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Pubbl. Gio, 9 Feb 2023

Il magistrato in Italia: fenomenologia di una figura controversa

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Gemma Colarieti
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Salerno



Il presente contributo mira ad analizzare la figura del magistrato nel nostro ordinamento, a partire dalle fonti costituzionali di riferimento. E´ svolta una breve digressione diacronica e sincronica e una disamina del dibattito sulla separazione delle carriere, tema mai sopito e quanto mai attuale alla luce della recente ”riforma Cartabia” e delle proposte di legge presentate in questi giorni.


ENG

The magistrate in Italy: phenomenology of a controversial figure

This contribution analyzes the figure of the magistrate in our legal system, starting from the reference constitutional sources. The article is characterized by a brief diachronical and synchronic digression and analyses of the separation of careers. This issue, never been dormant, is extremely important after the recent Cartabia reform and the bill presented in recent days.

Sommario: 1. Premesse.  2. Riferimenti costituzionali. 3.   Il giudice legislatore.  4. Il problema della responsabilità civile del magistrato. 5. Magistratura e accuse di politicizzazione. Cenni storici. 5.1 Anni ’70: l’applicazione dello Statuto dei lavoratori. 5.2 Gli anni di piombo e delle stragi di mafia. 5.3 Anni ’90 e 2000: Processo “Mani pulite” e “Berlusconi”. 5.4 Attualità: casi Palamara e Di Matteo. 6. La separazione delle carriere. 7. Conclusioni.

1. Premesse

Lo scorso 26 gennaio, come ogni anno, è stato inaugurato l’anno giudiziario 2023 presso la Suprema Corte di Cassazione, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e delle più alte cariche pubbliche, come Primo presidente della Cassazione Curzio, il Ministro della Giustizia Nordio, il Vicepresidente del CSM Pinelli, il Procuratore generale della Cassazione Salvato, l’Avvocato generale dello Stato e il Presidente del Consiglio Nazionale Forense.

Questa cerimonia solenne costituisce non solo occasione per valutare l’andamento del lavoro dei magistrati nel corso dell’anno appena trascorso, ma anche per svolgere un pubblico dibattito sull’amministrazione della giustizia, in particolare sulle riforme auspicate e/o in dirittura d’arrivo, a livello nazionale. A questa cerimonia segue l’inaugurazione dell’anno giudiziario presso i 26 distretti di Corte d’Appello.

Questo consesso è spunto per svolgere alcune riflessioni circa la figura del magistrato nel nostro Paese, le cui sorti sono profondamente influenzate proprio da come i togati amministrano la giustizia, anche in termini di celerità ed efficienza per potere attrarre investitori esteri e finanziamenti.

A riprova di questo dato di fatto, si pensi alla necessità, a cui risponde la cosiddetta “riforma Cartabia”, di adeguare gli strumenti e l’operato dei giudici, in generale la giustizia italiana, agli standards imposti dall’UE di celerità ed efficienza per poter godere dei fondi connessi al Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR).

Inoltre, l’analisi circa la figura del magistrato rappresenta un ampio tema di riflessione per due ragioni fondamentali: in primo luogo per l’importanza del potere giurisdizionale in uno Stato di diritto, cosicché sia assicurata la separazione dei poteri, presupposto indefettibile per la garanzia dei diritti; in secondo luogo, per il difficile e osmotico ruolo del magistrato nella società e in rapporto alle altre istituzioni dello Stato.

È soprattutto su questo secondo aspetto che occorre soffermarsi, perché il legame tra l’autorità giudiziaria e le influenze “esterne” ha da sempre caratterizzato l’evoluzione della figura del magistrato in senso diacronico e sincronico, sia dal punto di vista del suo operato che per quanto riguarda le sue garanzie e la sua reputazione.

Del resto, nessun aspetto può essere avulso dal contesto in cui si trova. Questo discorso vale soprattutto in ambito giuridico, dal momento che il diritto in generale è per definizione lo strumento di cui ci si serve per regolare le esigenze di vita e il giudice è chiamato a risolvere queste esigenze nella loro fase patologica.

2. Riferimenti costituzionali

La Costituzione italiana dedica un intero Titolo, il IV, alla magistratura, dagli articoli 101 a 113, ma ricorrono riferimenti alla figura del magistrato in altre importanti disposizioni. I Costituenti si sono preoccupati di sancire i principi cardine che caratterizzano l’ordine giudiziario, nonché di disciplinare la sua organizzazione e il suo funzionamento.

Il tema della magistratura ha determinato un dibattito apparso fin da subito spinoso e di non facile risoluzione, date le diverse correnti che costituivano l’Assemblea costituente e che proponevano approcci diversi.

