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Pubbl. Mer, 21 Giu 2023

Riconoscimento di associazioni religiose: il rispettoso dialogo tra gli ordinamenti nazionali e la giurisdizione europea

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Vanni Nicolì
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi Internazionali di Roma



L´articolo 17 del TFUE stabilisce la neutralità dell´UE per quanto riguarda le relazioni tra gli Stati membri e le associazioni religiose in essi presenti. Questa neutralità, però, non è sinonimo di disinteresse da parte delle istituzioni europee, ma è uno strumento di dialogo e confronto con i Paesi per la tutela dei diritti fondamentali. L´importanza di questa disposizione è cresciuta con l´aumento dell´eterogeneità culturale in Europa e la necessità di trovare un punto di incontro tra i valori della maggioranza e le richieste delle minoranze.


ENG

Recognition of religious associations: the respectful dialogue between national systems andEuropean jurisdiction

Article 17 of TFEU establishes the neutrality of the EU with regard to the relationship between the Member States and the religious associations present in them. This neutrality, however, is not synonymous with disinterest on the part of the European institutions but is an instrument of dialogue and confrontation with Countries for the protection of fundamental rights. The importance of this provision has grown with the increase in cultural heterogeneity in Europe and the need to find a meeting point between the values of the majority and the demands of minorities.

Sommario: 1. Gli interventi delle Corti nazionale ed europea; 2. Il quadro normativo nazionale e unionale; 3. I precedenti della CGUE in merito all'interpretazione dell'articolo 17; 4. Uno sguardo comparato in materia di riconoscimento; 5. Conclusioni.

1. Gli interventi delle Corti nazionale ed europea 

La Corte di giustizia dell’Unione europea, terza sezione, è stata chiamata a decidere sulla causa C-372/21. Avanzata dalla “Chiesa libera avventista del settimo giorno in Germania”, davanti alla Corte suprema amministrativa austriaca, la vertenza riguardava la negazione della richiesta, avanzata da questa associazione religiosa, di una sovvenzione da parte del Governo austriaco. Tale sovvenzione sarebbe stata destinata alla remunerazione del personale di un istituto scolastico privato con sede in Austria, riconosciuto e sostenuto come scuola confessionale da parte della stessa Chiesa libera avventista. Il Governo austriaco ha negato suddetta sovvenzione in quanto tali fondi sono destinati, ex lege, esclusivamente alle Chiese e alle associazioni religiose riconosciute a livello nazionale.

In virtù di questa negazione, la Chiesa libera avventista ha adito gli organi giurisdizionali austriaci lamentando come il mancato riconoscimento da parte dell’Austria fosse in contrasto con il diritto dell’Unione europea e, in particolare, con alcuni suoi principi.

La Corte suprema amministrativa austriaca, a sua volta, ha adito il sindacato della Corte di giustizia europea al fine di risolvere due questioni. La prima inerente all’applicabilità o meno del diritto europeo al caso concreto, in virtù dell’articolo 17 paragrafo 1 del TFUE in materia di rapporti tra Stati membri e associazioni o comunità religiose presenti in questi. A tal proposito, i giudici austriaci si sono domandati se questa previsione non sottragga tale vertenza dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, data la contestazione della mancanza dello status di persona giuridica di diritto pubblico da parte della Chiesa libera avventista. La seconda questione, invece, riguarda il rapporto tra il mancato riconoscimento dell’associazione religiosa ricorrente e il rispetto del diritto unionale. Infatti, la prima ha lamentato che il non riconoscimento austriaco contrasterebbe con i principi europei della libertà di stabilimento (ex articolo 49 del TFUE) e, con essa, quella di libera circolazione (ex articolo 202 del TFUE).

2. Il quadro normativo nazionale e unionale

Analizzando la normativa unionale, il summenzionato articolo 17 dispone che l’Unione europea rispetti e non pregiudichi lo status del quale le Chiese e le associazioni religiose godono nei Paesi membri in virtù del diritto nazionale. Inoltre, al terzo comma, si afferma che l’UE, riconoscendone l’identità, mantiene un dialogo trasparente, aperto e regolare con queste Chiese e associazioni. Dall’altra parte, invece, l’articolo 49 del medesimo Trattato sancisce che il principio della libertà di stabilimento riguarda le attività autonome e il loro esercizio (nello specifico imprese e società).

