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Pubbl. Mer, 5 Mag 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Gli obblighi internazionali dello Stato in materia di cambiamenti climatici: la sentenza della Corte suprema olandese nel caso Urgenda

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Dennis Coccione



Il contributo passa in rassegna i più recenti approdi del diritto internazionale ambientale, sia a livello europeo che internazionale-globale ed analizza il caso Urgenda, in occasione del quale la Corte suprema olandese ha riconosciuto agli individui un vero e proprio diritto soggettivo a che lo Stato si adoperi per contrastare il surriscaldamento climatico derivante dalle emissioni di gas serra.


ENG The paper reviews the most recent approaches to international environmental law, both at a European and international-global level and analyzes the Urgenda case, on the occasion of which the Dutch Supreme Court recognized individuals a real subjective right to which the State take action to combat global warming resulting from greenhouse gas emissions.

Sommario: 1. Introduzione; 2. Normativa internazionale, europea e olandese in materia climatica; 2.1. l quadro normativo di riferimento a livello internazionale: la Convenzione sui cambiamenti climatici (UNFCCC) del 1992, il Protocollo di Kyoto del 1997 e l’Accordo di Parigi del 2015; 2.2. La lotta al cambiamento climatico diventa uno degli obiettivi da raggiungere per assicurare lo sviluppo sostenibile previsto dall’Agenda 2030 e dai 17 SDGs delle Nazioni Unite; 2.3. CEDU e climate action: gli articoli 2 e 8 della Convenzione sono idonei a fondare un diritto soggettivo a un ambiente salubre e a un clima equilibrato immediatamente azionabile nei confronti dello Stato?; 2.4. Il quadro giuridico dell’UE in materia di cambiamenti climatici: brevi cenni; 2.5. Le norme costituzionali olandesi rilevanti nella controversia: l’obbligo dello Stato di tutela dell’ambiente e di adeguamento alle norme internazionali e dell’UE; 3. La controversia promossa dalla fondazione Urgenda e il suo fondamento giuridico: l’interpretazione della normativa internazionale, dell’UE e interna seguita dalla ricorrente; 4. Il giudizio di primo e di secondo grado dinanzi all’autorità giudiziaria olandese: le differenze nell’approccio seguito dalle due Corti per affermare l’esistenza di obblighi in materia climatica a carico del governo olandese; 5. La decisione della Corte suprema olandese; 6. Conclusioni.

1. Introduzione

A partire dal periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è iniziato un processo di graduale aumento della temperatura del globo terrestre, con il conseguente intensificarsi dei fenomeni atmosferici ad esso collegati (ad esempio, cicloni, alluvioni e siccità).

Fra le principali cause del surriscaldamento globale, vi è l’attività dell’uomo e, nello specifico, lo svolgimento di attività che determinano l’emissione di gas serra, quali vapore acqueo, anidride carbonica, metano, alocarburi e protossido di azoto. Tali gas, infatti, trattengono il calore prodotto dai raggi solari nell’atmosfera terrestre.

In un certo senso, l’inquinamento è il “prezzo” da pagare per lo svolgimento di attività economiche e, dunque, dello sviluppo. Tuttavia, oggi non sono più sostenibili modelli di produzione basati sull’utilizzo di carbone e combustibili fossili. Il surriscaldamento globale ed i fenomeni naturali ad esso connessi costituiscono una seria minaccia per l’umanità, specialmente per le generazioni future. Pertanto, si rende necessario convertire gli attuali modelli di organizzazione sociale e di sviluppo socioeconomici in modo da renderli sostenibili dal punto di vista ambientale e, soprattutto, occorre ridurre e, auspicabilmente, azzerare l’emissione di gas serra.

Il problema principale sta nel fatto che la riduzione delle emissioni richiede significative spese e investimenti, che si traducono (almeno nel breve periodo) in un costo aggiuntivo di produzione per l’imprenditore, il quale vedrebbe, quindi, ridursi il volume complessivo dei profitti. Le attività produttive ad alte emissioni sono “economicamente più convenienti” rispetto a quelle meno inquinanti o a zero emissioni. Tuttavia, occorre tenere presente che anche il mancato adattamento ai cambiamenti climatici produce costi per la collettività: è stato stimato che il costo minimo del mancato adattamento ai cambiamenti climatici per tutta l’UE parta da 100 miliardi di EUR nel 2020 per raggiungere 250 miliardi di euro nel 2050[1]. Tra il 1980 e il 2011 le perdite economiche dirette nell’UE in seguito ad alluvioni hanno superato i 90 miliardi di euro[2]. Peraltro, secondo le previsioni il dato è in crescita: il costo annuo dei danni da alluvione fluviale dovrebbe raggiungere 20 miliardi di euro nel decennio 2020-2030 e 46 miliardi di euro entro il decennio 2050-2060[3].

Fino a quando i sistemi economici non verranno trasformati in maniera tale da azzerare o limitare drasticamente le emissioni di gas serra, sviluppo economico e tutela dell’ambiente (ivi incluso il contrasto ai cambiamenti climatici) continueranno ad essere due obiettivi distanti, se non, addirittura, inconciliabili tra loro. Occorre, quindi, che gli Stati agiscano tempestivamente al fine di dare esecuzione agli strumenti internazionali in materia di cambiamenti climatici. In rari casi, gli effetti dei cambiamenti climatici hanno costituito un driver di sviluppo economico: il surriscaldamento globale ha permesso l’impianto di vigneti ad alta quota, prima impossibile[4].

Non a caso, l’elaborazione di norme internazionali in materia ambientale risale a periodi relativamente recenti, e ciò perché gli Stati si sono sempre dimostrati alquanto restii a sacrificare l’interesse economico in nome della tutela dell’ambiente. Si è passati dall’utilizzo indiscriminato di risorse ambientali, nella convinzione che l’ambiente potesse autorigenerarsi completamente e che l’impatto delle attività dell’uomo su di esso fosse trascurabile, ad una maggiore tutela dell’ambiente, che implica l’obbligo di rispettarlo. Infine, oggi, la tutela dell’ambiente – in quanto risorsa esauribile – è divenuta esigenza primaria (quantomeno sotto taluni profili; si è visto, ad esempio, come spesso la salvaguardia dell’ambiente venga sacrificata in nome dello sviluppo economico) e prioritaria rispetto ad altre necessità. Il mutamento della coscienza sociale ha determinato il passaggio dall’obbligo (negativo) di astenersi da comportamenti pregiudizievoli per l’ambiente, all’obbligo (positivo) di attivarsi per salvaguardarlo.

L’elaborato è strutturato in due parti. Nel primo capitolo, viene offerta una ricostruzione del quadro giuridico in materia di contrasto ai cambiamenti climatici su un triplice livello: internazionale, dell’Unione europea e nazionale. Tra i primi, si distingue per importanza la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, del 1992.

Successivamente, l’analisi si focalizza sul sistema normativo elaborato all’interno dell’Unione europea per ridurre le emissioni di gas serra, basato essenzialmente sull’ETS (Emissions Trading System), che, ad oggi, è il più grande sistema di scambio di quote di emissioni di gas serra a livello globale.

Nel secondo capitolo viene analizzata la legislazione e la giurisprudenza olandesi in materia ambientale, con specifico riguardo alla sentenza pronunciata dalla Corte suprema dell’Olanda nel caso Urgenda. La legislazione olandese è particolarmente attenta alla materia ambientale e al contrasto ai cambiamenti climatici. Ciò, tuttavia, non ha impedito il sorgere della controversia tra l’associazione no profit Urgenda e l’Olanda, che viene analizzata nel secondo capitolo.

All’esito del giudizio, la Corte suprema olandese ha ritenuto che gli articoli 2 e 8 della CEDU – che tutelano, rispettivamente, il diritto alla vita e quello al rispetto della vita privata e familiare – sono idonei a fondare un diritto soggettivo, direttamente invocabile dai privati dinnanzi alle corti nazionali, a che lo Stato si adoperi per adottare tutte le misure necessarie per il rispetto degli obblighi assunti a livello internazionale, e aventi ad oggetto la riduzione delle emissioni di gas serra, al fine di contrastare i cambiamenti climatici.

2. Normativa internazionale, europea e olandese in materia climatica

2.1. l quadro normativo di riferimento a livello internazionale: la Convenzione sui cambiamenti climatici (UNFCCC) del 1992, il Protocollo di Kyoto del 1997 e l’Accordo di Parigi del 2015

Gli Stati hanno iniziato a regolamentare mediante accordi l’utilizzo di risorse naturali condivise, come i corsi d’acqua internazionali, inizialmente ai soli fini della navigazione. Si pensi alle commissioni internazionali fluviali per il Danubio, il Reno, l’Oder e l’Elba, create in Europa anteriormente alla prima guerra mondiale per regolare la navigazione e trasformate, in tempi più recenti, in strumenti per la tutela ambientale[5]. Ancora oggi, la questione delle risorse idriche condivise è centrale nella giurisprudenza internazionale[6].

Nel periodo tra le due guerre mondiali, sono state concluse convenzioni ambientali, come la Convenzione di Londra dell’8 novembre 1933, per la protezione della fauna e della flora in certe parti del mondo (soprattutto in Africa), e la Convenzione di Washington del 12 ottobre 1940 sulla preservazione della fauna, della flora e delle bellezze panoramiche naturali nei paesi americani. La decisione arbitrale dell’11 marzo 1941, emessa al termine della controversia tra Stati Uniti e Canada relativa alla fonderia di Trail, affermava per la prima volta che nessuno Stato poteva arrogarsi il diritto di utilizzare il proprio territorio in maniera tale da cagionare danni agli altri Stati, enunciando così il principio del divieto di inquinamento transfrontaliero[7]. Si trattava tuttavia di manifestazioni troppo episodiche per poter affermare che la tutela dell’ambiente fosse divenuta valore condiviso della Comunità internazionale. A riprova di ciò, si pensi al fatto che la Carta delle Nazioni Unite del 26 giugno 1945, all’art. 1, non faceva menzione della tutela dell’ambiente tra gli obiettivi dell’Organizzazione, né assegnava ad alcun istituto specializzato delle Nazioni Unite una competenza in materia ambientale[8]. Del resto, il diritto internazionale era ancora fortemente ancorato al principio della sovranità degli Stati sugli spazzi territoriali e marittimi loro appartenenti e sulle risorse naturali in essi contenute, mentre era assente la preoccupazione per la tutela ambientale. Tale prospettiva è ben espressa dall’art. 1 della Dichiarazione sulla sovranità permanente degli Stati sulle proprie risorse naturali quale elemento costitutivo del diritto all’autodeterminazione[9], il quale recita: «il diritto dei popoli e delle nazioni alla sovranità permanente sulle loro ricchezze e risorse naturali deve essere esercitato nell’interesse del loro sviluppo nazionale e del benessere delle popolazioni dello Stato interessato»[10].

A partire dalla seconda metà del XX secolo, la Comunità internazionale ha iniziato a riconoscere l’esigenza di salvaguardare l’ambiente. In questo contesto, è nato il diritto internazionale ambientale. La dottrina ha individuato due fasi nel percorso di formazione di tale nuova branca del diritto internazionale: la prima, iniziata con la Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma del 1972 sull’ambiente umano, è caratterizzata dalla stipulazione di numerosi trattati aventi ad oggetto la disciplina di specifici settori, basati sul principio di prevenzione del danno (fase del funzionalismo ambientale)[11]. La seconda, inaugurata dalla Conferenza di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo del 1992, coincide con l’estensione della cooperazione internazionale alle questioni ambientali globali. Gli strumenti normativi internazionali che connotano tale periodo, a differenza di quelli impiegati in precedenza, non hanno più carattere limitato e settoriale, bensì universale. Inoltre, le nuove norme non sono più ispirate al principio della prevenzione del danno, tipico del funzionalismo ambientale, bensì a quello di precauzione, che inaugura la fase del globalismo ambientale[12].

È possibile, quindi, definire il diritto internazionale dell’ambiente come quel complesso di norme che disciplinano la condotta degli Stati al fine di tutelare l’ambiente e assicurare l’uso equilibrato delle risorse naturali[13]. Si tratta di un diritto che ha progressivamente assunto carattere universale, in quanto volto a disciplinare problematiche che coinvolgono tutti gli Stati[14].

Soltanto nei primi anni Novanta le Nazioni Unite hanno inaugurato una nuova fase del processo di sviluppo del diritto internazionale ambientale, affidando a una commissione di esperti indipendenti (la Commissione Brundtland) l’elaborazione di un rapporto, denominato Our Common Future, che recepiva l’allora emergente concetto di sviluppo sostenibile. La Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED), svoltasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992 ha segnato l’inizio di questa seconda fase, caratterizzata dal tentativo da parte degli Stati di conciliare gli obiettivi di sviluppo economico e tutela dell’ambiente[15].

Con la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED), svoltasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992, si inaugura la seconda fase di sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente, che prende il nome di “globalismo ambientale”. Mentre nella fase precedente (funzionalista) le convenzioni ambientali venivano stipulate da un numero ristretto di Stati ed erano dirette esclusivamente a soddisfare gli interessi di questi ultimi (ed infatti avevano carattere settoriale e riguardavano materie molto specifiche)[16], con la Convenzione-quadro sui cambiamenti climatici del 1992 (UNFCCC), gli Stati si sono obbligati a «raggiungere la stabilizzazione delle concentrazioni dei gas serra in atmosfera a un livello abbastanza basso per prevenire interferenze antropogeniche dannose per il sistema climatic[17]. L’obiettivo della Convenzione è, dunque, quello di stabilizzare le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera a un livello tale da escludere qualsiasi interferenza pericolosa delle attività umane sul sistema climatico (art. 2). L’articolo 3 enuncia una serie di principi, che devono essere seguiti dagli Stati Parti nel perseguimento di tale obiettivo. Ad esempio, il paragrafo n. 1 stabilisce che «le Parti devono proteggere il sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni, su una base di equità e in rapporto alle loro comuni ma differenziate responsabilità e alle rispettive capacità»; mentre, secondo il paragrafo n. 3, «le Parti devono adottare misure precauzionali per rilevare in anticipo, prevenire o ridurre al minimo le cause dei cambiamenti climatici e per mitigarne gli effetti negativi». L’articolo 4 prevede una serie di obblighi, in forza dei quali lo Stato è tenuto ad adottare tutte le misure e le politiche necessarie per il raggiungimento di tale obiettivo[18].

In occasione della Conferenza di Rio, oltre alla UNFCCC, è stato aperto alla firma anche un altro importante accordo, la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD)[19], e sono stati adottati degli atti di soft law di primaria importanza, quali la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo, l’Agenda 21 (programma d’azione volto ad identificare gli interventi necessari per realizzare lo sviluppo sostenibile attraverso raccomandazioni agli Stati) e, infine, la Dichiarazione autorevole di principi, giuridicamente non vincolante, per un consenso globale sulla gestione, conservazione e sviluppo sostenibile delle foreste[20].

