L´obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne al vaglio della recente giurisprudenza di legittimità
Modifica paginaautori Federica Paolucci , Eugenio Ciliberti
L´istituto dell´obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente è stato oggetto di nuovi rilevanti sviluppi nella casistica giurisprudenziale in materia, che sembra aver recepito le numerose indicazioni provenienti dalla dottrina civilistica. In particolare, l´ordinanza n. 17183/2020 della Prima Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha contribuito a definire alcuni principi già presenti nella giurisprudenza di legittimità pregressa e, in particolare, i concetti di indipendenza economica, funzione educativa del mantenimento, autoresponsabilità del figlio maggiorenne e capacità lavorativa del medesimo.
Sommario: 1.Il fondamento normativo dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente e la sua estrinsecazione nella casistica giurisprudenziale;1.1 Le circostanze oggetto di valutazione da parte del giudice; 2.Funzione educativa del mantenimento e autoresponsabilità del figlio maggiorenne al vaglio del principio di solidarietà; 3.Da diritto a dovere: osservazioni in tema di capacità lavorativa del figlio maggiorenne; 4. L’inversione dell’onere probatorio: verso una responsabilizzazione del figlio maggiorenne; 5. Conclusione: la necessità di uno sviluppo della pars construens giurisprudenziale nel contesto di una riforma legislativa del diritto di famiglia.
1. Il fondamento normativo dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente e la sua estrinsecazione nella casistica giurisprudenziale
L’istituto dell’obbligo di mantenimento[1] del figlio maggiorenne non autosufficiente costituisce un peculiare esempio di commistione tra status personae e status familiae. Invero, nell’ambito della comunità familiare[2], diritti e doveri di ciascun individuo si integrano e completano in una «coincidenza di valori e di interessi di vita, reciprocità o connessione di rapporti al di fuori di logiche retributive o di profitto[3]». Nella identificazione della ratio di tale obbligo, non si può, pertanto, prescindere dalla lettura integrata degli artt. 2, 29, co. 1, 30, co. 1 della Costituzione, che assurgono alla funzione di stella polare nella applicazione della disciplina privatistica.
Nonostante la notevole rilevanza che già in età pre-repubblicana assumeva la potestà genitoriale[4], tale disciplina è oggetto di una incerta esegesi, anche in considerazione delle numerose riforme che hanno interessato il diritto di famiglia e, soprattutto, la disciplina del rapporto di filiazione[5]. In questo contesto, fondamentale è stato il ruolo assunto dal giudice di legittimità che, tra numerose innovazioni e non senza qualche arresto, ha contribuito ad individuare i presupposti normativi e le costanti applicative dei diversi principi presenti in nuce nella sistematica civilistica che, grazie all’apporto giurisprudenziale, hanno ricevuto il crisma del diritto vivente.
Un recente approdo di questo percorso si è avuto con l’ordinanza della Prima Sezione Civile della Cassazione, la n. 17183 del 14 agosto 2020 che, nel ripercorrere l’itinerario fino a quel momento seguito dal giudice di legittimità, si è spinta oltre in quanto ha proceduto alla enucleazione di nuovi criteri che, a prima vista, sembrano segnare un passo in avanti rispetto alla esatta collocazione dell’obbligo di mantenimento nell’ambito della speculazione sui diritti e i doveri di ciascun componente del nucleo familiare.
L’equilibrio dei rapporti familiari si fonda sulla realizzazione delle esigenze individuali, essendo comunque la famiglia una formazione sociale a ciò deputata alla stregua dell’art. 2 Cost. Un simile contemperamento di interessi trova adeguata esplicazione in due norme, quasi speculari, del Codice Civile, gli artt. 147 e 315 bis, che enunciano rispettivamente i doveri verso i figli e i diritti e doveri di questi ultimi nei confronti dei genitori[6]. Ambedue le disposizioni prevedono l’obbligo (e il corrispondente diritto), già presente nell’art. 30, co. 1, Cost., di mantenimento, senza tuttavia specificarne i limiti. Tradizionalmente, si è ritenuto che esso cessi allorché il figlio raggiunga la maggiore età, e, dunque, si presume essere in grado di vivere autonomamente al di fuori del proprio nucleo familiare. Sul punto, già la L. 8 febbraio 2006, n. 54 [7] aveva profondamente innovato la subiecta materia, con l’introduzione dell’art. 155 quinquies c.c. Tale norma è stata successivamente abrogata dal D. Lgs. 154/2013 e trasposta nell’art. 337 septies c.c., così diventando il parametro di riferimento della disciplina. Sebbene risulti inserita all’interno del Capo II del Titolo IX del Libro Primo[8] riguardante le crisi coniugali, essa assume una portata di ordine generale.
L’art. 337 septies c.c. pone in capo al giudice la potestà di disporre il pagamento di un assegno periodico in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, previa valutazione delle circostanze in sede giurisdizionale. Dall’analisi dell’enunciato legislativo, emergono due elementi che richiedono una definizione pratica in sede processuale: le circostanze che consentono al giudice di determinare in capo ai genitori l’obbligo di versamento dell’assegno in favore del figlio e il criterio della non indipendenza economica, che è alla base dell’obbligo suddetto. In questo senso, l’ordinanza n. 17183/2020 della Suprema Corte ha rappresentato un importante punto di arrivo. Essa, oltre a sintetizzare gli approdi giurisprudenziali fino a quel momento raggiunti, li ha ulteriormente ampliati, tracciando un quadro tendenzialmente completo, che possa fungere da bussola anche per il giudice del merito, chiamato volta per volta ad interfacciarsi con la realtà dei fatti.
1.1 Le circostanze oggetto di valutazione da parte del giudice
Quanto al primo elemento, la Corte[9] ha ribadito la centralità del giudice nell’accertamento caso per caso della presenza di circostanze che giustifichino il permanere dell’obbligo di mantenimento. Inoltre, come evidenziato nell’ordinanza, l’utilizzo del verbo servile “può” da parte del legislatore rimarca la previsione di una “mera possibilità”, attribuita al magistrato, di disporre il pagamento dell’assegno periodico, in quanto tale soggetta ad un «tipico giudizio discrezionale, rimesso al prudente apprezzamento dell’organo giurisdizionale[10]». Ad una prima lettura del provvedimento, si ravvisa il rischio che il soggetto beneficiario, qualora non riesca a soddisfare pienamente l’onere della prova[11], rimanga sprovvisto di una qualsivoglia forma di tutela. Situazione resa ancor più inaccettabile dal fatto che, anche a seguito della novella legislativa del 2013, non siano state definite le modalità che il giudice è chiamato a seguire nell’iter che conduce alla nascita dell’obbligo in capo al genitore.
