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Pubbl. Lun, 27 Gen 2020
Sottoposto a PEER REVIEW

I difficili rapporti tra Iran e Stati Uniti dalla crisi degli ostaggi (1979) all´uccisione del Generale Soleimani (2020)

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Riccardo Samperi
Dottorando di ricerca


Il contributo analizza i difficili rapporti tra Iran e Stati Uniti a partire dalla presa degli ostaggi presso l’ambasciata americana a Teheran del 4 novembre 1979, fino all’uccisione del generale Soleimani, avvenuta all’aeroporto di Baghdad il 3 gennaio 2020, per ordine del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump


Abstract (ita): il contributo analizza i difficili rapporti tra Iran e Stati Uniti a partire dalla presa degli ostaggi presso l’ambasciata americana a Teheran del 4 novembre 1979, fino all’uccisione del generale Soleimani, avvenuta all’aeroporto di Baghdad il 3 gennaio 2020, per ordine del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Dall’analisi svolta, è emerso che entrambi gli Stati hanno spesso violato (e continuano tuttora a violare) i principi del diritto internazionale. Inoltre lo sviluppo del programma nucleare iraniano e le gravi violazioni dei diritti umani costituiscono un ostacolo alla stabilizzazione dei rapporti con l’occidente. Da ultimo, l’uccisione del generale iraniano Soleimani da parte degli americani rischia di far saltare del tutto il già delicatissimo equilibrio raggiunto in Medio Oriente, dopo la sconfitta dell’ISIS.

Abstract (eng): the paper analyzes the complicated relations between Iran and the United States from the taking of hostages at the American embassy in Tehran on 4 November 1979, until the killing of General Soleimani, which took place at Baghdad airport on 3 January 2020, by order of the President of the United States, Donald Trump. From the analysis carried out, it emerged that both States have often violated (and still continue to violate) the principles of international law. In addition, the development of the Iranian nuclear program and serious human rights violations constitute an obstacle to stabilizing relations with the West. Finally, the killing of the Iranian general Soleimani by the Americans risks completely blowing up the already delicate balance reached in the Middle East after the defeat of ISIS.

Sommario: 1. I rapporti tra Iran e Stati Uniti dopo la crisi degli ostaggi (1979-1981). – 2. Le violazioni del diritto internazionale commesse dall’Iran; 2.1. Sviluppo del programma nucleare; 2.2. Violazioni gravi dei diritti umani; – 3. Uccisione del Generale Soleimani: crimine internazionale o legittima difesa?

 

1. I rapporti tra Iran e Stati Uniti dopo la crisi degli ostaggi (1979-1981)

Iran e Stati Uniti non hanno relazioni diplomatiche ufficiali a partire dal 1980[1]. I pochi contatti che vi sono vengono tenuti grazie alla Interests Section of the Islamic Republic of Iran, un dipartimento speciale dell’ambasciata americana in Pakistan[2]. Nel 2018 vi è stato un ulteriore raffreddamento dei rapporti, dovuto al divieto, imposto da Ali Khamenei (Guida suprema nonché Capo di Stato della Repubblica islamica), di interloquire direttamente con gli Stati Uniti[3]. Le relazioni diplomatiche vennero interrotte in seguito alla crisi degli ostaggi del 1979. Il caso venne portato all’attenzione della Corte Internazionale di Giustizia[4], dopo che un gruppo di studenti iraniani - in data 4 novembre 1979 - fece irruzione nell’ambasciata americana a Teheran, prendendo in ostaggio il personale diplomatico ivi presente[5].

Al tempo dei fatti, i due Stati erano parti delle seguenti Convenzioni:

  • Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961;
  • Protocollo opzionale a tale Convenzione in materia di strumenti obbligatori di risoluzione delle controversie;
  • Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963;
  • Protocollo opzionale a tale Convenzione in materia di strumenti obbligatori di risoluzione delle controversie;
  • Convenzione sulla prevenzione e repressione dei crimini perpetrati ai danni di persone internazionalmente protette, ivi incluso il personale diplomatico, del 1973.