Malgrado la presenza della Convenzione-quadro sui cambiamenti climatici (UNFCCC), con la Conferenza di Rio, il diritto internazionale dell’ambiente ha assunto una connotazione basata su principi generali non vincolanti. La scelta di utilizzare atti di soft law piuttosto che di hard law derivava dalla differente sensibilità in merito alle tematiche ambientali (maggiore nei Paesi sviluppati, minore nei developing countries). Tuttavia, sebbene non vincolanti, i principi generali hanno avuto una grande importanza nello sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente, poiché – favorendo l’armonizzazione delle diverse legislazioni nazionali e lo sviluppo di una cultura giuridica condivisa in materia di ambiente[21]  – sono stati presupposto e fondamento giuridico della disciplina successiva[22].

Altro importante risultato della Conferenza di Rio è stato quello di integrare gli obiettivi dello sviluppo economico nel contesto dei principi applicabili alla tutela internazionale dell’ambiente. Questa integrazione è stata realizzata in primo luogo dalla Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo[23]. La Dichiarazione presenta quindi le caratteristiche di una law-developing resolution, nel duplice senso che essa ha concorso ai processi formativi di norme consuetudinarie ambientali ed è stata utilizzata come punto di riferimento per la conclusione dei successivi accordi internazionali[24].

Passando all’esame dei principi della Dichiarazione che rilevano maggiormente in questa sede, il Principio 2 riafferma, come il Principio 21 della Dichiarazione di Stoccolma del 1972, il diritto sovrano degli Stati di sfruttare le proprie risorse naturali secondo le loro politiche ambientali ed il contestuale dovere di non determinare fenomeni significativi di inquinamento transfrontaliero. Tale Principio ha valore di norma consuetudinaria[25]. Da notare che il Principio 2 non modifica il divieto di inquinamento transfrontaliero di cui al Principio 21 della Dichiarazione di Stoccolma, ma – a differenza di quest’ultima – riconosce pari dignità alla protezione ambientale e allo sviluppo economico-sociale. È stata inoltre recepita l’esigenza di tutela dei beni ambientali di carattere globale (global commons), come il clima e la biodiversità, affermando che il loro degrado e la loro perdita costituiscono una preoccupazione comune dell’umanità (common concerns) e che è quindi necessario cooperare per evitare tali rischi[26].

Il Principio 4 della Dichiarazione di Rio stabilisce che «al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo». Tale Principio è stato applicato dal Tribunale arbitrale che, nel 2005, si è pronunciato nel caso Iron Rhine Railway. Nel risolvere la controversia tra Belgio e Olanda, il Tribunale ha espressamente richiamato il Principio 4, affermando che il diritto ambientale e il diritto allo sviluppo sono concetti che si integrano e si rafforzano reciprocamente. Da ciò consegue che, nel caso in cui lo sviluppo sia suscettibile di provocare un danno significativo all’ambiente, vi è l’obbligo di prevenire tale danno. Questo obbligo, per il Tribunale, è ormai da considerare un principio di diritto internazionale generale[27]. L’obiettivo della UNFCCC è la stabilizzazione delle emissioni di gas serra per far fronte al problema del surriscaldamento globale. Il trattato, per come stipulato originariamente, non stabiliva limiti giuridicamente vincolanti alla quantità di gas serra che potevano essere emessi. A causa della eccessiva genericità, la Convenzione era inadeguata a vincolare giuridicamente gli Stati, o meglio, una eventuale violazione degli obblighi convenzionali era sostanzialmente difficile da accertare e priva di sanzione.

Tra i principi cardine della Convenzione (elencati nell’articolo 3), vi sono: a) la protezione del sistema climatico, e quindi la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici ed ai loro effetti avversi; b) la consapevolezza dei particolari bisogni e condizioni dei paesi in via di sviluppo, particolarmente vulnerabili nei confronti dei cambiamenti climatici; c) il fatto che la mancanza di una piena certezza scientifica non è una ragione per posporre misure di prevenzione e mitigazione (approccio precauzionale)[28].

Altro importante documento in materia di diritto internazionale dell’ambiente è il Protocollo di Kyoto, trattato internazionale volto a contrastare il riscaldamento climatico (attraverso strategie tanto di mitigazione, quanto di adattamento ad esso), sottoscritto nella città giapponese di Kyoto l’11 dicembre 1997 da più di 180 Paesi in occasione della Terza Conferenza delle Parti (COP-3) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Il Protocollo è entrato in vigore il 16 febbraio 2005, dopo la ratifica anche da parte della Russia[29]. Al pari della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, il Protocollo è un trattato internazionale ma, a differenza di essa, il Protocollo è idoneo a creare obblighi giuridicamente vincolanti per i Paesi che lo hanno ratificato. Esso impegna i Paesi industrializzati e quelli dell’Europa dell’est con economia in transizione (ex blocco sovietico) a ridurre complessivamente del 5%, entro il 2010, le principali emissioni di gas capaci di alterare l’effetto serra naturale del pianeta[30]. In accoglimento del principio delle responsabilità comuni ma differenziate (in ragione del diverso contributo che gli Stati hanno dato in passato, e danno attualmente, al degrado ambientale globale)[31], la riduzione complessiva del 5% non è “uguale per tutti”. Infatti, per i Paesi dell’UE, la riduzione deve essere dell’8%[32], per gli Stati Uniti del 7% e per il Giappone del 6%. Nessuna riduzione, ma solo una stabilizzazione è, invece, prevista per la Federazione russa, la Nuova Zelanda e l’Ucraina[33]. Gli Stati sono suddivisi in cinque gruppi geografici: 1) Gruppo di Paesi africani; 2) Gruppo di Paesi asiatici; 3) Gruppo di Paesi europei (ovest); 4) Gruppo di Stati centro e sud americani; 5) Gruppo di Paesi europei (est) e altri Stati (tra cui anche USA, che non hanno ratificato il Protocollo e il Canada, che si sono ritirati, Islanda, Svizzera, Australia e Nuova Zelanda)[34].

Inoltre, benché gli Stati siano tenuti a conseguire gli obiettivi stabiliti nel Protocollo di Kyoto principalmente attraverso misure nazionali, tuttavia, per favorire la realizzazione degli obiettivi di riduzione delle emissioni ad un costo inferiore, sono stati indicati, nel Protocollo stesso, dei meccanismi di flessibilità cui gli Stati possono fare ricorso: finanziamento di progetti di riduzione delle emissioni da parte di imprese situate nei Paesi industrializzati nei Paesi in via di sviluppo (clean development mechanism)[35], finanziamento di progetti di riduzione delle emissioni in altri Paesi dello stesso gruppo (joint implementation)[36], trasferimento di quote di riduzione di emissioni (emissions trading)[37].

Il Protocollo di Kyoto ha programmato gli impegni di riduzione delle emissioni in distinti periodi temporali. Il primo periodo di impegno è durato dal 2008 al 2012[38]; il secondo periodo, introdotto con l’Emendamento di Doha non vincolante, è iniziato nel 2013, scadrà alla fine del 2020.

Proseguendo nell’esame dei successivi strumenti internazionali adottati al fine di fronteggiare il problema del cambiamento climatico, dopo diversi atti, fra cui l’Accordo di Copenaghen del 18 dicembre 2009 e quello di Cancún dell’11 dicembre 2010[39], il 12 dicembre 2015, durante la COP-21, è stato presentato l’accordo di Parigi[40]. Tale accordo stabilisce l’obiettivo di mitigazione e contenimento dell’aumento della temperatura della Terra non oltre i 2°C rispetto ai livelli preindustriali, e mira a migliorare la capacità di adattamento a tali cambiamenti anche attraverso l’identificazione di risorse finanziarie[41]. L’art. 3 prevede il sistema delle Nationally Determined Contributions, che rappresentano l’obiettivo di riduzione dei gas serra dichiarato unilateralmente dai singoli Stati. L’accordo, dunque, non pone obblighi vincolanti di riduzione e non stabilisce quote per le Parti. Tale impostazione, adottata per favorire un’ampia partecipazione, sebbene non consenta di esprimere una valutazione pienamente positiva del nuovo sistema, è sicuramente proficua sotto molteplici punti di vista: innanzitutto è stato introdotto l’obiettivo, sia pure non vincolante, di mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali; in secondo luogo, gli Stati si sono impegnati a destinare risorse per un’economia “verde” (finanza climatica); l’aspetto sicuramente più importante è che sono Parti del Trattato anche Stati Uniti, Cina e India, ossia i tre Paesi con le maggiori emissioni di gas serra. L’accordo promuove la cooperazione per le iniziative mirate alla mitigazione e all’adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici e al trasferimento di tecnologie ai paesi in via di sviluppo. Un ruolo importante è assegnato al principio di trasparenza, perché i meccanismi previsti dall’Accordo hanno carattere “agevolativo”, non intrusivo e non sanzionatorio. Infatti sono stati scelti meccanismi di compliance più flessibili rispetto a quelli del Protocollo di Kyoto. Inoltre, è stata riconosciuta l’importanza di scongiurare, minimizzare e affrontare le perdite e i danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici. È emersa, altresì, la necessità di cooperare e migliorare la comprensione, gli interventi e il sostegno in diversi campi, come i sistemi di allarme rapido, la preparazione alle emergenze e l’assicurazione contro i rischi. Le pattuizioni dell’accordo vedono il coinvolgimento anche degli enti locali delle amministrazioni statali[42]. Per realizzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra e di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, le Parti si sono impegnate a raggiungere il picco globale di emissioni di gas serra il prima possibile. Inoltre, in base al principio delle responsabilità comuni ma differenziate, si tiene conto del fatto che gli Stati sviluppati hanno inquinato e continuano ad inquinare maggiormente rispetto agli Stati in via di sviluppo, i quali, dunque, impiegheranno più tempo per raggiungere il picco delle emissioni; in altri termini, essi “potranno inquinare” per un periodo di tempo più ampio rispetto a quello degli Stati industrializzati.

In occasione della COP del 2018, le Parti dell’Accordo di Parigi hanno adottato un Rulebook al fine di dare attuazione agli obblighi contenuti nel trattato. In particolare, il Rulebook ha posto a carico degli Stati specifici obblighi di reporting sul livello di attuazione del programma di contrasto al riscaldamento globale[43].

2.2. La lotta al cambiamento climatico diventa uno degli obiettivi da raggiungere per assicurare lo sviluppo sostenibile previsto dall’Agenda 2030 e dai 17 SDGs delle Nazioni Unite

Con risoluzione 70/1 del 25 settembre 2015, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato l’Agenda 2030[44], un programma d’azione «per le persone, il pianeta e la prosperità»[45], che comprende 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs) e 169 “traguardi” (targets), da raggiungere entro 15 anni (la durata del programma va dal 2016 al 2030)[46].

Gli Obiettivi per lo Sviluppo danno seguito agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals), che li hanno preceduti[47]; essi bilanciano le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: quella economica, sociale ed ambientale[48].

Gli Stati hanno affermato di essere «determinati a proteggere il pianeta dal degradazione, attraverso un consumo ed una produzione consapevoli, gestendo le sue risorse naturali in maniera sostenibile e adottando misure urgenti riguardo il cambiamento climatico, in modo che esso possa soddisfare i bisogni delle generazioni presenti e di quelle future»[49].

Dei 17 obiettivi[50], quello che più interessa in questa sede è il numero 13, ossia «Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico (Riconoscendo che la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici è il principale forum internazionale e intergovernativo per la negoziazione della risposta globale al cambiamento climatico)»[51]. L’obiettivo comprende tre punti e due sottopunti:

«13.1 Rafforzare in tutti i paesi la capacità di ripresa e di adattamento ai rischi legati al clima e ai disastri naturali;

13.2 Integrare le misure di cambiamento climatico nelle politiche, strategie e pianificazione nazionali;

13.3 Migliorare l’istruzione, la sensibilizzazione e la capacità umana e istituzionale per quanto riguarda la mitigazione del cambiamento climatico, l’adattamento, la riduzione dell’impatto e l’allerta tempestiva;

13.a Rendere effettivo l’impegno assunto dai partiti dei paesi sviluppati verso la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, che prevede la mobilizzazione – entro il 2020 – di 100 miliardi di dollari all’anno, provenienti da tutti i paesi aderenti all’impegno preso, da indirizzare ai bisogni dei paesi in via di sviluppo, in un contesto di azioni di mitigazione significative e di trasparenza nell’implementazione, e rendere pienamente operativo il prima possibile il Fondo Verde per il Clima attraverso la sua capitalizzazione;

13.b Promuovere meccanismi per aumentare la capacità effettiva di pianificazione e gestione di interventi inerenti al cambiamento climatico nei paesi meno sviluppati, nei piccoli stati insulari in via di sviluppo, con particolare attenzione a donne e giovani e alle comunità locali e marginali».

In dottrina si era posto il problema di stabilire quali fosse la natura giuridica dei SDGs e, in particolare, se si trattasse di norme di soft law, in quanto tali dotate di una qualche rilevanza giuridica oppure di mere enunciazioni politiche (prive di qualsivoglia rilevanza giuridica)[52].

Secondo un orientamento, agli SDGs non potrebbe essere riconosciuto neanche il valore di norme di soft law, e ciò per due motivi. In primo luogo, essi non raggiungerebbero il livello minimo di “legalità formale” (formal legality), in grado di contribuire allo sviluppo del diritto internazionale. In secondo luogo, gli SDGs non avrebbero lo scopo di “regolare” i comportamenti degli Stati in assenza di norme vincolanti di diritto internazionale (hard law). Dunque, agli SDGs non potrebbe essere ascritta nessuna capacità né prescrittiva né regolatoria, per cui non potrebbero essere qualificati come atti di soft law[53].

La dottrina maggioritaria, invece, tende a riconoscere rilevanza giuridica ai SDGs, qualificandoli come atti di soft law, in considerazione del modo in cui sono stati adottati, ossia attraverso una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite[54] e malgrado il contenuto vago e di natura prevalentemente politica della maggior parte degli obiettivi e dei targets. Occorre rammentare, inoltre, che talune previsioni dei SDGs rispecchiano norme di diritto internazionale consuetudinario e, dunque, hanno sostanzialmente valore di hard law[55].

Sebbene l’Agenda 2030 sia fondata sul principio dello sviluppo sostenibile, essa non ne fornisce alcuna definizione[56].

Se, da un lato, è ormai pacifico che lo sviluppo sostenibile non sia un unico principio giuridico, ma un insieme di principi, di natura sostanziale e procedurale, dall’altro, non vi è unanimità di vedute su quali siano i suoi elementi costitutivi[57].

Per l’opinione più accreditata[58], sarebbero quattro, ovvero: a) uso equo e sostenibile, prudente e razionale, delle risorse naturali; b) equità e giustizia inter-generazionale secondo quanto già affermato dal Rapporto Brundtland[59]; c) equità e giustizia intra-generazionale[60]; d) il quarto elemento costitutivo sarebbe il principio di  integrazione,  sancito  dal  Principio  4  della Dichiarazione di  Rio  del  1992, che richiama la necessità di integrare le esigenze della tutela ambientale con quelle dello sviluppo socio-economico[61].

