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Pubbl. Ven, 7 Feb 2020

Il caso Sea Watch 3 e la recente ordinanza del GIP di Agrigento

Elena Crispino


Il segmento finale della condotta dell’indagata (la resistenza a pubblico ufficiale) costituisce il prescritto esito dell’adempimento del dovere di soccorso, il quale non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro. Conclusivamente, la Rackete ha agito conformemente alla previsione di cui all’art. 51 c.p., che esime da pena colui che abbia commesso il fatto per adempiere a un dovere impostogli da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità.


Sommario: 1. L'ordinanza del Gip di Agrigento (2 luglio 2019); 2. La ricostruzione dei fatti; 3. Le motivazioni del GIP di Agrigento: il reato di cui all'art. 1100 cod. nav.; 4. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e la scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.); 5. La normativa interna e il provvedimento interministeriale ex art. 11, co. 1-ter, d.lgs. 286/1998 (T.U. Immigrazione); 6. Il concetto di “porto sicuro” (place of safety); 7. Sul (mancato riconoscimento del) soccorso di necessità: un obiter dictum; 8. Considerazioni finali.

Sommario: 1. L'ordinanza del Gip di Agrigento (2 luglio 2019); 2. La ricostruzione dei fatti; 3. Le motivazioni del GIP di Agrigento: il reato di cui all'art. 1100 cod. nav.; 4. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e la scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.); 5. La normativa interna e il provvedimento interministeriale ex art. 11, co. 1-ter, d.lgs. 286/1998 (T.U. Immigrazione); 6. Il concetto di “porto sicuro” (place of safety); 7. Sul (mancato riconoscimento del) soccorso di necessità: un obiter dictum; 8. Considerazioni finali.

 1. L’ordinanza del GIP di Agrigento (2 luglio 2019) 

L’ordinanza in commento[1], emanata dal GIP di Agrigento il 2 luglio 2019, si riferisce al noto caso della nave Sea Watch 3, che, il 29 giugno 2019, decideva di entrare nel porto di Lampedusa per far sbarcare alcuni migranti che aveva precedentemente soccorso. E ciò, nonostante fosse stato emanato, il 15 giugno 2019, un provvedimento di divieto di ingresso da parte del Ministero dell’Interno (di concerto con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture, ai sensi dell’art. 11, comma 1.ter, d.lgs. 286/1998), e fosse sul posto presente una nave della Guardia di Finanza, volta ad impedire tale ingresso da parte del convoglio battente bandiera olandese.

Alla luce di quanto sopra, la capitana della nave, Carola Rackete, veniva tratta in arresto dalle forze dell’ordine italiane. Nella fattispecie, le veniva contestato il reato di cui all’art. 1100 cod. nav., per aver opposto resistenza alla suddetta nave della Guardia di Finanza, ritenuta nave da guerra; nonché, per la stessa condotta, il reato di resistenza a pubblico ufficiale.

Il GIP di Agrigento, con un’articolata ed esaustiva motivazione, non convalidava tuttavia l’arresto di Rackete, ritenendo non integrato il fatto tipico del reato ex art. 1100 cod. nav. e scriminato, ex art. 51 c.p., il reato di cui all’art. 337 c.p.

Al fine di cogliere la forza e la correttezza giuridica delle argomentazioni del GIP, è il caso di ripercorrere gli snodi dell’ordinanza in commento, per svolgere qualche considerazione generale, per poi soffermarsi su alcuni punti particolarmente interessanti.

2. La ricostruzione dei fatti

I fatti avvenuti, di dominio pubblico a causa della enorme rilevanza mediatica della vicenda ivi esaminata, sono stati esposti con chiarezza nell’ordinanza in commento, la quale richiama tanto la comunicazione della notizia di reato (di seguito CNR), redatta dalla Guardia di Finanza e che dava origine a tale procedimento penale, quanto le dichiarazioni rese dalla stessa Carola Rackete.

In estrema sintesi, dalla CNR emergeva che la nave Sea Watch 3, imbattutasi in un convoglio fatiscente contenente diverse persone a rischio naufragio, decideva di soccorrere i suddetti, contestualmente coordinando le proprie operazioni, alla luce della Convenzione SAR (Amburgo, 1979), con le autorità competenti, nella fattispecie Libia ed Italia. La capitana Rackete, una volta soccorsi i migranti, chiedeva tramite email alle suddette autorità presso quale porto ella dovesse condurre le persone a bordo. Dopo aver declinato l’indicazione delle autorità libiche di sbarcare nel porto di Tripoli, poiché ritenuto “porto non sicuro”, Rackete si teneva in contatto con le autorità italiane, le quali la diffidavano dal dirigersi verso l’Italia, indicandole quale porto sicuro Malta ovvero la Tunisia.