Gli Stati Uniti chiedevano alla Corte di accertare e dichiarare che il governo iraniano aveva violato gli obblighi internazionali assunti con gli anzidetti trattati, nello specifico:

  • Articoli 22, 24, 25, 27, 29, 31, 37 e 47 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche;
  • Articoli 28,31,33,34,36 e 40 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari;
  • Articoli 4 e 7 della Convenzione sulla prevenzione e punizione dei crimini contro persone internazionalmente protette (fra cui gli agenti diplomatici);
  • Articoli II, paragrafo 4, XIII, XVIII e XIX del trattato di amicizia, dei rapporti economici e dei diritti consolari tra Stati Uniti e Iran;
  • Articoli 2, paragrafi 3 e 4, e 33 della Carta delle Nazioni Unite.

La Corte si trovava così ad affrontare due questioni fondamentali: in primo luogo, era chiamata a stabilire se le azioni degli studenti islamici fossero imputabili, oltre che ai singoli cittadini, anche all’Iran in quanto Stato. In secondo luogo, doveva decidere se la condotta omissiva tenuta dall’Iran fosse legittima alla luce degli obblighi internazionali assunti con i Trattati.

La Corte ricostruiva i fatti compiuti dagli insorti il 4 novembre 1979[6]: irruzione all’interno dell’ambasciata, presa di ostaggi e indebita appropriazione di file, archivi e ogni altro materiale diplomatico.

L’operazione era durata più di tre ore senza nessun tipo di intervento da parte delle forze armate e di polizia iraniane. Vi è, quindi, stata la più totale tolleranza da parte da parte delle autorità.

L’Iran eccepiva, tuttavia, che i protagonisti della vicenda agivano a titolo personale, in qualità di soggetti privati e non in veste ufficiale per conto del governo o di qualsiasi altra autorità pubblica iraniana[7]. Dunque, sempre secondo la linea difensiva adottata dalla Repubblica Islamica, le specifiche condotte tenute il 4 novembre nell’arco temporale di tre ore a partire dall’inizio dell’operazione non potevano essere imputate all’Iran, perché la mera tolleranza non era di per sé sufficiente per provare l’adesione dello Stato all’attacco. Naturalmente, però, la vicenda ebbe sviluppi ulteriori.

Nei mesi precedenti, era iniziata la rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini contro lo Scià Reza Pahlavi, il quale – dopo essere stato deposto – si recò negli Stati Uniti, che gli concessero il diritto di asilo[8]. Peraltro, egli era affetto da un cancro in stato terminale e aveva chiesto di essere ricoverato presso una clinica specializzata di New York. Nonostante la vittoria della rivoluzione e le gravi condizioni di salute dello Scià, molti rivoluzionari ritennero che l’America stesse tramando per restaurare la monarchia (come già accaduto nel 1953 al tempo di Mohammad Mossadeq)[9]. La situazione - già tesa - veniva ulteriormente complicata dai sermoni dell’ayatollah (l’ultimo in data 1° novembre 1979, esattamente tre giorni prima dell’attacco). Egli infatti accusava lo Scià e gli Stati Uniti dei problemi del paese. Queste circostanze vennero prese in esame dalla Corte per vagliare l’imputabilità dell’attacco all’Iran[10]. Al riguardo, i giudici affermarono che il discorso del 1° novembre non poteva essere considerato una “autorizzazione” all’attacco, e quindi non era sufficiente per attribuire all’Iran la responsabilità dell’illecito. Dopo il 4 novembre, Khomeini elogiò pubblicamente l’azione e fece una telefonata ufficiale al leader degli studenti, ma neanche tale circostanza convinse la Corte in merito all’esistenza di un collegamento istituzionale tra la Repubblica Islamica e la presa degli ostaggi[11].

Nel medesimo periodo, vi furono attacchi simili a due Consolati americani; anch’essi, tuttavia, non vennero addebitati allo stato iraniano.