Secondo altra ricostruzione, il principio di sviluppo sostenibile comprenderebbe tutti i principi sostanziali contenuti negli articoli da 3 a 8, nonché tutti i principi procedurali contenuti negli articoli da 10 a 17 della Dichiarazione di Rio del 1992[62].

Per quanto concerne la natura giuridica del principio, si è registrata una molteplicità di vedute. Per un orientamento, esso sarebbe idoneo a produrre effetti giuridicamente vincolanti nei confronti degli Stati[63]. Vi è stato, poi, chi lo ha qualificato come principio generale del diritto ai sensi dell’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia[64]. Per altra opinione, il principio sarebbe in grado di produrre obbligazioni di mezzi ma non di risultato, vincolerebbe, cioè, gli Stati ad assumere l’impegno di tutelare l’ambiente, ma non imporrebbe loro di raggiungere un livello di tutela minima[65]. Secondo altri autori, infine, il principio sarebbe privo di valore giuridico e avrebbe una valenza esclusivamente politica, per cui non sarebbe idoneo a vincolare né a produrre qualsiasi altro tipo di effetto giuridico nei confronti degli Stati[66].

Inoltre, malgrado tale principio sia ormai divenuto punto di riferimento imprescindibile per le politiche nazionali degli Stati, nonché per il diritto internazionale, sono ancora notevoli le difficoltà esistenti circa la determinazione del suo esatto contenuto[67]. Secondo il Rapporto Brundtland, il rispetto del summenzionato principio imponeva di garantire non solo alla generazione presente, ma anche a quelle future il diritto di soddisfare i propri bisogni, in un’ottica di “giustizia intergenerazionale”[68]. Secondo l’accezione di sviluppo sostenibile contenuta nel Rapporto, si considerava quale unico limite allo sviluppo economico quello dei bisogni delle generazioni future, e non anche la limitata capacità del pianeta di “sopportare” le attività di produzione e consumo degli esseri umani. In altri termini, il Rapporto aveva una visione eccessivamente ottimistica della capacità della tecnologia di porre rimedio ai problemi della finitezza delle risorse del pianeta e della limitata capacità della biosfera di assorbire gli scarti dei processi produttivi dell’uomo[69].

Oggi, invece, il concetto di sviluppo sostenibile ha abbandonato il suo originario ruolo di strumento di bilanciamento tra le contrapposte esigenze di sviluppo economico e tutela dell’ambiente, per abbracciare tre diverse dimensioni: economica, sociale ed ambientale, in virtù del principio di integrazione di cui al Principio 4 della Dichiarazione di Rio[70].

Il principio di sviluppo sostenibile svolge oggi un ruolo importante nella formazione e nell’interpretazione delle norme internazionali in materia di ambiente. Considerata la sostanziale disomogeneità dei 17 obiettivi del millennio e dei 169 targets, lo sviluppo sostenibile può fungere da chiave interpretativa “unificatrice” del complesso e variegato sistema normativo ambientale.

Il tema del cambiamento climatico, affrontato dal punto n. 13 dell’Agenda 2030, si pone in stretta connessione con altri obiettivi dalla stessa previsti: ad esempio, con l’obiettivo n. 3 (garantire salute e benessere), poiché il riscaldamento globale è in grado di pregiudicare, sia direttamente che indirettamente, la salute degli esseri umani (si pensi, per esempio, alla siccità, che – pregiudicando il raggiungimento dell’obiettivo n. 2, ossia azzerare la fame e la penuria di cibo, a causa delle riduzioni dei raccolti e degli allevamenti – è in grado di incidere negativamente anche sulla salute). Anche l’obiettivo n. 9 (realizzare nuove infrastrutture e di manutenere quelle esistenti) potrebbe essere indirettamente pregiudicato dall’aumento di temperatura del globo terrestre (spesso le inondazioni o le esondazioni dei fiumi hanno effetti devastanti su strade, ponti, edifici, ecc.). Il raggiungimento dell’obiettivo n. 15 (tutelare la vita sulla terra) verrebbe direttamente pregiudicato dall’alzamento incontrollato della temperatura terrestre.

2.3. CEDU e climate action: gli articoli 2 e 8 della Convenzione sono idonei a fondare un diritto soggettivo a un ambiente salubre e a un clima equilibrato immediatamente azionabile nei confronti dello Stato?

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non contiene alcuno specifico riferimento al diritto dell’ambiente, tuttavia la Corte europea dei diritti umani ha riconosciuto che il deterioramento dell’ambiente può impedire all’individuo il godimento del proprio domicilio e ostacolare il diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU), anche nel caso in cui la sua salute non sia stata posta seriamente in pericolo[71].

A questo riguardo, nel caso Tatar c. Romania, la Corte EDU ha ritenuto che il diritto alla vita privata e familiare dei ricorrenti, Vasile Gheorghe Tatar e Paul Tatar, rispettivamente padre e figlio, fosse stato leso dalla condotta omissiva dello Stato[72]. I due, infatti, vivevano in prossimità di una miniera d’oro che impiegava il cianuro di sodio (sostanza altamente tossica) nelle proprie attività. Il 30 gennaio 2000, in seguito ad un grave incidente occorso nel sito, più di 100.000 metri cubi di acqua contaminata dal cianuro si riversarono nell’ambiente circostante. Nell’immediatezza dei fatti, i due cittadini presentarono una denuncia, in seguito alla quale venne instaurato un giudizio penale, il quale, tuttavia, si concluse con una sentenza di assoluzione, perché le condotte tenute dai dirigenti dell’azienda non costituivano reato ai sensi del Codice penale della Romania. Contemporaneamente, i ricorrenti avviarono numerosi procedimenti amministrativi allo scopo di far cessare o sospendere le attività di estrazione, in quanto pregiudizievoli per la propria salute. Nel 2003, al termine delle attività istruttorie, il Ministero dell’ambiente rumeno dichiarava che le attività di estrazione non costituivano un pericolo per la pubblica incolumità - perché condotte in conformità alle norme e agli standard dell’Unione europea - e che, pertanto, non occorreva adottare alcun provvedimento al riguardo. I Tatar, allora, presentarono un ricorso alla Corte EDU, la quale ritenne che l’inerzia della Romania in seguito al pregiudizio subito dai cittadini a causa dell’inquinamento prodotto dalle attività minerarie costituisse violazione dell’art. 8. La Romania, non essendosi attivata per porre rimedio alle forti criticità ambientali e non avendo garantito ai ricorrenti un ambiente salubre, avrebbe leso il loro diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 della Convenzione. Dunque la salubrità dell’ambiente è stata qualificata come elemento costitutivo del diritto tutelato dall’art. 8 della Convenzione e la lesione del diritto si concretizza anche quando la sua salute del ricorrente non sia stata posta seriamente in pericolo[73].

Sempre in relazione all’art. 8, in alcuni casi la Corte ha operato un bilanciamento tra interessi contrapposti meritevoli di tutela: da una parte, l’interesse della collettività, spesso di tipo economico; dall’altro, quello dei singoli a vivere in un ambiente sano[74].

Nel caso Lopez Ostra c. Spagna, n. 16798/90, sentenza del 9 dicembre 1994, la ricorrente, Sig.ra Lopez Ostra, cittadina spagnola, possedeva un’abitazione situata nelle vicinanze di un impianto per il trattamento di scarti provenienti da concerie. Tale impianto aveva iniziato ad operare, malgrado la mancata concessione della licenza richiesta dalla legge per lo svolgimento di attività pericolose o nocive per la salute, e fin dall’inizio della sua attività, l’inquinamento da esso prodotto causò significativi problemi di salute ai cittadini che vivevano nelle vicinanze dell’impianto, tra i quali anche alla ricorrente[75]. Tale circostanza indusse le autorità del Comune ad evacuare tutte le abitazioni nelle zone limitrofe all’impianto: gli abitanti vennero trasferiti in altra zona a spese del comune e alcune attività inquinanti vennero interrotte, ad eccezione del trattamento di acque reflue contaminate con cromo, che proseguì[76]. Una volta tornati nelle loro case, i cittadini ricominciarono a soffrire delle patologie che avevano avuto fino a prima dell’evacuazione; inoltre, per tutto il periodo in cui erano stati lontani dall’inquinamento dello stabilimento, i sintomi delle varie patologie erano scomparsi. A causa di ciò, la qualità della vita dei residenti nelle zone limitrofe alla fonte dell’inquinamento venne notevolmente compromessa. La ricorrente, allora, si rivolgeva alla Corte europea, lamentando l’asserita violazione, da parte delle Autorità spagnole rimaste sostanzialmente inerti, degli articoli 8 e 3 della Convenzione (salvaguardia della vita privata e familiare e proibizione della tortura). La Corte ha constato che le autorità locali avevano sostanzialmente tollerato la situazione verificatasi, la quale, pur non costituendo un pericolo grave per la salute pubblica, comportasse, nel complesso, fastidi tali da determinare un sensibile peggioramento della qualità della vita della ricorrente e degli altri cittadini residenti nelle medesime zone. Nella pronuncia è stato allora affermato che, allorquando occorra mettere in funzione impianti inquinanti per il trattamento di sostanze potenzialmente nocive per la salute o lesive per l’ambiente, le autorità pubbliche sono tenute ad effettuare un equo bilanciamento tra interessi contrapposti, entrambi meritevoli di tutela: da una parte, vi è l’interesse della collettività all’esistenza dell’impianto, anche al fine di implementare l’economia; dall’altra, vi è quello degli abitanti che risiedono nelle zone limitrofe all’impianto a conservare un ambiente salubre. Questo equo bilanciamento implica l’obbligo per le autorità pubbliche di adottare tutte le misure e tutti gli accorgimenti necessari per scongiurare che il funzionamento di detti impianti abbia conseguenze negative “abnormi” sulla vita privata e familiare dei cittadini, pena la violazione dell’art. 8[77]. Nel caso di specie le conseguenze inquinanti fortemente peggiorative delle condizioni di vita della ricorrente sono state considerate il frutto di una attività non adeguatamente ponderata e bilanciata, da parte delle autorità spagnola, con l’interesse della popolazione a vivere in un ambiente salubre. In altri termini, le misure adottate dall’ente locale spagnolo sono state del tutto insufficienti per garantire ai residenti un ambiente salubre e, così, i loro interessi sarebbero stati ingiustamente trascurati e compressi[78].

Secondo la Corte, la violazione dell’art. 8 può avvenire anche qualora lo Stato non fornisca le informazioni che consentano all’individuo di valutare i rischi potenziali legati alla permanenza in un territorio esposto a pericolo di inquinamento[79].

Il caso Guerra e altri c. Italia, n. 14967/89[80], traeva origine dal ricorso presentato nel 1988 da quaranta cittadine italiane alla Commissione dell’allora Comunità europea, residenti nelle vicinanze di uno stabilimento chimico. Nel 1988, la fabbrica era stata classificata come “ad alto rischio”, in applicazione dei criteri di cui al D.P.R. 18 maggio 1988, n. 175 (atto con il quale era stata recepita la direttiva 82/5011 delle Comunità europee, riguardante i rischi di incidenti gravi connessi allo svolgimento di attività industriali pericolose (direttiva “Seveso”). Le ricorrenti avevano affermato che la fabbrica aveva sprigionato nell’aria ingenti quantità di sostanze chimiche tossiche. A questo riguardo, la relazione tecnica redatta dalla commissione incaricata dal Comune riscontrava che, effettivamente, la fabbrica rilasciava nell’atmosfera ingenti quantità di sostanze nocive. L’anno seguente, nel 1989, la fabbrica cessò la produzione di uno dei suoi prodotti, il caprolattame, ma continuò quella dei fertilizzanti, e ciò giustificò il mantenimento della fabbrica nella fascia di quelle considerate “ad alto rischio”. In risposta all’istanza rivolta da un deputato europeo alla Commissione delle Comunità europee del 7 novembre 1989, il Commissario competente rispose che il Governo italiano aveva istruito il caso ai sensi dell’art. 18 del D.P.R. sopra citato al fine di controllare la sicurezza delle installazioni della fabbrica e, se necessario, di individuare le opportune misure di sicurezza. Per quanto riguarda l’applicazione della direttiva 82/501, il Governo italiano applicò tutti i provvedimenti ivi richiesti. Il 14 settembre 1993, i Ministri della salute e della sanità prescrissero una serie di aggiustamenti da apportare alle installazioni dello stabilimento, riguardanti la produzione di fertilizzanti e la eventuale ripresa della produzione di caprolattame. Nel 1994, venne fermata anche la produzione di fertilizzanti e rimasero in funzione soltanto una centrale termoelettrica ed alcune installazioni per il trattamento delle acque pure e delle acque di rifiuto. Ciò nonostante, anche in questo caso, la Corte europea ha ritenuto, con sentenza del 19 febbraio 1998, che le misure adottate dallo Stato italiano non fossero state adeguate e sufficientemente tempestive, pertanto – essendovi stato un evidente peggioramento delle condizioni e della qualità della vita delle ricorrenti – era stato violato l’art. 8 della Convenzione[81].

Pertanto, secondo la giurisprudenza europea, gli Stati hanno l’obbligo di adottare tutte le misure ragionevoli finalizzate alla tutela della salute degli abitanti, sebbene godano di un certo margine di discrezionalità nella scelta delle misure da adottare[82].

Talvolta, l’inquinamento massiccio di una risorsa naturale è stato ricondotto all’ambito di applicazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita) o dell’art. 1, Protocollo 1 (diritto di proprietà), qualora lo Stato non ponga in essere determinate misure e sussista un nesso causale tra l’assenza di tali misure e il decesso di individui o, nel secondo caso, la possibilità per l’individuo di godere dei suoi beni[83]. Nel caso Oneryildiz c. Turchia[84], due cittadini turchi si erano rivolti alla Corte europea per una asserita lesione dei loro diritti ai sensi degli articoli 2, 8 e 13 della Convenzione, nonché dall’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1. I ricorrenti avevano perso familiari e abitazioni a causa di una esplosione occorsa in un vicino sito di smaltimento di rifiuti[85]. Le autorità amministrative non avevano adottato alcuna misura idonea a garantire la sicurezza del sito né delle aree confinanti. In particolare, non vi era mai stato alcun tipo di controllo sulla tipologia di materiali conferiti in discarica (e, infatti, all’esito delle indagini era emerso che l’esplosione si era verificata proprio a causa del mancato rispetto delle norme in materia di smaltimento dei rifiuti); inoltre, la totale inerzia delle autorità aveva permesso l’edificazione di enormi baraccopoli abusive nei dintorni della discarica, in spregio alle elementari norme urbanistiche, di sicurezza e igienico-sanitarie. I sindaci dei comuni interessati dal disastro subirono condanne civili, penali, amministrative e contabili a causa delle condotte giudicate gravemente negligenti. La Corte europea ha, quindi, ritenuto che: 1) la condotta negligente delle autorità turche integrasse una violazione delle norme invocate dai ricorrenti (articoli 2, 8 e 13 della Convenzione e art. 1 del primo Protocollo addizionale)[86]; 2) e che tra tale violazione (mancata adozione delle misure necessarie a prevenire il danno) e il danno subito dai ricorrenti sussistesse un nesso di causalità, pertanto lo Stato andava dichiarato responsabile per gli eventi lesivi occorsi[87].

