La disattivazione dell´account del consumatore nella prospettiva della tutela civile dei diritti
Modifica paginaI professionisti del settore del commercio elettronico hanno iniziato a disattivare gli account di quegli utenti che abbiano manifestato comportamenti scorretti, o comunque, che siano stati fonte di danno, in precedenti rapporti negoziali. La presente indagine si propone di analizzare lo strumento della disabilitazione dell’account in rapporto al sistema dei rimedi contrattuali, mostrandone i limiti sia rispetto alla necessità di garantire i diritti che la disciplina normativa riconosce al consumatore, sia rispetto alle istanze di autonomia privata del professionista nella scelta del soggetto con cui contrattare.
Sommario: 1. La disattivazione dell'account come reazione del professionista all’esercizio del diritto di recesso del consumatore; 2. Non riconducibilità del recesso del consumatore a ipotesi di insolvenza; 3. L’interesse economico del professionista come bene tutelato dalla disattivazione dell'account; 4. Estraneità della disattivazione dell'account dal sistema dei rimedi contrattuali; 5.I profili di criticità legati all’utilizzo di tale strumento; 6.Conclusioni.
1. La disattivazione dell'account come reazione del professionista all’esercizio del diritto di recesso del consumatore
Alcuni importanti professionisti del settore del commercio elettronico[1] hanno iniziato a disabilitare l’account di quei clienti che abbiano effettuato un numero elevato di ordini restituiti, in tal modo impedendo loro di accedere al sito internet e di procedere con ulteriori acquisti. Questa forma di reazione si è sviluppata solo di recente, soprattutto in ambito statunitense, ma costituisce oggetto d’interesse anche rispetto alla dimensione del consumatore del mercato europeo, dove si iniziano a contare, con sempre più frequenza, episodi di blocco definitivo del profilo utente dei clienti.
La disattivazione dell’account si traduce in concreto nel rifiuto del professionista di contrarre nuovamente con un medesimo consumatore, trattandosi di un tema che si presta ad un’analisi che può essere sottoposta a diverse chiavi di lettura. Al suo interno si intrecciano, infatti, due prospettive di indagine: da un lato, quella della disciplina consumeristica e della dialettica tra contraente debole e controparte forte[2]; dall’altro lato, emerge il tema della tutela civile dei diritti, al fine di capire che ruolo e che collocazione assegnare a tale tipo di strumento.
Dal primo punto di vista, sappiamo che la disciplina di tutela del consumatore - in particolare l’art. 64 ss. cod. cons.- consente a quest’ultimo di esercitare un diritto di recesso ad nutum, che non richiede alcun tipo di giustificazione, essendo sufficiente che sia promosso entro i termini di decadenza prefissati. Tuttavia, il carattere libero del recesso ha dato vita a due possibili interpretazioni: secondo alcuni autori la mancanza di un controllo causale riguardo all’esercizio del potere di recesso[3] impedisce di affermare la possibilità di un abuso[4] in senso rigoroso, ma non vieta comunque di operare un controllo attraverso i canoni della buona fede oggettiva[5]; per altri autori, invece, proprio l’esercizio del diritto di recesso ricorre spesso come esempio di abusivo esercizio di un diritto[6].
Il tema della presente indagine non è però quello di approfondire se l’esercizio del diritto di recesso possa o meno configurare un abuso[7] da parte del consumatore, ma è invece quello di capire se, in ogni caso, a fronte del recesso del consumatore[8], e finanche a fronte dell’abuso[9], il professionista possa opporvisi legittimamente attraverso la disattivazione dell'account. Resta infatti da capire attraverso quale strumento si possa esprimere la reazione del professionista, in modo tale da non introdurre limiti al libero esercizio del recesso del consumatore. Da qui l’interesse per la seconda direzione d’indagine, che si propone l’obiettivo di chiarire se la disabilitazione del profilo utente del cliente possa essere considerato come uno strumento di tutela supplementare ed ulteriore rispetto ai rimedi contrattuali.
In tale contesto gli interessi in gioco sono ancora più delicati, se si pensa che, per il consumatore, non poter contrattare con un determinato professionista significa privarsi dell’accesso ad una rilevante fetta di mercato, considerando che il settore dell’e-commerce è oggi in mano a pochi grandi operatori[10]. Sullo sfondo emerge inoltre un’ulteriore problematica, relativa alla possibilità per il professionista di esprimere una propria scelta di autonomia privata, ossia di decidere il soggetto con cui contrattare, all’interno di un contesto di libero mercato. Descritti in questi termini i profili problematici che incontreremo nella presente trattazione, procediamo con ordine ad affrontare una prima questione preliminare.
2. Non riconducibilità del recesso del consumatore a ipotesi di insolvenza
La disattivazione dell’account di quel cliente che abbia manifestato comportamenti scorretti in precedenti rapporti contrattuali con il medesimo professionista potrebbe sembrare un’ipotesi assimilabile ad altre situazioni di rifiuto di contrarre, ma rivela, invece, una propria unicità. Non entrano in rilievo, infatti, i motivi che ricorrono nei casi di rifiuto di contrarre avanzati sulla base di specifiche qualità riferibili alla persona, quali la razza, l’etnia, la religione, le tendenze sessuali, l’età, la disabilità[11]. Né, come è evidente, sarebbe possibile riscontrare analogie con le figure[12] degli abusi di posizione dominante e di dipendenza economica[13], collocandosi entrambe nell’ambito della disciplina a tutela della concorrenza.