Rackete, riscontrato che i porti tunisini non erano parimenti sicuri, e che Malta non risultava firmataria di alcune convenzioni internazionali di diritto del mare (tra cui, appunto, la Convenzione SAR nella sua versione integrata da ultimo nel 2004), decideva di dirigersi nel porto sicuro più vicino, identificato nel porto di Lampedusa. Decisione che veniva immediatamente stigmatizzata dal Ministero dell’Interno, il quale, in seguito all’approvazione del d.l. 53/2019, esercitava il potere ex art. 11, co. 1-ter del d.lgs. 286/1998 ed emanava, di concerto con i Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture, un provvedimento di divieto di ingresso, transito e sosta nelle acque territoriali italiane della Sea Watch 3.

Ciononostante, la nave entrava, dopo diversi giorni ferma in acque internazionali, nelle acque territoriali italiane, in quanto Rackete era preoccupata dalle condizioni precarie dei soggetti a bordo (tra cui diversi minori). Tale drammatica situazione era confermata dal fatto che, nei giorni precedenti, era stato richiesto diverse volte l’intervento a bordo di personale medico ed era stato altrettanto necessario lo sbarco di alcuni migranti, bisognosi di cure urgenti.

A quel punto, una vedetta della Guardia di Finanza veniva inviata nei pressi della nave olandese, invitandola ad uscire dalle acque territoriali ed intimandola a non proseguire nell’avvicinamento alle coste italiane. La Sea Watch, tuttavia, continuava la propria navigazione verso Lampedusa, per arrestarsi appena prima dell’ingresso in tale porto, in attesa di istruzioni dalle autorità italiane sulle modalità di sbarco dei migranti. Restava ferma per due giorni, finché, non avendo ricevuto alcuna indicazione in merito, decideva di forzare l’ingresso e sbarcava nel porto di Lampedusa. Nel fare ciò, peraltro, urtava la fiancata della suddetta vedetta della Guardia di Finanza, la quale, nel tentativo di evitare l’attracco della nave, si era posizionata tra la Sea Watch e la banchina del porto.

3. Le motivazioni del GIP di Agrigento: il reato di cui all’art. 1100 cod. nav.

Richiamata brevemente la dinamica dei fatti, è opportuno a questo punto soffermarsi sulle argomentazioni della motivazione con la quale il GIP di Agrigento ha ritenuto di non convalidare l’arresto a carico della capitana della Sea Watch.

Venendo, in primis, alla contestazione di cui all’art. 1100 cod. nav., il GIP ha ritenuto, con stringata ma convincente motivazione, che il reato contestato non fosse integrato nei suoi elementi oggettivi, atteso che, secondo richiamata giurisprudenza della Corte Costituzionale[2], le navi della Guardia di Finanza non sono ritenute navi da guerra se non quando operanti “fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri presso cui non vi sia autorità consolare”. Nel caso di specie, al contrario, la Guardia di Finanza interveniva a fermare la Sea Watch all’interno del mare territoriale, pertanto essendo da escludere la sussistenza del reato contestato.

4. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e la scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.)

Quanto al contestato reato di cui all’art. 337 c.p., il GIP di Agrigento, pur prendendo atto che, dalla visione di un filmato agli atti, l’urto tra la nave Sea Watch e la vedetta della Guardia di Finanza dovesse essere di molto ridimensionato nella sua portata offensiva, nondimeno riteneva che tale condotta posta in essere dalla capitana Rackete integrasse perfettamente tanto l’elemento oggettivo, quanto quello soggettivo del reato di resistenza a pubblico ufficiale.

E tuttavia, il GIP riteneva la condotta di Carola Rackete scriminata alla luce dell’art. 51 c.p., il quale esclude la punibilità, tra l’altro, di chi commetta il reato per adempiere ad un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo di una pubblica autorità.

Ed è questa, si ritiene, la parte più interessante della motivazione dell’ordinanza in commento.

Per giungere a tale conclusione, il GIP richiama in modo sintetico ma puntuale una serie di norme internazionali, citando tra l’altro la Convenzione di Montego Bay (1982) e la Convenzione di Amburgo (o Search and Rescue, 1979), dalle quali discende, per qualsiasi convoglio marittimo, l’obbligo di prestare soccorso a soggetti in stato di pericolo o perché naufraghi, o perché viaggianti su imbarcazioni evidentemente inidonee al loro trasporto sicuro.

Secondo il GIP, pertanto, Carola Rackete, con la sua condotta, avrebbe adempiuto ad un dovere direttamente discendente da norme internazionali cogenti, e che trovano spazio all’interno del nostro ordinamento per via dei parametri costituzionali di cui agli artt. 10 e 117 Cost.

In particolare, con riferimento alle norme di cui alla Convenzione di Montego Bay, il Giudice richiamava gli artt. 18 e 19, dalla cui lettura congiunta emergeva che il passaggio (comprensivo anche di fermata ed ancoraggio) nelle acque territoriali di una nave battente bandiera straniera non può essere ritenuto “offensivo” laddove volto a prestare soccorso a persone in pericolo, e che, parallelamente, può essere ritenuto “pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero” (e quindi offensivo) soltanto il passaggio che violi le leggi di detto Stato, tra l’altro, in materia di immigrazione.