Alla luce dell’analisi finora condotta, è quindi possibile affermare che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, gli articoli 2 e 8 della Convenzione sono idonei a fondare un diritto soggettivo avente ad oggetto la salubrità dell’ambiente, che così opinando riceverebbe tutela diretta. Qualora, invece, si voglia negare la sussistenza di un nuovo e autonomo diritto all’ambiente salubre, distinto rispetto al diritto alla vita ex art. 2 e al rispetto della vita privata e familiare ex art. 8, è tuttavia innegabile che la salubrità dell’ambiente costituisce presupposto indefettibile per l’esercizio di tali diritti, pertanto esso sarebbe comunque tutelato, sia pure indirettamente[88].

Ad ogni modo, per la Corte EDU, gli articoli 2 e 8 della Convenzione sono idonei a obbligare gli Stati a porre in essere tutte le misure necessarie per assicurare ai cittadini un ambiente salubre. Infatti, come appurato nell’analisi delle sentenze sopra citate, la Corte ha ritenuto che l’inquinamento ambientale derivante da attività svolte o autorizzate dallo Stato costituisca violazione del diritto alla vita e al rispetto della vita privata e familiare[89].

2.4. Il quadro giuridico dell’UE in materia di cambiamenti climatici: brevi cenni

L’Unione europea ha svolto e svolge tuttora un ruolo particolarmente rilevante nell’evoluzione del diritto dell’ambiente, tanto a livello internazionale (globale e regionale-europeo), quanto a livello interno, negli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri[90]. Dopo la riforma di Lisbona, la base giuridica della competenza dell’Unione europea in materia ambientale si desume dal combinato disposto degli articoli 11, 114, 191, 192, 193 e 352 del Trattato sul funzionamento dell’UE. Dunque, è principio di carattere generale che «le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile» (art. 11)[91]. Gli obiettivi della politica ambientale dell’Unione sono: a) salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente; b) protezione della salute; c) utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; d) promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici. La politica ambientale dell’Unione è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione dei danni causati all’ambiente e sul principio «chi inquina paga» (art. 191)[92].

Nel marzo del 2000, la Commissione, al fine di perseguire l’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra, previsto dal Protocollo di Kyoto, attraverso il meccanismo di Emissions trading, adottò un Libro verde sullo scambio dei diritti di emissione dei gas serra all’interno dell’Unione. Tale documento costituì il punto di partenza per l’attuazione del Protocollo di Kyoto. Nel giugno dello stesso anno, infatti, venne creato il Programma europeo per il cambiamento climatico (European Climate Change Programme, ECCP), con il compito di studiare le misure per ridurre le emissioni di gas serra e dare attuazione al Protocollo, approvato dall’UE con decisione del Consiglio 2002/358/CE del 25 aprile 2002 (in GUCE L 130 del 15 maggio 2002). Fu così che vide la luce la Direttiva 2003/87/CE, che istituì un sistema per lo scambio di quote di emissioni di gas ad effetto serra (Emissions Trading System, ETS) tra gli Stati dell’UE[93].

La Direttiva prevedeva che, a partire dal 1° gennaio 2005, gli Stati membri avrebbero dovuto ottenere il totale controllo delle attività produttive di gas serra sul proprio territorio: ogni impianto dal quale si sprigionassero tali gas, per potere funzionare avrebbe dovuto avere una apposita autorizzazione dallo Stato. In altri termini, la produzione di gas serra avrebbe dovuto essere espressamente autorizzata dallo Stato nel quale erano ubicati gli impianti inquinanti. Le imprese avrebbero, quindi, dovuto presentare una apposita domanda di autorizzazione all’emissione di gas serra e lo Stato avrebbe dovuto rispettare stringenti condizioni stabilite dall’UE per poter rilasciare l’autorizzazione. In virtù di tale meccanismo, gli Stati erano tenuti ad assicurare la trasferibilità delle quote all’interno della Comunità. Il tetto massimo di emissioni veniva stabilito a livello nazionale da appositi piani nazionali di assegnazione (PNA).

L’operatività del programma di azione venne scadenzata, a livello temporale, in fasi. Fino ad oggi, ne sono state programmate quattro.

La prima fase è iniziata il 1° gennaio 2005 e si è conclusa nel 2007. Si è trattato di un periodo “preparatorio”, durante il quale si è proceduto all’analisi empirica dei dati per preparare la fase successiva.

Fra le principali caratteristiche di questa prima fase, si possono ricordare: a) che riguardava esclusivamente le emissioni di anidride carbonica (CO2), con esclusione, quindi, di tutti gli altri gas serra; b) le quote di emissione sono state dagli Stati alle imprese a titolo gratuito e non onerosa; c) in caso di mancato rispetto dei limiti di emissione, veniva irrogata una sanzione pecuniaria pari a 40 euro per ogni tonnellata eccedente il limite fissato dalla quota. La prima fase è riuscita a implementare le reti infrastrutturali necessarie per controllare, comunicare e verificare le emissioni delle imprese interessate, assicurare il libero scambio di quote di emissione in tutta l'UE e, infine, a stabilire il prezzo delle quote[94].

La seconda fase è durata dal 2008 al 2012 ed è coincisa con il primo periodo di impegno fissato dal Protocollo di Kyoto, al termine del quale gli Stati dell’Unione si erano impegnati a ridurre le emissioni dell’8% rispetto al 1990. Tuttavia, la soglia dell’8% si sarebbe poi potuta ripartire tra gli Stati membri in base alla “capacità inquinante” di ciascuno[95]. I singoli Stati membri, a livello comunitario, avevano ripartito l’onere di riduzione con l’accordo di Burden Sharing del 16-17 giugno 1998, per cui alcuni Stati erano tenuti a ridurre le emissioni in misura maggiore o minore rispetto all’8% (ad esempio il Lussemburgo era tenuto a ridurle del 28%, mentre l’Italia del 6,5%), altri dovevano lasciarle invariate (Finlandia) ed altri ancora avevano facoltà di aumentarle entro un limite massimo (la Spagna aveva la facoltà di aumentarle entro il limite massimo del 15%)[96]. Le novità principali della seconda fase sono state: a) la riduzione delle quote di emissione del 6,5% rispetto al 2005; b) l’adesione di tre nuovi paesi (Islanda, Liechtenstein e Norvegia); c) l’organizzazione di numerose “aste” per la vendita delle quote di emissioni[97]; d) la sanzione in caso di mancato rispetto degli obblighi è stata aumentata da 40 a 100 euro per tonnellata; e) è stato istituito un registro europeo in sostituzione dei registri nazionali delle operazioni di scambio delle quote[98].

Attualmente, il programma di azione per il clima sta attraversando la terza fase, che è iniziata nel 2013 e terminerà alla fine del 2020. Tra le principali novità, sono degne di menzione: a) l’applicazione di un tetto unico a livello europeo alle emissioni, anziché tetti nazionali come in precedenza; b) la vendita all'asta è divenuto il metodo ordinario di assegnazione delle quote (al posto dell'assegnazione a titolo gratuito), mentre alle quote ancora assegnate gratuitamente si applicano norme armonizzate; c) è stato ampliato l’elenco dei gas da ridurre; d) grazie al programma NER 300, sono state accantonate 300 milioni di quote per finanziare la diffusione di tecnologie innovative per le energie rinnovabili e la cattura e l'immagazzinamento della CO2[99].

Sempre al 2013 risale la Strategia dell’Ue in materia di adattamento ai cambiamenti climatici, che mira ad aumentare la resilienza e la capacità degli Stati membri di rispondere, a tutti i livelli di governo, ai cambiamenti climatici. La strategia si pone tre obiettivi fondamentali: incoraggiare azioni virtuose da parte degli Stati membri, adottare azioni “a prova di clima” a livello dell’Ue e promuovere un processo decisionale basato su migliori informazioni[100].

Con il Green Deal europeo[101] è stata annunciata una nuova Strategia di adattamento che dovrebbe essere adottata nel 2021[102].

Nel 2018 è entrata in vigore la Direttiva 2018/410/UE[103], che ha modificato l’ETS (anche alla luce degli accordi di Parigi del 2015), programmando gli obiettivi da raggiungere al termine della quarta fase. Tra le novità più importanti vi sono: a) stimolare gli investimenti aumentando il ritmo delle riduzioni annuali delle quote al 2,2% a partire dal 2021 e rafforzare la riserva stabilizzatrice del mercato (il meccanismo istituito dall’UE nel 2015 per ridurre l’eccedenza di quote di emissioni nel mercato del carbonio e migliorare la resilienza dell’ETS dell’UE agli shock futuri); b) proseguire con l’assegnazione gratuita di quote a garanzia della competitività internazionale dei settori industriali esposti al rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio, garantendo al tempo stesso che le regole per determinare l’assegnazione gratuita siano mirate e riflettano il progresso tecnologico; c) aiutare l’industria e il settore energetico a rispondere alle sfide dell’innovazione e degli investimenti richiesti dalla transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio attraverso vari meccanismi di finanziamento[104].

Il 28 novembre 2018, la Commissione europea ha presentato la sua strategia di lungo termine per azzerare le emissioni degli Stati membri entro il 2050, in modo da assicurare uno sviluppo economico sostenibile, con impatto climatico neutro. Si tratta di una serie di suggerimenti, raccomandazioni, misure, obiettivi e programmi di natura altamente tecnica, che verranno implementati nel corso del tempo e che mirano all’ambizioso (e forse utopistico) traguardo di azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050, al fine di contrastare il cambiamento climatico[105].

L’11 dicembre 2019, la Commissione europea ha pubblicato una comunicazione dal titolo “The European Green Deal”. L’obiettivo di questo piano di azione è quello di rendere l’Europa, o meglio, gli Stati membri dell’Unione europea liberi da emissioni di gas serra entro il 2050 e, al contempo, assicurare lo sviluppo di un’economia sostenibile. A questo scopo, è stato istituito un apposito Sustainable Europe Investment Plan[106].

Al fine di rendere giuridicamente vincolante l’obiettivo del Green Deal (azzeramento delle emissioni entro il 2050), il 4 marzo 2020, la Commissione europea ha avanzato una proposta di regolamento per l’emanazione di una Legge europea sul clima (European Climate Law)[107].

2.5. Le norme costituzionali olandesi rilevanti nella controversia: l’obbligo dello Stato di tutela dell’ambiente e di adeguamento alle norme internazionali e dell’UE

Terminata la sintetica ricognizione del diritto internazionale ed europeo rilevante nel caso di specie, è il momento di analizzare le norme dell’ordinamento giuridico olandese in materia ambientale, a cominciare da quelle costituzionali.

A questo riguardo, l’articolo 21 della Costituzione olandese stabilisce espressamente che la salvaguardia dell’ambiente è compito dello Stato[108]. La legislazione olandese in materia ambientale inizialmente teneva in considerazione esclusivamente il profilo “oggettivo” della tutela ambientale: ossia la salvaguardia dell’ambiente in sé, senza riconoscere agli individui un diritto soggettivo alla salubrità dell’ambiente (profilo soggettivo). A partire dagli anni Ottanta, nell’ordinamento olandese iniziano a riconoscersi in campo agli individui specifiche situazioni giuridiche soggettive in relazione all’ambiente: da un lato, il diritto a vivere in un ambiente salubre e, dall’altro, il dovere di astenersi dal porre in essere condotte lesive dell’ambiente (c.d. responsabilità ambientale)[109]. È opinione ormai consolidata nella dottrina costituzionalistica olandese che tale norma abbia natura non meramente programmatica, bensì precettiva. In altri termini, essa impone allo Stato uno specifico obbligo di attivarsi per la salvaguardia dell’ambiente attraverso la predisposizione di strumenti normativi e amministrativi volti a tale scopo[110]. Tale opinione è avallata dall’interpretazione fornita dalla prassi giurisprudenziale nei Paesi bassi: da tempo, infatti, i giudici olandesi hanno qualificato come “fondamentale” il diritto degli individui ad un ambiente sano, configurando in capo allo Stato una vera e propria responsabilità per l’inadempimento di tale obbligo, peraltro corredata da specifici strumenti risarcitori in favore dei cittadini[111]. Tale granitico orientamento è stato ribadito nel caso Urgenda, come si avrà modo di illustrare nel capitolo successivo.

Accertata l’esistenza di un diritto soggettivo all’ambiente (immediatamente azionabile) nell’ordinamento olandese, occorre, adesso, illustrare i meccanismi costituzionali di adattamento al diritto internazionale ed europeo. Al riguardo, l’articolo 93 della Carta costituzionale dei Paesi bassi stabilisce che gli obblighi internazionali di cui lo Stato è parte divengono vincolanti dopo la pubblicazione[112]. Per la dottrina maggioritaria, la norma prevederebbe un meccanismo di adattamento automatico alle norme di diritto internazionale consuetudinario (simile a quello previsto dall’art. 10, comma 1, della Costituzione italiana), mentre per le norme internazionali di fonte pattizia la vincolatività sorge in seguito alla “pubblicazione”, ossia, in termini tecnici, in seguito alla ratifica da parte del numero di Stati richiesto dai singoli trattati per entrare in vigore[113].

Alla luce di quanto detto, gli obblighi internazionali scaturenti dal diritto UE in materia ambientale[114], nonché dagli articoli 2 e 8 della CEDU (nella interpretazione fornita dalla Corte EDU, ossia come norme idonee a fondare un diritto soggettivo immediatamente azionabile alla salubrità dell’ambiente), vincolano lo Stato. Tale assunto è confermato dalla pronuncia della Corte suprema nel caso Urgenda[115], che si affronterà nel capitolo successivo.

3. La controversia promossa dalla fondazione Urgenda e il suo fondamento giuridico: l’interpretazione della normativa internazionale, dell’UE e interna seguita dalla ricorrente

Nel 2015, la fondazione Urgenda, organizzazione no profit, agendo in nome proprio e per conto di 886 cittadini olandesi, ha convenuto in giudizio il governo olandese davanti alla Corte distrettuale de L’Aia, chiedendone la condanna ad un facere, consistente nell’adottare tutte le misure necessarie per ridurre il tasso di emissione di gas serra di almeno il 25% rispetto a quello del 1990, al fine di contrastare i cambiamenti climatici.

Il fondamento di tale pretesa si colloca all’interno di un quadro giuridico multilivello, composto da norme internazionali, di diritto dell’Unione europea e interne.

