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Pubbl. Gio, 12 Ago 2021

Cooperazione giudiziaria penale e diritti umani: le relazioni Italia-Emirati Arabi Uniti

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Alessia Richeldi



Lo scambio degli strumenti di ratifica degli accordi conclusi tra la Repubblica italiana e gli Emirati Arabi Uniti in materia di cooperazione giudiziaria ha determinato il rafforzamento dei rapporti di collaborazione nello svolgimento delle indagini penali e nel perseguimento dei reati, mediante il ricorso allo strumento estradizionale e alla mutua assistenza giudiziaria. Una panoramica generale delle diverse garanzie e diritti della persona ai sensi del diritto internazionale, europeo e islamico in materia di estradizione introduce l´analisi giuridica del trattato considerato, evidenziando come l´intesa sia stata raggiunta, alla luce della giurisprudenza CEDU, nonché la misura in cui il quadro legislativo nazionale degli Emirati può considerarsi all´avanguardia in materia.


ENG The exchanged instruments of ratification on judicial agreements signed between Italy and the United Arab Emirates regarding judicial cooperation have enabled the two countries to strengthen criminal investigations and prosecution of crimes, extraditing convicted persons, and providing mutual legal assistance in criminal matters. A general overview of the diverse guarantees and rights of the person under International, European and Islamic law concerning extradition introduces a detailed legal examination of the cited treaty, aiming to highlight the agreement reached in the light of the ECHR jurisprudence, and the extent to which the Emirates national legislative framework could be considered as at the leading-edge of the issue allowing for strengthening of effective cooperation.

Sommario: 1.Estradizione e ordinamento internazionale, europeo ed islamico: un’introduzione; 2. Il Trattato di Estradizione tra Repubblica Italiana e Emirati Arabi Uniti; 3. La prospettiva del trattamento sanzionatorio e la pena di morte; 4. Considerazioni conclusive.

1. Estradizione e ordinamento internazionale, europeo ed islamico: un’introduzione

Il bilanciamento tra le istanze di sicurezza e le garanzie dei diritti umani costituisce, da sempre, un importante crocevia con cui la cooperazione giudiziaria si confronta. Il tema assume particolare rilievo in rapporto alla dimensione transnazionale dell’attività criminosa, in riferimento alla quale l’espressione di "giustizia transnazionale" si propone come atta a rifletterne la complessità1. Quest’ultima, se da un lato ha modificato le esigenze di solidarietà tra Paesi, alla ricerca di una maggior efficienza perseguita mediante la predisposizione di nuovi strumenti2, al contempo ha potenziato gli istituti che tradizionalmente realizzano la cooperazione giudiziaria penale, in particolare l’estradizione, il cui sempre più frequente impiego implica, per definizione, una restrizione della libertà individuale.

Nel corso del tempo è andato affermandosi il superamento di una concezione dell’estradando quale mero “oggetto di scambio” tra gli Stati, cui è seguita la consapevolezza di un rinnovato equilibrio tra il bisogno di giustizia e la protezione dei diritti fondamentali della persona, laddove i diversi regimi giuridici cui è sottoposta nelle diverse fasi del procedimento creano i presupposti per possibili violazioni degli stessi.

Nell’ordinamento internazionale la tutela dei diritti umani si compie mediante l’adozione di strumenti giuridicamente non vincolanti così come di convenzioni i cui obblighi rilevano per lo Stato che abbia proceduto a ratifica ovvero vi abbia aderito. Principi fondamentali di tutela della persona, dalla cui considerazione non si può prescindere al momento della decisione di estradizione, emergono a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 19483, la quale sancisce, inter alia, il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona (art. 3), il diritto a non essere soggetto a trattamento crudele, disumano o degradante (art. 5) e il diritto all’uguaglianza di fronte alla legge, senza alcuna discriminazione (art.7).

Con riferimento all’ambito dell’Unione europea, la rilevanza che è andata assumendo la tutela della libertà e della sicurezza della persona in rapporto all’istituto estradizionale, trova ragione d’essere entro gli stessi trattati sui diritti umani, tra i quali assume rilievo specifico l’art. 5 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo4. In generale, agli Stati firmatari di trattati o convenzioni in materia di diritti umani sono attribuiti vincoli di natura positiva, cui corrispondono obblighi specifici di astensione dalla diretta commissione di violazioni ovvero di astensione dal fornire qualsiasi contributo "causale" a possibili violazioni successive operate da altri Stati.

Tale risultato, conseguito tramite la nota la sentenza Soering5 della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha riconosciuto l’omesso controllo da parte degli Stati richiesti quale costituente una violazione della Convenzione stessa, introducendo al contempo una garanzia maggiore volta a privilegiare l’interesse più rilevante in materia estradizionale, ammettendo la possibilità di rifiuto della consegna anche in ipotesi diverse da quelle espressamente ammesse dalla Convenzione di estradizione del 1957.