Detto accertamento, ispirato a criteri di relatività, si riverbera altresì sulla determinazione dell’assegno: sul punto, un precedente intervento della Cassazione[12] aveva rimarcato la necessità di un ragionamento fondato sui principi di proporzionalità e adattabilità in relazione alle «attuali esigenze del figlio», consistenti nei bisogni, le abitudini, le legittime aspirazioni che non possono non essere condizionate dal livello economico-sociale dei genitori[13]. Risulta evidente l’ampiezza del contenuto del dovere di mantenimento, volto a consentire la conservazione in capo al figlio dello stile di vita proprio della famiglia di provenienza, allo scopo di garantire la piena realizzazione della sua personalità[14]. Sono ivi ricomprese, dunque, «le spese per il vitto e per una abitazione adeguata[15], le spese sanitarie, scolastiche, ricreative, sportive, le spese attinenti alle relazioni sociali e, in generale, tutte quelle che concorrono ad organizzare uno stabile menage, idoneo a rispondere a tutte le necessità della cura dei figli, alla loro assistenza morale e materiale[16]».
Soggetti passivi di tale rapporto sono, per il solo fatto di aver generato i figli[17], entrambi i genitori che svolgono attività lavorativa, produttiva di reddito, secondo una ripartizione simmetrica del dovere di contribuire al soddisfacimento delle esigenze della prole in ragione delle proprie disponibilità economiche. Situazione che crea non poche problematiche quando la prestazione di uno dei due viene meno, risolte con l’affermazione, da parte della Cassazione, di una pari interscambiabilità tra i genitori nell’adempiere l’obbligo di mantenimento ex art. 148 c.c[18]. Soluzione questa che se, da una parte, è volta a garantire la presenza di un supporto minimo a favore dei figli, dall’altra grava eccessivamente sul coniuge chiamato a supplire alle mancanze dell’altro.
Discorso non meno complesso deve farsi dal lato del soggetto attivo: al riguardo, un consolidato orientamento giurisprudenziale, già prima della riforma del 2006[19], riteneva che il mantenimento non si estinguesse fino a quando il figlio non fosse economicamente autosufficiente. Tale principio è compatibile con una molteplicità di letture, da ciascuna delle quali scaturiscono conseguenze ben specifiche, in particolare per quel che riguarda l’individuazione del momento in cui si verifica la perdita del diritto da parte del figlio. Qui l’ordinanza, attraverso una minuziosa descrizione dei precedenti in materia[20], fa registrare una prima considerevole rottura rispetto al passato.
La capacità reddituale del figlio[21] non è più la sola a venire in rilievo, poiché essa deve essere logicamente affiancata da ulteriori due parametri, tradizionalmente visti come corollari della stessa, che, con l’ordinanza in esame, acquisiscono una rinnovata autonomia, sulla spinta di una elaborazione dottrinale sempre più attenta ai principi personalistici presenti nella Carta Fondamentale. In primo luogo, assurge a punto di riferimento la “funzione educativa del mantenimento”, seguita dalla “autoresponsabilità” del figlio maggiorenne.
Essi si integrano vicendevolmente in una situazione giuridica di diritto-dovere, che ben rispecchia la duplice valenza della solidarietà ex art. 2 Cost.
2. Funzione educativa del mantenimento e autoresponsabilità del figlio maggiorenne al vaglio del principio di solidarietà
La funzione educativa del mantenimento e il principio di autoresponsabilità del figlio maggiorenne sono gli strumenti cui la Corte fa ricorso, nell’ordinanza, per un recupero di razionalità nella valutazione della persistenza dell’obbligo di mantenimento: valutazione condotta con «rigore proporzionalmente crescente[22]», orientata ad evitare la configurazione di un abuso del diritto, da parte del figlio maggiorenne, che stride con la finalità solidaristica della disciplina.
A tal proposito, volendo rievocare quanto già sostenuto in principio di trattazione, è inevitabile il richiamo al primo comma dell’art. 29 Cost., che collega espressamente il diritto-dovere dei genitori di mantenere la propria prole a quello di istruirla ed educarla. Questo rinvio al dettato costituzionale ha permesso alla Cassazione di affermare già, in precedenza, «il diritto del figlio all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo[23]». Diritto che non può protrarsi sine die, poiché altrimenti contrasterebbe con il principio di ragionevolezza, dando luogo a «forme di vero e proprio parassitismo[24]» che, se da una prospettiva utilitaristica non consentono il progresso materiale e spirituale della società, da un punto di vista prettamente personalistico, invece, impediscono lo svolgimento della personalità di ciascun individuo.
Constatata la mancanza di una normativa puntuale, la giurisprudenza ricerca nelle sue pregresse decisioni le regole da applicare al caso concreto, facendo ricorso al principio di autoresponsabilità, che funge da “camera di raffreddamento” della funzione educativa, in virtù del ruolo rivestito in settori ben diversi da quello familiare, relativi sia al diritto sostanziale – soprattutto in materia contrattuale - sia a quello processuale, opportunamente richiamati dalla Corte nel testo della pronuncia. In questo contesto, è di cruciale importanza la maturità del figlio[25], concetto che segna il definitivo passaggio all’età adulta, con tutti i doveri che essa comporta: in primis, la scelta di un percorso di vita, sulla base delle rispettive capacità, inclinazioni e aspirazioni[26]. L’unico limite a tale scelta, costituito dalla «compatibilità con le condizioni economiche dei genitori[27]», porta i giudici di legittimità ad asserire l’adeguatezza e ragionevolezza delle opzioni formative, sì da non gravare eccessivamente sulle finanze familiari e non imporre sacrifici estremi alle altrui esigenze di vita, contrari al principio della buona fede[28].
In relazione al thema decidendum dell’ordinanza, il collegamento tra i due principi qui illustrati ha segnato una svolta nel modo di intendere l’obbligo di mantenimento, mediante la predisposizione di canoni ermeneutici che indicano le situazioni in cui esso è da ritenersi fondamentale per il corretto decorso del processo di crescita del figlio, finalizzato alla ricerca di una propria posizione all’interno della società e, conseguentemente, all’abbandono dell’habitat domestico. Innanzitutto, con riguardo all’attività di studio, tale obbligo rimane immutato per tutto il tempo utile al conseguimento dei titoli necessari, con possibilità anche di proseguire per un migliore approfondimento, salvo che il percorso formativo non si spinga oltre un termine ragionevole, desunto dalla durata ordinariamente prevista per il completamento degli studi[29], nonché dal tempo mediamente occorrente per ottenere un impiego[30].
Il risultato di questa ricostruzione apre nuovi scenari nel rapporto tra genitori e figli, che vede questi ultimi titolari di una posizione di vantaggio a prescindere da un oggettivo bisogno di protezione. Nonostante le odierne condizioni socioeconomiche non permettano più di considerare l’autoresponsabilità come «capacità del figlio di provvedere a sé con appropriata collocazione in seno al corpo sociale[31]», essa deve comunque intendersi in termini di «utile attivazione del figlio nella ricerca comunque di un lavoro», dal momento che il difetto di autosufficienza economica rileva esclusivamente nei casi in cui esso sia connotato da un’assenza di colpa.