A livello internazionale, sono stati invocati gli articoli 2, 8 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tali norme tutelano il diritto alla vita (art. 2), il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8) e ad un ricorso effettivo (art. 13). Si tratta, quindi, di disposizioni che non riconoscono espressamente un diritto soggettivo ad un ambiente salubre, né, tantomeno, sanciscono in favore degli individui un diritto a che lo Stato riduca le emissioni di gas serra. Ciononostante, per orientamento della giurisprudenza europea, come è stato illustrato nel capitolo I del presente lavoro, l’ambito di applicazione di tali norme è stato esteso fino a ricomprendere il diritto di vivere in un ambiente salubre. Più nello specifico, in molteplici occasioni, la Corte ha avuto modo di affermare che gli Stati hanno l’obbligo di prevenire o far cessare le attività inquinanti che determinino un peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini[116].

Urgenda ha, innanzitutto, ricostruito il quadro giuridico internazionale, in forza del quale l’Olanda è tenuta alla riduzione delle emissioni di gas serra. A tale scopo, ha evidenziato che l’Olanda è parte: dell’UNFCCC, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il cui Preambolo riconosce che «le Parti della Convenzione [n.d.r. sono] consapevoli che la portata mondiale dei cambiamenti climatici richiede la più vasta cooperazione possibile di tutti i Paesi e la loro partecipazione ad un’azione nazionale adeguata ed efficace in rapporto alle loro responsabilità comuni ma differenziate, alle rispettive capacità e alle loro condizioni economiche e sociali» e che «hanno la responsabilità di garantire che le attività svolte nel territorio soggetto alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o di regioni al di fuori della loro giurisdizione nazionale»[117]; dell’Accordo di Parigi, della CEDU, oltre che dell’Unione europea.

Le disposizioni della UNFCCC, dell’Accordo di Parigi, della CEDU e di diritto dell’Unione europea sono state, quindi, utilizzate per ricostruire l’obbligo dell’Olanda di agire per contrastare i cambiamenti climatici, riducendo le emissioni di gas serra (da notare che le norme internazionali vincolanti per l’Olanda non attribuiscono espressamente alcun diritto agli individui).

Una volta appurata l’esistenza di siffatto obbligo, il secondo passaggio della ricostruzione del quadro giuridico della teoria di Urgenda si è sostanziato nell’affermazione della titolarità, in capo ad ogni individuo, di un diritto soggettivo – direttamente azionabile davanti all’autorità giudiziaria nazionale – avente ad oggetto la riduzione delle emissioni di gas serra. In altri termini, sebbene le norme internazionali richiamate non contenessero alcun esplicito riferimento agli individui, si è affermato che l’Olanda fosse obbligata non solo verso gli Stati, ma anche verso gli individui, e ciò sulla scorta della teoria che riconosce agli individui una limitata soggettività internazionale[118]. Si tratta di una chiave di lettura decisamente innovativa, se si considera che la Corte EDU, sinora, aveva riconosciuto agli individui un diritto alla salubrità dell’ambiente – e, nello specifico, ad un ambiente non inquinato – ma mai si è pronunciata in materia di cambiamenti climatici[119]. Per avvalorare tale soluzione interpretativa, Urgenda ha prospettato una lettura sistematica degli articoli 2 e 8 della CEDU, in combinato disposto con le norme interne dell’ordinamento giuridico olandese.

Anello di congiunzione tra le due categorie di norme è l’articolo 93 della Costituzione olandese, il quale – stabilendo «Provisions of treaties and of resolutions by international institutions which may be binding on all persons by virtue of their contents shall become binding after they have been published» – distingue le norme di diritto internazionale consuetudinario, alle quali l’ordinamento olandese si adegua automaticamente, da quelle convenzionali, che diventano vincolanti – se l’Olanda ne è parte – dopo la pubblicazione[120].

L’articolo 21 ha costituito, dunque, il presupposto teorico “giustificativo” dell’applicabilità diretta delle norme internazionali in materia ambientale, ivi incluse quelle dirette a frenare i cambiamenti climatici[121].

In virtù di tale norma – secondo l’interpretazione di essa fornita da Urgenda –, ciascun individuo è titolare di uno specifico diritto soggettivo a che lo Stato ponga in essere tutte le misure necessarie per la tutela dell’ambiente, e, trattandosi nel caso in esame di lotta ai cambiamenti climatici, l’oggetto del diritto invocato si sostanzierebbe nel “pretendere” che lo Stato si adoperi per ridurre il tasso di emissione di gas serra.

Tale diritto soggettivo, non espressamente affermato dall’articolo 21 della Costituzione olandese, a giudizio di Urgenda, consentirebbe ai cittadini di far valere davanti ad un’autorità giurisdizionale nazionale la violazione, da parte dello Stato, di norme internazionali. In sostanza, l’illecito internazionale diverrebbe giuridicamente rilevante all’interno dell’ordinamento nazionale. Logico corollario di tale ragionamento è l’astratta sussumibilità della condotta inerte ed omissiva dell’Olanda, consistente nel non essersi attivata per ridurre le emissioni (quantomeno in misura sufficiente per raggiungere il target della diminuzione del 25% rispetto al livello del 1990), nella nozione di atto illecito contenuta nell’articolo 6:162 del Codice civile olandese, rubricato “Definition of a ‘tortious act’”. Il paragrafo 2 di tale norma dispone: «as a tortious act is regarded a violation of someone else’s right (entitlement) and an act or omission in violation of a duty imposed by law or of what according to unwritten law has to be regarded as proper social conduct, always as far as there was no justification for this behaviour». Tale disposizione, stricto iure, potrebbe applicarsi solo alle controversie tra privati cittadini. Tuttavia, Urgenda ne propone una lettura nuova, costituzionalmente e convenzionalmente orientata verso il rispetto dei principi enucleati dalla giurisprudenza europea, che ha fondato un diritto soggettivo alla tutela dell’ambiente (e, più specificamente, ad un ambiente non inquinato) sugli articoli 2 e 8 della CEDU[122]. In sostanza, Urgenda ha affermato di essere titolare di un diritto alla riduzione delle emissioni di gas serra, qualificando la il mancato rispetto degli obblighi internazionali in materia di contrasto ai cambiamenti climatici (sub specie, l’obbligo di ridurre le emissioni) come illecito civile[123]. Dunque, l’obbligo di contrasto ai cambiamenti climatici diverrebbe invocabile da parte degli individui non solo sul piano internazionale, ma anche sul piano del diritto interno.

La sussistenza della legittimazione ad agire in giudizio per la tutela di tale situazione giuridica, è stata rivendicata da Urgenda sulla base di due norme interne: in primo luogo, l’articolo 3:305A del Codice civile olandese, rubricato “Collective actions (Class actions)”, il quale stabilisce che «a foundation or association with full legal capacity that, according to its articles of association, has the objection to protect specific interests, may bring to court a legal claim that intents to protect similar interests of other persons». E, in secondo luogo, l’articolo 3:296, rubricato “Legal action to claim specific performance”, secondo cui «where a person is legally obliged towards another person to give, to do or not to do something, the court shall order him, upon a request or claim of the entitled person, to carry out this specific performance, unless something else results from law, the nature of the obligation or a juridical act».

4. Il giudizio di primo e di secondo grado dinanzi all’autorità giudiziaria olandese: le differenze nell’approccio seguito dalle due Corti per affermare l’esistenza di obblighi in materia climatica a carico del governo olandese

La Corte distrettuale de L’Aia ha, innanzitutto, richiamato la normativa invocata da Urgenda a sostegno della pretesa alla riduzione delle emissioni (ossia l’articolo 21 della Costituzione olandese, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, con i relativi Protocolli, la Direttiva europea istitutiva dell’ETS e la “Sharing Decision”, basata sull’articolo 191 del TFUE). Al riguardo, la Corte ha ritenuto tali norme non idonee a fondare un diritto soggettivo alla riduzione delle emissioni direttamente in capo all’associazione[124].

Quanto agli articoli 2 e 8 della CEDU, i giudici di primo grado hanno affermato che Urgenda non poteva essere qualificata come «vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti dalla Convenzione o nei suoi Protocolli», ai sensi dell’articolo 34 della CEDU, e che, in ogni caso, tali norme non erano idonee ad attribuirle uno specifico diritto soggettivo alla riduzione delle emissioni di gas serra[125].

Ciò nondimeno, essa ha affermato che «although Urgenda cannot directly derive rights from these rules and Articles 2 and 8 ECHR, these regulations still hold meaning, namely in the question discussed below whether the State has failed to meet its duty of care towards Urgenda»[126]. In pratica, da un lato, i giudici di primo grado hanno ritenuto che Urgenda non fosse titolare di un diritto soggettivo direttamente azionabile nei confronti dell’Olanda, ma, dall’altro, hanno affermato che lo Stato aveva un generale “duty of care”, fondato proprio sulle norme invocate in giudizio dall’associazione. Pertanto, tali disposizioni, pur non attribuendo alla ricorrente un vero e proprio diritto soggettivo, venivano ugualmente in rilievo, al fine di stabilire la sussistenza di un «minimum degree of care the State is expected to observe»[127]. Al riguardo, la Corte distrettuale ha, altresì, ritenuto necessario verificare se lo “sforzo” richiesto allo Stato per mitigare i cambiamenti climatici fosse in concreto esigibile o se, al contrario, dovesse considerarsi un «disproportionate burden» e, quindi, non esigibile[128].

I giudici hanno ritenuto che esistesse un “duty of care” per l’Olanda, e che la riduzione del tasso di emissione di gas serra del 25% entro la fine del 2020 rispetto al 1990 fosse un impegno pienamente sostenibile dallo Stato, come, del resto, da quest’ultimo esplicitamente ammesso («the State also argues that a higher reduction target is one of the possibilities»)[129].

In conclusione, l’opinione dei giudici di primo grado può essere riassunta affermando che Urgenda non sarebbe titolare di un diritto soggettivo, ma lo Stato avrebbe in ogni caso un dovere di attivarsi per fronteggiare i cambiamenti climatici (duty of care); tale dovere ha un “contenuto minimo”, consistente nella riduzione dell’emissione di gas serra del 25% rispetto ai livelli del 1990, impegno, peraltro, pienamente sostenibile dall’Olanda[130], la quale avrebbe, comunque, mantenuto un margine di discrezionalità nella scelta dei mezzi e delle modalità attraverso cui adempiere tale obbligo[131].

La Corte d’Appello de L’Aia ha, poi, confermato la pronuncia del giudice di primo grado, rigettando il ricorso dell’Olanda, ma sulla base di un diverso percorso interpretativo e argomentativo.

I giudici d’appello non hanno condiviso la statuizione della Corte distrettuale, secondo cui Urgenda sarebbe stata priva di legittimazione processuale, in quanto non qualificabile come “vittima”, ai sensi dell’articolo 34 della CEDU. Ad avviso della Corte, infatti, la norma attributiva della legittimazione processuale davanti ai giudici olandesi non andava ravvisata nella suddetta disposizione della Convenzione (che attribuisce, invece, legittimazione per proporre ricorso alla Corte europea), bensì nelle norme nazionali, e, specificamente, nell’articolo 3:305A del Codice civile olandese, il quale – come anticipato – stabilisce che «a foundation or association with full legal capacity that, according to its articles of association, has the objection to protect specific interests, may bring to court a legal claim that intents to protect similar interests of other persons». Ai sensi di tale norma, quindi, è stato ritenuto che Urgenda aveva pieno titolo per agire in giudizio contro lo Stato, per conto e nell’interesse dei cittadini olandesi[132], ai sensi degli articoli 2 e 8 della Convenzione europea[133]. A causa della presenza di una concreta minaccia alla salute dei cittadini, derivante dai cambiamenti climatici, gli articoli 2 e 8 – a giudizio della Corte d’Appello – sarebbero stati idonei a fondare uno specifico obbligo dello Stato ad agire immediatamente, adottando tutte le misure per contrastare tali cambiamenti, e, correlativamente, un autonomo diritto soggettivo in capo ai cittadini, avente ad oggetto la riduzione delle emissioni[134].

Per tali ragioni, la Corte ha ritenuto che «the State was failing to fulfil its duty of care pursuant to Articles 2 and 8 ECHR by not wanting to reduce emissions by at least 25% by the end of 2020»[135]. Come si vede, il risultato pratico della pronuncia dei giudici di secondo grado non differisce, nella sostanza, da quella della Corte distrettuale, nel senso che in entrambi i gradi di giudizio è riconosciuto in capo allo Stato un dovere di attivarsi per la lotta ai cambiamenti climatici. La Corte d’Appello non ha condiviso, tuttavia, alcune statuizioni: innanzitutto ha ritenuto Urgenda legittimata, dal punto di vista processuale, ad agire in giudizio contro lo Stato per pretendere l’adozione di misure di contrasto ai cambiamenti climatici, e ciò perché la norma di riferimento non è stata ravvisata nell’articolo 34 CEDU, bensì nell’articolo 3:305A del Codice civile olandese[136]. Inoltre, in secondo grado, non è stata ribadita la discrezionalità, per lo Stato, di scegliere in che modo contrastare i cambiamenti climatici[137]. Ulteriore differenza risiede nella circostanza che, in primo grado, non è stata riconosciuto un diritto soggettivo alla riduzione delle emissioni di gas serra, ma soltanto il dovere statale di tutelare la salute dei cittadini riducendo il tasso di emissioni. Al contrario, i giudici di secondo grado hanno riconosciuto tale diritto in favore dei cittadini[138].

5. La decisione della Corte suprema olandese

La Corte suprema olandese ha rigettato l’appello proposto dallo Stato verso la pronuncia di secondo grado, ritenendo, così, valide le statuizioni dalla Corte distrettuale de L’Aia, in particolare quella che imponeva al governo olandese di ridurre, entro la fine del 2020, il livello di emissione di gas serra del 25% rispetto al livello del 1990.

Il controllo operato dalla Corte suprema olandese, al pari di quello della Cassazione italiana, è inerente alla legittimità della decisione: nell’ordinamento olandese, dunque, non è possibile porre in contestazione i fatti così come accertati nei precedenti gradi di giudizio. Il ricorrente, nel caso in esame lo Stato, può unicamente dolersi della asserita illegittimità o erroneità dell’interpretazione o dell’applicazione della legge da parte dei giudici di merito, o, al più, della presunta incomprensibilità del dispositivo[139].

A sostegno della configurabilità dell’obbligo di riduzione delle emissioni in capo allo Stato, la Corte suprema olandese ha richiamato la norma consuetudinaria del “no harm principle”, fornendone una chiave di lettura innovativa. Infatti, tale principio è nato e ha tradizionalmente trovato applicazione nell’ambito dei rapporti interstatali: ciascuno Stato ha lo specifico obbligo di astenersi dal porre in essere attività o politiche che siano idonee a procurare un danno ambientale agli altri Stati (si parla, al riguardo, di “divieto di inquinamento transfrontaliero”)[140]. Si trattava, quindi, di una regola posta a tutela di interessi prettamente statali: l’ambiente non era riconosciuto chiaramente ed espressamente quale bene giuridico autonomo, patrimonio dell’intera umanità. Per tale ragione, esso riceveva una tutela meramente indiretta, mero riflesso della tutela di interessi prettamente statali.