L’ipotesi che più si avvicina alla fattispecie in esame riguarda, invece, quelle situazioni in cui il rifiuto di contrarre è mosso in ragione della scarsa solvibilità del contraente, in particolare quando le caratteristiche personali del soggetto potrebbero fornirne un indice rivelatore[14]. A ben guardare, però, anche tale situazione non presenta tratti comuni alla fattispecie di cui si discute, per diversi ordini di ragioni.
Il primo luogo, nel caso in esame, non rilevano le caratteristiche personali del consumatore, ma solo il suo comportamento. L’ambito di applicazione della fattispecie è circoscritto alle sole ipotesi in cui l’unica ragione, che spinge il professionista a scegliere di non contrarre nuovamente con un determinato cliente, risiede nella condotta manifestata dal consumatore in precedenti rapporti contrattuali con il medesimo professionista. Il criterio assunto a discrimine poggia quindi su un elemento obiettivo, concreto e puntuale, trattandosi infatti di promuovere una speculazione circa il possibile comportamento di quel determinato contraente, sulla base di circostanze già verificate e che potrebbero ripetersi in futuro, secondo uno schema di analisi probabilistica.
Il secondo tema da analizzare riguarda la solvibilità del debitore, in particolare se il comportamento scorretto o abusivo possa fornire un indicatore per valutare la capacità del debitore di adempiere l’obbligazione. Ci si chiede, in altre parole, se l’esercizio del recesso possa costituire una misura per esprimere un giudizio sulla solvibilità del consumatore. Ad un simile interrogativo si risponde negativamente, riaffermando la separazione tra il comportamento tenuto durante la contrattazione (o anche in fase di esecuzione del contratto) e la capacità del debitore stesso di adempiere l’obbligazione assunta, in ragione della mancanza di una corrispondenza necessitata tra la condotta di un contraente e la sua solvibilità.
È opportuno, a tal proposito, distinguere tra quei comportamenti che, in quanto influiscono in modo diretto sulla responsabilità patrimoniale del debitore o sulle garanzie, hanno rilievo per determinare la capacità del debitore di adempiere, come potrebbero essere gli atti di diminuzione del proprio patrimonio oppure la rinuncia alle garanzie prestate dai terzi; da quei comportamenti che, invece, non sono idonei ad incidere, nemmeno indirettamente, sulla responsabilità patrimoniale del debitore, come, appunto, l’esercizio del diritto di recesso di pentimento.
In quest’ultimo caso, infatti, il consumatore si è limitato ad esercitare una facoltà che la legge stessa predispone, non rivelando informazioni né riguardo alla capacità di far fronte agli impegni presi, né riguardo allo stato di salute della sua situazione patrimoniale, ma esprimendo soltanto la volontà di sciogliersi da un contratto, rispetto al quale potrebbe aver perso interesse, o semplicemente cambiato idea.
Possiamo, quindi, concludere che gli atti di esercizio di diritti posti a tutela del consumatore, come appunto può qualificarsi il diritto di recesso, non costituiscono un elemento per operare un giudizio sulla solvibilità del consumatore che di quei diritti si avvale, consentendoci di negare interferenze tra la fattispecie in esame e le ipotesi di rifiuto di contrarre basate sulla valutazione di scarsa solvibilità del debitore.
3. L’interesse economico del professionista come bene tutelato dalla disattivazione dell’account
La disattivazione dell’account del consumatore si compone di elementi peculiari, che contribuiscono a formare l’unicità della figura.
Possiamo osservare, in primo luogo, che essa non offre una tutela rispetto all’eventuale abuso che il consumatore abbia esercitato nei precedenti rapporti con il professionista, dal momento che tale strumento non è in grado né di eliminare quanto si è già verificato, né di fornire al professionista un qualche ristoro: al contrario, i pregressi rapporti intercorsi tra le parti restano del tutto inalterati, ragion per cui si deve escludere che la disattivazione dell’account abbia ad oggetto la protezione dell’interesse al corretto svolgimento del rapporto e neppure quello di riparare i danni subiti a causa della condotta della controparte.
Possiamo anzi notare che lo strumento in esame si rivolge al futuro, ma anche in questo caso bisogna più correttamente precisare che l’interesse tutelato non può essere costituito dalla posizione contrattuale del professionista nei futuri rapporti con il consumatore, dato che si tratta di contratti solo eventuali, rispetto ai quali si avrebbe la predisposizione di un rimedio senza, però, un bene attuale da tutelare.
Se consideriamo allora che l’elemento predominante in questo contesto è senza dubbio l’incertezza, intesa non solo nei termini - appena visti - dell’an, ossia della possibilità o meno che il rapporto si instauri, ma anche come eventualità rispetto alla condotta pregiudizievole del consumatore, diventa allora più evidente che la disattivazione dell’account costituisce a tutti gli effetti un rimedio solo rispetto all’interesse economico del professionista di evitare ulteriori e futuri recessi del consumatore, mediante l’eliminazione in radice della possibilità di contrattare nuovamente con quel determinato cliente.