Una simile argomentazione, per essere correttamente sostenuta, deve ora rinvenire “l’anello mancante” tra percorso educativo scelto e impiego aderente alle proprie soggettive aspirazioni, rappresentato dalla c.d. capacità lavorativa, concetto su cui è doveroso soffermarsi.
3. Da diritto a dovere: osservazioni in tema di capacità lavorativa del figlio maggiorenne
Con riferimento alla capacità lavorativa del figlio maggiorenne, la Corte si propone, ancora una volta[32], di ri-tratteggiare e adeguare ai tempi correnti i rapporti familiari, attraverso una interpretazione funzionale alla concreta applicazione delle norme in tema di mantenimento, che si contrappone nettamente a quella fornita in alcune precedenti pronunce di segno opposto[33]. Un impegno che assume i tratti di un vero e proprio “terremoto giuridico”, che ha permesso una rimodulazione del rapporto genitoriale, «da potestà a compiti[34]».
Partendo dall’art. 337 septies c.c., i giudici di legittimità si sono soffermati sull’interpretazione dei singoli elementi che compongono la norma, mancando la stessa di una limitazione positiva, rinviando, pertanto, alla valutazione discrezionale del giudice. Ciò che in questa sede maggiormente interessa è l’elemento che rappresenta la precondizione necessaria per godere del diritto all’assegno di mantenimento e del corrispondente obbligo in capo al genitore: l’essere figlio e non indipendente economicamente. Se, nella minore età, è pacifico come tale obbligo sussista in capo al genitore, nel contesto di un delicato equilibrio tra diritti e doveri[35] - quali quelli di istruzione, educazione, assistenza morale, ex artt. 147 e 315 bis c.c.-, con il passaggio dalla minore alla maggiore età, tale obbligo non è automatico. La maggiore età rappresenta il momento topico in cui il necessario sbilanciamento, positivamente rivolto verso la prole minorenne, deve essere man mano rimesso in asse.
All’esito del giudizio di merito, la Corte territoriale aveva difatti stabilito che il diritto al mantenimento del figlio ultra-maggiorenne dovesse cessare con l’ottenimento della propria capacità a mantenersi. Tale capacità è da ritenersi presunta oltre i trenta anni e, pertanto, una volta raggiunta la decadenza dall’obbligo di mantenimento, non si potrà prospettare una sua reviviscenza, anche in caso di futura perdita del lavoro[36]. Da questa fattispecie potrebbe comunque avere origine un diritto al versamento degli alimenti che, come già è stato fatto notare in precedenza[37], rispetto all’obbligo di mantenimento, afferisce a una categoria giuridica distante e non sovrapponibile[38].
La Corte si inserisce in questo solco, rigettando i motivi a sostegno del ricorso proposto dalla madre del figlio trentenne, a scapito del coniuge tenuto al versamento dell’assegno di mantenimento. L’apprensione della madre, che si spinge sino in Cassazione per vedere tutelati i diritti, in realtà questionabili, del proprio figlio, alla luce dell’ordinanza de qua eccede di gran lunga quel ruolo di guida e formazione della prole che le è imposto tanto dalla legge quanto dalla morale sin dal momento della procreazione[39]. L’impostazione di questo ragionamento lascia indubbiamente trasparire la totale assenza del figlio da esso: circostanza, questa, da cui parte la Corte per fornire una nuova lettura di quei delicati equilibri di cui si è detto.
In questo senso, l’ordinanza provvede a fare maggiore chiarezza sugli obblighi dei genitori: accanto a questi, e specularmente, sono da inserirsi i doveri dei figli nei confronti degli stessi[40]. Partendo dai predetti principi di autoresponsabilità e funzione educativa del mantenimento, la Corte pone, come presupposto per la configurazione e il riconoscimento del diritto ex art. 337 septies c.c. in capo al figlio maggiorenne, anche il requisito della capacità lavorativa[41]. Tale criterio va di pari passo con il ben noto discrimine dell’indipendenza economica[42], già individuato nella sopramenzionata norma quale condicio sine qua non per il giudice, il quale, con il suo «prudente apprezzamento[43]», può[44] valutare il pagamento di un assegno periodico in favore del figlio maggiorenne.
La capacità lavorativa, «intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro in particolare remunerato[45]», diviene lo spartiacque per considerare l’applicabilità del diritto al mantenimento. Difatti, lo spirito che ha guidato il giudice di legittimità risulta essere quello diretto a scardinare una visione assistenzialistica e assicurativa del mantenimento, che potrebbe consentire il proliferare di forme di parassitismo ai danni dei genitori.
Il passaggio, dunque, dalla fanciullezza all’età adulta verrebbe scandito, secondo la Corte, dalla presunzione (iuris tantum) di poter compiere l’ingresso nel mondo del lavoro, fatta salva la prova contraria dell’aver intrapreso un percorso di studio proficuo in fieri, eliminando ogni ulteriore residuo riferimento alla retribuzione percepita dal figlio e alla solidità del rapporto lavorativo[46].
Se, difatti, la capacità lavorativa è una condizione che si presume in seguito al compimento della maggiore età, di diverso avviso si deve essere quando si considera il concetto di indipendenza economica. Discostandosi, dunque, da quella giurisprudenza di merito[47] che si sforzava di individuare un’età presuntiva per la cessazione dell’obbligo di mantenimento, la Cassazione ha fatto chiarezza sul punto[48] individuando nella maggiore età e nel conseguente ottenimento della capacità d’agire e lavorativa, il momento in cui cessa l’obbligo di contribuzione da parte dei genitori, salva la prova, a carico del richiedente, delle condizioni che possano giustificare il permanere di tale obbligo.
Questi aspetti non sono del tutto estranei alla Corte, la quale, già in passato, aveva stabilito che la perdita del diritto al mantenimento dovesse verificarsi col raggiungimento, da parte dei figli, di una condizione di indipendenza economica, da considerarsi tale «con la percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita[49]», ovvero - criterio richiamato anche nell’ordinanza in esame - quando il figlio, divenuto maggiorenne, sia stato posto dai genitori nelle condizioni di poter essere economicamente autosufficiente.
Un orientamento che è stato seguito da quelle pronunce[50] che hanno letto l’indipendenza economica come il conseguimento da parte del figlio di un impiego tale da consentirgli l’ottenimento un reddito corrispondente alla sua professionalità e attagliato alle sue aspirazioni. Decisioni che, tuttavia, non hanno fatto che ammantare il criterio della dipendenza economica di opacità interpretativa: aspetto su cui, al contrario, si è invece soffermata la Corte in questa sede.