Pertanto, è facile svolgere il seguente ragionamento: se l’ordinamento italiano risulta vincolato (dagli artt. 10 e 117 Cost.) al rispetto delle norme di diritto internazionale consuetudinario e pattizio, e se tali norme impongono a qualsiasi comandante di convoglio marittimo di prestare immediato soccorso ai naufraghi, allora il passaggio e l’attracco della nave che trasporti le persone soccorse non potrà essere ritenuto offensivo ai sensi della legge italiana.

Alla luce di quanto detto, conclude correttamente il GIP, la condotta di Rackete, pur integrando gli elementi del reato ex art. 337 c.p., dev’essere scriminata ai sensi dell’art. 51 c.p., essendo l’obbligo di soccorso impostole da inderogabili norme internazionali.

Sul punto, è opportuno concentrare l’attenzione su un passaggio motivazionale chiave dell’ordinanza in commento. In particolare, secondo il GIP, alla luce delle succitate norme internazionali, e in particolare ai sensi della Convenzione di Amburgo del 1979, l’obbligo di soccorso dei naufraghi non può ritenersi limitato alle mere operazioni di imbarco da parte della nave soccorritrice. Una volta che questi ultimi siano saliti a bordo, sorge contestualmente in capo al comandante del convoglio l’obbligo di trasporto verso un c.d. porto sicuro (o, per citare la Convenzione, place of safety).

Pertanto, la condotta doverosa imposta a Rackete dalle norme di diritto internazionale comprendeva non soltanto l’accoglimento a bordo delle persone in pericolo, ma anche il loro trasporto verso il porto sicuro più vicino, e finché ciò non fosse avvenuto, il dovere di soccorso in capo a Rackete e all’equipaggio della Sea Watch non sarebbe stato considerato esaurito, alla luce del quadro normativo richiamato.

In altri termini, la condotta materialmente consistita nell’urtare la nave della Guardia di Finanza altro non è che il segmento finale di tale condotta doverosa di soccorso delle persone in pericolo. E infatti, come evidenziato anche dalla CNR della Guardia di Finanza, la vedetta colpita dalla Sea Watch si era posta in una posizione intermedia tra detta nave e la banchina del porto di Lampedusa, al precipuo fine di frapporre un ostacolo fisico all’attracco della nave e al conseguente sbarco dei migranti a bordo. Ciò significa, dunque, che la Sea Watch non avrebbe potuto adempiere al proprio dovere di soccorso (anche, da ultimo, consentendo lo sbarco delle persone in pericolo in un porto sicuro) se non attraccando nel porto di Lampedusa, anche al costo di entrare in collisione (peraltro modesta) con l’imbarcazione della Guardia di Finanza.

In sintesi, proprio la condotta che si ascrive alla Rackete quale reato risulta in realtà concretizzazione attuale dell’adempimento del dovere di soccorso, ad essa imposto dalle norme internazionali sul diritto del mare e sui diritti umani.

Ciò posto, è nota la funzione che nel nostro ordinamento hanno le cause di giustificazione, o scriminanti. Il loro ruolo è quello di evitare che un comportamento facoltizzato o imposto da una norma dell’ordinamento generale venga altresì, allo stesso tempo, punito in quanto conforme ad una fattispecie di reato. Proprio nel caso di specie, la scriminante dell’adempimento del dovere (ai sensi dell’art. 51 c.p.) consente di non punire penalmente una condotta tipica (ai sensi dell’art. 337 c.p.), poiché tale condotta è resa non soltanto lecita, ma addirittura giuridicamente doverosa, alla luce delle norme internazionali richiamate alle quali l’ordinamento interno si conforma.

5. La normativa interna e il provvedimento interministeriale ex art. 11, co. 1-ter, d.lgs. 286/1998 (T.U. Immigrazione)[3]

Peraltro, e già essendo quanto riportato sufficiente a chiudere il dibattito sull’assenza di antigiuridicità nella condotta della capitana Rackete, occorre rilevare, per completezza, che l’obbligo di soccorso dei naufraghi in pericolo è sancito altresì dalla nostra normativa interna. Come il GIP di Agrigento non manca di rilevare, infatti, l’art. 10-ter del d.lgs. 286/1998 (Testo Unico in materia di immigrazione) impone tanto al comandante del convoglio, quanto alle autorità nazionali, di prestare soccorso e prima assistenza allo straniero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare.

Alla luce di tale norma, pertanto, i provvedimenti interministeriali di divieto di ingresso e transito, ai sensi dell’art. 11, co. 1-ter, d.lgs. cit., non solo appaiono inidonei a scalfire la cogenza delle norme internazionali sull’obbligo di soccorso in mare a causa della evidente superiorità gerarchica di queste ultime, ma si pongono altrettanto in contraddizione con l’obbligo di prestare assistenza di cui all’art. 10-ter.

E’ vero che lo Stato costiero è libero di tutelare i propri confini di fronte ad illegittimi ed offensivi tentativi di ingresso, transito e permanenza nelle proprie acque territoriali, così com’è altrettanto libero, come affermato chiaramente dal GIP di Agrigento, di regolare e limitare i flussi migratori. Ma tale potere statuale non può mai essere esercitato in conflitto con le norme di diritto internazionale che pongono obblighi inderogabili a tutela del supremo diritto alla vita umana.