La reazione del professionista risulta infatti diretta ad evitare il danno economico che egli subisce in conseguenza dell’elevato numero di recessi effettuati dal consumatore: da questo punto di vista, non si può negare che l’esercizio stesso del diritto di recesso, in sé considerato, si traduca spesso in un costo che, nella maggior parte dei casi, ricade esclusivamente sul professionista, anche solo in termini di cosiddetto cooling off period, ossia di tempo che il professionista deve attendere prima di sapere se l’acquisto del consumatore diventerà definitivo oppure no.
Se questo è il motivo che spinge il professionista a disattivare l’account del cliente, sorgono però dubbi sull’effettiva meritevolezza di tale rimedio. Abbiamo visto che l’incognita principale è rappresentata dal comportamento del consumatore, che potrebbe ripetere la condotta abusiva già tenuta in passato, oppure no: si tratta, a ben vedere, di un rischio che è ineliminabile in qualsiasi tipo di rapporto, non solo per quelli futuri e incerti, come nel caso di specie, ma anche per quelli certi e già instaurati.
Ci si chiede, quindi, se possa costituire oggetto di tutela l’interesse ad evitare il rischio che si realizzi un danno, in conseguenza del comportamento della controparte. Se infatti è chiaro che ci si possa tutelare rispetto ad atti di abuso che si sono già realizzati, non sembra invece possibile tutelarsi dal mero pericolo rappresentato dal rischio di abuso. A tal proposito, infatti, si può osservare, da un lato, che l’ordinamento contempla già rimedi per l’abuso che si sia manifestato nel corso di un rapporto; dall’altro lato, che esistono strumenti, diversi da quelli di natura rimediale, per tutelarsi rispetto al rischio del verificarsi di un evento negativo[15].
4. Estraneità della disattivazione dell’account dal sistema dei rimedi contrattuali
Le considerazioni svolte in merito all’interesse protetto si ripercuotono anche sulle riflessioni circa il significato da attribuire al comportamento del professionista che decida di non voler contrattare nuovamente con un determinato consumatore. La conclusione che se ne trae è quella di negare l’appartenenza della disattivazione dell’account dal novero delle forme di tutela predisposte per il cattivo esito[16] in cui è sfociato il precedente contratto. Questa affermazione trova conferma non solo, e non tanto, perché il nostro panorama normativo non contempla un simile strumento tra i rimedi a disposizione del contraente che voglia liberarsi della controparte infedele[17]: per superare questo ostacolo, infatti, basterebbe obiettare che le forme di tutela note non possono sicuramente ritenersi esaustive di tutti i bisogni di tutela che le diverse situazioni manifestano[18].
Ad impedire l’equiparazione ai rimedi civili, si pone, invece, l’estraneità di tale strumento alla logica stessa che governa i mezzi di tutela previsti dall’ordinamento nell’ipotesi di violazione di diritti.
In primo luogo, alla luce di quanto abbiamo appena visto nel paragrafo precedente, possiamo affermare che la disattivazione dell’account mira a proteggere un interesse diverso da quello violato: abbiamo visto infatti che con tale strumento il professionista intende proteggersi da un possibile danno economico, mentre l’interesse leso riguarda il corretto svolgimento del rapporto contrattuale già instaurato. Si realizza, così, un primo sfasamento rispetto alla prospettiva delle forme di tutela dei diritti, in base alla quale lo strumento rimediale è direttamente finalizzato a proteggere quel medesimo interesse che risulta violato. Questa regola si ricava facilmente dalla stessa definizione di tutela intesa come difesa del diritto a fronte della sua violazione: “ove l’esercizio e/o la soddisfazione del diritto venga da altri in vario modo contrastato, sia sul piano del fatto che su quello del diritto, il titolare del diritto deve (poter) godere di mezzi (di tutela) che gli consentano di reagire alla violazione” [19].
Da qui si deduce che né è ammissibile una tutela che sia slegata dalla violazione che ha fatto sorgere l’esigenza stessa di protezione; né si può concepire un rimedio come risposta ad un interesse diverso da quello che è stato violato. La disattivazione dell’account, invece, si pone come rimedio rispetto ad un interesse nuovo e diverso da quello che è stato leso, non essendo in grado di fornire alcuna tutela all’interesse che è stato violato dalla condotta del consumatore.
Inoltre, la lontananza dal sistema dei rimedi aumenta, se si considera un ulteriore elemento, consistente nella mancanza di un nesso tra la vicenda che ha dato luogo alla reazione del professionista, da un lato, e il rapporto contrattuale che si mira a tutelare, dall’altro. Si può notare che non esiste alcun collegamento tra il precedente contratto – rispetto al quale il consumatore ha esercitato il recesso– e il nuovo contratto che il professionista si rifiuta di concludere disabilitando l’account del cliente: abbiamo visto che questo secondo rapporto si caratterizza per essere soltanto eventuale e possibile, ma, anche qualora fosse certo, si tratterebbe di un nuovo e diverso contratto, che non ha nulla in comune con quello precedente[20], eccetto l’identità dei contraenti originari. Si spiega allora, anche in base a questa seconda osservazione, perché non è possibile considerare la disattivazione dell’account come una forma di tutela dei diritti: lo strumento rimediale può dirsi tale, infatti, solo se opera in relazione a quel contratto rispetto al quale è nata l’esigenza stessa di protezione, non invece se si esplica su un diverso rapporto.