Ciò che la Chiesa libera avventista contesta, nello specifico, è l’articolo 11 del Bundesgesetz über die Rechtspersönlichkeit von religiösen Bekenntnisgemeinschaften (legge federale sulla personalità giuridica delle comunità confessionali). Secondo tale disposizione, si possono ritenere riconosciute le associazioni presenti in Austria da almeno vent’anni; quelle integrate, sotto il profilo organizzativo e dottrinale, in un’associazione religiosa attiva a livello internazionale che esiste da almeno cento anni e che siano già attive in Austria, in forma organizzata, da almeno dieci; quelle che riuniscono un numero di membri pari almeno al due per mille della popolazione austriaca, come determinata dall’ultimo censimento. Per la posizione del ricorrente, tale previsione costituirebbe una discriminazione.

La Corte di giustizia, rispondendo alle due questioni sottopostele, ha affermato, dapprima, che la vertenza rientra nella sua competenza, data la natura transfrontaliera dell’istituto e perché quest’ultimo esercita un’attività economica. Inoltre, considerando l’interpretazione dei giudici europei, la neutralità dell’articolo 17 paragrafo1 non è sinonimo di indifferenza da parte dell’UE sulle questioni relative ai rapporti tra Stati membri e associazioni religiose[1]. Infine, pur riconoscendo che l’articolo 11 del BekGG sia in contrasto con i principi della libertà di stabilimento e della libera circolazione, la Corte europea ha ammesso la liceità di tale restrizione. A tal proposito abbiamo due motivazioni. La prima, nell’articolo 52, primo paragrafo, del TFUE (impregiudicata applicabilità di disposizioni legislative per motivi di ordine pubblico); la seconda, invece, nel rispetto da parte dell’Austria del principio di proporzionalità, che consente ad un Paese membro di raggiungere determinati obiettivi politici in modo coerente e sistematico, senza arrecare alcun genere di discriminazione.  

3. I precedenti della CGUE in merito all'interpretazione dell'articolo 17

La decisione della Corte di giustizia appare ampiamente coerente con l’interpretazione che i giudici europei hanno dato, nel corso degli anni, sia del principio di neutralità derivante dalla lettura e dall’applicazione dell’articolo 17 del TFUE, che alla rilevanza del principio della proporzionalità. Quest’ultimo deriva dall’esame effettuato dai giudici europei in merito alla legislazione dei Paesi membri e sull’impatto di questa nei confronti delle associazioni religiose, Chiese e minoranze presenti negli Stati e dall’eredità giuridica che giunge dall’articolo 4 della direttiva n. 78 del 2000. Tale previsione garantisce il diritto di tutti all’uguaglianza davanti alla legge e alla protezione contro ogni forma di discriminazione.

È ormai consolidato il ricorso da parte della CGUE al principio della proporzionalità, soprattutto in seguito alla codificazione del Trattato della Comunità europea del 1992. Questo principio ha assunto la funzione generale di porre limiti alle competenze degli organi dell’Unione europea e all’adozione di determinati atti normativi da parte della stessa[2]. Prima di suddetta data, invece, abbiamo avuto un non esplicito utilizzo del principio in parola in sentenze che, seppur non indicanti il nome della proporzionalità, ne hanno riportato la logica alla base del suo funzionamento[3].

In merito alle pronunce che hanno visto l’applicazione dell’articolo 17, ricordiamo in questa sede alcune sentenze, riportate di seguito in ordine cronologico.

La prima è la causa C-414/16 dell’aprile 2018, nota anche come caso Egenberger (dal nome della ricorrente). Nella vertenza in esame, i giudici europei si sono pronunciati sul bilanciamento, nell’ambito dell’accesso al lavoro, tra diritti fondamentali concorrenti. In particolare, ci riferiamo al diritto all’autonomia delle Chiese e organizzazioni religiose affiliate e quello di ciascun soggetto a non essere discriminato per motivi religiosi. La questione ha tratto origine dalla domanda di risarcimento, proposta dalla signora Egenberger, davanti al giudice tedesco per una presunta discriminazione basata sulla religione e avvenuta durante una procedura di assunzione promossa da un’associazione religiosa.