Del resto, non si può non tener conto del background culturale anteriore all’avvento della Costituzione, da cui fu difficile affrancarsi ma, allo stesso tempo, fu necessario operare una cesura netta.

In ragione di ciò, l’articolo 104 della Costituzione si apre sancendo che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente, così come l’articolo 101 comma 2 della Costituzione afferma che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Se ne desume che i magistrati, nell'esercizio delle loro funzioni, non possono dipendere da nessun altro potere, neanche gerarchicamente superiore, che altresì inciderebbe sulla loro autonomia. Con questi articoli è stato compiuto, dunque, un cambiamento radicale rispetto alla tendenza precedente all’avvento della Costituzione.

Lo Statuto Albertino, così come la legge sull’ordinamento giudiziario del 1865, prevedeva che i funzionari dell’ordine giudiziario fossero nominati dal re, su proposta del Ministro della Giustizia. Si guardi anche all’art. 129 della legge sull’ordinamento giudiziario del 1865: «Il pubblico ministero è rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, ed è posto sotto la direzione del Ministro della Giustizia».

Ancora, la legge sull’ordinamento giudiziario del 1941, stabiliva che «la corte di Cassazione assicura l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale». Questa funzione nomofilattica della Corte di Cassazione ribadiva il primato del legislativo, mentre l’art. 129 della legge del 1865 stabiliva la subordinazione della funzione giudiziaria al potere esecutivo[1].

L’art. 104 della Costituzione, dunque, costituisce una formula ampia, che “libera” la magistratura da qualsiasi interferenza, non solo politica, ma anche dai poteri forti in ambito economico, ad esempio, secondo il principio della indipendenza esterna.

Art. 101 comma 2 Costituzione sancisce, invece, il principio della indipendenza interna, in contrasto con quanto auspicato dalla Cassazione. Questa indipendenza interna oggi è garantita dal controllo diffuso di costituzionalità della legge, dato che questo meccanismo può essere attivato da giudici di qualsiasi grado.

Unico richiamo dell’art. 104 Costituzione al vecchio sistema, in particolare allo Statuto Albertino, è il termine “ordine”, con cui è indicato il giudiziario, mentre l’esecutivo e il legislativo rappresentano “poteri” dello Stato. Nei restanti commi, tale articolo indica la composizione del CSM, organo importantissimo affinché l’indipendenza della magistratura non costituisca un semplice afflato rimasto solo sulla Carta.

Tuttavia, anche per stabilire competenze e composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, ci furono discussioni in Costituente, tra conservatori e progressisti, circa una maggiore o minore libertà di operatività di questo organo. Per garantire il rispetto della norma costituzionale sull’indipendenza, le assegnazioni degli incarichi, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari riguardanti i magistrati è naturale spettino esclusivamente al Consiglio superiore della magistratura.

Anche gli articoli 106 e 107 della Costituzione, che rispettivamente sanciscono la nomina per concorso e il principio di inamovibilità dei magistrati, concorrono a garantire il rispetto del libero operato del magistrato. L’articolo 107 della Costituzione, inoltre, afferma che i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni.

Le norme costituzionali sulla giurisdizione, invece, contengono innanzitutto i principi del giusto processo, di cui all’art. 111 della Costituzione, la cui revisione è avvenuta con la legge costituzionale del 1999. Rappresentano un riflesso del “giusto processo” il principio del contraddittorio e la necessaria terzietà del giudice. L’art. 111 prevede l’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali, a garanzia della legittimità di tali provvedimenti, per controllare il ragionamento alla base della decisione del giudice.

A seguire, l’art. 112 della Costituzione obbliga il pubblico ministero all’esercizio dell’azione penale. Questo principio distingue il nostro sistema giuridico da quelli in cui vige il “principio di opportunità” o “di discrezionalità”, in base ai quali il pubblico ministero decide secondo la propria valutazione e le scelte di politica criminale.

Anche la Parte I della Costituzione, Diritti e Doveri dei Cittadini, contiene alcuni principi fondamentali volti ad assicurare un esercizio costituzionale e democratico dell’attività giudiziaria nei confronti dei cittadini, tra cui il principio del giudice naturale precostituito per legge, ex articolo 25.

3. Il giudice legislatore

L’articolo 101 della Costituzione, che non a caso è quello con cui si apre il Titolo della Costituzione dedicato alla magistratura, permette di interrogarci sul rapporto giudice-società. Questa disposizione intende il magistrato come un mero dipendente dello Stato, al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi nel momento contenzioso.

Finché la legge da applicare rimane immutata, anche il l’interpretazione del magistrato dovrebbe mantenersi uguale a sé stessa, quali che siano le metamorfosi della società che lo avvolge.