Queste considerazioni ci permettono quindi di affermare con sicurezza l’estraneità di tale strumento rispetto alla dimensione dei rimedi contrattuali, dovendosi ora prevenire una possibile obiezione, dovuta al fatto che la disattivazione dell’account costituisce certamente una reazione del professionista che sorge non in conseguenza di un caso isolato, ma di una molteplicità di episodi di recesso che si sono verificati in passato: ciò significa che la dimensione da prendere come riferimento non è circoscritta al contratto precedente, ma necessariamente integrata in una dimensione più ampia, comprensiva di una pluralità di rapporti intercorsi in passato tra le medesime parti. Se questo è indubbiamente vero, non sarebbe però altrettanto corretto spingersi a considerare in modo unitario dei differenti contratti, accomunati solo dal fatto di essere posti in essere dalle medesime parti, al fine di individuare come minimo comune denominatore il comportamento scorretto del consumatore.
Da un punto di vista contrattuale, infatti, ogni rapporto è distinto e costituisce un sistema autonomo nel quale viene regolata ogni vicenda che si possa verificare al suo interno, ragion per cui un eventuale abuso che si sia manifestato in occasione di un determinato contratto, ben può essere efficacemente paralizzato attraverso diverse tecniche di controllo degli atti di esercizio abusivo dei diritti[21].
La legge infatti predispone dei rimedi[22] per far fronte ai diversi esiti che si possono presentare nel corso del rapporto contrattuale: se questi strumenti non vengono usati, non si può recuperare un danno, che deriva dal contratto, e farlo valere in una sede diversa dal contratto in questione. Per questo motivo, se il professionista non si avvale dei rimedi contrattuali che ha a disposizione, esercita una sua libera scelta, ma la vicenda, per il diritto, può ritenersi conclusa.
5. I profili di criticità legati all’utilizzo di tale strumento
Abbiamo visto che attraverso la disattivazione dell’account il professionista non prende in considerazione l’esito del singolo contratto o di quelli già intercorsi con il medesimo cliente, ma solo il danno economico costituito globalmente dalla possibile ripetizione della condotta pregiudizievole del consumatore. Ragionare in termini di danno economico, però, si rivela pericoloso, perché vuol dire uscire dalla logica negoziale tout court, e aprire la strada a qualsivoglia reazione del professionista.
A questo punto si può osservare che dalla disattivazione dell’account emerge un dato significato, che consiste nella scelta di collocare al di fuori del contratto la possibile soluzione ad un problema, che trova nel contratto il suo stesso oggetto e campo d’azione. In via generale, infatti, a fronte di comportamenti abusivi, sono spesso state proposte ipotesi di intervento che mantenessero la relazione tra consumatore e professionista incentrata sulla sorte di quel contratto rispetto al quale uno dei due contraenti avesse manifestato comportamenti scorretti. Così, nel caso di abusi promossi dal professionista[23], il ventaglio delle soluzioni praticabili ha sempre comportato la dichiarazione di nullità[24], con caducazione della clausola abusiva, e il mantenimento del residuo regolamento contrattuale[25].
Parimenti, nel caso in cui il comportamento abusivo provenisse dal consumatore, la scelta è caduta sempre su soluzioni che mantenessero nel contratto il proprio baricentro: ne sono un esempio il ricorso al risarcimento del danno a fronte dell’esercizio abusivo di un diritto, oppure ancora il riconoscimento del diritto ad un indennizzo per l’utilità[26] che il consumatore avesse tratto dal bene nel periodo antecedente al recesso. In tutti questi casi la soluzione si è sempre cercata all’interno di una dimensione contrattuale, come se fosse naturale che ogni distorsione nascente dal contratto trovasse nei rimedi offerti dalla logica contrattuale l’unica risposta possibile.
Diversamente, la scelta operata dal professionista di non riconoscere più un determinato consumatore come suo futuro partner contrattuale, attraverso la disattivazione del suo account, si colloca in una posizione di rottura rispetto alle soluzioni sopra tratteggiate, rivelando una decisione di politica commerciale che preferisce spostare al di fuori della prospettiva dei rimedi contrattuali la risposta ai comportamenti adottati dal consumatore.
Emerge, in tal modo, la scelta di porsi in una dimensione diversa da quella negoziale e lontana dai rimedi che il contratto offre, rivelando una pericolosità intrinseca, difficilmente eliminabile. Il rischio maggiore è, infatti, quello di trascinare al di fuori del contratto una situazione che dovrebbe non solo rimanere legata al contratto da cui è sorta, ma in questo trovare rimedio. Se ciò non avviene, si attribuisce ad uno dei contraenti un potere di fatto incontrollato, consentendogli di riprendere le conseguenze -per lui negative- di un contratto, e di riproporle, al fine di sanzionarle, in circostanze lontane dalla fattispecie da cui derivano.