Alla luce dell’ordinanza in oggetto, la dipendenza economica è da leggersi come un sacrificio necessario, sopportabile fintantoché le condizioni economiche familiari lo consentano[51] e l’avente diritto non ponga in essere condotte che sfocino nell’abusività o nell’esercizio in “mala fede” del diritto[52]. I giudici di legittimità specificano che, «perché esso sia correttamente inteso, occorre che la concreta situazione economica non sia il frutto di scelte irragionevoli e sostanzialmente volte ad instaurare un regime di controproducente assistenzialismo, nel disinteresse per la ricerca della dovuta una indipendenza economica[53]».
Tornando, dunque, al bilanciamento tra diritti e doveri, la capacità lavorativa ha come contraltare il raggiungimento dell’indipendenza economica, dovendo il figlio svolgere una ricerca seria e ponderata. Si tratta, per dirla con Rodotà[54], di «un diritto ad avere diritti», che deve proiettarsi all’interno di una cornice di responsabilità e rispetto delle parti in causa, ponendosi, da un lato, le necessarie aspirazioni del figlio e, dall’altro, la presa di coscienza di non poter fare affidamento sui genitori sine die, che insieme sostanziano il dovere contributivo di cui all’ultimo comma dell’art. 315 bis c.c.
Dalla lettura dell’ordinanza, emerge, rispetto al passato, la rimozione di ogni automatismo, andandosi a configurare come condotte che non integrano il diritto al mantenimento non solo quelle che mostrano una negligenza da parte del figlio maggiorenne, ma anche la mancata ricerca di un’indipendenza personale finalizzata all’acquisizione dello «status di sufficienza economica[55]», in mancanza di quei requisiti che possano giustificare il permanere dell’obbligo di mantenimento.
4. L’inversione dell’onere probatorio: verso una responsabilizzazione del figlio maggiorenne.
Una attenzione particolare merita altresì il tema dell’onere probatorio: aspetto tutt’altro che mero oggetto di una riflessione di natura processual-civilistica, ma che, al contrario, costituisce un punto cardine del cambio di orientamento della Cassazione. Esso rappresenta il momento decisivo dell’elevamento del figlio, l’avente causa, a parte attiva della vicenda, processuale e non.
Il pregresso orientamento giurisprudenziale non lasciava spazi alla possibilità di far gravare l’onere probatorio sul figlio maggiorenne, pesando, invece, sul genitore, il quale doveva dimostrare di poter essere esonerato dall’obbligazione in esame.
Le condiciones sine qua non dovevano essere, da un lato, la prova della negligenza[56] del figlio e, dall’altro, il raggiungimento di una certa soglia di autosufficienza[57] da parte di quest’ultimo. Numerose sono state poi le varianti interpretative circa l’oggetto dell’onere probatorio[58], nessuna delle quali è mai riuscita a sciogliere il vero nodo della questione: il fatto che non spetta al genitore, bensì al figlio maggiorenne non indipendente economicamente, dimostrare di possedere i requisiti per divenire il soggetto passivo del rapporto obbligatorio.
Dopo aver ripercorso le evenienze che comportano il sorgere del diritto al mantenimento[59], la Corte specifica che l’obbligo legale cessa con la maggiore età, dovendo, in seguito, essere stabilito dal giudice sulla base delle prove fornite dal richiedente - ovverosia, il figlio maggiorenne. Questi non dovrà solo provare la mancanza d'indipendenza economica, ma anche di aver diligentemente curato la propria preparazione, nonché l’aver attivamente ricercato un lavoro[60].
Una simile soluzione gode altresì dell’effetto indiretto di responsabilizzare la prole, che, come si è notato, è una delle finalità principali di questo procedimento. L’età matura rappresenta l’id quod plerumque accidit dal quale discende una presunzione (relativa) di autosufficienza, che può essere vinta dimostrando d’aver proseguito proficuamente gli studi in un lasso di tempo congruo. Inoltre, sfiorando la probatio diabolica, il figlio dovrà provare l’impossibilità di trovare un impiego per causa a lui non imputabile, o che neppure con un altro lavoro egli avrebbe potuto conseguire l’auto-mantenimento. Situazione difficile da provare, dovendo essere osservata da una più lungimirante prospettiva, che si contestualizza nelle scelte formative e di vita del figlio, nonché delle condizioni economiche familiari, onde evitare il reiterarsi di condotte velleitarie.
La possibilità di fornire prova contraria e di corroborare le ragioni che possono spingere il giudice a valutare il pagamento di un assegno periodico spetta solo ed esclusivamente al figlio, nel rispetto del principio di prossimità della prova. Si tratta di un passaggio fondamentale, ove si pensi all’impossibilità per un genitore di conoscere i dettagli della vita del figlio - se lavora, sostiene regolarmente gli esami universitari di profitto, ecc., – non potendo violare la sua riservatezza. Pertanto, è il figlio a dover fornire le suddette informazioni, coerentemente con l’art. 24 Cost., e non il padre, il quale, giustamente, non sarebbe in grado di soddisfare l’onere di allegazione dei fatti sufficienti a provare l’avvenuta cessazione dell’obbligo di mantenimento[61]. Il figlio maggiorenne, dunque, dovrà necessariamente rivestire un ruolo attivo nella vicenda che lo vede protagonista, dovendo fornire la prova, pur negativa, delle circostanze che sostanziano l’obbligazione in suo favore[62], essendo la parte che possiede una maggiore conoscenza dei fatti, sperimentandoli in prima persona.
Arrivando alle considerazioni conclusive della Corte, due ulteriori aspetti meritano di essere discussi: la prova presuntiva e il principio di «prossimità dell’età del richiedente[63]». Con riferimento al primo aspetto, la valutazione della capacità lavorativa potrà essere fornita anche mediante presunzioni che possano alleggerire il carico probatorio gravante sul figlio maggiorenne[64]. Tale posizione è avvalorata da una recente sentenza di merito[65], ove si è detto che «la prova del raggiungimento di un sufficiente grado di capacità lavorativa è ricavabile anche in via presuntiva dalla formazione acquisita e dalla esistenza di un mercato del lavoro in cui essa sia spendibile».
L’età del richiedente diviene così indice di prova presuntiva, anche alla luce del più volte richiamato principio di autoresponsabilità. Ne consegue che l’onere probatorio risulterà essere particolarmente lieve per gli anni immediatamente successivi al compimento della maggiore età, qualora il soggetto abbia, ad esempio, intrapreso un percorso di studi serio, che persegue con dedizione e profitto. Il giusto sforzo, impiegato per effettuare un ingresso più proficuo nel mondo del lavoro, andrebbe di per sé a completare questo tipo di prova, giacché, investendo sul proprio futuro, il figlio decide di integrare le competenze acquisite nell’ordinario ciclo di studi superiore con delle ulteriori conoscenze maggiormente professionalizzanti. Diversamente, la prova dell’esistenza del diritto al mantenimento sarà progressivamente più gravosa per il richiedente man mano che si discosterà dalla maggiore età[66]. Si può, allora, parlare di una vera e propria presunzione di autosufficienza che viene gradatamente a concretizzarsi nel passaggio dalla maggiore età a quella adulta, per mezzo di un processo di maturazione[67]. Criterio che, a sua volta, deve essere opportunamente bilanciato a partire dall’osservazione di come il figlio si sia dedicato medio tempore alla ricerca di un’occupazione e non abbia irragionevolmente ritardato il termine per il completamento degli studi.