Tuttavia, occorre soffermarsi su una diversa chiave di lettura del ruolo del magistrato, che si è sempre più affermata a partire dalla metà degli anni '60 e che vuole, esaltando il potere di interpretazione della legge, tracciare un nuovo rapporto tra il ruolo del togato ed il divenire della società[2].

In particolare, si pensi alla corrente interna all’ambiente giudiziario di Magistratura Democratica, costituita nel 1964, che rivendica un ruolo politico della magistratura e non partitico, nel senso di partecipazione all’azione, di gestione dello Stato anche nella fase “attiva” del diritto.

Questa corrente vuole abbattere una serie di “miti formali”: la Magistratura Democratica parla di “maschera”, riferendosi all’idea di apoliticità, di neutralità della magistratura, che deriva dal passato. La magistratura, infatti, è stata a lungo concepita, specie nel 1800, come un ordine che deve solo limitarsi ad applicare la legge.

Secondo Magistratura Democratica è meglio dichiarare che la funzione giurisdizionale ha un carattere politico intrinseco, necessario all’affermazione del primato della legalità, del diritto e della giustizia. Affermare tale politicità vuol dire avere la possibilità di controllare la politica e il potere legislativo ed esecutivo. 

La Magistratura Democratica mette in evidenza l’art. 3 comma 2 della Costituzione, che sancisce l’eguaglianza sostanziale, ritenendo che la magistratura deve partecipare a realizzare l’uguaglianza sostanziale insieme agli altri poteri dello Stato. La magistratura partecipa all’attuazione delle norme e della Costituzione.

Questo è il grande contributo che si sviluppa negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso: il metodo dell’“uso alternativo del diritto” vuole allargare la capacità della funzione giurisdizionale, affinché la magistratura sia promotrice degli interessi della collettività e il suo operato abbia efficacia al di là della singola controversia. Del resto, non sempre la legge è in sintonia con l’evolversi del costume, ma spesso si attarda e si sclerotizza. Si è sostenuto che il magistrato può, pur rimanendo identica la lettera della norma oggetto di applicazione, utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si attaglia al momento contingente.

Il nuovo rapporto fra magistrato e norma legislativa comporta, dunque, che anche il primo esca dalla propria “torre eburnea” di immutabilità, di “ibernazione” sociale, divenendo sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde.

A volte, anzi, a causa di vuoti legislativi o dettati normativi nebulosi, ambigui, su aspetti che non permettono di rimanere silenti, si richiede addirittura un intervento del giudice che travalica le sue stesse competenze strettamente ancorate alla legge, tanto da rendere il giudice stesso “legislatore”.

Questi sono casi limiti, ma che rendono contezza della evoluzione della figura del giudice e di come le sue competenze possano espandersi quando gli altri poteri dello Stato appaiono deboli e assenti, per cui, proprio perché il giudice è un interprete non solo al servizio della legge, ma anche delle istanze sociali, è connaturale intendere il suo lavoro non nella mera accezione di “esegeta della lettera normativa”, tanto da parlarsi di “produzione giurisprudenziale del diritto”[3].

Si pensi alle sentenze monito o additive dei giudici della Corte costituzionale, che si sono espressi molte volte su temi di estrema importanza prima ancora di un intervento legislativo, come nei casi di procreazione medicalmente assistita o fine-vita. Del resto, le norme precettive offrono il fianco per questo ruolo più prettamente legislativo del giudice, come Magistratura Democratica sosteneva già a partire dagli anni ’60.

Altro caso esemplificativo risale agli anni ’70. Infatti, con l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, si è avanzata la convinzione che la presenza giudiziaria potesse esplicarsi in modo incisivo per sanare gli effetti della crisi economica. Vi è stato chi ha ritenuto che il magistrato potesse far buon uso del suo potere interpretativo delle leggi, accogliendo di esse quell'accezione che privilegiasse gli interessi delle classi economiche dominanti.

Secondo questo filone, il magistrato poteva costituire una figura chiave per svincolarsi da quei "lacci e lacciuoli", come li definì Guido Carli, e sgomberare il campo dell'iniziativa privata che aveva consentito all'imprenditoria italiana di creare il "miracolo economico" degli anni ’50. Per contro, vi è stato chi ha auspicato i giudici potessero tutelare i lavoratori dallo sfruttamento della parte datoriale, più forte, soprattutto in periodo di crisi.

L’indirizzo dei giudici del lavoro è stato anticipatore di scelte che avrebbe dovuto fare il legislatore, per realizzare la Costituzione. Del resto, il Parlamento risentiva anche in quegli anni degli scontri tra fazioni politiche contrastanti, quindi è stato più lento nel processo di cambiamento rispetto ai singoli pretori, che operavano con le loro interpretazioni, anticipando il processo di attuazione costituzionale. Essi erano meno vincolati rispetto al legislatore.