Semplice corollario di quanto appena detto è il rischio che il consumatore resti in balìa della controparte a tempo indefinito, potendo il professionista disattivare l’account del consumatore anche a distanza di mesi o anni dall’ultimo episodio di recesso. Non solo: se a stabilire le regole è il professionista, quest’ultimo potrebbe decidere di bloccare l’account a tempo indefinito, in modo del tutto sproporzionato rispetto alla fattispecie da cui deriva.
Un ulteriore profilo di criticità riguarda il fatto che è lo stesso professionista a decidere quali comportamenti del consumatore legittimino la disattivazione: se anche si imponesse al professionista di indicare nelle Condizioni generali di vendita presenti sul proprio sito commerciale i comportamenti da evitare, si tratterebbe in ogni caso di una misura imposta unilateralmente dal professionista, che decide quando e come applicarla, lasciando il consumatore completamente in balìa della controparte.
In base alla ricostruzione qui presentata è possibile infine sciogliere un ultimo dubbio, relativo al fatto che la disattivazione dell’account possa trovare legittimazione alla luce del principio dell’autonomia privata, in base al quale ciascun contraente è libero di decidere la propria controparte, a maggior ragione in un settore, come quello delle vendite di beni di consumo, dove non ci sono obblighi legali di contrarre.
Ad una simile obiezione si risponde innanzitutto negando che la disattivazione dell’account del consumatore, così come risulta ad oggi configurata, sia effettivamente espressione dell’autonomia del professionista di scegliere con chi negoziare, ma rappresenti in realtà uno strumento finalizzato a realizzare un diverso obiettivo, con tutte le criticità che abbiamo sopra evidenziato.
Non solo infatti la disattivazione dell’account nasce direttamente come reazione al comportamento tenuto dal consumatore in precedenti contratti, ma soprattutto, come abbiamo visto, sarebbero più adatti altri strumenti di natura rimediale, che consentano di tutelare adeguatamente anche la controparte.
A questo proposito, è importante soffermarsi sul modo di esplicarsi del rifiuto del professionista, che, eliminando l’account utente del consumatore, rende in questo modo definitiva la sua decisione di non contrattare. Proprio il carattere permanente del rifiuto tradisce un intento punitivo, allontanando questo strumento dal campo della libertà negoziale[27], per avvicinarlo a quello della pena privata[28], che lo stesso professionista applica, qualora non vengano rispettate determinate regole, da lui stesso predisposte. La disattivazione dell’account non è infatti altro che una sanzione[29] di cui si avvale il professionista per tutelarsi preventivamente contro il possibile ripetersi di comportamenti scorretti da parte del consumatore.
Questo punto risulta particolarmente evidente se si opera un confronto tra le vendite online e quelle tradizionali nei locali commerciali: si può infatti osservare che nelle vendite concluse di persona la scelta del professionista di decidere con chi contrattare opera diversamente, dovendosi esprimere volta per volta, in occasione di ogni singola vendita, e non è mai pronunciata in via definitiva contro un determinato consumatore. Ciò fa sì che l’esercizio dell’autonomia privata[30] non si trasformi mai in una misura rivolta contro un particolare cliente , ma è diretta – piuttosto – a preservare un contraente dal rischio di un cattivo affare, consentendogli di rifiutarsi di contrattare a causa delle ragioni oggettive del contratto, non delle pregiudiziali verso un determinato soggetto. Questo è il motivo per cui, in tale contesto, il professionista potrà certamente rifiutarsi di negoziare un determinato contratto con un consumatore, ma sarà altrettanto libero di concludere altri affari con il medesimo cliente, qualora lo ritenga conveniente: in altre parole, non è mai esclusa in modo permanente la possibilità di ritornare in trattative con un determinato soggetto.
Tutto ciò non avviene nel caso di vendite online, nelle quali il mezzo tecnico utilizzato non consente, ad oggi, un’equiparazione tra commercio fisico ed elettronico nel modo in cui si esplica l’autonomia privata del professionista. In un certo senso, si potrebbe persino osservare –provocatoriamente– che il commercio online, nel momento stesso in cui amplia a dismisura la platea dei consumatori raggiungibili, si trova al contempo a limitare la possibilità del professionista di scegliere con chi contrattare, e ciò si giustifica alla luce di un sistema di contrattazioni che è fortemente standardizzato e nel quale non assume importanza l’identità del singolo compratore, dato che chiunque voglia acquistare un determinato prodotto dovrà farlo alle medesime condizioni – di prezzo, costi e modalità– degli altri.
Per questi motivi, residua infine il dubbio che anche l’ipotesi di introdurre una disattivazione a carattere temporaneo, che non elimini a tempo indefinito l’account del cliente, non sarebbe probabilmente una soluzione soddisfacente: se, da un lato, sarebbe ristabilita la libertà negoziale del professionista, dall’altro lato, però, questo strumento difficilmente sembrerebbe adeguato a far fronte a tutte le problematiche qui evidenziate.