Il fatto rientra all’interno della disciplina europea garantita dall’articolo 2 della direttiva n. 78 del 2000 che prevede il divieto di discriminazione per motivi religiosi anche in relazione all’interno delle procedure di assunzione. Contemporaneamente a questa difesa, però, la disposizione europea lascia agli Stati membri la possibilità di poter prevedere, all’interno della legislazione nazionale, disposizioni in virtù delle quali possono essere previste differenze di trattamento. Quest’ultime sono ammissibili se, nei casi concreti, non costituiscono delle vere e proprie discriminazioni ingiustificate.  A tal proposito, il testo della norma prevede una mancanza di discriminazione laddove “la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione”.

La Corte, nella definizione del giudizio, ha sottolineato la necessità di tutelare il diritto fondamentale dei lavoratori a non essere oggetto di una discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Allo stesso tempo, però, l’articolo 17 del TFUE intende tutelare il diritto all’autonomia delle Chiese e delle organizzazioni pubbliche o private la cui etica si basa su un credo religioso o su convinzioni personali. Inoltre, nella sentenza viene affermato che tale garanzia di autonomia ex articolo 17 non implica una sottrazione della materia dalla giurisdizione europea, ma è sinonimo di un orientamento volto a definire la protezione dei diritti coinvolti nelle specifiche cause.

In seguito, una conferma del ruolo antidiscriminatorio dell’articolo 17 del TFUE è arrivata anche da altre sentenze successive. È il caso della sentenza sulla causa C-68/17, nella quale si contesta la rescissione di contratto nei confronti di un capo medico operante in una clinica, a sua volta sottoposta alla gestione di un arcivescovo. La fine del rapporto sarebbe avvenuta poiché il ricorrente, divorziato, si è risposato solo con rito civile. I giudici europei hanno ammesso la libertà regolamentare dell’ente, ma hanno riconosciuto nell’accertamento della causa di licenziamento una discriminazione non giustificata nei confronti del soggetto ricorrente. Per la Corte, l’interpretazione cattolica del matrimonio non è un requisito essenziale e legittimo per il mantenimento del posto di lavoro di un primario.

Successivamente, abbiamo avuto la sentenza C-282/19 del gennaio 2022. La causa verteva sulla compatibilità della normativa italiana in materia di occupazione del settore dell’educazione religiosa nella scuola con la disciplina europea sui contratti a tempo determinato. In Italia, lo status giuridico degli insegnanti di religione cattolica è disciplinato in modo diverso rispetto a quello degli altri docenti, con il 70% degli insegnanti assunto con contratto a tempo indeterminato e il 30% assunto a tempo determinato (durata annuale, rinnovabile). Inoltre, la condizione per l'assunzione di tutti gli insegnanti di religione è il riconoscimento di idoneità rilasciato dall'Ordinario diocesano competente per territorio. A causa di questa disciplina speciale, gli insegnanti di religione cattolica a tempo determinato non hanno potuto accedere al piano straordinario di assunzioni previsto per gli insegnanti precari nel 2015. La durata limitata dei contratti annuali ne precludeva l'inserimento nelle graduatorie permanenti.

Nonostante, l’Italia abbia sostenuto la posizione dell’incompetenza della Corte in virtù dell’articolo 17 del TFUE, i giudici europei hanno espresso parere contrario. Infatti, l’accertata sussistenza di una discriminazione nei confronti di tali docenti fa venire meno la neutralità riportata all’interno della summenzionata disposizione europea.

4. Uno sguardo comparato in materia di riconoscimento

La questione relativa al riconoscimento di una Chiesa o di un’associazione religiosa e all’autonomia di queste nelle loro attività in Europa rappresenta una tematica molto importante. Questa, infatti, è incidente all’interno dei rapporti culturali e sociali che condizionano la produzione legislativa degli Stati. In particolare, ci riferiamo alle dinamiche che portano i Paesi europei a firmare accordi con differenti religioni in quanto culto che rappresenta una rilevante parte della popolazione nazionale.

Nello specifico, si esaminano tre Paesi, ovvero Austria, Spagna e Germania. Questi, anche se hanno firmato un Concordato per la concessione di privilegi con la Santa Sede (in quanto punto di riferimento della religione maggioritaria nei loro territori), hanno all’interno dei loro corpora normativi disposizioni che permettono di riconoscere altre associazioni religiose[4].