L’accrescimento del peso attribuito ai diritti della persona all’interno dei procedimenti che realizzano la cooperazione giudiziaria sul piano internazionale ha influito parimenti sulla normativa pattizia e sugli ordinamenti interni, in quest’ultimo caso conformemente alle previsioni delle carte costituzionali in relazione ai diritti umani fondamentali. In ossequio a tale orientamento si pone la clausola di non discriminazione di cui all’art. 698 c.p.p. italiano, rubricato "Reati politici. Tutela dei diritti fondamentali della persona", ove all’obbligo di estradizione si assumono le eccezioni concernenti la natura politica del reato, le eventuali condizioni che si configurano come discriminatorie nei confronti dell’estradando nonché i casi in cui l’ordinamento dello Stato richiedente prevede la pena di morte.

Appaiono dunque evidenti le significative limitazioni che ostacolano la cooperazione giudiziaria nei rapporti con lo Stato degli Emirati Arabi Uniti, in virtù dell’esistenza di un ordinamento secondo il quale la pena capitale è sanzione prevista e ampiamente applicata, a latere di più generali e sistematiche violazioni dei diritti umani fondamentali come internazionalmente riconosciuti e tutelati. Le rilevazioni e le statistiche che afferiscono allo status in materia nel mondo arabo-musulmano evidenziano uno scarso indice di adeguamento dei Paesi agli standard internazionali6, ove l’inadeguatezza traduce una volizione politica da parte dei governi di esclusione della società civile dai processi decisionali, diretta ad impedire la formulazione di modelli alternativi.

Le crescenti pressioni esercitate dai Paesi occidentali nonché da organismi regionali ovvero internazionali attivi nella difesa delle libertà fondamentali e dei diritti umani, hanno innescato riforme sociali e politiche le quali, seppur timidamente, costituiscono un risultato significativo in direzione di una maggior difesa della democrazia e dello stato di diritto. Un primo risultato rilevante può leggersi nell’adozione della Carta araba dei diritti umani, adottata dalla Lega araba ed entrata in vigore il 15 marzo 2008 al raggiungimento minimo delle ratifiche necessarie, ovvero quattordici anni dopo la sua stesura7. Tale tentativo di istituzione di maggiori tutele e garanzie fondamentali della persona non è tuttavia privo di carenze sul piano della difesa dei diritti umani universalmente riconosciuti, tra cui rileva indubbiamente l’ammissibilità della pena di morte e specificamente la sua applicabilità ai minori di diciotto anni (art.7)8.

Alle debolezze de quibus, l’assenza di un meccanismo di controllo, nella non previsione dell’istituzione di una Corte, in qualità di organo incaricato di garantirne il rispetto mediante l’attribuzione di un potere sanzionatorio, cui si affianca l’impossibilità, contemplata, di ricorso individuale nelle ipotesi di eventuali violazioni, determinano l’inefficacia dello strumento limitandone la portata a mero artificio giuridico.

Si ritiene opportuno sottolineare, tuttavia, come le divergenti posizioni assunte dai Paesi di tradizione giuridica islamica rispetto alla disciplina delle garanzie e tutele individuali, riflettano un più ampio divario che origina da una concezione "comunitaria" delle libertà e dei diritti della persona, la quale ne giustifica e legittima limitazioni all’esercizio individuale poiché orientata primariamente al perseguimento del benessere della comunità nel suo complesso, a partire da considerazioni di carattere economico, di sicurezza nazionale, di ordine pubblico, nonché per ragioni culturali ovvero religiose9.

A partire dal postulato comunitario prende forma la potestà punitiva attribuita allo Stato e, in particolare, l’elevata funzione deterrente attribuita alla pena di morte, la cui dosimetria assume maggior rilievo in considerazione di quelle condotte di particolare lesività del benessere della società10, secondo quanto disposto dalle fonti della legge islamica, e la conseguente resistenza rinunciarvi.

2. Il Trattato di Estradizione tra Repubblica Italiana e Emirati Arabi Uniti

Nell’ambito di un processo di modernizzazione del settore della cooperazione giudiziaria si inserisce l’opera di rinnovamento di disposizioni pattizie condotta dallo Stato italiano, tra le quali rilevano i Trattati di estradizione ed il Trattato di assistenza giudiziaria in materia penale con gli Emirati Arabi Uniti, entrambi conclusi ad Abu Dhabi il 16 settembre 2015, e ratificati con l. 11 ottobre 2018, n. 12511. La stipula di tali accordi segna un momento significativo nel processo di sviluppo dei rapporti italo-emiratini, rivolto all’instaurazione di una più incisiva collaborazione in materia di cooperazione giudiziaria12.

Nello specifico, dunque, la ratifica dei due accordi ha contribuito ad un ulteriore e significativo sviluppo, nonché ad un rafforzamento dei rapporti tra i due Paesi mediante una più stretta collaborazione nel campo della cooperazione e dell’assistenza giudiziaria in materia penale. Il risultato conseguito costituisce altresì, allo stato dell’arte, il maggior sforzo realizzatosi nella cooperazione giudiziaria penale nell’area del Golfo Persico.