Ma vi è di più. A ben vedere, il provvedimento interministeriale del Ministero dell’Interno, nel caso che ci occupa, sembra essere stato emanato anche in assenza dei suoi stessi presupposti.

In particolare, l’art. 11, co. 1-ter, d.lgs. cit. richiede, in primis, che il potere di vietare l’ingresso, il transito e la sosta dei convogli marittimi sia esercitato in ossequio agli obblighi internazionali; inoltre, esige, quale ulteriore presupposto applicativo, che si concretizzino le condizioni di cui all’art. 19, co. 2, lett. g della Convenzione di Montego Bay (1982), limitatamente alle leggi di immigrazione vigenti.

In sostanza, richiamando l’art. 19 cit., il potere provvedimentale di cui si tratta sembra postulare l’esistenza di un passaggio “offensivo” da parte della nave in questione, in quanto “pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero”, per la circostanza che, in particolare, detta nave sia impegnata in attività di “carico o scarico di persone” in violazione delle (sole) leggi di immigrazione vigenti.

Ma si è già affermato che, per più d’un motivo, il transito e l’attracco della nave Sea Watch non possa ritenersi offensivo: e ciò sia in quanto conforme agli obblighi di soccorso posti dalle norme internazionali; sia in quanto, per ciò che qui interessa, non viola alcuna legge di immigrazione vigente nell’ordinamento italiano, ma anzi pare del tutto in linea con l’obbligo di soccorso sancito parimenti dal T.U. immigrazione (d.lgs. 286/1998), all’art. 10-ter.

In altre parole: se l’art. 10-ter d.lgs. cit. obbliga lo Stato italiano a predisporre punti di accoglienza e primo soccorso al fine di consentire lo sbarco, l’identificazione e le cure necessarie dei migranti soccorsi in mare, lo stesso Stato italiano non può vietare l’ingresso e lo sbarco, ritenendoli pregiudizievoli, dei convogli marittimi che detto soccorso abbiano prestato (e stiano ancora prestando, fino al momento stesso dello sbarco in un porto sicuro).

Certamente il potere provvedimentale in questione potrà essere utilizzato al fine di inibire lo sbarco, ad esempio, di imbarcazioni capitanate da trafficanti di esseri umani; non invece al fine di vietare ad una nave di prestare le necessarie e doverose operazioni di soccorso dei naufraghi, che, lo ricordiamo ancora una volta, non si ritengono esaurite fino a quando le persone soccorse non siano fatte sbarcare in un porto che possa definirsi sicuro, alla luce dei parametri forniti dalla Convenzione SAR di Amburgo, 1979.

6. Il concetto di “porto sicuro” (place of safety)

Come si è detto, gli obblighi internazionali di soccorso di persone in pericolo in mare impongono non soltanto il soccorso delle stesse e il loro accoglimento a bordo del convoglio soccorritore, ma anche e soprattutto il loro trasporto e sbarco in un porto sicuro.

In particolare, la Convenzione di Amburgo (o Convenzione SAR, acronimo di Safe and Rescue, 1979), integrata dalla risoluzione MSC.167(78) nel 2004, impone al soccorritore di scortare le persone soccorse in un porto sicuro, non essendo, fino a quel momento, regolarmente adempiuto il doveroso obbligo di soccorso.

La succitata risoluzione, tuttavia, non dà una definizione compiuta di place of safety, ma si limita a stabilire che rappresenta un porto sicuro “il luogo in cui si considerano terminate le operazioni di salvataggio”, purché detto luogo soddisfi cumulativamente tre condizioni (richiamate dal GIP nell’ordinanza in commento):

  1. la sicurezza della vita dei naufraghi non deve essere più in pericolo;
  2. devono essere assicurate le necessità primarie, in particolare cibo, alloggio e cure mediche;
  3. può essere ivi organizzato il transito delle persone soccorse verso la loro destinazione finale.

Alla luce di quanto statuito dalla Convenzione, allora, non possono che condividersi le valutazioni del GIP circa l’assenza di un’immediata disponibilità di un porto sicuro per i migranti a bordo della Sea Watch che non fosse il porto italiano di Lampedusa.

In particolare, dalle stesse dichiarazioni di Carola Rackete, richiamate nell’ordinanza di (non) convalida dell’arresto, emergeva che, nel momento del soccorso dei migranti in mare, quest’ultima chiedeva delucidazioni alle autorità, coordinate secondo quanto disposto proprio dalla Convenzione SAR, circa il porto presso cui dirigersi. Gli stati verso cui era possibile fare rotta erano, in particolare, l’Olanda (dal momento che la nave batteva bandiera olandese), subito scartata in quanto non immediatamente raggiungibile; e poi la Libia e l’Italia.

La capitana Rackete veniva in effetti indirizzata dalla guardia costiera libica verso il porto di Tripoli; e tuttavia, decideva di non seguire tale raccomandazione in quanto il porto di Tripoli è considerato dalla comunità internazionale e dalla stessa Unione Europea come non sicuro, alla luce delle innumerevoli violazioni dei diritti umani perpetrate ai danni dei migranti detenuti nel paese africano e testimoniate a più riprese da varie organizzazioni internazionali.