4. Il problema della responsabilità civile del magistrato

Se il giudice è chiamato a farsi interprete delle istanze sociali senza limitarsi ad applicare pedissequamente la legge, bisogna dunque soffermarsi sull’esaminare quanto sia ampio il raggio d’azione del suo operato senza che incorra in responsabilità.

È indubbio, infatti, che l’articolo 28 della Costituzione, nel sancire la responsabilità civile, penale e amministrativa dei pubblici dipendenti per gli atti compiuti in violazione dei diritti, si indirizza a tutti indistintamente e, nelle linee generali, comprende anche il magistrato, atteso che la funzione che lo stesso espleta rientra nel novero delle attività statali promosse per il perseguimento di quei fini di tutela e di giustizia posti a base della civile convivenza.

Ma è vero anche che il magistrato, pur chiamato ad espletare attività nell’interesse dello Stato, non opera semplicemente secondo il diritto e nel rispetto dei limiti imposti dalle normative in vigore e delle procedure all’uopo previste come, di norma, avviene in sede di attività amministrativa, ma applica “anche” la norma giuridica, previa interpretazione della stessa e con riferimento alle singole fattispecie. Ne consegue, pertanto, che, proprio per quei fini di giustizia e di legalità, appare “irrinunciabile” l’esigenza di sottrarre il magistrato da ogni possibile condizionamento, onde consentirgli l’esercizio delle funzioni che competono allo stesso con l’imparzialità e con la consapevolezza di operare nell’interesse della giustizia e per il rispetto della legalità.

La responsabilità civile dei magistrati nell’ambito dell’esercizio delle funzioni giudiziarie è stata inizialmente disciplinata dalla legge 117/1988, la cosiddetta “legge Vassalli”, approvata a seguito del referendum abrogativo della previgente normativa, il d.p.r. n. 497/1987.

Il referendum, con larga maggioranza (oltre l’80 % di “SI”), ha abrogato gli articoli 55, 56 e 74 del Codice di Procedura Civile per i quali i giudici potevano rispondere solamente in caso di dolo, frode, concussione e diniego di giustizia, mentre erano irresponsabili non solo per colpa, ma addirittura anche per colpa grave.

La nuova disciplina prevede, ex articolo 2, comma 1 della legge del 1988, che «chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali ed anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale».

L’azione di risarcimento del danno eventualmente subito dal cittadino è esperibile da quest’ultimo soltanto nei confronti dello Stato (responsabilità diretta) e solo per le causali esplicitate dall’articolo 2, comma 1, della citata legge n. 117/1988, qualora, cioè, nella condotta del magistrato siano ravvisabili il dolo o la colpa grave, ovvero si è di fronte ad un diniego di giustizia nei modi e nei tempi quali esplicitati dall’articolo 3 della legge in questione.

I casi nei quali, invece, è possibile far valere il diritto al risarcimento del danno subito direttamente contro il magistrato, oltre che contro lo Stato, sono limitati alla sola ipotesi in cui il danno sia la conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato stesso nell’esercizio delle sue funzioni, ex articolo 13 della legge del 1988.

Di fronte ai risultati prodotti dalla legge Vassalli, giudicati da più parti non rispondenti agli obiettivi originari posti con l’esito referendario, sono stati presentati nel tempo svariati progetti di legge, volti ad introdurre modifiche sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedurale, al fine di contemperare, da un lato, l’esigenza di una reale applicabilità della responsabilità civile dei magistrati, dall’altro di non comprometterne l’autonomia ed indipendenza.

Nel difficile dibattito sul tema si è inserita anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che si è pronunciata in più occasioni sulla mancata rispondenza della legge Vassalli alle norme del diritto comunitario, in merito alla valutazione di fatti e prove e all’imposizione di requisiti poco rigorosi, nelle ipotesi di responsabilità ammesse, nei confronti della violazione palese del diritto vigente. In particolare, si è proposto di abrogare l’articolo 2 comma 2, che prevede la cosiddetta “clausola di salvaguardia”, per la quale «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove».

L’abrogazione è stata fortemente avversata dal Consiglio Superiore della Magistratura, per cui i magistrati, senza una clausola di salvaguardia, «potrebbero essere indotti, al fine di sottrarsi alla minaccia della responsabilità, ad adottare, tra più decisioni possibili, quella che consente di ridurre o eliminare il rischio di incorrere in responsabilità, piuttosto che quella maggiormente conforme a giustizia».