L’impegno reciproco di estradizione, in esordio al trattato, pone in capo a ciascuna Parte il dovere di consegna di persone ricercate ai fini della sottoposizione a processo per un reato punibile con una pena detentiva non inferiore ad un anno ovvero per l’esecuzione di una sentenza definitiva di condanna a pena detentiva, o altra misura privativa della libertà personale, al momento della richiesta non inferiore ai sei mesi (artt. 1, 2). La consegna è subordinata alla previsione bilaterale del fatto, secondo il principio della "doppia incriminazione", il quale trova tuttavia un temperamento in materia fiscale nella previsione secondo la quale l’estradizione può essere concordata anche quando per il fatto in subiecta materia lo Stato richiesto accordi una disciplina differente da quella dello Stato richiedente. Laddove la domanda riferisca più condotte illecite, la consegna è disposta purché almeno una di esse soddisfi il criterio della quota della pena prevista (art. 2 (1)). Invero, per il reato commesso al di fuori del territorio della Parte richiedente, l’estradizione è concessa qualora il medesimo fatto sia punibile secondo le leggi della Parte richiesta quando commesso al di fuori del suo territorio (art. 2 (4)).

La normativa annovera una pletora di motivi di rifiuto della consegna, di natura facoltativa ovvero obbligatoria. Rientrano in questa seconda ipotesi, assecondando una linea di principio consolidata di diritto internazionale, fra gli altri: reati di natura politica e reati militari, ai sensi della legge dello Stato richiesto; condotte tutelate dalla cd. clausola di non discriminazione, per le quali vi sia motivo di ritenere che la persona possa essere perseguita in ragione della sua razza, sesso, religione, condizione sociale, nazionalità o opinione politica13; situazioni in cui la consegna pregiudichi la sovranità, la sicurezza, l’ordine pubblico ovvero gli interessi essenziali dello Stato, o sia in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento; è sancito altresì il divieto di ne bis in idem; la consegna è inoltre vietata in virtù dell’intervenuta prescrizione del reato o della pena; nei casi in cui sussistano gravi motivi per ritenere che la persona possa essere sottoposta a tortura, trattamento crudele, disumano o degradante ovvero in assenza di garanzie di tutela dei diritti fondamentali di difesa; qualora, a seguito di sentenza in absentia emessa dalle autorità dello Stato richiedente, si ritenga che alla persona, non correttamente informata del procedimento a suo carico, sarà preclusa la possibilità di un nuovo processo; e infine nei casi di concessione di asilo politico (art. 3).

Di particolare rilevanza la previsione di rifiuto obbligatorio della consegna per il fatto di reato punito nello Stato richiedente con una pena vietata in quello richiesto ovvero ove sia prevista la pena di morte ai sensi dell’ordinamento del primo, in assenza di garanzie ritenute sufficienti che la pena non sarà inflitta o, se inflitta, non sarà eseguita. Sul punto, lo scambio di note interpretativo tra le parti, risalente a novembre 2017 e a gennaio 2018 ha condotto a concordare che l'estradizione sia possibile solo laddove la parte richiedente ha adottato una decisione irrevocabile relativa alla commutazione della pena di morte in una pena diversa, in tal modo perseguendo l’ammissibilità della disposizione come conforme a quanto disposto dall’art. 698 comma 2, c.p.p., così come sostituito dall’art. 5, comma 1, della l. 21 luglio 2016, n. 14914.

La decisione di consegna è rimessa alla discrezionalità dello Stato richiesto nei casi di procedimenti in corso, avente ad oggetto i medesimi fatti; qualora sussistano motivi di carattere umanitario considerati incompatibili con l’accoglimento della richiesta; o la persona sia cittadino di quest’ultimo (art. 4). In tale evenienza, tuttavia, lo Stato richiesto si impegna, su istanza dello Stato richiedente, a procedere nei confronti della persona, ai sensi del proprio diritto interno (art.5).

La domanda di estradizione deve contenere le informazioni utili all’identificazione della persona, della descrizione dei fatti oggetto della domanda, incluso il relativo trattamento sanzionatorio, copia dell’ordinanza che dispone le misure cautelari nei casi di estradizione processuale ovvero della sentenza definitiva di condanna nei casi di estradizione esecutiva. (art. 7). Informazioni supplementari possono essere demandate dallo Stato di esecuzione entro un termine di sessantacinque giorni dalla ricezione della domanda, decorso il quale la richiesta di estradizione si intende rinunciata, ferma la possibilità di reiterare la richiesta per gli stessi fatti contestati alla medesima persona (art. 8).