6. Conclusione
Prendendo in considerazione la prospettiva di diritto del consumatore, abbiamo osservato che, se il solo fine cui è predisposta la disattivazione dell’account è quello di neutralizzare il rischio che un determinato danno economico si ripeta, potrebbero essere intraprese strade diverse, che non vadano a decurtare l’esercizio dei diritti riconosciuti al consumatore. La preoccupazione maggiore riguarda il rischio che la disattivazione del profilo utente possa fungere in realtà da deterrente non solo per i comportamenti scorretti, ma anche al di fuori degli episodi di abuso, risultando, di fatto, un disincentivo ad avvalersi del diritto di recesso, dal momento che anche comportamenti del tutto leciti, se ripetuti, potrebbero oltrepassare la soglia di tolleranza stabilita dal professionista.
Da queste considerazioni emerge la necessità di evitare il pericolo che sia il professionista stesso a pervenire a soluzioni contingenti che finiscano, però, per diventare lesive dei diritti della controparte. La sfida che si pone sarà allora quella di trovare un punto di equilibrio tra le nuove esigenze di (auto)tutela del professionista e la salvaguardia dei diritti del consumatore[31], che resta in ogni caso la parte debole del rapporto[32].
Nell’ottica della tutela dei diritti, invece, possiamo affermare con certezza che la disattivazione dell'account del consumatore non trova cittadinanza nel sistema dei rimedi contrattuali, rivelandosi uno strumento che non offre tutela alla situazione giuridica che è stata violata e che si indirizza verso un nuovo rapporto, al fine di proteggere interessi diversi da quelli lesi in origine. La distanza tra tale misura e il sistema dei rimedi civili dipende in ultima istanza dalla mancanza di un collegamento tra lo strumento prescelto e l’interesse violato[33], tale da giustificare la stessa predisposizione del rimedio.
Questo non significa tuttavia che il professionista resti senza tutela, a fronte della condotta abusiva della controparte: al contrario, l’ordinamento predispone già degli strumenti di tutela che sono in grado o di paralizzare l’abuso privando di efficacia i relativi atti di esercizio, oppure di compensare il professionista dell’utilità che ha perduto, attraverso il rimedio risarcitorio. Nell’uno e nell’altro caso, però, non è dato al professionista di servirsi di nuovi strumenti, quali la disattivazione dell’account, che si rivelano incapaci di tutelare la situazione lesa e di rimediare alla violazione, e che hanno come unica finalità quella di punire la controparte.
[1] Il caso che ha offerto lo spunto per questa analisi riguarda la piattaforma commerciale Amazon, che dall’inizio del 2018 ha attivato una politica di restrizione del numero di resi, bloccando in via definitiva l’account degli utenti che ne avessero effettuato un quantitativo ritenuto troppo elevato.
[2] Nel proseguo si cercherà di evidenziare che l’abuso compiuto dal consumatore ai danni del professionista spesso non è in grado di rovesciare i rapporti di forza tra le parti, come ci dimostra la stessa decisione unilaterale del professionista di impedire al consumatore nuove contrattazioni, decisione che il consumatore subisce senza avere alcuna possibilità di opporvisi con successo. Per questo motivo, si condividono fin d’ora le riflessioni di N. RZEPECKI, Droit de la consommation et théorie générale du contrat, Aix-Marseille, 2002, 123, par. 134 “Si le consommateur prend la décision de s'engager, le principe de la liberté contractuelle l'entraîne dans une opération dont on peut parier […]qu'elle sera à l'avantage du professionnel. Du statut de victime grugée, le consommateur passe à celui de victime consentante, sans que le droit ne s'en émeuve”.
[3] Cfr. G. D’AMICO, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, in I Contratti, 2010, 1, 18 dove afferma che “l’esercizio di un diritto di recesso ad nutum, se pur sfugga (come appena detto) ad un controllo di tipo teleologico, non si sottrae invece ad un controllo in ordine alle modalità con le quali il recesso risulti (nelle circostanze date) esercitato. Non si sottrae, insomma, ad un controllo in base al canone della buona fede, che costituisce fondamentale criterio di valutazione del comportamento delle parti nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.).”
[4] Si rivela scettico sulla possibilità di applicare la dottrina dell’abuso del diritto all’esercizio del diritto di recesso M. LOOS, Right of withdrawal, in G. HOWELLS, R. SCHULZE, Modernising and Harmonising Consumer Contract Law, Munchen, 2009, 259, dove afferma:"[…] one could argue that in the case of rights of withdrawal, which can be invoked by the consumer at will, the European legislator has taken the possibility of abuse of right for granted. In this view, there would not be any room for the application of such a doctrine".
[5] Sul contenuto del giudizio operato in base al canone della buona fede si veda G. D’AMICO, op. cit., 22 ss.
[6] Sui rapporti tra recesso e abuso si richiamano i contributi di R. SCHULZE, The right of withdrawal, in H. SCHULZE-NOLKE, L. TICHY, Perspectives for European Consumer Law-Towards a Directive on Consumer Rights and Beyond, Munich, 2010, 13 ss; e di R. STEENNOT, The right of withdrawal under the Consumer Rights Directive as a tool to protect consumers concluding a distance contract, in Computer Law & Security Rev., 2013, 105 ss.
[7] P. STOFFEL-MUNCK, L’abus dans le contrat, essai d’une théorie, Paris, 2000, 23 ss.