Nella pronuncia in esame, la Corte suprema dell’Olanda estende l’applicazione del principio anche agli individui: lo Stato ha lo specifico obbligo di ridurre le emissioni di gas serra per tutelare non soltanto gli altri Stati (giacchè il surriscaldamento globale è problema globale), ma anche e, soprattutto, gli individui. A giudizio della Corte, la violazione di tale obbligo determina la responsabilità dello Stato[141]. La conseguenza dell’applicazione del no harm principle agli individui è il riconoscimento, in loro favore, di un vero e proprio “diritto alla riduzione delle emissioni di gas serra”, immediatamente azionabile in giudizio dinnanzi alle Corti nazionali[142].

Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte ha affermato che «pursuant to Articles 2 and 8 ECHR, the State is obliged towards the residents of the Netherlands to take adequate measures to reduce greenhouse gas emissions from Dutch territory»[143]. Dunque, pur mancando pronunce della Corte europea in materia di cambiamenti climatici, gli articoli 2 e 8 della Convenzione erano, in passato, già stati utilizzati per tutelare il diritto degli individui ad un ambiente salubre e, nello specifico, a vivere in un ambiente non inquinato. Tanto è bastato alla Corte suprema per estendere l’ambito applicativo delle due norme europee anche all’inerzia, o all’insufficiente azione, dello Stato in materia di riduzione di gas serra per la lotta ai cambiamenti climatici. La Corte, inoltre, pur richiamando le norme nazionali in materia di class action, e segnatamente l’articolo 3:305A del Codice civile olandese, ha fondato la legittimazione processuale di Urgenda sull’articolo 13 della CEDU, che attribuisce agli individui il diritto ad un ricorso effettivo al fine di tutelare i propri diritti[144]. Per tali ragioni, la Corte ha condiviso l’orientamento fornito dalla Corte d’Appello, secondo cui «the State’s policy regarding greenhouse gas reduction is obviously not meeting the requirements pursuant to Articles 2 and 8 ECHR to take suitable measures to protect the residents of the Netherlands from dangerous climate change»[145]. In conclusione, essa ha rigettato il ricorso dell’Olanda, sancendo così, in maniera definitiva, la sussistenza dell’obbligo, per lo Stato, di adottare tutte le misure necessarie per ridurre, entro la fine del 2020, il tasso di emissione di gas serra del 25% rispetto al livello del 1990[146].

6. Conclusioni

Dallo studio svolto, è emerso il carattere innovativo della decisione della Corte suprema olandese in materia di diritto internazionale ambientale, con specifico riguardo al settore dei cambiamenti climatici. Per la prima volta, infatti, una Corte nazionale ha riconosciuto agli individui un diritto soggettivo a che lo Stato adotti le misure necessarie per ridurre le emissioni di gas serra.

In passato, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva riconosciuto il diritto ad un ambiente salubre, e, nello specifico, il diritto a vivere in un ambiente non inquinato, ma, ad oggi, non sono state registrate pronunce riguardanti i cambiamenti climatici.

La decisione esaminata costituisce un’importante tappa del processo evolutivo del diritto internazionale dell’ambiente. È stata definitiva la “strongest decision” finora adottata in materia climatica[147].

Il Caso Urgenda si inserisce all’interno del più generale fenomeno delle c.d. “climate change litigations[148], cioè di controversie instaurate al fine di obbligare gli Stati ad adottare politiche volte al contrasto dei cambiamenti climatici.

La causa ha costituito un forte input per l’Olanda, che ha avviato una profonda revisione delle proprie politiche ambientali, con particolare riguardo a quelle in grado di incidere sul tema dei cambiamenti climatici; ad esempio, è stata vietata la costruzione di nuove centrali a carbone, è stato velocizzato lo smantellamento di quelle in fase di demolizione, sono state introdotte nuove tasse ed incrementate quelle già esistenti su molte attività inquinanti e sono stati forniti incentivi alle attività economiche che utilizzano energie rinnovabili[149].

In molti Stati, privati cittadini hanno seguito l’esempio della fondazione Urgenda, convenendo in giudizio i rispettivi governi, lamentando l’insufficienza delle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici.

A titolo puramente esemplificativo, nel mese di ottobre 2019, un gruppo di quindici cittadini canadesi ha presentato un ricorso contro il governo federale, dolendosi dell’inadeguatezza delle misure adottate in relazione alla lotta ai cambiamenti climatici. L’insufficienza dell’azione del governo, a giudizio dei ricorrenti, si sarebbe tradotta nella lesione del loro diritto alla vita. Il giudizio è ancora in corso, e dovrebbe terminare entro la fine del 2020[150].

Nel mese di aprile 2018, la Corte suprema della Colombia si è pronunciata sul ricorso con cui 25 cittadini colombiani censuravano la condotta di deforestazione incontrollata dell’Amazonia da parte del governo. La Corte, accogliendo il ricorso, ha condannato il governo alla cessazione immediata della condotta lesiva, oltre che all’adozione di tutte le misure necessarie per adempiere gli obblighi internazionali di riduzione delle emissioni. Nel mese di ottobre 2019, la Corte distrettuale di Bogotà ha ricevuto numerosi ricorsi di privati cittadini aventi ad oggetto presunte violazioni degli obblighi affermati dalla Corte suprema[151].

Si tratta soltanto di alcuni degli ormai numerosi esempi di Climate Change Litigation[152]. La forte espansione di tale pratica è dovuta all’efficacia dimostrata nel “convincere” gli Stati ad affrontare il problema della riduzione delle emissioni e testimonia la crescente attenzione dell’opinione pubblica, specialmente dei giovani, sul tema. Ed infatti, la riduzione delle emissioni di gas serra non costituisce soltanto un obiettivo comune dell’umanità per la sua stessa sopravvivenza, ma anche un gesto di giustizia intergenerazionale, finalizzato ad assicurare alle nuove generazioni le stesse opportunità di crescita e sviluppo di cui hanno beneficiato quelle passate.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Relazione SEE n. 12/2012, su www.camera.it. Le stime in oggetto tengono conto anche degli impatti dei cambiamenti climatici sulle alluvioni fluviali, sulle zone costiere, sull’energia necessaria per la refrigerazione e sul tasso di mortalità dovuto al caldo.

[2] Relazione SEE n. 12/2012, cit.

[3] ROJAS R., FEYEN L., WATKISS P., Climate change and river floods in the European Union: socioeconomic consequences and the costs and benefits of adaptation, 2013, 1737-1751.

[4] Si pensi al caso del Trentino-Alto Adige; V. GENTILE, Caldo e siccità spingono le vigne in montagna, La Stampa, 7 agosto 2018, www.lastampa.it.

[5] MARCHISIO S., Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Torino, 2017, 3.

[6] Il 20 aprile 2010, la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto, nella sentenza pronunciata nel caso Pulp Mills (Argentina v. Uruguay), il principio secondo il quale uno Stato non può effettuare azioni unilaterali suscettibili di provocare danni ambientali ad una risorsa condivisa con altri Stati. Si veda inoltre la sentenza del 16 dicembre 2015, nel caso Construction of a Road in Costa Rica along the San Juan River (Nicaragua v. Costa Rica) resa dalla Corte internazionale di giustizia, e il lodo arbitrale adottato il 20 dicembre 2013 nel caso Indus Waters Kishenganda Arbitration (Pakistan v. India), reso dal Tribunale arbitrale. BENVENISTI E., Sharing Transboundary Resources. International Law and Optimal Resources Use, Cambridge, 2002, 22-43. MARCHISIO S., The Concept of Sovereignity in the Jurisprudence of the International Court of Justice, in TERJE T., MCINTYRE O., WOLDETSADIK T. K. (a cura di), Sovereignity and Development of International Water Law, vol. II, Series III, London, 2015, 128-145.

[7] Nel caso di specie, la fonderia canadese Smelter aveva emesso fumi inquinanti con conseguenze dannose nel limitrofo territorio statunitense.

[8] MARCHISIO S., Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Torino, 2017, 3-4; dello stesso autore, L’ONU. Il diritto delle Nazioni Unite, Bologna, 2012, 314. MARCHISIO S., DI BLASE A., L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Milano, 1992, 10-12.

[9] Adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 14 dicembre 1962 con la risoluzione n. 1803.

[10] MARCHISIO S., Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Torino, 2017, 4-5.

[11] MARCHISIO S., Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Torino, 2017, 1-2. CHASEK P. S., Earth Negotiations: Analizing Thirty Years of Environmental Diplomacy, Tokyo, 2001, 110-116. KUMMER K., International Management of Hazardous Wastes, Oxford, 1995, 38-47.

[12] SWANSON T., JOHNSTON S., Global Environmental Problems and International Environmental Agreements: the Economics of International Institution Building, London, 1999, 40-41. MARCHISIO S., op. cit., 2. BIANCHI A., GESTRI M., Il principio precauzionale nel diritto internazionale e comunitario, Milano, 2006, 13-28.

[13] TAMBURELLI G., Ambiente (diritto internazionale), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2004, 1-5. PINESCHI L., La protezione dell’ambiente nel diritto internazionale, Torino, 2009, 9-35. MUNARI F., SCHIANO DI PEPE L., Tutela transnazionale dell’ambiente, Bologna, 2013, 180. POSTIGLIONE A., Diritto internazionale dell’ambiente, Roma, 2013, 1 e ss. CARAVITA B., Diritto dell’ambiente, Bologna, 2001, 81-85. PINESCHI L., I principi del diritto internazionale dell’ambiente: dal divieto di inquinamento transfrontaliero alla tutela dell’ambiente come “common concern”, in Trattato di diritto dell’ambiente, diretto da FERRARA R., SANDULLI, M. A., Milano, vol. I, 93 e ss.

[14] MARCHISIO S., Corso di diritto internazionale, Torino, 2014, 32-34.

[15] MARCHISIO S., op. ult. cit., 12-13.

[16] Si pensi al Trattato di Bayonne del 2 dicembre 1856, con cui Spagna e Francia misero fine alle controversie riguardanti la delimitazione dei confini, che conteneva un riferimento – sia pure in via del tutto incidentale – al «the enjoyment of the Waters common to both». E proprio l’utilizzo comune delle acque poste sul confine divenne oggetto di controversia davanti al tribunale arbitrale (Caso Lanoux), con decisione del 16 novembre 1957. È evidente che i due Stati, con il Trattato di Bayonne, non intendevano affatto tutelare l’ambiente, ma piuttosto la loro sovranità su territori contesi. La tutela delle risorse idriche poste sul confine non era, quindi, lo scopo principale del trattato, ma semplicemente un effetto secondario della salvaguardia dell’integrità territoriale dei due Stati.

[17] MARCHISIO S., Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Torino, 2017, 12-13.

[18] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 5.7.3.

[19] La Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), firmata a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992, ha tre obiettivi fondamentali: la conservazione della diversità biologica; l’uso sostenibile dei componenti della diversità biologica; la giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche. Aderiscono alla Convenzione 192 Paesi più l’Unione Europea (febbraio 2011) ed è stata ratificata dall’ Italia con Legge 14 febbraio 1994, n. 124, entrata in vigore il 24 febbraio 1994, in GU Serie Generale n.44 del 23 febbraio 1994 - Suppl. Ordinario n. 33.

[20] MARCHISIO S., GARAGUSO G. C., Rio 1992: vertice per la terra, Milano, 1993, 21-28. FOIS P., voce Ambiente (tutela dell’) nel diritto internazionale, in Digesto Discipline Pubblicistiche, Torino, 2000, II aggiornamento 2011. VINUALES J.E. (a cura di), The Rio Declaration on Environment and Development: A Commentary, Oxford, 2015.

[21] DE SADELEER N., Environmental Principles: From Political Slogans to Legal Rules, Oxford, 2002, 5 e ss.

[22] MARCHISIO S., Gli atti di Rio nel diritto internazionale, in Riv. dir. int., 1992, 581-621.

[23] J. VIÑUALES, The Rio Declaration on Environment and Development. A Commentary, Oxford, 2015, 221-230.

[24] MARCHISIO S., Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Torino, 2017, 13-14.

[25] PALMER G., New Ways to Make International Environmental Law, in American Journal of International Law, 1992, 267-268.

[26] MARCHISIO S., op. ult. cit., 14. SCOVAZZI T., Considerazioni sulle norme internazionali in materia di ambiente, in Riv. dir. int., 1989, 602-605; SPATAFORA E., Tutela ambiente (dir. intern.), in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 441-442, 450 e SCOVAZZI T., Il riscaldamento atmosferico e gli altri rischi ambientali globali, in Riv. giur. ambiente, 1988, 707-712; BAKKER C., FRANCIONI F., The EU, the US and Global Climate Governance, Ashgate, Farnham, 2014, 9-34.

[27] Award of the Arbitral Tribunal in the Arbitration Regarding the Iron Rhine (“Ijzeren Rijn”) Railway between the Kingdom of Belgium and the Kingdom of the Netherlands, The Hague, 24 maggio 2005, par. 58, 59 e 222, 223.

[28] Award of the Arbitral Tribunal in the Arbitration Regarding the Iron Rhine (“Ijzeren Rijn”) Railway between the Kingdom of Belgium and the Kingdom of the Netherlands, The Hague, 24 maggio 2005 (par. 58, 59 e 222, 223). Il Tribunale arbitrale ha inquadrato la questione della riattivazione della linea ferroviaria Iron Rhine nell’ambito del diritto internazionale ambientale, decidendo che i costi relativi alle misure di tutela ambientale andavano inclusi nelle spese del progetto. MARCHISIO S., op. ult. cit., 15.

[29] Requisiti per l’entrata in vigore del trattato erano la ratifica da parte di almeno di 55 Nazioni, e che queste rappresentassero complessivamente non meno del 55% delle emissioni serra globali. Tale obiettivo venne raggiunto proprio grazie alla sottoscrizione della Russia. MARCHISIO S., La questione ambientale, in A. COLOMBO, N. RONZITTI (a cura di), L’Italia e la politica internazionale, Bologna, 2004, 171-184.

[30] MARCHISIO S., op. ult. cit., 171-184.

[31] Già previsto dal Principio 7 della Dichiarazione di Rio sui cambiamenti climatici del 1992.

[32] L'Unione Europea ha ripartito, con la decisione del Consiglio 2002/358/EC, l'obbligo richiesto dal Protocollo di Kyoto tra i diversi Stati Membri, sulla base della conoscenza della struttura industriale, del mix energetico utilizzato e sulle aspettative di crescita economica di ogni paese. A seguito di tale ripartizione, l'Italia si è vista assegnare, per il primo periodo d'impegno del Protocollo di Kyoto (2008-2012) un obbligo di riduzione di emissioni di gas serra pari al 6.5% rispetto le emissioni del 1990.

[33] CAMERON P. T., ZILLMAN D., Kyoto: from Principles to Practise, New York, The Hague, London, 2001, 77 e ss. GUPTA J., GRUBB M., Climate Change and European Leadership. A Sustainable Role for Europe, New York, The Hague, London, 2000, 221 e ss.