La decisione di consegna ovvero il suo rifiuto devono, adottati in conformità al diritto interno dello Stato richiesto, essere motivati dinanzi alle autorità della parte richiedente (art. 9) e, in presenza di richieste concorrenti concernenti la medesima persona, la decisione di consegna è da assumersi in considerazione della vigenza di una normativa pattizia tra le parti, la gravità dei fatti, tempo e luogo della commissione, nazionalità, residenza abituale dell’estradando, nonché la data di ricezione delle rispettive domande (art. 13). La previsione di cui all’art. 12 avanza l’ipotesi di arresto provvisorio, nei casi di urgenza e per il tramite delle autorità centrali ovvero mediante il canale Interpol, previa dichiarazione di inoltro di una successiva domanda di estradizione, in conformità ai requisiti, potendo lo Stato richiesto disporre le misure coercitive necessarie ad assicurare la custodia della persona, la cui efficacia è subordinata alla ricezione della domanda di estradizione nel termine di quarantacinque giorni, prorogabile per ulteriori quindici giorni, a decorrere dalla data di arresto. In ogni caso, il tempo trascorso dalla persona in stato di custodia e detenzione è computato ai fini della custodia cautelare ovvero della pena da eseguire (art. 14).

È prevista, ai sensi dell’art. 16, la consegna dell’estradando secondo procedura semplificata la quale si realizza sulla base di una domanda di arresto provvisorio, fermo restando, ai fini della procedibilità, il consenso informato della persona alla consegna, prestato dinanzi alle autorità competenti dello Stato richiesto.

La decisione favorevole alla consegna impone che le autorità dello Stato richiedente si impegnino a prelevare la persona entro il termine di trenta giorni, salvo casi di forza maggiore impongano il rinvio a nuova data della medesima, la cui mancanza comporta una discrezionalità in capo allo Stato richiesto di rifiuto di una successiva domanda di estradizione relativa a tale persona e per lo stesso reato (art. 14). Sono altresì disciplinati i casi e le condizioni per disporre la consegna differita, ovvero temporanea (art. 15), previa assicurazione del computo del periodo di detenzione espiato nello Stato richiedente.

Nel caso in cui l’estradizione sia concessa, lo Stato richiedente può procedere alla richiesta di contestuale sequestro di cose pertinenti al reato (art. 17), in conformità e nei limiti stabiliti dalla disciplina nazionale, fatti salvi i diritti di terzi in bona fide. In conformità al principio di specialità lo Stato richiedente si impegna a non perseguire la persona una volta consegnata, ovvero eseguire una pena o qualsiasi provvedimento restrittivo della libertà personale per fatti diversi commessi prima della consegna. Costituiscono eccezione alla regola le ipotesi di cui all’art 10, ovvero il consenso dello Stato richiesto, per le quali non opera il divieto di riestradizione verso uno Stato terzo come disposto ai sensi dell’art. 11.

3. La prospettiva del trattamento sanzionatorio e la pena di morte

La previsione della pena capitale negli ordinamenti dei Paesi che trovano ispirazione nella Shari’ah islamica costituisce il principale ostacolo alla cooperazione giudiziaria laddove la medesima previsione punitiva non trova corrispondenza all’interno dell’ordinamento dello Stato che con essi viene a rapportarsi. Non può dunque darsi corso ad una richiesta di estradizione, ove lo Stato richiedente preveda nel proprio ordinamento la pena capitale e questa non sia espressamente contemplata nell’ordinamento dello Stato richiesto. Tale specifica previsione trova, nel nostro ordinamento, pieno soddisfacimento ai sensi del summenzionato articolo 698 comma secondo15, in conformità al divieto di applicazione della pena di morte, il quale assurge a principio costituzionalmente tutelato ai sensi dell’art. 27 Cost.

In tale ipotesi, dunque, allo Stato compete, in ordine alla valutazione di concessione della persona richiesta, l’ottenimento di dichiarazioni irrevocabili dello Stato richiedente che la pena capitale non sarà inflitta e, se inflitta, sarà commutata in una pena alternativa ammessa dallo Stato richiesto ovvero la persona abbia possibilità di scontare la propria pena entro la giurisdizione dello stesso Stato richiesto. La novella introdotta dall’art. 698 c.p.p. come modificato con legge del 21 luglio 2016 n. 149 ha sostituito la precedente formula delle assicurazioni ritenute sufficienti a seguito della sollevata questione di incostituzionalità del precetto, determinando la conseguente adozione di una decisione irrevocabile in funzione maggiormente garantista.

La questione assume ulteriore rilievo laddove, in assenza di un trattato tra le parti ovvero in regime di reciprocità, lo Stato nel cui ordinamento la pena capitale è applicata subordina suddette garanzie alla mera volontà discrezionale di darvi tutela. Esemplificando, nella maggioranza delle legislazioni nazionali degli stati della Penisola arabica non si ravvedono previsioni concernenti ipotesi di commutazione della pena capitale, quando inflitta, in sanzioni meno severe, o di non esecuzione della stessa, ove l’esigenza di tutela della vita umana impone pertanto un dovere di rifiuto della cooperazione, quando realizzatasi in regime extra-convenzionale.