[8] Si può osservare ulteriormente che il carattere libero del recesso rende l’onere della prova gravante sul professionista particolarmente gravoso, perché dovrà dimostrare o che il recesso è stato esercitato per provocare un danno, oppure che l’acquisto è stato concluso al solo fine di recedere successivamente.
[9] Sul tema dell’abuso del diritto, si rinvia, tra gli altri, a M. ROTONDI, L’abuso del diritto, Riv. Dir. Civ., 1923, 105 ss.; M. D’AMELIO, voce Abuso del diritto, in Nuovo dig. it., Torino, 1937, 50 ss.; P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. Dir. Civ, 1965, I, 282; A. GAMBARO, voce Abuso del diritto (diritto comparato e straniero), in Enciclopedia giur. Treccani, I, Roma, 1988, 1 ss.; L. BALESTRA, Rilevanza, utilità (e abuso) dell’abuso del diritto, in Riv. Dir. Civ., 2017, 3, 341 ss.;
[10] Anche nell’ottica del professionista, il rifiuto di contrarre potrebbe rivelarsi una scelta non ottimale, se si pensa che una simile politica commerciale gli si potrebbe ritorcere contro, inducendo gli altri consumatori a preferire operatori che non applicano questo tipo di sanzioni.
[11] I fattori di discriminazione contrattuale sopra esposti sono tratti da B. CHECCHINI, Discriminazione contrattuale e tutela della persona, Torino, 2016, 3. Sul tema si richiamano anche P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1983, 93 ss.; A. GENTILI, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2009, 207 ss.; L. SITZIA, Pari dignità e discriminazione, Napoli, 2011, 55 ss.; G. CARAPEZZA FIGLIA, Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale, Napoli 2013, 55 ss.; E. NAVARRETTA, Principio di uguaglianza, principio di non discriminazione e contratto, in Riv. Dir. Civ., 2014, 549 ss.
[12] Sulle diverse declinazioni assunte dall’abuso di dipendenza economica, si rinvia a R. PARDOLESI, Nuovi abusi contrattuali: tipici e atipici, in Danno e Resp., 2017, 2, 137 ss.
[13] Sul punto si richiama F. MACARIO, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti fra imprese: verso una nuova clausola generale?, in Riv. Dir. Civ., 2005, I, 663 ss; G. SCHIAVONE, Abuso di dipendenza economica, in Obbl. e contr., 2019, 1, 77 ss.
[14] Si veda D. MAFFEIS, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, Milano, 2007, 3, con riferimento alla presumibile insolvibilità del contraente.
[15] Si potrebbe pensare, ad esempio, al ricorso ad un’assicurazione che possa tenere indenne il professionista, neutralizzando il rischio derivante dai futuri contratti.
[16] Il termine è volutamente generico, se si pensa all’ampiezza di situazioni che si possono verificare: dall’inadempimento del consumatore, allo scioglimento anticipato del rapporto tramite il recesso di pentimento, e finanche all’annullamento del contratto.
[17] Come noto, l’attuazione delle forme di tutela si affida a diversi strumenti, riconducibili a tre direzioni principali: una restitutoria-ripristinatoria, che “ha riguardo all’esigenza di ricostituire- restaurare le condizioni in cui, prima della violazione, si trovava il titolare del diritto”; una risarcitoria, “la quale è diretta a compensare il soggetto del bene e/o utilità che esso ha perduto”; e infine una tutela satisfattiva “diretta a garantire la piena ed integrale soddisfazione di diritti o pretese (insoddisfatti), attraverso misure che […] possono essere di vario tipo e appartenenti a generi diversi e comunque sempre finalizzate a tale soddisfazione.” Per un maggior approfondimento si rinvia a A. DI MAJO, op. cit., 50-51, cui sono tratte le citazioni alla presente nota.
[18] A. DI MAJO, op. cit., 49.
[19] A. DI MAJO, op. cit., 4.
[20] Il futuro contratto si affianca a quelli precedentemente pattuiti tra le medesime parti, mantenendo la propria identità, anche nel caso in cui avesse ad oggetto una prestazione identica, per oggetto o contenuto, a quelle pregresse.
[21] Con riferimento alle diverse tecniche di controllo degli atti di esercizio abusivo dei diritti si rinvia a G. D’AMICO, op. cit., 11 e 17, dove riconosce che deviazione dell’esercizio del diritto rispetto allo “scopo” per il quale il diritto stesso è stato attribuito (corsivo nel testo). Sul profilo dei danni cui è tenuto il contraente che ha esercitato l’abuso, si richiama A. KARIMI, Les clauses abusives et la théorie de l’abus de droit, Paris, 2001, 309, par. 730 ss.
[22] Si richiama, con particolare riguardo ai rimedi operanti nei rapporti tra professionista e consumatore, F. ZOLL, The remedies for Non-Performance in the Proposed Consumer Right Directive and the Europeanisation of Private Law, in G. HOWELLS, R. SCHULZE, Modernising and Harmonising Consumer Contract Law, Munchen, 2009, 279 ss. Si veda anche S. ROWAN, Remedies for breach of contract : a comparative analysis of the protection of performance,Oxford, 2021, 23 ss.