Si riporta all’uopo, e senza pretesa di esaustività, quanto affermato a riguardo nel report, datato settembre 2018, dall’UNHCR, l’Agenzia ONU per i rifugiati: “le violazioni e gli abusi più frequenti includono la detenzione arbitraria, i rapimenti, le sparizioni forzate, le torture e le altre forme di maltrattamento, gli stupri e le altre forme di violenza sessuale contro sia donne che uomini , le esecuzioni extragiudiziali, incluse le esecuzioni sommarie, gli sfollamenti forzati, etc” (par. 8). L’UNHCR pone l’accento (par. 15) soprattutto sul fatto che la Libia non ha mai aderito né alla Convenzione sullo status dei rifugiati (1951), né al relativo Protocollo, limitandosi a ratificare soltanto una Convenzione dell’Unità Africana inerente specifici aspetti dei problemi dei rifugiati in Africa (c.d. Convenzione OUA). Non esiste neppure una legislazione specifica sul diritto d’asilo, né alcuna procedura all’uopo stabilita.

In ogni caso, scrive l’UNHCR, “a seguito dell’intercettazione o del salvataggio in mare, le persone vengono consegnate dalla Guardia costiera libica (GCL) alle autorità del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (DCIM), che le trasferisce direttamente nei centri di detenzione gestiti dal governo, dove vengono detenute per periodi indefiniti”, senza alcuna possibilità di rilascio, tranne in caso di rimpatrio, evacuazione o reinsediamento in paesi terzi (par. 17). “Secondo i rapporti disponibili, in tutte le strutture le condizioni di detenzione non rispettano gli standard internazionali e sono state descritte come ‘spaventose’, ‘da incubo’, ‘crudeli, disumane e degradanti’. Uomini e donne richiedenti asilo, rifugiati e migranti, inclusi i minori, sono sistematicamente sottoposti a tortura e ad altre forme di maltrattamento, compresi stupri e altre forme di violenza sessuale, lavoro forzato e estorsione, o ne sono ad alto rischio, sia in strutture di detenzione ufficiali che non ufficiali. In detenzione sono state segnalate anche discriminazioni razziali e religiose. I detenuti non hanno possibilità di contestare la legalità della detenzione o del trattenimento” (par. 18)[4].

Analoghe considerazioni sono a più riprese state svolte dalla Corte Penale Internazionale[5], dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa[6] e da Amnesty International[7].

Non sembra irrilevante, al fine di evidenziare la totale inidoneità dei porti libici quali “places of safety” alla luce della Convenzione SAR, menzionare la sentenza emanata il 23 maggio 2019 (pochi giorni prima dei fatti che ci occupano) dal GIP di Trapani, con la quale veniva riconosciuta la scriminante della legittima difesa in favore di due migranti a bordo della nave Vos Thalassa, i quali, resisi conto del fatto che la suddetta nave si stava dirigendo verso le coste libiche, minacciavano il comandante e l’equipaggio della stessa. Nel motivare circa la sussistenza, nel caso di specie, dell’offesa ingiusta al diritto dei migranti di essere trasportati in un porto sicuro (presupposto indefettibile della legittima difesa), scrive il GIP di Trapani che, alla luce delle condizioni disumane nei centri libici di detenzione per migranti, “appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’Uomo. Da tale excursus emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa – non solo i due soggetti identificati, ma anche tutti gli altri concorrenti nel reato, stavano vedendo violato il loro diritto ad essere ricondotti in un luogo sicuro e, specularmente, che l’ordine impartito dalle autorità libiche alla Vos Thalassa fosse palesemente contrario alla Convenzione di Amburgo[8].

Quanto appena riportato pare sufficiente per comprendere e condividere, come peraltro fa lo stesso GIP di Agrigento, la scelta di Carola Rackete di non ottemperare alle indicazioni ricevute, e di vagliare altre possibilità di sbarco per i migranti soccorsi.

Altrettanto condivisibile pare la scelta di non procedere allo sbarco dei naufraghi sulle coste maltesi. Malta, come pure correttamente riportato nell’ordinanza in questione, non ha mai aderito alla Convenzione SAR nella sua versione integrata nel 2004, evitando spesso di partecipare in prima persona ad operazioni di sbarco. Oltre a ciò, è noto che, pur non emergendo, come nel caso della Libia, l’evidenza di tale paese come “porto non sicuro”, spesso sono emersi, anche nella legislazione nazionale, atteggiamenti di criminalizzazione nei confronti dei migranti sbarcati[9].

Da ultimo, emerge dal testo dell’ordinanza che la Sea Watch era parimenti stata invitata, dalla Capitaneria di Porto italiana, a dirigersi verso il porto di Tunisi, ritenuto, a differenza di quello di Tripoli, sufficientemente sicuro. E tuttavia, Rackete riferiva di non aver ottemperato a tale suggerimento, in quanto, in base a notizie a lei pervenute, Amnesty International non considerava il porto di Tunisi un idoneo place of safety; parimenti, era a conoscenza del fatto che un convoglio con a bordo diversi migranti era fermo da diversi giorni all’ingresso del porto, in attesa dell’autorizzazione a sbarcare.