La non riconducibilità dell’illecito all’Iran non significava però che tale Stato avesse agito in conformità al diritto internazionale[12]: a giudizio della Corte, la tolleranza delle autorità iraniane integrava infatti una violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche (1961) e di quella sulle relazioni consolari (1963)[13]. In virtù di tali accordi, lo Stato non può esercitare la propria sovranità sulle sedi diplomatiche e consolari presenti sul suo territorio, le quali vengono considerate come territorio straniero. La limitazione della sovranità si traduce in un duplice obbligo a carico dello Stato ospitante: uno negativo, consistente nel divieto di esercitare poteri autoritativi, e uno positivo, in base al quale è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a garantirne la sicurezza. Si tratta di obblighi di diritto internazionale consuetudinario, dunque vincolano anche gli Stati che non hanno ratificato le due convenzioni e non possono essere derogati pattiziamente[14].

Infatti circa otto mesi prima, il 14 febbraio 1979, l’ambasciata americana a Teheran era già stata soggetta ad attacco armato, ma in quel caso le forze di polizia erano intervenute prontamente e il 1° marzo vi era stata una lettera di scuse ufficiali. Perciò, malgrado la consumazione dell’attacco, l’Iran aveva adempiuto le obbligazioni internazionali assunte con le Convenzioni menzionate, poiché si era attivato prontamente per tutelare la struttura diplomatica e permetterle di continuare a svolgere le sue funzioni.

All’esito del giudizio, con tredici voti favorevoli e due contrari, la Corte dichiarava che l’Iran aveva violato, con la propria condotta omissiva, gli specifici obblighi internazionali assunti con le Convenzioni e veniva condannato a far cessare immediatamente l’illecito e a risarcire i danni causati agli Stati Uniti[15].

La crisi degli ostaggi ebbe fine con gli Accordi di Algeri del 19 gennaio 1981 tra Iran e Stati Uniti [16]. I principali punti dell’accordo erano i seguenti:

  • Gli Stati Uniti si impegnavano a non intromettersi nella politica interna iraniana[17] e a rimuovere i vincoli posti a carico dei beni di cittadini iraniani in territorio americano;
  • I due Stati si impegnavano a far cessare le controversie in corso tra sé e i cittadini dell’altro Stato e a risolvere quelle future davanti a un Tribunale arbitrale appositamente creato (Iran–United States Claims Tribunal), con sede a L’Aia[18];
  • Gli Stati Uniti si impegnavano inoltre a non invocare l’immunità statale nelle controversie aventi ad oggetto la restituzione dei beni portati dallo Scià in America[19];
  • L’Iran si impegnava a pagare i debiti nei confronti delle istituzioni americane (oltre a quelli derivanti dalla crisi degli ostaggi, anche la porzione di debito pubblico iraniano acquistato da banche e altri enti finanziari americani).

Nel 1995, l’allora presidente statunitense Bill Clinton impose le prime sanzioni all’Iran, poi rinnovate dai successori fino ai nostri giorni[20].

Durante la guerra tra Iraq e Iran del 1981-1989, gli Stati Uniti fornirono supporto all’Iraq al fine di contrastare la crescente influenza iraniana in Medio Oriente. A questo scopo, nel 1984, l’Iraq venne depennato dai servizi di intelligence americana dalla lista di Stati sponsor del terrorismo, con la conseguente stabilizzazione dei rapporti diplomatici ed economici[21]. Secondo il Senate Banking Committee, durante la guerra, le amministrazioni Reagan e Bush avrebbero venduto al regime iracheno di Saddam Hussein armi chimiche, fra cui virus dell’antrace e della peste bubbonica[22]. L’intensificarsi dello scontro tra le due nazioni, determinò come danni collaterali il danneggiamento di navi mercantili e petrolifere di Kuwait e Arabia Saudita (alleati degli Stati Uniti) nel Golfo Persico. Nel luglio 1987 l'amministrazione Reagan diede l'avvio all'operazione Earnest Will, ordinando alle forze della United States Navy di scortare e proteggere le petroliere kuwaitiane durante il loro viaggio attraverso il Golfo Persico[23]. Il 14 aprile 1988 la fregata statunitense USS Samuel B. Roberts, in navigazione a un centinaio di chilometri a est del Bahrein, urtò una mina posta nel canale navigabile principale usato dal traffico civile: l'esplosione causò una vasta falla nello scafo oltre a 27 feriti tra l'equipaggio[24]. In risposta, il 18 aprile 1988 gli Stati Uniti lanciarono l’operazione Praying Mantis all’esito della quale vennero distrutte due piattaforme petrolifere iraniane e buona parte della flotta[25].