Tale lettura della Cassazione apre ad una nuova configurazione dei rapporti di filiazione in netto contrasto con la precedente giurisprudenza sul diritto ex art. 337 septies c.c. Tuttavia, nonostante l’intento chiarificatore della Corte, numerose sono le questioni che restano ancora in sospeso, relative, in particolare, alla cesura che si potrebbe verificare con il compimento della maggiore età. Sebbene la volontà della Corte sia quella di evitare il reiterarsi di comportamenti parassitari, il risultato potrebbe sostanziarsi in un’interpretazione eccessivamente riduttiva, inserendosi proprio nel momento in cui il figlio attraversa la fase più delicata della sua esistenza, in cui inizia ad interfacciarsi col proprio futuro. Giova inserire tale riflessione nella cornice del particolare periodo storico che stiamo vivendo, in cui un’intera generazione, con grandi difficoltà, è in procinto di effettuare le proprie scelte di vita, in un mondo danneggiato - anche economicamente - dall’emergenza SARS-CoV-2 (c.d. COVID-19)[68].
A fronte di quanto riferito finora, è facile accorgersi che la vera disputa non deve avvenire unicamente sul terreno dell’interpretazione della norma sostanziale, bensì anche su quello del riflesso sociale di ciò che, come interpreti e studiosi del diritto, siamo chiamati a mettere in discussione. Urge, pertanto, trovare un bilanciamento tra gli interessi di due generazioni: da una parte, i genitori, che, nonostante le loro fragilità, sono chiamati a non trascurare il c.d. best interest della loro prole; dall’altra, i figli, che, chiamati a comprendere dove si esauriscono i doveri dei genitori e iniziano i propri, debbono agire sempre più responsabilmente, spogliandosi dei comodi abiti fanciulleschi e imparando, pian piano, ad andare avanti anche senza i loro genitori[69].
5. Conclusione: la necessità di uno sviluppo della pars construens giurisprudenziale nel contesto di una riforma legislativa del diritto di famiglia
Al termine di questa analisi dell’ordinanza n. 17183/2020, emerge chiaramente la forte spinta propulsiva impressa dalla Corte di Cassazione. Pur non abbandonando il percorso già ampiamente delineato in sede di legittimità, la lettura dell’istituto dell’obbligo di mantenimento è ammantata di una nuova veste rispetto al passato, essendo mutata la prospettiva dalla quale veniva tradizionalmente letta la normativa di riferimento. In alcuni punti, ci si è persino spinti oltre il dettato legislativo, specie in considerazione delle pressioni provenienti dalla realtà contemporanea[70].
In questo contesto di continue trasformazioni, la Corte svolge al massimo delle sue potenzialità la funzione nomofilattica attribuitale dall’art. 65 ord. giud., compiendo uno sforzo significativo nella sistemazione e definizione dei principi in tema di obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, alla luce di un profondo mutamento dell’ambiente sociale[71].
Più volte, nel corso della presente indagine, è stata segnalata l’assenza di indicazioni precise da parte del legislatore in merito. Assenza che si è manifestata nella mancanza di punti fermi per il giudice di merito che, in prima battuta, è chiamato a dirimere le controversie che ne scaturiscono. Una simile incertezza causa forti oscillazioni ermeneutiche finanche nella interpretazione che di tale istituto offre la stessa Cassazione, la quale alterna un consolidamento del proprio orientamento su taluni punti a non trascurabili arresti giurisprudenziali riguardo ad altri. Urge, quindi, un bisogno di stabilità nella disciplina, che può essere soddisfatto solo con l’intervento del decisore politico, chiamato ad incidere in questo ambito non già con leggi sporadiche, che limitano la rispettiva operatività solo ad alcuni aspetti di tale materia, ma con una riforma organica che sancisca il definitivo superamento, oltre che del concetto di famiglia in termini di comunità fondata sul matrimonio, anche della incapacità dei figli di autodeterminarsi, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte di vita[72]. Ciò al fine di un recupero dell’essenza solidaristica della famiglia che, oltre che essere una “comunità di vita e di affetti”, è soprattutto la più importante tra le formazioni sociali deputate allo svolgimento della personalità dell’individuo, ai sensi dell’art. 2 Cost.
Una rinnovata valorizzazione di questi compiti inevitabilmente porta la famiglia ad interfacciarsi con l’esterno, con le altre istituzioni civili facenti parte del sistema cui essa stessa appartiene. Entità predisposte per uno scopo comune, ciascuna delle quali concorrenti nel processo di crescita della prole, chiamata ad un progressivo distacco dal “nido familiare” e ad un ingresso nel mondo del lavoro in tempi celeri o, comunque, non eccessivamente dilatati. L’interruzione del circolo vizioso che origina da una assistenza ad infinitum del figlio porta a conseguenze negative anche per quanto concerne l’(eventuale) inadempimento dell’obbligo di sostentamento dei genitori mediante il versamento degli alimenti. In assenza di un reddito proprio del figlio, il rischio è quello che si determini una sproporzione tra diritti e doveri reciproci, frustrando l’aspettativa che viene a crearsi in capo ai genitori di poter beneficiare delle sostanze del figlio una volta che questi sia riuscito a trovare una sistemazione.
In questo quadro complesso e frammentario, il recepimento delle direttive fornite dalla giurisprudenza di legittimità diventa una condizione imprescindibile. L’obiettivo è quello di offrire una rilettura sostanziale dell’obbligo di mantenimento, che abbandoni i meccanismi meramente formali che ne determinano il sorgere, nonché la retorica che pure ha caratterizzato alcune sue applicazioni, e si apra ad una quotidianità polimorfa, le cui sfide non possono essere superate con l’affermazione di una deresponsabilizzazione indiscriminata.
Non senza una certa dose di coraggio, la Corte, facendo ricorso alla tecnica dell’interpretazione per principi[73], ha costruito un paradigma audace nella decodificazione di questo istituto, che deve uscire dai margini dell’art. 337 septies c.c. per integrarsi con altre disposizioni, codicistiche e costituzionali. Tuttavia, il portato dirompente di una simile esegesi abbisogna di una ulteriore legittimazione da parte di future decisioni in senso conforme e, su tutte, di un’autorevole conferma da parte delle Sezioni Unite. Motivo per cui l’ordinanza n. 17183/2020 della Prima Sezione Civile indubbiamente rappresenta un traguardo importante, ma non certo risolutivo. Ciononostante, non è da ignorare il fatto che le risposte alle quaestiones sottoposte al vaglio della Cassazione sono presenti e ben riconoscibili all’interno dell’ordinamento, occorrendo solo che il legislatore provveda a cristallizzarle secondo un metodo teleologico orientato a valori. Pertanto, la conclusione di questo cammino è ancora lontana e, nel breve termine, è possibile semplicemente constatare che – parafrasando una celebre massima de Il Gattopardo – «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
[1] Prima di affrontare l’esposizione di questo argomento alla luce della casistica giurisprudenziale, può essere utile fornirne una definizione completa di tale istituto. V. IVONE, in Profili di danno endofamiliare, Torino, 2020, 128, definisce il dovere di mantenimento dei figli come «quel dovere giuridico che sorge ex lege come conseguenza della mera procreazione e che si sostanzia – risultando riconducibile ad un generico risvolto patrimoniale dell’obbligo di cura che i genitori hanno verso la prole – nel dover sostenere le spese volte a soddisfare tutte le necessità dei figli».