Ebbene, l’iter che ha condotto all’adozione del Trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e gli Emirati Arabi Uniti ha richiesto un gravoso impegno diretto a sancire definitivamente l’inammissibilità del ricorso alla pena capitale, concordatasi da entrambi i Paesi mediante lo scambio di note interpretative, divenuto parte integrante del trattato di estradizione16. L’intesa costituisce uno sviluppo positivo alla cooperazione bilaterale tra i due Paesi, conforme alle stringenti normative italiane in termini di garanzie sul rispetto dei diritti fondamentali in tema di estradizione ed al rafforzamento di una collaborazione connotata da precedente insufficienza, rilevata dalla pendenza delle numerose richieste presentate dall’Italia e mai eseguite.

Nel novero dei riferimenti normativi attinenti alle ipotesi di limitazione delle procedure di cooperazione, nella prospettiva del trattamento sanzionatorio e punitivo vigente nei Paesi richiedenti, la probabile gravità della pena è principio di recente emersione in riferimento ai casi di assistenza giudiziaria, potendosi invero confermare ragione di lunga data fondante le valutazioni preliminari la disciplina estradizionale. Se dunque risulta pacificamente condiviso l’orientamento secondo il quale la previsione della pena capitale all’interno dell’ordinamento dello Stato richiesto costituisce motivo ostativo la consegna, la medesima questione è discussa anche in materia di mutua assistenza giudiziaria, laddove sussiste la possibilità che la prova acquisita mediante rogatoria possa condurre a tale condanna. Invero, una conclusione analoga alla disciplina della consegna non si è ritenuta di automatica adozione, optandosi altresì per una soluzione orientata alla cooperazione, nella misura in cui si possa ragionevolmente ritenere l’esito del procedimento suscettibile di decisione favorevole alla persona stessa17.

La valutazione è dunque rimessa alla discrezionalità delle singole autorità nazionali, posto che il rifiuto a prestare assistenza, nei casi in cui l’indagine possa condurre ad accuse per le quali sussiste il rischio di imposizione della pena capitale ovvero di trattamenti disumani o degradanti, è sancito in trattati in vigore, in particolare in ambito europeo18, quand’anche rimesso alla sussistenza di specifiche previsioni pattizie bilaterali secondo una valutazione del caso di specie. In ambito nazionale si evidenza una particolare sensibilità del legislatore nella tutela del diritto alla vita, ove la disposizione del codice di rito manifestatamente comporta l’impossibilità di concedere l’estradizione cd. processuale; al contempo, le garanzie come sancite dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nel disporre espressamente un obbligo negativo di violazione dei diritti così come tutelati, implicitamente ispirano l’azione delle autorità nazionali, laddove qualsiasi azione intrapresa in un rapporto collaborativo con un qualsiasi Stato estero paventa un pericolo alle tutele della persona, nonché all’ordine e all’interesse nazionale dello Stato. Quando la cooperazione, con riferimento all’estradizione, costituisce un pericolo per l’integrità fisica della persona, esponendola al rischio di subire trattamenti disumani o degradanti, essa può essere rifiutata laddove vi sia pericolo di sottoposizione a tortura.

Tale è la portata della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti19, conclusa a New York nel 1984, la quale assegna in capo agli Stati un dovere di intervento diretto a prevenire, perseguire e punire le violazioni al tutelato diritto di integrità fisica, mediante una efficace collaborazione tra gli organi di polizia ovvero un efficiente apparato penale, che per poter funzionare nel mondo di oggi ha bisogno della cooperazione20. L’ampiezza nella portata del proposito umanitario ne fa assurgere i principi a norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta, i cui effetti legali non sono passibili di negazione da parte di nessuno Stato.

Agli Stati è richiesta una armonizzazione degli strumenti nazionali volta ad impedirne il compimento all’interno di un territorio sotto la loro giurisdizione (art. 2), in particolare provvedendo affinché qualsiasi atto di tortura, alla pari del tentativo di praticarla o di qualsiasi complicità o partecipazione all’atto medesimo costituiscano un reato a tenore del suo diritto penale (art. 4). Parimenti, agli Stati è richiesto l’impegno a proibire qualsiasi atto costitutivo di pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti che non rientrano nella definizione di tortura (art. 16). Nonostante l’ampiezza delle previsioni e la portata degli obblighi, assunti dalla totalità dei Paesi della Penisola arabica21, evidenti rimangono le violazioni compiute dai rispettivi governi, oggetto di denuncia da parte di diverse organizzazioni internazionali attive sul versante dei diritti umani fondamentali22. Le ragioni, pressoché riconducibili alla volontà di repressione di qualsiasi forma del dissenso politico, si pongono in netta contraddizione con gli stessi principi di diritto islamico, posti ad ispirazione dell’azione di tali governi, che proibisce la tortura nella misura in cui le informazioni estorte attraverso il ricorso a tale pratica non possono considerarsi utilizzabili, in quanto risultanza della coercizione fisica e psicologica esercitata sul soggetto, con riflessi sulla affidabilità delle informazioni stesse23