Abbiamo già visto nei paragrafi precedenti il modo con il quale l’Austria ha legiferato le modalità che permettono il riconoscimento di un’associazione religiosa. La Costituzione, l’Österreichische Bundesverfassung, prevede, ex articolo 14, la garanzia di una completa libertà di coscienza e di credo (comma 1) e la non costrizione nell’osservazione di un atto ritualistico o nella partecipazione ad una cerimonia ecclesiastica (comma 3). Inoltre, l’articolo 15 della Carta fondamentale afferma che ogni Chiesa e società religiosa riconosciuta dalla legge ha il diritto di tenere raduni pubblici di pratica religiosa, organizzare ed amministrare i propri affari interni in modo autonomo, ed esercitare la proprietà e il godimento dei propri istituti, lasciti, e sovvenzioni destinate al culto, all’istruzione e all’assistenza. Naturalmente, per poter beneficiare di queste facoltà, come qualsiasi altra organizzazione o società, anche quelle religiose sono soggette alle leggi generali del Paese.

Nel 1933, c’è stato il Concordato tra la Santa Sede e l’Austria. Secondo tale accordo, il Governo di Vienna ha riconosciuto alla Chiesa cattolica il libero esercizio del potere spirituale nel momento di libera e pubblica pratica del culto e di poter adottare, nell’ambito di sua competenza, leggi, decreti e ordinanze[5]. Inoltre, la Chiesa cattolica ha visto riconosciuto, ex articolo 2, lo status di persona giuridica.

Con riferimento alle altre religioni, oggi, in Austria, sono ventidue i culti riconosciuti dalla legge e questi, in virtù del loro status, godono di alcuni importanti vantaggi fiscali. Un esempio proviene dalla IGGÖ (comunità di fede islamica in Austria). Fondata nel 1979, in conseguenza del riconoscimento della religione islamica nel 1912, questa è oggi l’istituzione principale alla quale altre comunità islamiche in Austria fanno riferimento in quanto unica in grado di interagire con il Governo austriaco sulle questioni relative all’amministrazione del culto islamico[6].

Relativamente alla Spagna, invece, la Constitución española riconosce con l’articolo 16 comma 1 la libertà ideologica, religiosa e di culto per chiunque, senza alcuna limitazione che non sia il mantenimento dell’ordine pubblico. Inoltre, il terzo comma della medesima disposizione ammette che nessuna confessione avrà carattere statale. I pubblici poteri, tenendo conto delle convinzioni religiose della popolazione nazionale, manterranno rapporti di collaborazione con le confessioni praticate nel Paese.

In materia di riconoscimento delle associazioni o di altre confessioni, la legislazione spagnola vede un importante punto di partenza nei lavori della CARL (Commissione Consultiva sulla Libertà Religiosa). Questa, nel 1981, doveva lavorare per la redazione di accordi e cooperazioni con le associazioni religiose presenti nel Paese. Il principio che ancora oggi segna la chiave di volta del sistema iberico dei rapporti con altre associazioni è quello del “notorio radicamento” in Spagna. L’articolo 7 prima comma della legge organica 7/1980 riconosce la possibilità di avere degli accordi o convenzioni di cooperazione con queste comunità. Dall’altra parte, però, il Real Decreto 142/1981 ammette degli accordi con le associazioni iscritte che, per il loro numero e ambito di credenti abbiano raggiunto un notorio radicamento in Spagna. Per l’iscrizione, era necessario che ci fossero Chiese, confessioni o comunità religiose che avessero personalità giuridica e che fossero iscritte nel corrispondente registro pubblico del Ministero di Giustizia[7].

Nel 1953, è stato firmato il Concordato tra la Spagna e la Santa Sede. Anche in questo accordo, lo Stato si è impegnato a riconoscere alla Chiesa cattolica lo status di società perfetta, garantendole il libero e pieno esercizio del potere spirituale e della sua giurisdizione.

In merito ad altre religioni, il caso più recente che ha coinvolto la Spagna è quello inerente alla posizione della Chiesa Nazionale Scientology. Il riconoscimento dello status legale di questa associazione religiosa (avvenuto nel 2007) e del diritto fondamentale dei suoi fedeli alla pratica collettiva e alla manifestazione della libertà religiosa è arrivato dopo un oculato esame da parte del Tribunale nazionale. Tale autorità, infatti, ha provveduto al riconoscimento dopo alcuni importanti accertamenti. Tra questi, è stata verificata la mancanza di problemi per l’ordine pubblico nazionale e il rispetto della legge costituzionale in materia di libertà religiosa da parte delle alte cariche della summenzionata Chiesa[8].