[2] Categoria all’interno della quale devono altresì includersi quelle comunità legate dal vincolo affettivo tipico del rapporto familiare sono anche quelle che P. PERLINGIERI, in Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3° ed., Napoli, 2006, 926 definisce “convivenze spontanee”: in esse rientrano tanto quelle che, a seguito dell’emanazione della L. 20 maggio 2016, n. 76, sono state denominate “unioni civili”, che nascono tra persone dello stesso sesso, quanto le convivenze di fatto, che si connotano per la mancanza dei diritti e doveri coniugali.
[3] In tal senso, P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., 934,
[4] Già all’epoca dell’emanazione del Codice Civile, durante il regime fascista, l’obiettivo di protezione della prole all’interno della famiglia e della società rappresentava un elemento caratterizzante della potestà genitoriale, intesa come posizione di potere che comportava non solo la supremazia, ma soprattutto la responsabilità della salvaguardia dei propri figli.
[5] L’ultima più significativa modifica a tale disciplina è stata introdotta con L.10 dicembre 2012, n. 219, recante “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”, seguita dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, concernente la “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’Articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”, che ha eliminato la distinzione – fortemente discriminatoria - tra “figli legittimi” e “figli naturali”, adottando per entrambi il concetto unitario di “figlio”.
[6] Oggetto di una particolare elaborazione giurisprudenziale è stato soprattutto l’ultimo comma dell’art. 315 bis c.c., in cui il figlio da soggetto passivo di tutela diventa soggetto attivo, chiamato ad intervenire in prima persona nell’economia familiare dal momento in cui è dimostrabile che lo stesso abbia raggiunto un certo livello di indipendenza economica e, dunque, di autosufficienza. Ciò è particolarmente vero in tema di obbligo di prestazione degli alimenti, che sarà al centro, così come i concetti appena enunciati, di una più approfondita analisi nel prosieguo della trattazione.
[7] Recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”, in G.U. n. 50 del 1° marzo 2006.
[8] Relativo all’ “Esercizio della responsabilità genitoriale, a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio”.
[9] Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, punto 4.1 dei motivi della decisione.
[10] Inevitabile è il confronto con la disposizione di cui all’art. 337 ter, co. 4, c.c., dove la corresponsione di un assegno periodico a favore dei figli minorenni è stabilita dal giudice “ove necessario”, sulla base di criteri normativamente previsti. Sul punto, più ampiamente, v. M. MAGLIETTA, Mantenimento del figlio maggiorenne: il cambio di rotta della Cassazione, in Altalex, 1° settembre 2020.
[11] Onere della prova di cui si tratterà più diffusamente infra, par. 4.
[12] Cass. civ., Sez. VI, ord. 18 settembre 2013, n. 21273.
[13] Non si dimentichi, inoltre, che, in un momento successivo rispetto a tale valutazione, il giudice stabilisce i parametri per l’adeguamento automatico dell’assegno agli indici Istat, oppure, qualora non intenda fare ricorso a tali criteri, ai mutamenti del potere di acquisto della moneta.
[14] Si impone, in questo campo, una riflessione sulla differenza tra il mantenimento e l’obbligazione alimentare, cui è interamente dedicato il punto 4.9 dell’ordinanza. L’obbligazione alimentare, infatti, è finalizzata al mero sostentamento del soggetto in difficoltà e, quindi, «commisurata ai bisogni primari ed essenziali, per tutto il tempo in cui ciò sia necessario». Per un risvolto pratico di tale distinzione, v. infra, par. 3, nota 6.
[15] Tra le altre pronunce citate nell’ordinanza, concernenti tale specifico aspetto, v. Cass. civ., Sez. I, sent. 6 aprile 1993, n. 4108, in tema di assegnazione della casa coniugale per convivenza con i figli maggiorenni.
[16] V. IVONE, Profili di danno endofamiliare, cit., 128. V. anche Cass. civ., Sez. I, sent. 19 marzo 2002, n. 3974, che esclude debba ridursi l’obbligo di mantenimento a quello di tipo alimentare «in quanto, anche in caso di separazione personale tra coniugi, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da veder garantito un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza, circostanza che implica una valorizzazione anche delle accertate potenzialità reddituali».
[17] In proposito, v. Cass. civ., Sez. I, sent. 10 aprile 2012, n. 5652, citato in V. IVONE, Profili di danno endofamiliare, cit., ibidem, ove si statuisce che «nell’ipotesi in cui, al momento della nascita, il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto fin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori».
[18] Cass. civ., Sez. VI, ord. 2 maggio 2018, n. 10419, in cui viene stabilito che «se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui».
[19] In particolare, v. Cass. civ., Sez. I, sent. 18 febbraio 1999, n. 1353; sent. 16 febbraio 2001, n. 2289; sent. 3 aprile 2002, n. 4765.
[20] Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, cit., punto 4.2 dei motivi della decisione.
[21] Consistente nel raggiungimento da parte del figlio di uno status di autosufficienza economica relativo alla percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita, in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato. Per un risvolto pratico di tale nozione, v. Cass. civ., Sez. I, sent. 8 agosto 2013, n. 18974, inerente alla non riconducibilità ad una semplice borsa di studio del compenso corrisposto al medico specializzando in dipendenza di un contratto di formazione specialistica pluriennale ex art. 37, D. Lgs. 17 agosto 1999, n. 368.
[22] Il riferimento è a Cass. civ., Sez. II, sent. 7 luglio 2004, n. 12477, Cass. civ., Sez. I, sent. 20 agosto 2014, n. 18076 e Cass. civ., Sez. I, sent. 22 giugno 2016, n. 12952.
[23] Ciò ha portato autorevole dottrina (in particolare, G.B. FERRI, Diritto al mantenimento e doveri dei figli, in Diritto di famiglia. Raccolta di scritti in onore di Rosario Nicolò, Milano, 1982, 378) a ritenere che l’obbligo di mantenimento, quale «supporto patrimoniale dei doveri di istruzione e di educazione», perdura finché non si siano compiuti gli studi che rappresentano l’attuazione del loro “progetto educativo”. Per un approfondimento, v. P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., 828.