L’Iran allora ridusse sensibilmente le incursioni nel Golfo Persico e si rivolse alla Corte Internazionale di Giustizia, lamentando la violazione, da parte degli americani, del Trattato di amicizia stipulato tra i due paesi nel 1955. Gli Stati Uniti contestavano la giurisdizione della Corte in virtù dell’applicazione dell’articolo XX, paragrafo 1, lettera (d), del trattato, secondo cui “The present Treaty shall not preclude the application of measures: necessary to fulfill the obligations of a High Contracting Party for the maintenance or restoration of international peace and security, or necessary to protect its essential security interests”. Nella sentenza del 12 dicembre 1996, la Corte affermò la propria giurisdizione, negando che la normativa invocata potesse essere interpretata quale clausola di esclusione della giurisdizione e, in ogni caso, essa non trovava applicazione al caso di specie, perché gli Stati Uniti non avevano agito in base alla asserita necessità di proteggere la sicurezza nazionale, giacché l’azione iraniana non era assolutamente in grado di arrecarvi pregiudizio [26]. Il 6 novembre 2003, la Corte rigettò il ricorso dell’Iran, ritenendo che le obbligazioni internazionali nascenti da quel trattato non fossero state violate[27]. La sentenza ha suscitato non poche perplessità. Al riguardo, è opportuno citare l’opinione dissenziente del giudice ELARABY, secondo cui la Corte avrebbe errato nel focalizzarsi esclusivamente sul rispetto del Trattato stipulato da Iran e Stati Uniti nel 1955, senza valutare la legittimità dell’attacco americano alla luce del divieto di uso della forza di cui all’articolo 2, paragrafo 4, della Carta ONU. In virtù del principio iura novit curia, infatti, la valutazione del giudice deve estendersi anche alle norme giuridiche non espressamente richiamate dalle parti, specialmente quando trattasi – come nel caso di specie – di norme di diritto internazionale consuetudinario. Sarebbe quindi contraddittorio e insensato affermare la giurisdizione della Corte sul presupposto che gli Stati Uniti non avevano agito in base alla asserita necessità di proteggere la sicurezza nazionale (e di conseguenza non poteva trovare applicazione l’articolo XX, paragrafo 1, lettera (d) del Trattato del 1955) e poi non valutare se tale condotta fosse legittima alla luce dell’articolo 4 della Carta delle Nazioni Unite. In altri termini, la Corte ha riconosciuto ad un illecito internazionale un’efficacia di tipo meramente processuale (il radicamento della giurisdizione), omettendo totalmente qualsivoglia valutazione in merito agli effetti sostanziali (obbligo di risarcimento)[28].

Dagli anni ’80, gli Stati Uniti accusano gli Hezbollah (organizzazione islamista sciita supportata dall’Iran) di essere responsabili di diversi attentati ai danni di ambasciate americane[29]. Nel 2003, una Corte distrettuale statunitense ha attribuito agli Hezbollah la responsabilità per l’attacco terroristico del 23 ottobre 1983[30]. La Corte del Distretto della Columbia ha inoltre ritenuto che l’attentato all’aviazione statunitense in Arabia Saudita (per la precisione alle Khobar Towers) fosse stato autorizzato da Khamenei, che successivamente sarebbe divenuto l’ayatollah dell’Iran[31].

Nel corso degli anni, i rapporti tra i due stati sono rimasti parecchio complicati. Nel 1988, l’abbattimento da parte degli americani di un aereo passeggeri dell’aviazione civile iraniana scatenò un forte risentimento della popolazione nei confronti dell’Occidente[32]. Il governo iraniano accusò l’amministrazione americana di avere colpito consapevolmente un aereo civile[33] e si rivolse alla Corte Internazionale di Giustizia. Alla fine la Corte dichiarò cessata la materia del contendere perché i rappresentanti dei due Stati dichiararono congiuntamente di avere raggiunto una intesa per la risoluzione pacifica della controversia[34].