La legge n. 18/2015, nell’ottica di adeguare l’ordinamento italiano alle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia Europea, ha modificato la l. n. 117/1988. La novella del 2015 ha mantenuto inalterato il principio della responsabilità indiretta dei magistrati, ma sotto il profilo della limitazione della “clausola di salvaguardia”, ha ridefinito in senso più ampio le fattispecie di colpa grave, eliminando anche il filtro di ammissibilità della domanda e rendendo obbligatoria e più stringente la disciplina della rivalsa dello Stato verso il magistrato responsabile. A seguito della riforma, è stato ampliato lo spettro delle ipotesi del risarcimento dei danni, patrimoniali e non, attraverso l’eliminazione della norma di chiusura dell’articolo 2 comma 1, che prevedeva il risarcimento dei danni non patrimoniali soltanto in caso di lesione dei diritti inviolabili della persona «che derivino da privazione della libertà personale»[4].

5. Magistratura e accuse di politicizzazione. Cenni storici

Vi è una tormentata vicenda dei rapporti tra giustizia e politica in tutto l’arco della storia dell’Italia repubblicana. Dal dopoguerra sino agli anni Sessanta, l’accusa di orientamento politico della Magistratura è provenuta soprattutto da chi riteneva l’attività giudiziaria troppo conforme agli indirizzi del Governo e atta a frenare il riconoscimento di certi nuovi diritti o ad interpretare determinati concetti (come “buon costume” e “onore”), in modo omogeneo alla morale corrente, con ciò tacciando alcuni giudici di essere conservatori o conformisti.

5.1 Anni ’70: l’applicazione dello Statuto dei lavoratori

Tra gli anni ‘60 e ’70 l’opinione sul possibile orientamento politico dell’azione giudiziaria assunse connotati politici diversi, ad esempio nei confronti della specifica giurisdizione prevista dall’ordinamento italiano per le cause di lavoro, in applicazione dello Statuto dei Lavoratori o in relazione ai primi processi istruiti nell’ambito del diritto ambientale.

Tale critica, proveniente da partiti moderati o conservatori, dava luogo alla definizione spregiativa di “giudici o pretori d’assalto”, riservata a quei magistrati accusati di interpretare in modo politico, e tendenzialmente su posizioni di sinistra, le legislazioni in materia. Vennero chiamati pretori d’assalto i giovani pretori che fissarono il principio secondo cui anche i potenti dell’economia potevano essere indagati e che l’ambiente era un bene da tutelare anche attraverso l’esercizio della giustizia penale. All’epoca un distorto uso dei mezzi di informazione contribuì a formare il timore e la sensazione che i cosiddetti “pretori d’assalto” fossero prevenuti nell’avvantaggiare il lavoratore.

Questa tesi va confutata, la percezione di un giudice “schierato” dalla parte dei lavoratori fu alimentata dall’opinione pubblica in virtù della tutela differenziata in sede processuale e delle spinte assistenzialistiche. Tuttavia, si tratta di precise scelte di politica legislativa che emergono dalla lettera dello stesso Statuto dei lavoratori. Altro aspetto da considerare è la oscurità del linguaggio legislativo in materia lavoristica, che ha reso più complicato l’interpretazione giudiziale.

5.2 Gli anni di piombo e delle stragi di mafia

Nel periodo degli “anni di piombo”, la magistratura diventò addirittura un obiettivo politico e fisico del terrorismo, che etichettava in modo spregiativo come “servi dello Stato” giudici e pubblici ministeri. In tale epoca storica, la Magistratura si consolidò nel ruolo cruciale di difesa del Paese dal terrorismo. Nell’arco di quattro anni, dal 1976 al 1980, si contarono 11 vittime tra giudici e pubblici ministeri.

Gli anni Ottanta furono un periodo storico in cui furono sollevati sospetti su un condizionamento dell’attività giudiziaria da parte della politica, uniti alle denunce dell’insufficienza del suo operato nei confronti della lotta alla mafia, culminato con le stragi dei magistrati Falcone e Borsellino e delle loro scorte, nel 1992. In tal senso è stata coniata la definizione “il porto delle nebbie”, per indicare il Tribunale di Roma (e la relativa Procura) secondo l’espressione formulata da Stefano Rodotà, proprio a significare che quando i procedimenti a carico dei politici vi entravano, vi sparivano persi nelle lungaggini e nei cavilli delle procedure giudiziarie[5].