[34] UNFCCC – Party Groupings, https://unfccc.int/party-groupings.

[35] Il CMD, disciplinato dall’art. 12 del Protocollo, permette alle imprese dei paesi industrializzati con vincoli di emissione (elencati nell’Allegato I della Convenzione sui cambiamenti climatici) di realizzare progetti diretti a ridurre le emissioni di gas serra nei paesi in via di sviluppo che non hanno vincoli di emissione. La differenza fra la quantità di gas serra emessa e quella che sarebbe stata emessa senza la realizzazione del progetto, è considerata “emissione evitata” e dà luogo ad un insieme “crediti di carbonio” aventi un valore di mercato dipendente dal numero dei crediti generati e dal prezzo dei crediti (prezzo non fissato a priori ma determinato dall’andamento del mercato). Per gli stati industrializzati, è conveniente sviluppare progetti di riduzione nei paesi in via di sviluppo, nei quali i costi di abbattimento legati alla realizzazione del progetto sono inferiori, a causa del tasso di cambio generalmente favorevole alle valute dei paesi sviluppati.

[36] RIDLEY M. A., Lowering the Cost Emission Reduction: Joint Implementation in the Framework Convention on Climate Change, New York, The Hague, London, 1998, 25-39. Il JI è disciplinato dall’art. 6 del Protocollo. Esso permette alle imprese dei paesi industrializzati sottoposti a vincoli di emissione (elencati nell’Allegato I della Convenzione sui cambiamenti climatici) di realizzare progetti volti alla riduzione delle emissioni di gas serra in altri paesi, ugualmente soggetti a vincoli di emissione. Il meccanismo mira a ridurre il costo dell’adempimento degli obblighi del Protocollo, permettendo l'abbattimento delle emissioni laddove è economicamente più conveniente. Le “emissioni evitate” dalla realizzazione dei progetti di JI generano “crediti di emissioni” (1 tonnellata di CO2 ha un valore quantificato in 100 euro), che possono essere utilizzati per coprire la quota di riduzione assegnata. A differenza di quanto accade per il clean development mechanism, il JI coinvolge Paesi che hanno limiti di emissione. I crediti generati dai progetti, pertanto, sono sottratti dall'ammontare di “permessi di emissione” inizialmente assegnati al Paese ospite. In questo senso, i progetti JI sono "operazioni a somma zero": le emissioni totali permesse nei due Paesi rimangono le stesse, Ministero degli Esteri, I meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto.

[37] Il mercato delle emissioni (che si basa sul meccanismo cap and trade, ossia politica di assegnazione di autorizzazioni ad inquinare da parte dello Stato) è il luogo dove avvengono transazioni pecuniarie aventi ad oggetto “quote” di inquinamento utilizzabili dalle imprese che impiegano processi produttivi inquinanti. Annualmente, ogni Stato mette a disposizione, a titolo oneroso, unità di riduzione, che devono essere acquistate dalle imprese inquinanti per potere svolgere le proprie attività. MARCHISIO S., Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Torino, 2017, 25-26.

[38] L’Unione europea ha pienamente raggiunto l’obiettivo di riduzione di emissione di gas serra pari all’8%, riuscendo a raggiungere una riduzione pari all’11,5%, European Commission, Kyoto 1st commitment period (2008–12), www.ec.europa.eu.

[39] FRANCESCHELLI F., L’impatto dei cambiamenti climatici nel diritto internazionale, Napoli, 2019, v. in partic., 247-256.

[40] Ratificato dall’Italia con Legge del 4 novembre 2016, n. 204, entrata in vigore l’11 novembre 2016, in GU Serie Generale n.263 del 10 novembre 2016. BODANSKY D., The Paris Climate Change Agreement: A New Hope?, in American Journal of International Law, 2016, 1-46. SAVARESI A., The Paris Agreement: An Early Assessment, in Environmental Policy and Law, 2016, 14-18.

[41] Rimane l’obbligo, già sancito dalla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, in forza del quale, ogni anno, per far fronte al problema del cambiamento climatico, devono essere mobilitate risorse per un totale di 100 miliardi di dollari USA, sia da parte dei paesi industrializzati sia, per la prima volta, e a differenza di quanto prescritto dalla Convenzione, da parte di paesi sviluppati ma non ancora industrializzati, in favore dei paesi in via di sviluppo. Questi ultimi sono tenuti, ogni due anni, a presentare una rendicontazione in merito all’impiego effettuato dei capitali ricevuti.

[42] VOIGT C., The Compliance and Implementation Mechanism of the Paris Agreement, in Review of European, Comparative and International Environmental Law, 2016, 1-13.

[43] J. HUANG, A brief guide to the Paris Agreement and ‘Rulebook’, Center for Climate and Energy Solutions, giugno 2019.

[44] Il testo italiano è consultabile su www.unric.org.

[45] Espressione utilizzata nel Preambolo.

[46] Agenda 2030, 3.

[47] MONTINI M., L’interazione tra gli SDGs ed il principio dello sviluppo sostenibile per l’attuazione del diritto internazionale dell’ambiente, in Federalismi.it, 2019, n. 9, 2-4.

[48] Agenda 2030, 3.

[49] Agenda 2030, 2.

[50] 1. Porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo. 2. Porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile. 3. Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età. 4. Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti. 5. Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze. 6. Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie. 7. Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni. 8. Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti. 9. Costruire un'infrastruttura resiliente e promuovere l'innovazione ed una industrializzazione equa, responsabile e sostenibile. 10. Ridurre l'ineguaglianza all'interno di e fra le nazioni. 11. Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili. 12. Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo. 13. Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico (Riconoscendo che la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici è il principale forum internazionale e intergovernativo per la negoziazione della risposta globale al cambiamento climatico). 14. Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile. 15. Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre. 16. Promuovere società pacifiche e inclusive per uno sviluppo sostenibile. 17. Rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile.

[51] Tuttavia, la lotta al cambiamento climatico è strettamente connessa al raggiungimento di altri obiettivi, che sono la tutela della salute (n. 3), disponibilità di acqua pulita e servizi igienico-sanitari (n. 6), città e comunità sostenibili (n. 11), utilizzo responsabile delle risorse (n. 12), utilizzo sostenibile del mare (n. 15).

[52] MONTINI M., op. cit., 4.

[53] MONTINI M., op. cit., 5. FRENCH D., The Global Goals: Formalism Foregone, Contested Legality and “Re-Imaginings of International Law”, in Ethiopian Yearbook of International Law, 2017, 164-165.

[54] KIM R. E., The Nexus between International Law and the Sustainable Development Goals, in Review of European, Comparative & International Environmental Law, 2016, 16.

[55] MONTINI M., op. cit., 5-6. Si ritiene che l’obbligo degli Stati di tutelare la salute dei propri cittadini – al quale fa riferimento l’obiettivo n. 3 – abbia natura consuetudinaria; in questo senso KINNEY E. D., The International Human Right to Health: What Does This Mean for Our Nation and World?, in Indiana Law Review, Vol. 34/2001, 1457-1475, e LEARY V. A., The Right to Health in International Human Rights Law, in Health and Human Rights, Vol. 1/1994, 24-56. Quanto al dibattito sulla natura consuetudinaria del principio di sviluppo sostenibile, PERSSON A., WEITZ N., NILSSON M., Follow-up and review of the Sustainable Development Goals: alignment vs. internalization, in Review of European, Comparative & International Environmental Law, 2016, 59-60. SCHOLTZ W., BARNARD M., The Environment and the Sustainable Development Goals: We are on a Road to Nowhere, in FRENCH D., KOTZE L. J., Sustainable Development Goals. Law, Theory and Implementation, 227-230. FUKUDA PARR S., HULME D., International Norm Dynamics and the ‘End of Poverty’: Understanding the Millennium Development Goals, in Global Governance, 2011, 17-36. KIM R. E., op. cit., 16.

[56] MONTINI M., VOLPE F., Sustainable Development Goals: “molto rumore per nulla?”, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 2015, 489-496. MONTINI M., Investimenti internazionali, protezione dell’ambiente e sviluppo sostenibile, Milano, 2015, 36-57.

[57] MONTINI M., Investimenti internazionali, protezione dell’ambiente e sviluppo sostenibile, op. cit., 36-57.

[58] SANDS P., Principles of International Environmental Law, Cambridge, 2003, 253-256.

[59] BROWN WEISS E., Our Rights and Obligations to Future Generations for the Environment, in American Journal of International Law, vol. 84, 1990, 199.

[60] Tale elemento richiama la necessità per ciascuno Stato di considerare in modo adeguato gli interessi e le esigenze degli altri Stati e della comunità internazionale nel suo complesso, in modo da garantire a tutti la possibilità di soddisfare i propri bisogni. Il concetto in questione richiama altresì l’opportunità di introdurre un elemento di flessibilità nell’attuazione degli obblighi internazionali degli Stati, come previsto tra l’altro dal Principio 7 della Dichiarazione di Rio del 1992. Tale disposizione incorpora e sancisce il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, secondo cui l’effettivo livello di intervento pubblico dei singoli Stati per affrontare le questioni ambientali di natura globale deve essere graduato sulla base delle responsabilità storiche e di quelle correnti, nonché delle rispettive capacità tecniche ed umane di contribuire effettivamente a risolverei problemi esistenti. MONTINI M., L’interazione tra gli SDGs ed il principio dello sviluppo sostenibile per l’attuazione del diritto internazionale dell’ambiente, in Federalismi, fasc. 9/2019, 10.

[61] MONTINI M., op. ult. cit., 10.

[62] MONTINI M., op. ult. cit., 10-11. BOYLE A., FREESTONE D., International Law and Sustainable Development. Past Achievements and Future Challenges, Oxford, 1999, 16. BIRNIE P., BOYLE A., REDGWELL C., International Law and the Environment, Oxford, 2009, 127.

[63] BOSSELMANN K., The principle of sustainability. Transforming law and governance, Routledge, Abingdon, 56-57.

[64] VOIGT C., Sustainable Development as Principle of International Law, Boston, 1-54.

[65] BARRAL V., Sustainable Development in International Law: Nature and Operation of an Evolutive Legal Norm, in The European Journal of International Law, vol. 23, n. 2, 2012, 377-400.

[66] BOYLE A., FREESTONE D., op. cit., 16. BIRNIE P., BOYLE A., REDGWELL C., op. cit., 127.

[67] MONTINI M., L’interazione tra gli SDGs ed il principio dello sviluppo sostenibile per l’attuazione del diritto internazionale dell’ambiente, in Federalismi, fasc. 9/2019, 8.

[68] MONTINI M., op. ult. cit., 8. MONTINI M., VOLPE F., Sustainable Development Goals: “molto rumore per nulla?”, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 2015, 489-496.

[69] MONTINI M., op. ult. cit., 8.

[70] MONTINI M., The Principle of Integration, in KRAMER L., ORLANDO E., Principles of Environmental Law, Edward Elgar Publishing, 2018, 139-149. V. BARRAL V., DUPUY P. M., Principle 4: Sustainable Development through Integration, in VINUALES J. E., The Rio Declaration on Environment and Development: A Commentary, Oxford, 2016, 17-21.

[71] MARCHISIO S., Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Torino, 2017, 16.

[72] Corte europea dei diritti umani, Tatar c. Romania, n. 67021/01, sentenza del 27 gennaio 2009. RUOZZI E., Attività industriali inquinanti e diritto ad un ambiente sano dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, in Diritti umani e diritto internazionale, 2009, 417-421.

[73] RUOZZI E., op. cit., 417-421. TYMOFEYEVA A., From the Rights to the Duties of Business Entities under the European Convention of Human Rights, in Russian Journal of Comparative Law, 2018, 50-68. KRSTIC I., CUCKOVIC B., Procedural Aspects of Article 8 of the ECHR in Environmental Cases – The Greening of Human Rights Law, Budapest, 170-189. MARCHISIO S., op. ult. cit., 16.

[74] MARCHISIO S., op. ult. cit., 17.

[75] Corte europea dei diritti umani, Lopez Ostra c. Spagna, n. 16798/90, sentenza del 9 dicembre 1994, traduzione di DE CUNTO E., 1-3, disponibile su Diritti Umani in Italia all’indirizzo wwwduitbase.it.

[76] DE CUNTO E., op. ult. cit., 1-3.

[77] DE CUNTO E., op. ult. cit., 1-3.

[78] Corte europea dei diritti umani, Lopez Ostra c. Spagna, n. 16798/90, sentenza del 9 dicembre 1994; Giacomelli c. Italia, n. 59909/00, sentenza del 2 novembre 2006; Hatton e altri c. Regno Unito, n. 36022/97, sentenza del 8 luglio 2003; Powell e Rayner c. Regno Unito, n. 9310/81, 21 febbraio 1990.

[79] MARCHISIO S., op. ult. cit., 17. Corte europea dei diritti umani, Guerra e altri c. Italia, n. 14967/89, sentenza del 19 febbraio 1998; Oneryildiz c. Turchia, n. 48939/99, sentenza del 30 novembre 2004; Budayeva e altri c. Russia, nn. 15339/02, 21166/02, 20058/02, 11673/02, 15343/02, sentenza del 20 marzo 2008.

[80] Corte europea dei diritti umani, Guerra e altri c. Italia, n. 14967/89, sentenza del 19 febbraio 1998.

[81] Corte europea dei diritti umani, Guerra e altri c. Italia, n. 14967/89, sentenza del 19 febbraio 1998.

[82] Corte europea dei diritti umani, Moreno Gomez c. Spagna, n. 4143/02, sentenza del 16 novembre 2004; Fadeyeva c. Russia, n. 55723/00, sentenza del 9 giugno 2005; Di Sarno ed altri c. Italia, n. 30765/08, sentenza del 10 gennaio 2012; Taskin c. Turchia, n. 46117/99, sentenza del 10 novembre 2004; Kyrtatos c. Grecia, n. 41666/98, sentenza del 9 giugno 2005; Fägerskiöld c. Svezia, n. 37664/04, sentenza del 25 marzo 2008. MARCHISIO S., op. ult. cit., 17.

[83] MARCHISIO S., op. ult. cit., 17.

[84] Corte europea dei diritti umani, Oneryildiz c. Turchia, n. 48939/99, sentenza del 30 novembre 2004.

[85] La decomposizione dei rifiuti organici aveva creato una enorme “bolla” di metano negli strati inferiori della discarica. A seguito dell’esplosione, i rifiuti si riversarono nelle zone limitrofe, “schiacciando” le abitazioni (costruite abusivamente) e uccidendo 39 persone.

[86] Corte europea dei diritti umani, Oneryildiz c. Turchia, n. 48939/99, sentenza del 30 novembre 2004.

[87] MARCHISIO S., op. ult. cit., 17.