Si tratta, in particolare, del caso del caso del rimorchiatore Maridive 601, con a bordo 75 migranti salvati lo scorso 31 maggio da un naufragio, rimasto al largo di Zarzis in attesa dell'autorizzazione ad entrare in porto per sbarcare le persone recuperate. Nonostante le condizioni sanitarie critiche il governatore di Medenine negava lo sbarco, autorizzandolo, dopo ben 18 giorni, alla condizione che i naufraghi accettassero il rimpatrio volontario, così violando, di fatto, il principio di non refoulement[10].

Allo stesso modo, in Tunisia non vi è alcuna legislazione completa sul diritto d’asilo e sulle relative procedure, il che rende oltremodo incerto il destino delle persone soccorse una volta sbarcate.

Pertanto, è sicuramente attendibile e condivisibile la valutazione del GIP di Agrigento, che sottolinea, nell’ordinanza in commento, come l’unica opzione concretamente a disposizione della Rackete, per poter adempiere al suo dovere di soccorso dei naufraghi, fosse quella effettivamente praticata, consistente nella navigazione e poi nello sbarco sulle coste italiane, a scapito del provvedimento interministeriale di cui già si è detto.

7. Sul (mancato riconoscimento del) soccorso di necessità: un obiter dictum

Dopo aver diffusamente esaminato le argomentazioni giuridiche adottate dal GIP di Agrigento per motivare la non convalida dell’arresto di Carola Rackete, e pur condividendone gli assunti, si ritiene di dover esaminare una questione collaterale.

Si è detto, infatti, che l’ordinanza in commento ha motivato la mancata convalida dell’arresto di Rackete, quanto al reato di resistenza a pubblico ufficiale, ritenendo la condotta di quest’ultima scriminata, ex art. 51 c.p., dall’aver adempiuto ad un dovere posto da una norma giuridica; nella fattispecie, al dovere di soccorso dei naufraghi, comprensivo del loro transito e sbarco in un porto sicuro, posto da numerose norme internazionali ed interne.

Ciò posto, ci si chiede, tuttavia, per quale motivo la scelta del GIP sia stata, nel caso di specie, nel senso di riconoscere la sussistenza della scriminante di cui all’art. 51 c.p. e non, invece, lo stato di necessità, disciplinato dall’art. 54 c.p.

In particolare, il comma 1 dell’art. 54 c.p. dispone che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.

La domanda giunge, in un certo senso, spontanea dal momento che, da una parte, in precedenti casi analoghi la condotta del soccorritore è stata ritenuta non punibile proprio alla luce di detta norma (che disciplina, oltre che lo stato di necessità, anche il c.d. soccorso di necessità). Dall’altra, è da porre in evidenza che la stessa capitana Rackete, nel forzare il divieto postole dalle autorità italiane e virando la navigazione verso le nostre coste, invocava proprio lo stato di necessità.

Ci si deve chiedere, pertanto, se il mancato riconoscimento del soccorso di necessità in favore della capitana Carola Rackete sia dovuto alla constatata assenza, nel caso della Sea Watch 3, dei presupposti richiesti dall’art. 54 c.p., ovvero a considerazioni di altra natura.

E infatti, a parere di chi scrive, sembrano sussistere nel caso di specie tutte le condizioni per riconoscere il soccorso di necessità. Tali condizioni, alla luce della norma richiamata, sono:

  1. la costrizione del comportamento illecito;
  2. la necessità di salvare altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona;
  3. la non volontaria causazione del pericolo da parte del soggetto in pericolo;
  4. la non altrimenti evitabilità del danno;
  5. la proporzione tra il fatto illecito e il pericolo.

Ciò posto, è evidente come, nel caso di specie, la sussistenza di tali condizioni emerga con chiarezza, oltre che dalla vicenda in sé, anche dallo stesso testo dell’ordinanza.

Il GIP di Agrigento, nel corso dei passaggi motivazionali affrontati, non manca di evidenziare la situazione di estremo pericolo nella quale si trovavano i migranti, riferita dalla stessa Rackete: al momento del soccorso, la Sea Watch 3 si trovava di fronte ad un “gommone in condizioni precarie”, a bordo del quale nessuno dei passeggeri indossava giubbotto di salvataggio, non vi era alcun equipaggio e peraltro l’imbarcazione era sfornita di benzina sufficiente per raggiungere qualsiasi destinazione sulla terraferma. Con ciò essendo palese il grave pericolo di vita al quale i naufraghi si trovavano esposti.

Peraltro, le condizioni di pericolo non cessavano con la salita dei migranti a bordo della Sea Watch. Rackete riferiva infatti di numerosi soggetti a rischio dal punto di vista medico, nonché di una situazione a bordo divenuta via via insostenibile a causa del protrarsi dei giorni senza poter attraccare in un porto sicuro.