[24] Cass. civ., Sez. I, sent. 6 aprile 1993, n. 4108.
[25] Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, cit. punto 4.5.1 dei motivi della decisione: in questo senso, l’età maggiore può considerarsi matura – e, pertanto, implica l’insussistenza del diritto al mantenimento - quando, sulla base del criterio presuntivo dell’id quod plerumque accidit, «si cessa di essere ragazzi e di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di vita, anche minuta e quotidiana, e si diventa uomini e donne».
[26] Emerge qui l’idoneità della funzione educativa del mantenimento a «circoscrivere la portata dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società».
[27] V., tra le altre, Cass. civ., Sez. I, sent. 20 agosto 2014, n. 18076, cit., nonché Cass. civ., Sez. I, sent. 22 giugno 2016, n. 12952.
[28] Non si dimentichi, tuttavia, che è lo stesso ordinamento a bilanciare tale situazione, stabilendo, nell’art. 34 Cost., che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (terzo comma), diritto reso effettivo attraverso l’erogazione di «borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze» (ultimo comma). Queste sovvenzioni, secondo la Corte, oltre a dimostrare la proficuità della prosecuzione negli studi, fungono altresì da elemento che giustifica il permanere dell’obbligo di mantenimento.
[29] In merito, v. Cass. civ, sez. I, sent. 6 dicembre 2013, n. 27377, che ha statuito la cessazione del diritto al mantenimento del figlio maggiorenne (nella specie, ultratrentenne), ove lo stesso, benché dotato di un patrimonio personale, sia ancora dedito – a spese del genitore – agli studi universitari presso una sede diversa dal luogo di residenza familiare, senza aver ingiustificatamente conseguito alcun correlato titolo di studio o una possibile occupazione remunerativa.
[30] Salva, naturalmente, l’impossibilità di procurarsi il lavoro ambito per causa non imputabile al soggetto, oltre che di trovare una occupazione alternativa.
[31] Cass. civ., sent. 10 aprile 1985, n. 2372.
[32] La riforma del diritto di famiglia – di carattere precipuamente pretorio – nella quale è strenuamente impegnata la Corte di Cassazione, procede infatti a cadenza incessante nel ridisegnare i rapporti tra genitori e figli.
[33] V., ex multis, Cass. civ., Sez. I, sent. 26 settembre 2011, n. 19589; Cass. civ., Sez. I, sent. 8 febbraio 2012, n. 1773; Cass. civ., Sez. VI, sent. 29 ottobre 2013, n. 24424; Cass. civ., Sez. I, sent. 9 maggio 2013, n. 11020; Cass. civ., Sez. I, sent. 1° febbraio 2016, n. 1858; Cass. civ., sez. VI, sent. 15 luglio 2020, n. 21752. Sul punto, v. altresì C. LO GIUDICE, Figli maggiorenni: i limiti al mantenimento, in Altalex, 19 settembre 2020.
[34] Il riferimento è a M. E. QUADRATO, Il ruolo dei genitori. Dalla potestà ai compiti, Bari, 2012.
[35] Offrire una definizione compiuta del concetto di ‘famiglia’ non è tra le finalità del presente elaborato. Tuttavia, nella definizione fornita in T. AULETTA, Diritto di famiglia. Terza edizione, Torino, 2016, 369, si rinviene un concetto alquanto interessante: la famiglia come una realtà a metà tra il giuridico ed il sociale, una società a metà tra Stato e privato.
[36] Particolarmente emblematica, in tal senso, è stata Cass. civ., Sez. I, sent. 2 dicembre 2005, n. 26259, che esclude il diritto del coniuge separato di ottenere dall’altro coniuge un assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne convivente quando quest’ultimo, ancorché allo stato non autosufficiente economicamente, abbia in passato iniziato ad espletare un’attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di una adeguata capacità e determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento ad opera del genitore. Né assume rilievo il sopravvenire di circostanze ulteriori (come, ad esempio, la negatività dell’andamento dell’attività commerciale dal medesimo espletata), le quali, se pur determinano l’effetto di renderlo privo di sostentamento economico, non possono far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti siano già venuti meno.
[37] V. supra, par. 1.1, nota 13.
[38] In merito, più nel dettaglio, v. Cass. civ., Sez. I, sent. 28 gennaio 2008, n. 1761, la quale ha sancito che il figlio maggiorenne non autosufficiente economicamente, qualora abbia già intrapreso un’attività lavorativa (abbandonata per problemi caratteriali e per tossicodipendenza), non ha diritto all’assegno di mantenimento, ma può richiedere al genitore gli alimenti, anche nell’ambito del procedimento di revisione delle condizioni dell’assegno di mantenimento.
[39] Sul punto, G. BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 7° ed. aggiornata, Torino, 2010, 296.
[40] Concetto ribadito in A. ANCESCHI, Rapporti tra genitori e figli: profili di responsabilità, Milano, 2007, 33-34.
[41] V. Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, cit., punto 4.2 dei motivi della decisione, ove vengono enumerati gli «ulteriori criteri per l’ottenimento del diritto al mantenimento».
[42] Quale «precondizione del diritto preteso», come da punto 4.6 dell’ordinanza de qua.
[43] V. Cass. civ., Sez. I, sent. 20 agosto 2014, n. 18076, cit.
[44] E si sottolinea il “può”, quale verbo servile utilizzato dal legislatore anche in altri punti, per assegnare valore sostanziale al prudente apprezzamento del giudice di merito. Aspetto che, tuttavia, la Corte intende supportare fornendo quelle linee di lettura che l’art. 65 ord. giud. le assegna.
[45] Così in Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, cit., punto 4.4 dei motivi della decisione.
[46] I due menzionati criteri della retribuzione e del trattamento contrattuale del figlio maggiorenne sono stati già adoperati dalla Corte in precedenti giudizi, quali aspetti che non consentono una reviviscenza dell’obbligo di mantenimento. Tra questi, v. Cass. civ., Sez. VI, sent. 22 luglio 2019, n. 19696, circa la cessazione dell’obbligo di mantenimento da parte del genitore anche in caso di «retribuzione sia pure modesta ma che prelude a una successiva spendita della capacità lavorativa a rendimenti crescenti».
[47] A titolo esemplificativo, si menziona Trib. Milano, sez. IX civ., ord. 29 marzo 2016. Un commento interessante della presente ordinanza è fornito in M. A. IZZO, Fino a che anno si devono mantenere i figli? Una sentenza innovativa a Milano, in La Repubblica, 23 maggio 2018.
[48] Si rimanda a M.L. SCHIRINZI, Mantenimento del figlio maggiorenne: dal “diritto ad ogni possibile diritto” al principio di autoresponsabilità, in Ilfamiliarista.it, Redazione Scientifica, n. 10, 10 novembre 2020.
