS, Sul contestato principio di libertà delle forme, in Riv. dir. civ., 1986, II, 204: «In ordine alla forma, [l’ordinamento] ne ha imposto l’onere, ma alleviandolo con la norma implicitamente ammissiva della libertà della stessa forma»
[9] C. M. BIANCA, op. cit., 30: «Nei rapporti sociali il soggetto esplica la propria personalità principalmente mediante rapporti socialmente garantiti».
[10] Corte Cost., sent. 9 aprile 2013, n. 85.
[11] In senso contrario O. PROSPERI, Forme complementari e atto recettizio, in Riv. dir. comm., I, 1976.
[12] M. SANTISE, op. cit., 795.
[13] Cass. Civ., Sez. Un., sent. 19 dicembre 2007, n. 26725.
[14] Cass. Civ., Sez. III, sent. 12 gennaio 2006, n. 419.
[15] F. GAZZONI, ibid., 927: «il contenuto minimo si rapporta dunque agli effetti tipici che le parti intendono produrre ed è quello che rileva l’intento di conseguire il risultato corrispondente a quel tipo di effetto e quindi allo schema tipico».
[16] Cass. Civ., Sez. III, sent. 15 gennaio 2020, n. 525: «l’accordo con cui le parti convengono come adempiere al contratto, non è un patto modificativo dell’originario contenuto contrattuale, ma un accordo che riguarda per l’appunto le modalità esecutive dell’obbligo del solo compratore [..]. Le pattuizioni sulle modalità di esecuzione dell’obbligo del compratore, proprio in quanto patti meramente accessori al contratto non devono rivestire la forma del contratto e possono farsi verbalmente».
[17] Cons. St., Sez. V, sent. 20 agosto 2013, n. 4192.
[18] Cass. Civ., Sez. Un., sent. 8 febbraio 2022, n. 9775: «La ratio di tale principio - per cui i contratti conclusi dallo Stato e dagli enti locali richiedono, per l’appunto, la forma scritta a pena di nullità, con esclusione di qualsivoglia manifestazione di volontà implicita o desumibile da comportamenti meramente attuativi - trova fondamento nei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost., nella misura in cui la forma scritta assolve la funzione di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa»; Cons. St., Sez. V, sent. 3 settembre 2018, n. 5138.
[19] ANAC, delibera 15 marzo 2023, n. 119: «per i contratti della pubblica amministrazione, vi è l’obbligo della forma scritta ad substantiam, per cui la pubblica amministrazione non può assumere impegni o concludere contratti se non in forma scritta, né può darsi rilievo a comportamenti taciti o manifestazioni di volontà altrimenti date; tale principio trova applicazione non soltanto alla conclusione del contratto, ma anche all’eventuale rinnovazione dello stesso».
[20] Cass. Civ., Sez. I, sent. 9 settembre 2011, n. 18563: «anche in relazione ai contratti iure privatorum la pubblica amministrazione non può assumere impegni o concludere contratti se non nelle forme stabilite dalla legge e dai regolamenti (vale a dire nella forma scritta), il cui mancato rispetto produce la nullità assoluta dell’atto, rilevabile anche d’ufficio, in quanto la forma scritta prescritta ad substantiam rappresenta strumento di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, sia nell’interesse del cittadino, costituendo remora ad arbitri, sia nell’interesse della stessa pubblica amministrazione, rispondendo all’esigenza di identificare con precisione l’obbligazione assunta e il contenuto negoziale dell’atto e, specularmente, di rendere possibile l’espletamento della indispensabile funzione di controllo da parte dell’autorità tutoria».
[21] Cass. Civ., Sez. Un., sent. 22 marzo 2010, n. 6827.
[22] Cass. Civ., Sez. Un., sent. 16 gennaio 2018, n. 898.
[23] Cass. Civ., Sez. Un., sent. 17 settembre 2015, n. 18214: «l’impredicabilità di una automatica applicazione della disciplina della nullità in mancanza della forma prevista dalla legge ad substantiam, essendo piuttosto necessario procedere ad un’interpretazione assiologicamente orientata, nel rispetto dei valori fondamentali del sistema».
[24] Op. cit.
[25] P. PERLINGIERI, op. cit., 503.
[26] Cass. Civ., Sez. II, sent. 14 novembre 2007, n. 23571.
[27] Cass. Civ., Sez. Un., sent. 19 ottobre 1954, n. 3861; Cass. Civ., Sez. II, sent. 14 maggio 1990, n. 4118: «l’interposizione reale di persone, che si configura quando un soggetto interposto, d’intesa con altro soggetto, contratta in nome proprio ed acquista effettivamente i diritti nascenti dal contratto con l’obbligo derivante dal rapporto interno con l’interponente di trasmettere a quest’ultimo i diritti così acquistati, ove riguardi il trasferimento di beni immobili deve risultare a pena di nullità da atto scritto».
[28] Cass. Civ., Sez. III, sent. 2 settembre 2013, n. 20051.
[29] F. GAZZONI, op. cit., 925.
[30] Cass. Civ., Sez. II, sent. 26 giugno 1987, n. 5641.
[31] Cass. Civ., Sez. II, sent. 25 marzo 1978 n. 1447.
[32] Cass. Civ., Sez. Un., sent. 15 giugno 2010, n. 14292: «è pertanto soggetta alla disciplina dei contratti, e in particolare a quella della rappresentanza, compresa la norma che estende alla procura il requisito di forma prescritto per il relativo negozio: norma la cui applicazione non è impedita da alcuna incompatibilità né dall'esistenza di una qualche diversa disposizione. Poiché dunque la diffida deve essere rivolta all’inadempiente “per iscritto”, è indispensabile che la procura per intimarla venga rilasciata in questa stessa forma dal creditore al suo rappresentante, indipendentemente dal carattere eventualmente “solenne” della forma richiesta per il contratto destinato in ipotesi a essere risolto».
[33] Cass. Civ., Sez. V, ord. 30 aprile 2021, n. 1441: «il mutuo dissenso formulato dalle parti non ha prodotto un effetto traslativo del bene ma ha posto nel nulla l'atto di donazione con effetti retroattivi sicché esso deve considerarsi tamquam non esset».
[34] Cass. Civ., Sez. I, ord. 3 marzo 2020, n. 5937.
[35] Cass. Civ., Sez. Un., sent. 28 agosto 1990, n. 8878.