[88] PRATO F., Ambiente e surriscaldamento globale: strumenti giuridici per ridurre le emissioni nocive, in Riv. Cammino Diritto, 9/2019. MARINELLI A. M., Diritto alla salubrità dell’ambiente e risarcibilità del danno, in Riv. La voce del dir., 28 ottobre 2017. Mibac (Ministero per i beni e le attività culturali), Beni architettonici e paesaggistici: tutela diretta e indiretta, 2020, su www.sbapbo.beniculturali.it. CENDON P., Trattato dei nuovi danni, vol. 5, Milano, 2011, 562 e ss. LECCESE E., Danno all’ambiente e danno alla persona, Milano, 2011, 154 e ss. ITALIA V., Enciclopedia degli enti locali, Ambiente, inquinamento, responsabilità, vol. 4, Milano, 2009, 279 e ss. DINI V., Il diritto soggettivo all’ambiente, in Associazione giuristi ambientali, 2014, 1-8. TERRACCIANO S., La responsabilità civile in materia ambientale: tra risarcimento, sanzione e principio di precauzione, Roma, 2017, 171 e ss. VOLLERO F., Il diritto ad un ambiente salubre nell’elaborazione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in Riv. Diritto.it, 19 gennaio 2005. ANTONIOLI M. G., Sostenibilità dello sviluppo e governance ambientale, Torino, 2017, 65 e ss.

[89] Corte europea dei diritti umani, Moreno Gomez c. Spagna, n. 4143/02, sentenza del 16 novembre 2004; Fadeyeva c. Russia, n. 55723/00, sentenza del 9 giugno 2005; Di Sarno ed altri c. Italia, n. 30765/08, sentenza del 10 gennaio 2012; Taskin c. Turchia, n. 46117/99, sentenza del 10 novembre 2004; Kyrtatos c. Grecia, n. 41666/98, sentenza del 9 giugno 2005; Fägerskiöld c. Svezia, n. 37664/04, sentenza del 25 marzo 2008. MARCHISIO S., op. ult. cit., 17.

[90] Nota: dal 1° dicembre 2009 è in vigore il Trattato di Lisbona, che ha modificato la denominazione di “Comunità europea” in “Unione europea”. Nel paragrafo si utilizzerà esclusivamente l’espressione “Unione europea”, ma occorre tenere presente che prima dell’entrata in vigore del suddetto Trattato, esisteva la “Comunità europea”.

[91] ROTA R., Profili di diritto comunitario dell’ambiente, 161-176, in DELL’ANNO P., PICOZZA E. (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, Padova, 2012.

[92] ROTA R., Profili di diritto comunitario dell’ambiente, 161-176, in DELL’ANNO P., PICOZZA E. (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, Padova, 2012.

[93] JACOMETTI V., Lo scambio di quote di emissione: analisi di un nuovo strumento di tutela, Milano, 2010, 171-189.

[94] Commissione europea, Azione per il clima, https://ec.europa.eu/clima/policies/ets/pre2013_it, link consultato il 30 marzo 2020.

[95] JACOMETTI V., op. cit., Milano, 2010, 177.

[96] Austria -13%, Belgio -7,5%, Danimarca -21%, Finlandia 0%, Francia 0%, Germania -21%, Grecia +25%, Irlanda +13%, Italia -6,5%, Lussemburgo -28%, Paesi Bassi -6%, Portogallo +27%, Spagna +15%, Svezia +4%, Regno Unito -12,5%, JACOMETTI V., op. cit., Milano, 2010, 177-178.

[97] Secondo la Commissione europea, «nel corso della fase 2, l’ETS ha continuato a essere il principale motore del mercato internazionale della CO2. Nel 2010, ad esempio, le quote UE rappresentavano l'84% del valore del mercato globale di CO2. Il volume degli scambi è balzato da 3,1 miliardi nel 2008 a 6,3 miliardi nel 2009. Nel 2012 sono stati scambiati 7,9 miliardi di quote (per un valore di 56 miliardi di euro), A metà del 2011 il volume di scambi giornaliero superava i 70 milioni di euro, come indicano i dati elaborati da Bloomberg», https://ec.europa.eu/clima/policies/ets/pre2013_it, link consultato in data 30 marzo 2020.

[98] Commissione europea, Azione per il clima, Fasi 1 e 2 (2005-2012), https://ec.europa.eu/clima/policies/ets/pre2013_it, link consultato in data 30 marzo 2020.

[99] Commissione europea, Azione per il clima, Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell'UE (ETS UE), https://ec.europa.eu/clima/policies/ets_it, link consultato il 30 marzo 2020.

[100] Le azioni per il raggiungimento di tali obiettivi sono: 1) Incoraggiare gli Stati membri ad adottare strategie di adattamento globali; 2) fornire finanziamenti attraverso il programma LIFE per sostenere il consolidamento delle capacità e rafforzare le azioni di adattamento in Europa (2014-2020); 3) Includere l’adattamento nel Patto dei sindaci (2013/2014); 4) Ovviare alla mancanza di conoscenze; 5) Sviluppare ulteriormente la piattaforma Climate-ADAPT quale “sportello unico” per le informazioni sull’adattamento in Europa; 6) Favorire l’acquisizione di caratteristiche “a prova di ambiente” della politica agricola comune (PAC), della politica di coesione e della politica comune della pesca (PCP); 7) Garantire un’infrastruttura più resiliente; 8) Promuovere assicurazioni e altri prodotti finanziari per favorire decisioni d’investimento e commerciali resilienti, Commissione europea, Strategia dell’Ue in materia di adattamento ai cambiamenti climatici, Bruxelles, 16 aprile 2013, 1-12.

[101] Commissione europea, Comunicazione sul Green Deal europeo, Bruxelles, 11 dicembre 2019, COM(2019) 640 final, www.eur-lex.europa.eu.

[102] Commissione europea, Comunicazione sul Green Deal europeo, Bruxelles, 11 dicembre 2019, COM(2019) 640 final, punti 2.1.1., 2.1.2., 2.1.5.

[103] Il cui termine di recepimento è scaduto il 9 ottobre 2019.

[104] Commissione europea, Azione per il clima, Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell'UE (ETS UE), https://ec.europa.eu/clima/policies/ets_it, link consultato il 30 marzo 2020.

[105] Commissione europea, IN-DEPTH ANALYSIS IN SUPPORT OF THE COMMISSION COMMUNICATION COM (2018) 773, A Clean Planet for all A European long-term strategic vision for a prosperous, modern, competitive and climate neutral economy, Bruxelles, 28 novembre 2018, 13-17. D’ELISO D., Il diritto ambientale dell’UE. Un tentativo virtuoso di politica resiliente tra efficacia degli adempimenti, criticità ed azioni di risposta, in Ratio Iuris, 10 settembre 2019.

[106] Commissione europea, Comunicazione sul Green Deal europeo, Bruxelles, 11 dicembre 2019, COM(2019) 640 final, www.eur-lex.europa.eu.

[106] Commissione europea, Comunicazione sul Green Deal europeo, Bruxelles, 11 dicembre 2019, COM(2019) 640 final, 1-24.

[107] Commissione europea, Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council establishing the framework for achieving climate neutrality and amending Regulation (EU) 2018/1999 European Climate Law), Bruxelles, 4 marzo 2020, 1-25.

[108] The Constitution of the Kingdom of the Netherlands 2018, art. 21: It shall be the concern of the authorities to keep the country habitable and to protect and improve the environment, in www.government.nl.

[109] VERSCHUUREN J., The Consititutional Right to Protection of Environment in the Netherlands, in Revue juridique de l'Environnement, Vol. 4/1994, 339-347.

[110] VERSCHUUREN J., op. cit., 341.

[111] District Court of Leeuwarden, 23 marzo 1983, Supreme Court of Netherlands 11 febbraio 1986, Supreme Court of Netherlands, 27 giugno 1986, District Court of The Hague, 29 dicembre 1988, Supreme Court of Netherlands, 26 gennaio 1990, Supreme Court of Netherlands, 14 aprile 1989, District Court of Rotterdam, 15 marzo 1991.

[112] The Constitution of the Kingdom of the Netherlands 2018, art. 93: Provisions of treaties and of resolutions by international institutions which may be binding on all persons by virtue of their contents shall become binding after they have been published.

[113] WERNAART B., Dutch scholars on the meaning of Articles 93 and 94 Constitutional Act, in WERNAART B. (a cura di), The enforceability of the human right to adequate food: A comparative study, Wageningen (Paesi bassi), 2013, 122-123.

[114] L’Unione europea ha partecipato in proprio (cioè separatamente rispetto ai singoli Stati membri), alla conclusione dell’Accordo di Parigi adottato nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, con Decisione (UE) 2016/1841 del Consiglio, del 5 ottobre 2016.

[115] Supreme Court of Netherlands, sentenza 20 dicembre 2019, n. 19/00135, par. 5.6.1.

[116] Corte europea dei diritti umani, Moreno Gomez c. Spagna, n. 4143/02, sentenza del 16 novembre 2004; Fadeyeva c. Russia, n. 55723/00, sentenza del 9 giugno 2005; Di Sarno ed altri c. Italia, n. 30765/08, sentenza del 10 gennaio 2012; Taskin c. Turchia, n. 46117/99, sentenza del 10 novembre 2004; Kyrtatos c. Grecia, n. 41666/98, sentenza del 9 giugno 2005; Fägerskiöld c. Svezia, n. 37664/04, sentenza del 25 marzo 2008.

[117] Supreme Court of Netherlands, Judgment of 20 December 2019, par. 5.7.2.

[118] SAMPERI R., La posizione dell’individuo nel diritto internazionale, in Riv. Cammino Diritto, 27 aprile 2020.

[119] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 5.6.1.: che statuisce espressamente «as the State has asserted, the ECtHR has not yet issued any judgments regarding climatechange or decided any cases that bear the hallmarks that are particular to issues of climate change».

[120] WERNAART B., Dutch scholars on the meaning of Articles 93 and 94 Constitutional Act, in WERNAART B. (a cura di), The enforceability of the human right to adequate food: A comparative study, Wageningen (Paesi bassi), 2013, 122-123.

[121] The Constitution of the Kingdom of the Netherlands 2018, art. 21: It shall be the concern of the authorities to keep the country habitable and to protect and improve the environment, in www.government.nl.

[122] Corte europea dei diritti umani, Moreno Gomez c. Spagna, n. 4143/02, sentenza del 16 novembre 2004; Fadeyeva c. Russia, n. 55723/00, sentenza del 9 giugno 2005; Di Sarno ed altri c. Italia, n. 30765/08, sentenza del 10 gennaio 2012; Taskin c. Turchia, n. 46117/99, sentenza del 10 novembre 2004; Kyrtatos c. Grecia, n. 41666/98, sentenza del 9 giugno 2005; Fägerskiöld c. Svezia, n. 37664/04, sentenza del 25 marzo 2008.

[123] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 2.2.3.

[124] The Hague District Court, Judgment of 24 June 2015, par. 4.52.

[125] The Hague District Court, ibidem, par. 4.45 e 4.52.

[126] The Hague District Court, ibidem, par. 4.52.

[127] The Hague District Court, ibidem, par. 4.52.

[128] The Hague District Court, ibidem, par. 4.86.

[129] The Hague District Court, ibidem, par. 4.86.

[130] The Hague District Court, ibidem, par. 4.93. Nel paragrafo 5.1., la Corte «orders the State to limit the joint volume of Dutch annual greenhouse gas emissions, or have them limited, so that this volume will have reduced by at least 25% at the end of 2020 compared to the level of the year 1990, as claimed by Urgenda, in so far as acting on its own behalf». Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 2.3.2. (Conclusion of the Court of Appeal), «A reduction of 25% should be considered a minimum».

[131] The Hague District Court, ibidem, par. 4.53.

[132] The Hague Court of Appeal, Civil Law Division, Ruling of 9 October 2018, par. 36-38.

[133] The Hague Court of Appeal, Civil Law Division, ibidem, par. 39-43.

[134] The Hague Court of Appeal, Civil Law Division, ibidem, par. 44-45.

[135] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 2.3.2. (Conclusion of the Court of Appeal).

[136] The Hague Court of Appeal, Civil Law Division, ibidem, par. 36-38.

[137] Come invece affermato da The Hague District Court, ibidem, par. 4.53.

[138] The Hague Court of Appeal, Civil Law Division, ibidem, par. 39-43.

[139] Supreme Court of Netherlands, ibidem, Summary of the Decision, Opinion of the Supreme Court, 3.

[140] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 5.7.5. MAYER B., The Relevance of the No-Harm Principle to Climate Change Law and Politics, Asia-Pacific Journal of Environmental Law, 2016, 79-104. Arbitrato sull’isola di Palmas (Paesi Bassi c. Stati Uniti), decisione del 4 aprile 1928; Corte internazionale di giustizia, caso dello stretto di Corfù (Regno Unito c. Albania), sentenza 9 aprile 1949; Controversia tra Stati Uniti e Canada relativa alla fonderia di Trail, sentenza del tribunale arbitrale 11 marzo 1941; Controversia tra Francia e Spagna relativa al lago Lanoux, sentenza arbitrale del 16 novembre 1957; Corte internazionale di giustizia, ordinanza sulla richiesta dell’esame della situazione ai sensi del para. 63 della sentenza della Corte del 20 dicembre 1974 nel caso dei test nucleari (Nuova Zelanda c. Francia) (caso “Nuclear Test II”) (1995); Corte internazionale di giustizia, parere consultivo sulla liceità dell’uso e della minaccia delle armi nucleari, 8 luglio 1996; Corte internazionale di giustizia, sentenza sul caso Gabcíkovo-Nagymaros (Ungheria c. Slovacchia) (1997); Corte internazionale di giustizia, caso delle cartiere sul fiume Uruguay (Argentina c. Uruguay) 20 Aprile 2010, paragrafo 101.

[141] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 5.7.6.

[142] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 6.1.

[143] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 6.1.

[144] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 5.5.1-5.5.3.

[145] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 8.1-8.3.5.

[146] Supreme Court of Netherlands, ibidem, par. 9 (Decision).

[147] SCHWARTZ J., In ‘Strongest’ Climate Ruling Yet Dutch Court Orders Leaders to Take Action, The New York Times, 20 dicembre 2019.

[148] Si pensi all’importante sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti nel caso Massachusetts v. Environmental Protection Agency del 2007, in cui dodici stati e diverse città degli Stati Uniti hanno intentato causa contro l'Environmental Protection Agency (EPA) per costringere tale agenzia federale a classificare l’anidride carbonica e altri gas a effetto serra (GHG) come inquinanti. J. PEEL, H. M. OSOFSKY, Climate Change Litigation, Annu. Rev. Law Soc. Sci. 2020. 16:8.1–8.18, 9 maggio 2020, www.lawsocsci.annualreviews.org.

[149] TUMMINELLO F., Climate Change e diritti umani: il caso Urgenda, in Ius in itinere, 13 marzo 2020.

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[151] Urgenda, Global Climate Litigation, 2020, www.urgenda.nl.

[152] Su cui Urgenda, Global Climate Litigation, 2020, www.urgenda.nl.

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