Tuttavia, rileva sottolineare la differenza che la definizione assume in ambito islamico, ove l’attenzione è posta sulla spiritualità del soggetto, nei cui confronti l’applicazione coattiva di misure illegali e immorali non è considerata accettabile, poiché contraria alla dignità spirituale della vittima, a prescindere dal dato misurabile in termini di tolleranza ovvero sofferenza fisica o psicologica del soggetto, riconoscendo dunque il rispetto della dignità umana in ogni tempo. La criminalizzazione della tortura riveste altresì ogni aspetto del procedimento, a partire dall’arresto ovvero dall’arresto arbitrario, alle misure precautelari, alla detenzione sino alla prova di colpevolezza, in conformità al principio di presunzione di innocenza.

4. Considerazioni conclusive

Con l’adozione dei trattati si è dato seguito alla necessità di predisporre strumenti idonei a garantire una efficace e reciproca collaborazione bilaterale, imposta dalla crescente estensione delle relazioni tra Italia ed Emirati, con particolare riferimento ai rapporti commerciali, economici e finanziari, cui inevitabilmente ha seguito lo sviluppo di fenomeni criminali coinvolgenti entrambe le parti. Sono infatti più o meno note, agli onori di cronaca, talune vicende di latitanti attualmente stabilitisi nel Paese, il cui rientro è atteso dalla giustizia italiana. Il risultato ottenuto costituisce dunque un passo fondamentale in direzione di un più efficace contrasto alla criminalità transnazionale, che colma il precedente vuoto legislativo dovuto all’assenza di accordi bilaterali in materia, rendendo più fluide le procedure di cooperazione, in una logica di bilanciamento delle istanze in gioco. Posto che l’assenza di una normativa pattizia non costituisce ostacolo in re ipsa alla collaborazione, il cui esito è rimesso alla “buona volontà” dello Stato richiesto, potendosi altresì concedere l’estradizione pur in assenza di un trattato internazionale che ne legittima l’esecuzione, nel rispetto della reciprocità e della cortesia internazionale, i Trattati di Estradizione e di Mutua assistenza giudiziaria tra la Repubblica Italiana e gli Emirati Arabi Uniti costituiscono l’unicum nel panorama della cooperazione pattizia bilaterale regionale, ottemperando al superamento della logica della concessione dell’aiuto reciproco alla mera volontà e allo spirito di collaborazione delle autorità adite a darvi corso in ragione di una maggiore certezza del diritto.

È solamente nella vigenza di una normativa pattizia che l’obbligo di estradizione rileva, non potendosi considerare un’evoluzione positiva del vincolo tra gli Stati, laddove la dimensione transnazionale assunta dalla criminalità organizzata in considerazione di una graduale deterritorializzazione delle capacità operative della stessa ha reso imprescindibile il ricorso a meccanismi di mutua assistenza, tanto in campo investigativo quanto giudiziario. Ebbene, all’abbandono di ogni presunzione della giurisdizione penale statuale a ritenersi idonea a rispondere autonomamente sottende la necessità di una conoscenza reciproca dei contesti giuridici dei vari Paesi, la cui mancanza configura uno degli ostacoli maggiori alla cooperazione giudiziaria.

Tale deficit è tanto più avvertito quando la collaborazione interessa Paesi appartenenti a tradizioni giuridico-culturali distanti tra loro, con inevitabili riflessi sull’esito dell’azione complessiva. Invero, la legge federale 31 ottobre 2006 n. 39, corrispondente al 8 Shawwal 1427 H degli Emirati Arabi Uniti concernente la cooperazione giudiziaria penale internazionale conferma il Paese all’avanguardia nel settore se paragonato ai suoi vicini nell’area, nella previsione delle ipotesi di fumus persecutionis in ragione di razza, affiliazione religiosa, nazionalità o opinioni politiche tra i motivi ostativi la consegna, qualora l’esistenza di ciascuno di tali motivi possa costituire un danno alla persona24, dovendosi pertanto rifiutare l’estradizione in considerazione di un utilizzo abusivo dello strumento processuale inteso a realizzare finalità ultronee. Ulteriori tutele e garanzie della persona sono predisposte dalla disciplina emiratina nell’impossibilità di concedere l’estradizione qualora concorra il rischio di sottoposizione della persona a tortura, trattamenti disumani o degradanti, o all’esecuzione di pene contrarie al principio di proporzionalità, o qualora non siano disponibili le garanzie minime previste dal codice di procedura penale25.

Suddetto tentativo di riservare specifiche tutele e garanzie della persona, seppur affiancate da rilevate prassi abusanti degli strumenti di cooperazione, assegnano al quadro normativo emiratino una eccezionalità in materia tale da predisporre uno spazio di interlocuzione con l’ordinamento nazionale la cui stringenza delle disposizioni poste a salvaguardia dei diritti dell’estradando non trovano altra corrispondenza in seno alle legislazioni della regione arabica.