In seguito all’attacco alle Torri gemelle l’11 settembre 2001, l’allora Presidente americano Bush pronunciò il celebre discorso in cui qualificò Iran, Iraq e Corea del nord come Stati canaglia, membri dell’Axis of Evil (Asse del male)[35]. Qualche mese dopo, il Presidente annunciò che gli Stati Uniti non avrebbero esitato a fare guerre preventive (preemptive wars) qualora ciò fosse stato necessario per la protezione della sicurezza nazionale[36].

A partire dal 2003, l’Iran denuncia frequenti incursioni aeree e altre violazioni della propria sovranità territoriale da parte degli Stati Uniti[37].

Nell’aprile del 2016, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha condannato l’Iran ad un risarcimento di due miliardi di dollari per gli attentati del 1983, vincolando altresì i beni iraniani insistenti sul territorio americano[38].

2. Le violazioni del diritto internazionale commesse dall’Iran

Il rapporto tra Stati Uniti e Iran è ulteriormente complicato dalle violazioni del diritto internazionale perpetrate dalla (e nella) Repubblica islamica. Per esigenze di sinteticità, ci soffermeremo su quelle che maggiormente incidono sulle relazioni internazionali tra i due paesi: lo sviluppo del nucleare e il rispetto dei diritti umani.

2.1. Sviluppo del programma nucleare

Lo sviluppo del programma nucleare si pone in contrasto con le norme del Trattato di non proliferazione nucleare, approvato dall'Assemblea generale dell'ONU il 1° luglio 1968 ed entrato in vigore il 5 marzo 1970[39]. Tale accordo rappresenta la volontà di proseguire il percorso di disarmo nucleare, iniziato del 1963 con il Trattato sull’interdizione degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, nello spazio e sott’acqua[40].

Un eventuale conflitto nucleare sarebbe una catastrofe per l’umanità; da qui, la necessità di compiere ogni sforzo per prevenirlo e di adottare le misure atte a garantire la sicurezza e la pacifica convivenza dei popoli.

Il trattato prevede anche che i benefici derivanti dall’uso pacifico della tecnologia nucleare devono essere resi accessibili a tutti gli Stati, anche per contribuire allo sviluppo tecnologico e scientifico.

Il trattato stabilisce che gli Stati detentori di testate nucleari[41] non devono trasferirle a nessun altro Stato o ente individuale, né devono produrne nuove; gli Stati che non ne sono in possesso alla data di entrata in vigore del trattato, invece, dovevano astenersi dall’acquistare o dallo sviluppare armi nucleari[42].

Il 14 luglio 2015, l'Iran, il P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti - più la Germania) e l'Unione europea avevano raggiunto a Vienna un accordo sul nucleare iraniano: il c.d. Piano d'azione congiunto globale (acronimo PACG)[43].

I negoziati del piano d'azione congiunto globale sul programma nucleare iraniano erano iniziati con l'adozione del Piano d'azione congiunto, un accordo provvisorio firmato nel novembre 2013 tra l'Iran e i Paesi del P5+1. Nel corso dei venti mesi successivi, l'Iran e i Paesi del P5+1 hanno proseguito i negoziati, fino a raggiungere un accordo quadro sul nucleare iraniano nell'aprile 2015. Nel luglio 2015, l'Iran e il P5+1 hanno stipulato l'accordo.

In base all'accordo, l'Iran aveva accettato di eliminare le sue riserve di uranio a medio arricchimento, di tagliare del 98% le riserve di uranio a basso arricchimento e di ridurre di due terzi le sue centrifughe a gas per tredici anni. Per i successivi quindici anni l'Iran avrebbe potuto arricchire l'uranio solo al 3,67%. L'Iran aveva inoltre pattuito di non costruire alcun nuovo reattore nucleare ad acqua pesante per lo stesso periodo. Le attività di arricchimento dell'uranio sarebbero state limitate a un singolo impianto utilizzando centrifughe di prima generazione per dieci anni. Altri impianti sarebbero stati convertiti per evitare il rischio di proliferazione nucleare. Per monitorare e verificare il rispetto dell'accordo da parte dell'Iran, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) avrebbe avuto regolare accesso a tutti gli impianti nucleari iraniani. L'accordo prevede che in cambio del rispetto dei suoi impegni, l'Iran avrebbe ottenuto la cessazione delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, dall'Unione Europea e dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (emanate con la risoluzione 1747) a causa del suo programma nucleare[44].