Per quanto riguarda, invece, la Germania, l’articolo 4 della Grundgesetz garantisce e difende l’inviolabilità della libertà di fede, di coscienza e di confessione religiosa; inoltre, è garantito l’indisturbato esercizio del culto. Qui, a discapito della separazione tra Chiesa e Stato, viene esaltato un particolare rapporto tra la Germania e quelle comunità religiose che hanno un riconoscimento come associazioni di diritto pubblico. Già l’articolo 137 paragrafo 5 della Costituzione di Weimar riconosceva la possibilità alle comunità religiose di poter essere riconosciute se avessero avuto un numero di membri in grado di garantire loro una continuità di esistenza.

Il Concordato tra Santa Sede e Germania risale al 1933. Tra le disposizioni che regolano tale accordo abbiamo, come già visto in altri casi, una garantita libertà di professione e pubblico esercizio della religione cattolica e la libera amministrazione dei propri affari negli ambiti di competenza della Chiesa. Inoltre, gli ecclesiastici, nell'esercizio della loro attività ecclesiastica, godono della stessa protezione riconosciuta agli impiegati dello Stato.

Tra i casi più recenti relativi ad altre religioni, nel gennaio 2017, i Testimoni di Geova hanno ottenuto lo stesso riconoscimento giuridico conferito alle principali religioni professate in Germania. Dopo il riconoscimento come ente di diritto privato nel 1921, questi hanno chiesto senza successo e per molti anni, quello come organismo di diritto pubblico per ottenere gli stessi diritti che spettano alle organizzazioni che vantano questo status. I primi responsi negativi da parte delle autorità giudicanti tedesche sono da collegarsi alle regole dei Testimoni di Geova che impedirebbe loro di partecipare alla vita politica nazionale. In seguito, è stato appurato come tra i credenti ci fosse, invece, una volontà contraria[9] che, pertanto, non avrebbe costituito un problema politico e sociale.

Oggi, similmente a quanto riportato in merito al caso spagnolo, la Corte federale tedesca ha riconosciuto i Testimoni di Geova dopo aver verificato che questa associazione non ledesse l’ordine pubblico nazionale. Tale dimostrazione è provenuta dall’esercizio di diritti pubblici, negli anni, da parte della stessa[10].

5. Conclusioni

L’analisi fin qui svolta, in merito alle differenti modalità di accordi tra uno Stato e un’istituzione religiosa o quelle inerenti al riconoscimento di associazioni, ci porta a riflettere su quanto sia centrale il ruolo dell’autorità statale in questo ambito.

L’inserimento di un’associazione religiosa nel novero di quelle riconosciute è un momento importante per un Paese che ha il compito, in quel preciso istante, di mediare tra diversi fattori concorrenti tra loro. Da una parte, infatti, troviamo la necessità di venire incontro alle istanze delle minoranze che, appellandosi ai loro diritti di matrice nazionale e internazionale, chiedono una pari dignità rispetto alla maggioranza (anche perché supportate da un rilevante numero di membri). Dall’altra, invece, gli Stati diventano anche difensori e custodi dei principi nazionali che caratterizzano e contraddistinguono il loro tessuto sociale di riferimento.

Infatti, il riconoscimento non è un mero atto di consegna di alcuni privilegi e diritti alle associazioni religiose che ne fanno richiesta. Suddetto riconoscimento rappresenta la chiave per il definitivo ingresso di un’associazione o di una comunità religiosa all’interno della dimensione sociale, giuridica e politica del Paese interessato.

Non è casuale il riferimento ai succitati tre lati della vita di un Paese. Abbiamo visto, in effetti, come le decisioni dei tribunali nazionali sul riconoscimento abbiano toccato questi tre aspetti che possiamo definire come inscritti uno dentro l’altro. A tal proposito, abbiamo avuto, dapprima, una valutazione sociale. Questa è volta a comprendere se una determinata comunità religiosa abbia o meno un impatto all’interno del tessuto sociale nazionale. Il giudizio, in questo caso, si basa su un dato numerico per poter fare affidamento su un criterio oggettivo che permette alle autorità chiamate a giudicare, con un’operazione meccanica, di valutare il peso specifico del credo religioso in esame.