5.3 Anni ’90 e 2000: Processo “Mani pulite” e “Berlusconi”

La polemica nei confronti di un sospetto “atteggiamento politico” dei magistrati è riemerso nella prima metà degli anni Novanta a seguito all’azione giudiziaria partita nel 1993 e poi soprannominata “Mani Pulite”, dal nome attribuito al pool di magistrati anticorruzione di Milano, coordinato dal Procuratore capo Francesco Saverio Borrelli dal 1992 al 1999. La vicenda politica e giudiziaria di Tangentopoli venne in seguito rappresentata, in particolare da Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, come un momento eccezionale di efficace lotta della giustizia contro la corruzione della politica e il finanziamento illecito dei partiti, per contrastare una forma di lotta politica in cui uno schieramento, cioè la Sinistra, si sarebbe servito dei magistrati per ostacolare i propri avversari politici.

Questa interpretazione veniva sostenuta in ragione dei numerosi processi giudiziari successivamente instauratisi a carico del medesimo Berlusconi negli anni dei governi da lui presieduti. A dimostrazione di ciò, i magistrati impegnati nei procedimenti giudiziari a carico di Berlusconi sono stati etichettati con le espressioni “toghe rosse” o “partito dei magistrati”. Negli ultimi 20 anni, in Italia, questa posizione si è diffusa a tal punto da divenire causa di un perenne scontro politico e poi di un grave conflitto istituzionale. 

5.4 Attualità: casi Palamara e Di Matteo

Il 29 maggio 2019 alcuni quotidiani hanno reso nota l’iscrizione nel registro degli indagati della procura di Perugia dell'ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara. L’ipotesi di reato è di corruzione nella vicenda del rinnovo della carica di procuratore capo di Roma. Il caso Di Matteo riguarda, invece, la nomina da parte del Ministro della Giustizia Bonafede degli incarichi di capo del DAP e di direttore generale degli Affari penali. Di Matteo ha accusato pubblicamente Bonafede di avergli negato nel 2018 il presiedere il DAP per via di alcune pressioni ricevute da boss mafiosi, che si sarebbero lamentati dell’eventuale nomina. 

Queste vicende, che attraversano contesti storici diversi, interrogano sull’altro importante tema, imprescindibile quando si parla di indipendenza del giudice, cioè il suo rapporto con la politica, e spinge a interrogarsi su quali possano essere le riforme per concretizzare il dettato costituzionale laddove sancisce la indipendenza della magistratura, non solo da sé stessa, ma soprattutto dagli altri poteri dello Stato.

6. La separazione delle carriere

Quanto alla indipendenza interna della magistratura, occorre trattare della separazione delle carriere dei magistrati requirente e giudicanti. Si tratta di un tema caldo, oggetto di dibattiti scientifici e politici nel nostro Paese ogni qualvolta si auspica una riforma della giustizia, affrontato nel corso della già menzionata inaugurazione dell’anno giudiziario lo scorso 26 gennaio. Sull’ argomento della separazione delle carriere è stata presentata una proposta di legge, dopo che il referendum abrogativo sulla giustizia del 12 giugno 2022, che conteneva anche un quesito sulla separazione delle carriere, non ha raggiunto il quorum necessario per la validità.

La proposta di legge, calendarizzata il 2 febbraio alla Camera dalla Commissione Affari Costituzionali, ha l’obiettivo di impedire definitivamente il passaggio da pubblico ministero a giudice e viceversa con una riforma costituzionale.

La Costituzione, come visto supra, nel sancire che la magistratura è autonoma e indipendente ed è soggetta soltanto alla legge, prevede che i magistrati si distinguano tra loro soltanto per funzioni, per cui i promotori di una riforma costituzionale per la separazione delle carriere vorrebbe aggiungere al testo Costituzionale la previsione secondo cui all’inizio della carriera il magistrato debba compiere una scelta radicale e definitiva tra una funzione e l’altra, come suggerito in sede di Assemblea Costituente da Leone, il quale, in contrapposizione a Calamandrei, aveva configurato, in continuità con legge sull’ordinamento giudiziario del 1865,  il pubblico ministero come organo del potere esecutivo, anziché parte integrante dell’ordine giudiziario[6].

Nel 1947 si è scelto di evitare di inquadrare il pubblico ministero come una longa manus dell’esecutivo anche con l’intento di prevenire le degenerazioni a cui si era prestata la precedente esperienza, che durante il regime fascista, già prima della riforma Grandi attuata con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, aveva reso il pubblico ministero uno strumento del Ministro della giustizia anche per il controllo degli stessi giudici.

Dunque, con il lemma “magistrati” o l’espressione “autorità giudiziaria”, la Costituzione si riferisce sia al giudice che al pubblico ministero per assicurare loro medesime garanzie e dignità, nonostante dalla diversità di funzioni dipendano discipline organizzative differenziate.