Da suddette considerazioni dipende l’esito dell’azione complessiva, da ispirarsi nella prospettiva di un miglioramento degli standards di conoscenza e flessibilità; in tal senso, molteplici ambiti operativi mostrano spazi di azione idonei ad avvicinare le procedure, quand’anche ad intraprenderne percorsi di semplificazione, al fine di rendere più efficienti i rapporti tra autorità giudiziarie preposte al contrasto della criminalità.


Note e riferimenti bibliografici

1. Nel rapporto del Consiglio d’Europa dal titolo “New Start”, l’espressione assume il significato di giustizia condivisa, nella previsione della costruzione di un’area, nel caso specifico Europea, caratterizzata da un elevato grado di unità e coerenza tra gli Stati nella legge, nelle procedure e standard. Il rapporto PC-S-NS (2002)7 è consultabile sul sito del Consiglio d’Europa.

2. Limitatamente all’ambito europeo, il processo di integrazione operato in seno all’Unione Europea costituisce indubbiamente un modello peculiare di difficile esportazione, che ha condotto, attraverso un lungo percorso di adeguamento e armonizzazione delle singole legislazioni nazionali, all’adozione di strumenti inediti fondati sul principio del mutuo riconoscimento, tra i quali, per citarne alcuni: il mandato di arresto europeo, adottato con la decisione-quadro 2002/584/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 13/06/2002, che ha sostituito, tra gli Stati membri, tutti i precedenti accordi in materia di estradizione; la decisione-quadro 2008/978/GAI sul mandato europeo di ricerca delle prove, finalizzato a snellire le procedure in materia di acquisizione probatoria; l’ordine europeo di indagine, introdotto dalla direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014, il quale ha reso vincolante tra gli Stati membri l’esecuzione delle decisioni giudiziarie aventi ad oggetto il compimento di uno o più atti specifici finalizzati all’acquisizione di prove. Cfr.: M.R. MARCHETTI, E. SELVAGGI, La nuova cooperazione giudiziaria. Dalle modifiche al codice di procedura penale all’ordine europeo di indagine, Milano, 2019.; L. PALMIERI, La riforma di Eurojust e i nuovi scenari in materia di cooperazione giudiziaria, Milano, 2019; T. ALESCI, Spazio giuridico europeo, Milano, 2020.

3. Nazioni Unite, Treaty series, Vol. 1465, n. 24841.

4. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o C.E.D.U. è stata adottata dal Consiglio d’Europa il 4 novembre 1950 da parte di tutti i 47 Stati facenti parte del Consiglio. L’Italia ha provveduto a ratifica il 26 ottobre 1955. Testo consultabile al sito www.echr.coe.int.

5. Sentenza della Corte EDU, grande camera, del 7 luglio 1989, Causa 14038/88, Soering c. Regno Unito, relativamente alla violazione dell’art. 3 rubricato "Divieto di trattamenti inumani o degradanti". In riferimento all’art. 6 disciplinante l’equo processo, la Corte ha stabilito un regime differente, costituendo unicamente il rischio di violazione “flagrante” una causa di legittimo rifiuto.

6. Cfr., Human Rights Watch Report, 2021.

7. Adottata il 15 settembre 1994 con Risoluzione n. 5437 dal Consiglio della Lega degli Stati Arabi, ha subito una considerevole rielaborazione nel 2004, con una modifica da 43 a 53 articoli. Nel gennaio 2008 gli Emirati Arabi hanno aggiunto la loro ratifica a quelle di Giordania, Bahrein, Algeria, Siria, Autorità Palestinese e Libia, permettendone l’entrata in vigore.

8. Sul punto, nel 2008 l’allora Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Louise Arbour dichiarò la Carta araba dei diritti dell’uomo incompatibile con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

9. Il diverso fondamento della concezione del diritto dell’uomo trova infatti la sua ragione d’essere nella comunità islamica, la Umma Islamiyya, il cui benessere rappresenta il fine ultimo della Shari’ah. Su una ricostruzione ontologica della concezione dei diritti umani nell’Islam, diversi giuristi adottano punti di vista e prospettive differenti. Baderin adduce a strategia interpretativa il concetto di maslaha, pubblico interesse, ponendolo in relazione alla nozione di maqasid al-Shari’ah, o scopo della Shari’ah: il bene della comunità assurge a scopo e obiettivo della Shari’ah, e la stessa dispone conformemente al perseguimento di tale fine, ove le garanzie dei diritti quanto le loro limitazioni costituiscono il volere di Dio, la cui volontà si identifica nel benessere della comunità di fedeli. Cfr. M. A. BADERIN, International Human Rights and Islamic Law, US, 2003; S. DUNN, Islamic Law and Human Rights, in A. M. EMON, R. AHMED (a cura di), The Oxford Handbook of Islamic Law, US, 2018, 819 ss.