Successivamente all’attestata dimostrazione di rilevanza sociale, abbiamo un esame di natura giuridico-politica. Infatti, questa disamina permette di controllare il rispetto, da parte di una comunità religiosa, dei principi fondamentali che caratterizzano l’ordinamento di un Paese. Tale verifica incide sull’equilibrio nelle dinamiche relazionali tra la maggioranza e le minoranze che sono presenti in uno spazio pubblico, come quello di ciascun Paese membro dell’UE, caratterizzato, oggi, da un’elevata eterogeneità culturale. In tale direzione deve essere visto e analizzato il controllo della giurisdizione tedesca in merito alla causa dei Testimoni di Geova. La verifica relativa alla posizione di questo credo nei confronti del diritto di voto è un modo di accertamento del rispetto di un principio statale fondamentale, ovvero l’ordine pubblico.

Nel comprendere se una determinata professione religiosa possa essere ammessa o meno all’interno di un Paese, la valutazione dei giudici deve comprendere anche un giudizio sulla capacità del tessuto sociale nazionale di inglobare in sé questo nuovo soggetto di diritto pubblico. Infatti, l’ordine pubblico mette in evidenza l’importanza della tenuta socio-politica nazionale. Come affermato in dottrina, questo principio è la traduzione in termini giuridici del potere e rappresenta un insieme di diverse componenti politiche, sociali e morali[11].

In virtù di questa natura, è possibile affermare che l’ordine pubblico si caratterizza per un solido legame con il territorio e la società del Paese al quale fa riferimento. In questo modo, non solo tale principio si adatta alle caratteristiche e ai valori del tessuto sociale che protegge, ma ne assorbe anche la realtà e i mutamenti. Se questo, da una parte, comporta la perdita di una definizione univoca del concetto di ordine pubblico, dall’altra sottolinea, in modo ancor più evidente, il legame col contesto socio-politico e valoriale nonostante la loro evoluzione nel tempo.

L’importanza del summenzionato principio e la delicatezza degli equilibri nazionali sono presenti anche all’interno del Trattato di Lisbona. L’articolo 4, paragrafo 2, prevede che l’Unione Europea rispetti l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati, la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale. Inoltre, si legge come il mantenimento dell’ordine pubblico e la tutela della sicurezza nazionale siano esclusiva competenza degli Stati.

Con una tale premessa, appare sufficientemente semplice capire il dettato del già esaminato articolo 17. Dal momento che l’ordine pubblico è una questione nazionale e interna, l’Unione europea gioca il ruolo di arbitro esterno che giudica il modo con il quale gli Stati membri si adoperano per questo obiettivo. Infatti, la Corte di giustizia, richiamando il contenuto della summenzionata previsione, ricorda come un sindacato unionale c’è e ci sarà sempre nel tentativo di scongiurare qualunque forma di discriminazione nei confronti di una Chiesa o di un’associazione religiosa. In effetti, come sostenuto in dottrina, la lettera dell’articolo 17 comporta due differenti chiavi di lettura. Da un lato, un aspetto politico-istituzionale secondo il quale le politiche unionali non si intromettono tra Governi nazionali e confessioni religiose; dall’altro lato, però, si può affermare che tale disposizione non costituisca un ostacolo insormontabile per vedere una certa incidenza da parte degli interventi unionali in questa materia[12]. Quello che appare evidente dalla disposizione è una lettura volta al rispetto e al non recare alcun pregiudizio nei riguardi dello status che alcune associazioni religiose avrebbero ricevuto o acquisito ormai da anni, ma, allo stesso tempo, non è impedita una visione secondo la quale è possibile che l’UE legiferi senza intaccare il riconoscimento ricevuto dalle organizzazioni confessionali e religiose[13].

La legislazione europea non può tenere conto di ogni singola questione relativa alle particolarità e specificità delle normative in ambito religioso di tutti gli Stati membri. A parte un’ovvia impossibilità pratica e normativa (nel senso di prevedere una misura che sia onnicomprensiva di ciascuna particolarità nazionale), avremmo, nel caso opposto, uno snaturamento dell’UE. Una tale possibilità porterebbe ad un’eccezione di giurisdizione (letteralmente: "eccezione d’ambito") generalizzata e ostacolerebbe la realizzazione degli obiettivi dell’Unione[14].  