A dimostrazione della posizione di cui gode il pubblico ministero all’interno della magistratura in toto considerata, l’art. 104 della Carta Costituzionale prevede il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione sia membro di diritto del C.S.M. Va detto che la separazione delle carriere ha costituito un obiettivo contenuto anche nel piano di Rinascita di Licio Gelli, esponente della loggia massonica P2[7].

Attualmente, in seguito alla cosiddetta “riforma Castelli”, legge 25 luglio 2005 n. 150, ogni magistrato ha l'obbligo di effettuare, assieme alla tradizionale prova concorsuale, una verifica psicoattudinale ad inizio carriera, che ha l’obiettivo di indirizzare tra funzione inquirente o giudicante il magistrato. Successivamente, e solo entro i primi cinque anni, è permesso cambiare ruolo, dopo un corso di formazione, il superamento di un esame orale e il cambio di distretto obbligatorio.

Il disegno originario della riforma, che risale al 2002, prevedeva la separazione delle carriere ma non fu mai attuato per il veto dell’allora Presidente della Repubblica Ciampi, per contrasto con la Costituzione[8].

Questo meccanismo macchinoso ha sempre disincentivato il passaggio di ruolo dei magistrati: tra il 2011 e il 2016, ad esempio, il passaggio ha riguardato rispettivamente lo 0,21% dei requirenti e lo 0,83 dei giudicanti, laddove nella seconda metà degli anni Novanta erano nell’ordine rispettivamente del 6/8,5% e del 10/17%[9].Questi numeri sono destinati a ridursi ulteriormente dato che la riforma Cartabia, in vigore dal 30 dicembre 2022, ha ridotto la possibilità del passaggio da quattro a una sola volta in carriera, nei primi dieci anni. 

I sostenitori della separazione delle carriere ritengono che la modalità attuale renderebbe meno paritarie le posizioni di pubblico ministero e avvocato davanti al giudice, nonostante in Italia, già prima della riforma Cartabia (che ha introdotto il filtro della ragionevole previsione di condanna dinanzi il gip), in primo grado le assoluzioni fossero il 50% e il pubblico ministero abbia l’obbligo di cercare anche le prove a favore dell’indagato.

Questi non è tenuto a formulare la richiesta di rinvio a giudizio ma, nel caso reputi gli elementi che ha acquisito durante le indagini preliminari non idonei a sostenere l'accusa in giudizio, deve chiedere l’archiviazione e pure se al termine del dibattimento si convinca che la prova che si è formata davanti al giudice non confermi l’ipotesi della pubblica accusa sostenuta in udienza, deve chiedere l’assoluzione dell’imputato. 

Chi confuta l’idea della separazione delle carriere motivata da un rischio di favoritismo del giudice per il pubblico ministero rispetto alla difesa, evidenzia come, in base a questo ragionamento, anche i giudici di II grado e di Cassazione, che giudicano sull’operato di altri giudici con cui condividono Csm, concorso e cultura, potrebbero mancare di imparzialità. Ancora, la magistratura e la dottrina contraria ad una separazione delle carriere teme gli effetti negativi in termini di indipendenza dal potere esecutivo, sulla base della esperienza pregressa alla Costituzione e delle esperienze ordinamentali estere.

D’altro canto, il Consiglio d’Europa, con la Raccomandazione (2000) 19, nei documenti in cui si auspica l’armonizzazione dei sistemi giudiziari europei, suggerisce di favorire cultura comune tra giudici e pubblici ministeri e di non impedire il passaggio tra le funzioni e indica la indipendenza del pubblico ministero come il modello cui tendere per l’Ue, dato che, riprendendo il parere del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei n. 9 del 2014, l’indipendenza e l’effettiva autonomia del pubblico ministero costituiscono un “corollario indispensabile” dell’indipendenza di tutto il potere giudiziario, nel presupposto che i pubblici ministeri contribuiscono ad assicurare che lo stato di diritto sia garantito e concorrono ad un’amministrazione della giustizia equa, imparziale ed efficiente[10].

Nonostante questa linea di tendenza, in Europa non mancano esperienze ordinamentali caratterizzate dalla separazione delle carriere, come Turchia, Polonia, Ungheria, Portogallo. 

In particolare, l’esperienza portoghese, in cui la separazione delle carriere è stata disciplinata nel lontano 1978, mostra che questa differenziazione ha assegnato al pubblico ministero, grazie anche ad un forte attivismo sindacale, una condizione essenziale per l’esercizio delle sue funzioni, cioè la dotazione di un quadro proprio e permanente di magistrati, cosciente del suo Statuto e delle sue funzioni, impegnato nell’adempimento della sua “missione” ma, allo stesso tempo, l’insufficienza di quadri e la struttura gerarchica hanno comportato una accentuata burocratizzazione, rivolta all’adempimento di direttive gerarchiche e all’ottenimento di risultati misurabili in statistiche, anziché nel perseguimento dei compiti fondamentali che sono attribuiti alla magistratura inquirente, soprattutto per quanto riguarda la lotta alla criminalità più complessa o organizzata[11].