[23] Sul punto si rinvia a P. SIRENA, L’integrazione del diritto dei consumatori nella disciplina generale del contratto, in Riv. Dir. Civ., 2004, I, 787 ss.; G. DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratica commerciale sleale e i parametri di valutazione della slealtà, in Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori. La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di G. DE CRISTOFARO, Torino, 2007, 118 ss.; C. CAMARDI, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, in Obbl. e contr., 2010, 6, 408 ss.
[24] Sul rapporto tra la disciplina delle pratiche commerciali scorrette e i rimedi contrattuali si richiamano M. R. MAUGERI,Violazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, in Nuova g. civ. comm., II, 2008, 477 ss.; H. W. MICKLITZ, N. REICH, P. ROTT, Understanding EU consumer law, Cambridge, 2009, 167 ss; A. FACHECHI, Pratiche commerciali scorrette e rimedi negoziali, Napoli, 2012, 97 ss.; A. DE FRANCESCHI, I rimedi del consumatore nelle vendite di beni di consumo, in V. ROPPO, A. M. BENEDETTI, Trattato dei contratti, V, Milano, 2014, 233 ss.; A. BARENGHI, Diritto dei consumatori, Milano, 2017, 182 ss.
[25] Si può osservare che rimedi non contrattuali sono sicuramente quelli applicati in sede di tutela amministrativa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che può comminare sanzioni e prescrivere provvedimenti che non vanno ad incidere sulla sorte del singolo contratto abusivo. Per un maggior approfondimento riguardo al doppio binario di tutele si rinvia a R. CALVO, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contratto e Impr., 2007, 71.
[26] Il tema dell’ingiustificato arricchimento che può trarre il consumatore, esercitando in modo abusivo il diritto di recesso, è approfondito da S. PAGLIANTINI, La forma informativa dei c.d. scambi senza accordo: l’indennità d’uso del bene tra recesso ed abuso del consumatore, in Persona e Mercato, 2010, 2, 91 ss.
[27] Si veda P. SCHLESINGER, L'autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. It., 1999, 229 ss., in cui mette in guardia dal rischio di ricondurre l’autonomia privata ad una sovranità dei privati, contrapposta a quella assicurata dal diritto.
[28] Per un approfondimento sulle pene contrattuali si richiama F.D. BUSNELLI, G.SCALFI, Le pene private, Milano, 1985, 21 ss.; P. GALLO, Pene private e responsabilità civile, Milano, 1996, 78 ss.; F. GALGANO, Regolamenti contrattuali e pene private, in Contr. e impr., 2001, 2, 509, in cui analizza come esempio di pena privata l’esclusione di un operatore dalle negoziazioni di mercato, prevista da alcuni regolamenti di borsa, affermando che “le determinazioni sanzionatorie contenute in privati regolamenti o in codici di comportamento, attesa la natura contrattuale di tali atti, incontrano i limiti di validità che sono propri delle pattuizioni contrattuali, tanto sotto il profilo della necessaria patrimonialità delle prestazioni dei contraenti, quanto sotto l'aspetto della disponibilità dei diritti che ne formano oggetto”. Si veda altresì M.G. BARATTELLA, Le pene private, 2006, XI ss.
[29] Sull’utilizzo della sanzione come tecnica di tutela si rinvia a A. DI MAJO, op. cit., 65 ss.
[30] Si richiama G.VILLANACCI, Autonomia privata e buona fede nella complessa relazione evolutiva con la normativa consumeristica, in Contr. e Impr., 2013, 4-5, 917 ss., che suggerisce la necessità di un’interpretazione dell’autonomia privata costituzionalmente orientata alle istanze solidaristiche di cui all’art. 2 Cost. E' interessante osservare che, nel caso di rifiuto di contrarre, i valori riconosciuti dalla Carta costituzionale non fungono da parametro per il contenuto di un regolamento negoziale, ma, al contrario, operano in una situazione in cui tra privati non sorge alcun rapporto.
[31] Sul tema si rinvia a R. SCHULZE, H. SCHULTE-NOLKE, J.JONES, European Consumer Law, Hart publishing, Oxford, 2002, 3 ss.; si veda anche S. WEATHERILL, Eu Consumer Law and Policy, Cheltenham, 2005, 227 ss.
[32] Si richiama N.RZEPECKI, op. cit., 123, par. 134, dove osserva criticamente che al consumatore non resta "[…] que le choix de ne pas s'engager dans le rapport de consommation".
[33] Nel caso di rifiuto del professionista abbiamo individuato la mancata coincidenza tra l’interesse che si vuole tutelare e quello che è stato violato: tale diversità non deve essere confusa con quanto si realizza in ipotesi di sanzione, nella quale è sempre possibile distinguere l’interesse violato dall’interesse che si vuole conseguire attraverso l’illecito: sul punto si richiama A. DI MAJO, op. cit., 68 “altro connotato della forma-sanzione è la diversità dell’interesse, che attraverso la sanzione viene colpito o sacrificato, rispetto all’interesse che si è realizzato nell’illecito. Si collega tale connotato ad una esigenza intrinseca alle tecniche sanzionatorie, che è quella, si è detto, anche di prevenire le violazioni. Tale funzione di prevenzione sarebbe scarsamente realizzabile ove la misura sanzionatoria comportasse il sacrificio di interesse identico a quello che si è realizzato nella condotta illecita.”.