[49] V. Cass. civ., Sez. I, 3 gennaio 2011, n. 18. In dottrina, diffusamente, v. M. STURIALE, R. RUSSO, Responsabilità e tutela dei diritti nella vita privata e familiare, Milano, 2016, 227-245.
[50] V., ex multis, Cass. civ. Sez. I, sent. 27 giugno 2011, n. 14123; Cass. civ., Sez. I, sent. 08 febbraio 2012, n. 1773, cit.
[51] V. Trib. Ancona, Sez. I, sent. 1° febbraio 2019, n. 206, ove si statuisce che «il diritto al mantenimento del figlio, infatti, si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione che tenga conto delle sue capacità, inclinazioni e aspirazioni, nella misura in cui siano compatibili con le condizioni economiche della famiglia».
[52] Così, Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, cit., punto 4.4 dei motivi della decisione.
[53] Si richiama, ancora una volta, Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, cit., punto 4.4 dei motivi della decisione.
[54] S. RODOTA’, Il diritto di avere diritti, Bari, 2012.
[55] E. A. EMILIOZZI, in Lezioni di diritto di famiglia, Roma, 2019, 123-125, utilizza la locuzione citata, descrivendola come «consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato».
[56] In merito al concetto di negligenza, v. T. AULETTA, Diritto di famiglia, cit., 365, ove viene svolta una interessante riflessione circa le conseguenze dell’inerzia colpevole del figlio maggiorenne, individuata come causa estintiva del diritto.
[57] In tema, v. Cass. civ., Sez. I, sent. 16 febbraio 2001, n. 2289; Cass. civ., Sez. I, sent. 21 maggio 2009, n. 11828; Cass. civ., Sez. VI, ord. 5 marzo 2018, n. 5088. V. anche, nella manualistica, C. MANDRIOLI, A. CARRATTA, Diritto Processuale Civile, vol. 3, 27° ed., Torino, 2019.
[58] A tal riguardo, la Corte, in Cass. civ., sez. I, sent. 1° febbraio 2016, n. 1858, commentata da G. SOLURI, Non rivive il diritto al mantenimento per il figlio che perde il lavoro, in Rivista Cammino Diritto, n. 4, 2017, si è pronunciata circa “la sottrazione volontaria” del figlio dal lavoro, come metro di valutazione da utilizzare, da parte del genitore, con riferimento all’esenzione dal versamento dell’obbligo di mantenimento.
[59] V. Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, cit., punto 4.5.4 dei motivi della decisione.
[60]V. Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, cit., punto 4.6 dei motivi della decisione.
[61] V., in commento all’ordinanza, M. MAGLIETTA, Mantenimento del figlio maggiorenne: il cambio di rotta della Cassazione, cit.
[62] La Corte corrobora questa argomentazione richiamando anche la precedente giurisprudenza sul tema in conclusione del punto 4.6 dell’ordinanza in esame, fornendo, ancora una volta, una interpretazione chiara e circostanziata su un aspetto molto dibattuto anche nella dottrina.
[63] Formulazione elaborata da chi scrive per identificare il concetto che la Corte esprime nell’ambito del punto 4.7 dell’ordinanza commentata.
[64] V. Cass. civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183, cit., punto 4.7 dei motivi della decisione, ove la Corte statuisce che è fatta salva la potestà attribuita al figlio di provare l’assenza di colpa mediante la conquista attuale di una posizione lavorativa.
[65] Nello specifico, Trib. Perugia, Sez. I, sent. 1° giugno 2020.
[66] Questo approccio è stato aspramente criticato da una parte della dottrina, come riportato in C. COSTABILE, Il mantenimento dei figli maggiorenni: la Cassazione muta orientamento sul riparto degli oneri probatori?, in ilProcessoCivile.it, 30 settembre 2020. Le obiezioni principali a questo orientamento giurisprudenziale riguardano, da una parte, il ruolo che il figlio dovrebbe rivestire in una causa di revisione delle condizioni di separazione o divorzio e, dall’altra, le modalità di redistribuzione del carico probatorio, non chiarendo, la Corte, se il figlio debba attivarsi con un autonomo procedimento per definire l’obbligo di mantenimento, oppure cosa possa accadere qualora, nel corso del processo, il figlio diventi maggiorenne. Tale aspetto è stato affrontato, da ultimo, in G. DE MARZO, Figli Maggiorenni e Diritto al Mantenimento. Le Ragioni Del Dissenso Dalla Recente Pronuncia Della S.C., in IlForoItaliano.it, 24 agosto 2020, ove si è sostenuto che, nell’ambito di una crisi familiare, il genitore tenuto al versamento dell’assegno di mantenimento potrebbe ritenere di sospenderlo in via automatica con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio. Tuttavia, a questa tesi si può rispondere opponendo il dato normativo dell’art. 337 septies c.c., in quanto, rispetto a tale diritto, è in ogni caso indispensabile un provvedimento del giudice, non potendo una simile deliberazione discendere da un mero capriccio del genitore.
[67] Infatti, come si è avuto modo di rilevare supra, par. 2, è stato finalmente consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il convincimento che la maggiore età sia un concetto meramente anagrafico e che decisivo in questo settore sia in realtà la raggiunta maturità del figlio, in quanto gli consente di ponderare meglio le sue scelte in relazione al futuro percorso di vita.
[68] W. HUTTON, in Per superare la crisi ripartiamo dai giovani, in Internazionale, 2 maggio 2020, parla di «generazione della mega crisi», con riferimento ai giovani di età compresa tra i 20 e i 30 anni, i quali, in seguito alla pandemia globale di COVID-19, hanno finito per costituire il vero bersaglio sociale, lavorativo ed economico.
[69] Parafrasando il pensiero dello scrittore americano Frank A. Clark.
[70] Non è, questa, una novità in tale settore del diritto civile, poiché anche le profonde innovazioni apportate dalle precedenti riforme legislative hanno causato un notevole distacco dalla concezione tradizionale, legata a un costume che riflette i principi dell’etica cristiana, che ha ispirato il legislatore costituente nella disciplina della materia. “Cambia la famiglia”: questo si legge nella prefazione di F. MERCADANTE, Verso la terra dei figli, Milano, 1995, citato in A. TRABUCCHI, Istituzioni di Diritto Civile, 49° ed., Padova, 2019, 417.
[71] Quest’ultima, come si è visto supra, par. 4, è già adesso al centro di ulteriori evoluzioni (o involuzioni, a seconda del punto di vista proprio di chi legge) in seguito al perdurare della emergenza sanitaria da Covid-19, che favorisce l’emersione di una dimensione inedita del rapporto familiare.
[72] Esigenza già in precedenza manifestata in dottrina in D. ACHILLE, Il mantenimento del figlio maggiorenne tra diritto positivo e prospettive di intervento legislativo, in Famiglia, persone e successioni, 2011, 660-669.
[73] Così come illustrata in R. ALEXY, Theorie der Grundrechte (1994), trad. it. Teoria dei diritti fondamentali, Bologna, 2012.