10. Ai sensi della Shari’ah islamica la classificazione dei reati annovera tre differenti categorie: Qisas, Ta’zir, Hudud. I reati soggetti alla punizione dell'ordinanza divina, Hudud, costituiscono la classe di reati considerati estremamente gravi – tra i quali la rapina, il furto, il consumo di alcol e droga, l’apostasia - per i quali è prevista una pena fissa obbligatoria sancita dal Corano, prima fonte del diritto, il quale afferma: “[…] Ecco i limiti di Dio, che Egli espone a un popolo che capisce” (2:230). Data l’immutabilità della pena, non sono ammesse circostanze attenuanti. Tra le condanne applicabili si annoverano amputazione, lapidazione, fustigazione o decapitazione, le quali, pur mantenendo tuttora la loro vigenza, sono oggetto di una tendenziale disapplicazione. Il termine Qisas, letteralmente “equivalenza”, identifica i reati di sangue, tra i quali sono inclusi l’omicidio volontario e le lesioni fisiche. La modalità punitiva prevista per tale categoria di reati asseconda il principio della lex talionis con facoltà attribuita alla vittima, ovvero alla sua famiglia, di richiedere a quale trattamento sanzionatorio sottoporre il reo, potendosi optare tra la retaliation in kind (taglione), la compensazione economica, Diya, e il perdono. I reati Ta’zir comprendono le condotte illecite non rientranti nelle precedenti categorie, la cui disciplina sanzionatoria non trova fondamento ai sensi delle fonti del diritto islamico, rimettendosi così alla discrezionalità del giudice la facoltà di comminare la pena a seconda del caso di specie, fermo restando considerazioni circa il benessere generale della comunità, o Maslaha. Cfr.: The Oxford Handbook of Islamic Law, op.cit.

11. Gazzetta Ufficiale 30 ottobre 2018, n. 252.

12. Cfr. Camera dei Deputati, Disegno di legge n. 344, Relazione illustrativa, 2 ss.

13. La disposizione, posta a salvaguardia delle ipotesi di fumus persecutionis trova più ampia legittimazione nei principi sanciti dalla Costituzione italiana di cui all’art.2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” e all’art. 3. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali […]”.

14. “[…] Se il fatto per il quale è domandata l'estradizione è punito con la pena di morte secondo la legge dello Stato estero, l'estradizione può essere concessa solo quando l'autorità giudiziaria accerti che è stata adottata una decisione irrevocabile che irroga una pena diversa dalla pena di morte o, se questa è stata inflitta, è stata commutata in una pena diversa, comunque nel rispetto di quanto stabilito dal comma 1”. Cfr.: Camera dei deputati, Disegno di legge, n. 344, Analisi tecnico-normativa, 16.

15. “Se il fatto per il quale è domandata l'estradizione è punito con la pena di morte secondo la legge dello Stato estero, l'estradizione può essere concessa solo quando l'autorità giudiziaria accerti che è stata adottata una decisione irrevocabile che irroga una pena diversa dalla pena di morte o se questa è stata inflitta, è stata commutata in una pena diversa”.

16. Scambio di note interpretativo, Prot. n. 2724, fatto ad Abu Dhabi il 27 novembre 2017, accolto dal governo degli Emirati Arabi Uniti il 17 gennaio 2018.

17. La questione è emersa nel corso dei lavori del Gruppo multidisciplinare contro il Terrorismo (GMT), concomitante alla proposta di introduzione, nella specifica Convenzione di settore, del divieto valido in ambito estradizionale, nonché nel corso dei lavori del Comitato per la cooperazione del Consiglio d’Europa (PC-OC).

18. Ai sensi della Convenzione di assistenza giudiziaria del 1959, l'assistenza legale può essere rifiutata, se la Parte richiesta ritiene che l'esecuzione della richiesta possa pregiudicare la sovranità, la sicurezza, l'ordine pubblico o altri interessi pubblici essenziali del suo Paese (art. 2 lett. b).

19. Nazioni Unite, Treaty Series, vol. 1465, n. 24841.

20. Artt. 5, 6, 7, 8, e 9.

21. L’adesione degli Emirati Arabi Uniti alla Convenzione risale al 19 luglio 2012. Sebbene tutti i Paesi della Penisola arabica abbiano acceduto alla Convenzione, l’accesso dell’Oman è una recente operazione, datata 9 giugno 2020.

22. Tra queste, il lavoro svolto da Amnesty International assume particolare rilievo e si sottopone all’attenzione dei governi al momento di qualsiasi decisione di concessione ovvero di rifiuto dell’assistenza richiesta.

23. F. MALEKIAN, The Concept of Islamic International Criminal Law. A comparative Study, London, 1994, 103.

24. Art 9, par. 5, l.f. 39/2006.

25. Art. 9, par. 10.