7. Conclusioni

La figura del magistrato è estremamente affascinante, costituisce uno spunto per innumerevoli riflessioni, perché, a parere di chi scrive, sarebbe riduttivo ridurre il suo ruolo a mero interprete del diritto nella sua fase patologica, come alcune correnti più conservatrici della magistratura negli anni ’60 ritenevano. È stato uno spunto affrontare la magistratura attraverso le riforme che la riguardano e le peculiari vicende giudiziarie che hanno caratterizzato la storia italiana, che sottolineano la importanza del giudice nel nostro ordinamento, seppur non faccia parte dei sistemi di Common law. In conclusione, il ruolo attivo del giudice è un risultato auspicabile quanto necessario, risulta ancor più oggi impensabile la tesi di chi, soprattutto all’inizio dell’esperienza repubblicana, parlava di un giudice-sacerdote, mero interprete della legge. 

Appare opportuno richiamare i concetti espressi al XXII congresso di Magistratura democratica da Domenico Gallo, il quale ha affermato: «La tutela, la conservazione e la restaurazione della legalità è la ragion d’essere dell’esercizio della funzione giudiziaria, posto che l’onere funzionale del giudice è quello di riparare i torti e restituire i diritti a coloro che ne sono stati privati. Pertanto, ruolo e funzione del giudice sono strettamente connessi al tipo di legalità che vige in un dato momento storico. Ma un fatto è certo: c’è una sola legalità, nella quale la “pietas” e l’“auctoritas” non possono essere separate.

Questa è la stella polare che deve orientare l’esercizio del potere giudiziario da parte di ogni singolo magistrato. È evidente che, se si prende sul serio la legalità costituzionale, si crea un corto circuito con gli alfieri della legalità a-valoriale, sia nel campo politico che in quello dei media, che può far scattare un meccanismo di autocensura in quei colleghi che temono di esercitare un ruolo politico.

Senonché questo ruolo politico non è nient’altro che il ruolo del giudice, che per sua natura è strumento di garanzia della legalità costituzionale. Se un ordinamento politico tende ad effettuare una svolta autoritaria, l’unica vera opposizione è l’esercizio indipendente della giurisdizione».

Tuttavia, è un filo sottile quello che separa questo risvolto del ruolo del giudice da una sua deprecabile politicizzazione, nel senso negativo del termine e in contrasto con i principi costituzionali. Questo excursus sulla figura del magistrato latu sensu intesa, soprattutto dal punto di vista dei suoi legami con la politica e con l’esecutivo, fanno riflettere come la sua immagine a volte si sia “sporcata”, a discapito della sua reputazione e credibilità. Per alcuni versi è divenuta quasi una figura “pop”, si pensi al giudice Di Pietro durante gli anni di Tangentopoli: si registrò un incremento delle iscrizioni alla facoltà di scienze giuridiche grazie alla popolarità e alla stima raggiunta in quegli anni dai magistrati del pool “Mani Pulite”.

Allo stesso tempo, però, gli scandali che hanno coinvolto la magistratura e la sua eccessiva influenzabilità da parte della politica, dell’opinione pubblica, così come all’interno della magistratura stessa, fanno auspicare per una riforma dell’ordine giudiziario, in primo luogo all’interno del CSM. Il CSM ha creato una turris eburnea volta a difendere il magistrato, in un eccesso di garanzie che si spiegano come reazione alla sudditanza post-unitaria all’esecutivo e al fascismo, ma che oggi determina un effetto negativo in senso contrario, rende i magistrati “impuniti”. Del resto, tra i magistrati ci può anche essere corruzione, come le intercettazioni del caso Palamara hanno messo in luce.


Note e riferimenti bibliografici

[1] O. Abbamonte, Il potere dei conflitti, seconda edizione, G. Giappichelli Editore, p.269.

[2] Estratto del discorso del giudice Livatino durante la conferenza tenuta presso il Rotary Club di Canicattì, 7 aprile 1984.

[3] Rivista di diritto pubblico italiano, comparato, europeo, numero 17, 12 ottobre 2018.

[4] www.diritto.it

[5] www.proversi.it

[6] www.processopenaleegiustizia.it

[7] www.famigliacristiana.it

[8] www.wikipedia.it

[9] Dati Csm, fonte Giustizia Insieme

[10] www.magistraturademocratica.it

[11] www.questionegiustizia.it