Alla luce di quanto brevemente considerato, allora deve ritenersi che le suddette condizioni, necessarie ai fini del riconoscimento del soccorso di necessità, sussistono tutte nel caso che ci occupa. Posta l’indubbia esistenza di un pericolo attuale per la vita e la salute dei naufraghi, e la conseguente necessità, da parte dell’equipaggio del convoglio, di soccorrerli, la non altrimenti evitabilità del danno emerge chiaramente in base a quanto già illustrato in merito all’assenza di un diverso place of safety concretamente idoneo allo sbarco delle persone soccorse. Né può seriamente essere posta in discussione la proporzionalità tra il fatto commesso e il pericolo scampato: a fronte di una manovra di modesta entità, pur se pienamente integrante il reato di resistenza a pubblico ufficiale, l’operato della Sea Watch consentiva senza dubbio di salvare la vita dei naufraghi. Ed è quasi superfluo ribadire in questa sede che la vita umana è un diritto fondamentale la cui tutela può imporre, più che in ogni altro caso, il sacrificio di altri interessi certamente rilevanti.

All’uopo, si precisa che la possibilità di riconoscere, nel caso di specie, il soccorso di necessità non sembra possa essere messa in discussione da quell’opinione, pur autorevolmente sostenuta in dottrina[11], secondo la quale il soccorso di necessità potrebbe riconoscersi unicamente laddove tra il soggetto soccorso e il soccorritore vi siano vincoli di parentela, amicizia o comunque legami personali tali da far nascere, in quest’ultimo, la costrizione ad agire. Tale ultima situazione si configura certamente come più frequente, ma non esclusiva. Non può escludersi infatti che la costrizione a intervenire nasca non da un rapporto di tipo affettivo-personale, ma dal semplice spirito di solidarietà dell’uomo verso l’altro uomo, e ciò specialmente laddove, come in questo caso, il pericolo cui il soggetto è esposto sia di assoluta gravità. Del resto, tale opzione ermeneutica ben si sposa con l’impronta solidaristica che permea l’intero ordinamento nazionale, per via, soprattutto, della norma di cui all’art. 2 Cost.

In base alle considerazioni svolte, allora, non si comprende come mai il GIP di Agrigento non abbia minimamente vagliato, nel percorso argomentativo dell’ordinanza in commento, la possibilità di riconoscere lo stato di necessità, percorrendo invece la via ermeneutica (finora inedita) del riconoscimento dell’adempimento di un dovere. La questione è interessante anche alla luce del fatto che, come si diceva, la prima soluzione è stata più volte prediletta dalla giurisprudenza in casi analoghi.

Su tutti, si riporta brevemente il caso Open Arms, le cui affinità con le vicende della Sea Watch 3 sono evidenti già solo in punto di fatto. Il GIP di Ragusa ha riconosciuto che l’equipaggio della nave omonima, intervenuta a salvare alcuni migranti a bordo di imbarcazioni fatiscenti per poi sbarcare sulle coste italiane, ha agito in stato di necessità, nonostante vi fossero altre possibili destinazioni di sbarco (Libia e Malta), poiché la valutazione del pericolo di danno grave alla persona non può essere limitata alla sola situazione di naufragio, ma deve essere estesa alla eventuale possibilità che i naufraghi, una volta sbarcati, possano essere soggetti a violenze, persecuzioni e trattamenti inumani e degradanti[12].

Orbene, la ragione della diversa scelta in punto di diritto del GIP di Agrigento potrebbe risultare più chiara, ove si consideri che lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. vive da tempo un dibattito dottrinale e giurisprudenziale tra chi ritiene che esso rappresenti una causa di giustificazione vera e propria[13] e chi, invece, sostiene che si tratti di una scusante. La differenza tra le due interpretazioni è di non poco momento: mentre le cause di giustificazione, rendendo facoltizzato o doveroso un comportamento altrimenti penalmente illecito, fanno venir meno la c.d. antigiuridicità, le scusanti, al contrario, incidono sulla colpevolezza del soggetto agente, il quale si trova, suo malgrado, a commettere un reato, essendo tuttavia in una posizione in cui sia soggettivamente inesigibile, da parte sua, un comportamento alternativo lecito.

Tale distinzione ha rilevanti risvolti pratici: la sussistenza di una causa di giustificazione rende la condotta lecita alla stregua dell’intero ordinamento, e la stessa non sarà quindi passibile di alcuna conseguenza, penale o extrapenale. Al contrario, la presenza di una scusante, pur se fa venir meno la punibilità a causa del deficit di colpevolezza, non elimina la valutazione di illiceità di quel comportamento da parte dell’ordinamento: a fronte dell’assenza di repressione penale, ben sarà possibile che l’agente sopporti conseguenze extrapenali della sua condotta (responsabilità civile, disciplinare, sanzioni amministrative, ecc.).