La crescente esposizione dell’Europa ai flussi migratori e la conseguenziale elevata eterogeneità culturale del tessuto sociale continentale dimostrano, non solo l’importanza di affidarsi al principio della neutralità, ma anche la vicinanza tra il modo di intendere questo valore a livello nazionale e unionale. Nonostante la crescente integrazione sovranazionale, ciascun Paese tende ad adottare delle scelte politiche che, inevitabilmente, sono collegate
alla propria popolazione che, a sua volta, è parte fondamentale di una
dimensione spazio-temporale ben definita e distinta dalle altre. Anche se l’identità europea è caratterizzata da un’anima cristiana, l’Europa è stato il continente della secolarizzazione che ha portato all’universalità dei diritti umani, alla democrazia politica e alla tolleranza[15]. Pertanto, parlare oggi di secolarismo in Europa non significa fare riferimento ad una non interferenza della religione nei confronti delle questioni politiche e viceversa, sia tale ingerenza unionale o statale. La neutralità derivante dal secolarismo, oggi, implica un concetto secondo il quale c’è la possibilità di concedere libertà di espressione religiosa e riconoscimento a quelle comunità o gruppi che sono in grado di incorporare in loro valori e interessi condivisi da un gruppo di persone in una serie di regole e obblighi in grado di controllarli.

 
 

Note e riferimenti bibliografici

1) Montesano S., Brevi riflessioni sull’art.17 del TFUE e sul progetto di Direttiva del Consiglio recante disposizioni in materia di divieto di discriminazione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 18, 2015, p. 4.

2) Macrì G., Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell’Unione europea, in Macrì G., Parisi M., Tozzi V., Diritto ecclesiastico europeo, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 124-125.

3) Galetta D. U. e Kröger D., Giustiziabilità del principio di sussidiarietà nell’ordinamento costituzionale tedesco e concetto di “necessarietà” ai sensi del principio di proporzionalità tedesco e comunitario, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1998, p. 905 e ss.

4) Fédération Charbonière de Belgique c. Alta Autorità europea del carbone e dell'acciaio (1956)

5) Cavanaugh K., Policing the Public Sphere: Regulating Religion in Europe, in A. Bíró, Populism, Memory and Minority Rights. Central and Eastern European Issues in Global Perspective, Leiden, Brill Nijhoff, 2018, p. 317.

6) Giannini A., Il Concordato austriaco, in Rivista di Studi Politici Internazionali, vol. 1, n, 1/2, 1934, p. 27.

7) Çitak Z., The Institutionalization of Islam In Europe and the Diyanet: The Case of Austria, in Ortadoğu Etütleri, vol. 5, n. 1, July 2013, p. 173.

8) Montesinos N., Le confessioni religiose non cattoliche in Spagna: dal franchismo alla democrazia, in Spagna Contemporanea, vol. 8, 1995, p. 101.

9) Dìez De Velasco F., The Visibilization of Religious Minorities in Spain, in Social Compass, vol. 57, n. 2, 2010, p. 249. 

10) Besier G. e Besier R. M., Jehova’s Witnesses’ Request for Recognition as Corporation under Public Law in Germany: Background, Current Status and Empirical Aspects, in Journal of Church and State, vol. 43, n. 1, 2001, p. 47.

11) Zumbassen P., From the Outside Looking In: The Jehova’s Witnesses’ Struggle for Quasi-Public Status under Germany’s Incorporation Law, in Germany Law Journal, n. 2, 2001.

12) Bernard P., La notion d’ordre public dans le droit administratif, Paris, Librairie générale de droit et de jurisprudence, 1962, p. 262

13) Montesano S., Brevi riflessioni sull’articolo 17 del TFUE e sul progetto della Direttiva del Consiglio recante disposizioni in materia di divieto di discriminazione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 18, 2015, p. 8. 

14) Montesano S.,, Brevi riflessioni sull’articolo 17 del TFUE e sul progetto della Direttiva del Consiglio recante disposizioni in materia di divieto di discriminazione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 18, 2015, p. 16. 

15) Puza R., Effetti dell’ordinamento comunitario sullo status delle confessioni religiose nei Paesi dell’Unione Europea, in L. De Gregorio (a cura di), Le confessioni religiose nel diritto dell’Unione europea, Milano, Il Mulino, 2012, p. 51.