Proprio tale argomento viene utilizzato dai sostenitori dello stato di necessità come scusante[14]: mentre tutte le altre norme (artt. 50-53 c.p.) disciplinanti le cause di giustificazione non menzionano alcuna conseguenza della condotta scriminata, l’art. 54 c.p. pone a carico dell’agente un obbligo di indennizzo del danno patito dal terzo leso. Non solo: il testo letterale della norma sembra suggerire proprio l’opzione ermeneutica soggettiva, dal momento che lo stato di costrizione che muove l’agente postula la sussistenza di un condizionamento psicologico nel suo processo decisionale. In sostanza, secondo tale autorevole impostazione, è come se l’art. 54 c.p. dicesse: “non è punibile colui che, avendo riscontrato la sussistenza di un pericolo attuale di danno grave alla persona ed essendo pertanto turbato nel suo processo di formazione della volontà, decide di agire per salvare se stesso o un altro da tale pericolo, pur se tale azione costituisce reato e cagiona un danno ad un terzo innocente, perché da costui non era esigibile, in quelle condizioni, un comportamento diverso”.

E allora, laddove si aderisse a tale impostazione, si comprende che riconoscere lo stato di necessità significherebbe non escludere l’antigiuridicità della condotta, che conserverebbe la sua illiceità alla stregua di una valutazione globale, inerente all’intero ordinamento. Cosa che, nel caso di specie, avrebbe comunque portato il GIP ad a non convalidare l’arresto di Carola Rackete, ma avrebbe altresì potuto comportare per quest’ultima conseguenze extrapenali. Una su tutte, l’applicazione dell’ingente sanzione amministrativa (da 150mila a 1 milione di euro, con la sanzione accessoria della confisca dell’imbarcazione) per violazione del provvedimento interministeriale del 15 giugno 2019.

E invece il GIP ha scelto la strada, come si è detto, inedita della scriminante dell’adempimento del dovere di soccorso, ai sensi dell’art. 51 c.p. in combinato disposto con le norme di diritto internazionale che tale obbligo impongono. Ciò, si ritiene, anche per sgombrare il campo da possibili problemi applicativi quali quello prospettato, ma anche per inaugurare una nuova visione giurisprudenziale sul drammatico ed attuale tema dei soccorsi in mare e degli sbarchi sulle coste italiane.

8. Considerazioni finali

Il GIP afferma chiaramente, con tale nuovo percorso motivazionale, che soccorrere i naufraghi in pericolo di vita è un dovere giuridico imposto da numerose Convenzioni internazionali cui anche l’Italia aderisce, e che, conformemente a quanto statuito dalle norme ivi contenute, il soccorso non può ritenersi ultimato prima dello sbarco in un porto sicuro. Il dovere di trasporto dei migranti fino al porto sicuro, pertanto, derivando da norme di diritto internazionale, non può essere fermato né da decreti legge estemporaneamente emanati, né tantomeno dai suddetti provvedimenti interministeriali, perché il suo adempimento non solo è conforme alle norme dello Stato, ma è imposto (anche) dalla Costituzione, per mezzo dei parametri interposti degli artt. 10 e 117 Cost.

Alla luce delle numerose considerazioni svolte, non può che condividersi nel merito la motivazione del GIP di Agrigento, auspicando che possa fungere da spunto di riflessione anche per la successiva giurisprudenza nazionale che, si teme, sarà sempre più chiamata a pronunciarsi su casi affini.

Peraltro, nelle more della stesura del presente articolo, è giunta la notizia del rigetto, da parte della Corte di Cassazione, del ricorso proposto avverso l’ordinanza in commento dal Procuratore Capo di Agrigento. Nell’attesa di conoscere le senza dubbio interessanti motivazioni della Suprema Corte, il pervenuto rigetto del ricorso non fa che rafforzare in chi scrive la convinzione della correttezza, in punto di fatto e di diritto, della decisione del GIP di cui si tratta.

Note e riferimenti bibliografici

[1] GIP di Agrigento, ord. del 2/7/2019.

[2] Il GIP di Agrigento cita espressamente, nell’ordinanza, Corte Cost, sent. del 3/2/2000, n. 35.

[3] Comma inserito dal d.l. 14 giugno 2019, n. 53, conv. in l. 8 agosto 2019, n. 77 (c.d. Decreto Sicurezza bis).

[4] Per il report dell’UNHCR "POSIZIONE UNHCR SUI RIMPATRI IN LIBIA (Aggiornamento II)"  in www.unhcr.it

[5] Si veda, in proposito, il report investigativo della Corte Penale Internazionale: www.icc-cpi.int

[6] Per il report si rimanda al documento pubblicato su https://rm.coe.int/

[7] Si veda: www.amnesty.it/, in particolare la sezione "Migranti, rifugiati e richiedenti asilo".

[8] GIP di Trapani, sent. del 3/5/2019.

[9] Corte EDU, Elmi c. Malta, ricorsi nn. 25794/13 e 28151/13, sent. del 22/11/2016.

[10] Per la vicenda, si veda www.ansa.it/

[11] Tra gli altri, da T. Padovani, in Diritto penale, Milano, 1999.

[12] GIP di Ragusa, decr. del 16/4/2018.

[13] Su tutti, Fiandaca-Musco, Diritto Penale, Parte Generale, Zanichelli, 2002; Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, 2000.

[14] Fra gli altri, si vedano F. Viganò, Stato di necessità e conflitti di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazioni e delle scusanti, Milano, 2000; R. Giovagnoli, Diritto Penale. Parte Generale, Torino, 2019.