L'8 maggio 2018, dopo un negoziato durato complessivamente circa dodici anni, gli Stati Uniti hanno annunciato unilateralmente l'uscita dall'accordo sul nucleare iraniano, rilanciando le sanzioni economiche contro il Paese mediorientale al fine di indurre "il brutale regime iraniano" a "cessare la propria attività destabilizzante" ovvero principalmente a ritirarsi dalla Siria, dove i pasdaran agiscono appoggiando il governo di Bashar al-Assad e costruendo basi missilistiche che sono ritenute un pericolo primario da Israele, oltre che cessare il supporto militare e logistico verso la milizia sciita libanese Hezbollah (ritenuta un'organizzazione terroristica da Israele e dagli stessi Stati Uniti) e all'opposizione yemenita nell'ambito della guerra civile dello Yemen. Nel discorso pronunciato alla Casa Bianca contestualmente alla firma del memorandum presidenziale che ha ufficializzato l’uscita degli Usa dall’accordo, Donald Trump ha reiterato le accuse all’Iran di essere il principale sponsor statuale del terrorismo e di agire per la destabilizzazione del Medio Oriente[45].

Il 5 gennaio 2020, a seguito dell'uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani e a seguito dell'inefficacia dell’azione dell'Unione Europea nel cercare di contrastare le sanzioni americane, l'Iran ha annunciato che riprenderà l'arricchimento dell'uranio «senza restrizioni in base alle sue esigenze tecniche»[46]

2.2. Violazioni gravi dei diritti umani

La rivoluzione islamica ha avuto un impatto negativo sulla tutela dei diritti umani in Iran e conseguentemente sulle relazioni con i Paesi occidentali. Per comprendere la portata del cambiamento, basti pensare che in Iran, nel periodo compreso tra il 1971 e il 1979 (nove anni), gli oppositori politici dello Scià condannati a morte furono 100, mentre dal 1981 al 1985 (cinque anni), i dissidenti giustiziati furono ben 7.900[47].

L’Iran così come molti Stati islamici è caratterizzato da un sistema giuridico che, per certi aspetti, si discosta dai principi contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nella sua terza sessione, il 10 dicembre 1948 a Parigi con la risoluzione 219077A.

Il Paese, infatti, aderisce alla Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell'Islam del 1990. Nell’ordinamento giuridico iraniano trova spazio la legge della Sharia, nella quale sono espressamente affermate ipotesi di disuguaglianza sulla base di sesso, religione e orientamento sessuale ed è prevista la lapidazione come modalità di esecuzione (tuttora praticata) delle condanne capitali[48].

Nel 1984, il rappresentante iraniano presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha affermato che la Dichiarazione Universale dei diritti umani è il frutto di una “tradizione secolare giudaico-cristiana” non conforme ai valori dell’Islam e che la Repubblica [n. d. r. iraniana] non avrebbe esitato nel violarla qualora il rispetto dell’Islam lo avesse reso necessario[49].

La Costituzione iraniana riconosce e garantisce il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, nei limiti consentiti dall’Islam[50].

Il Codice Penale della Repubblica Iraniana contiene disposizioni in contrasto con i diritti fondamentali della persona tutelati dal diritto internazionale. Sono previste due categorie di reati sulla base delle sanzioni applicabili: gli illeciti qualificati come Hudud[51] sono puniti con una pena prestabilita dalla legge e da essi scaturisce l’obbligo di indennizzare la persona offesa (Qisas[52]); l’altra categoria di illeciti è detta Diyya[53]e per questi la pena non è predeterminata dalla legge, ma dipende dal reato stesso: si tratta della famosa legge del taglione. Il reo potrà subire un’offesa di gravità pari o inferiore a quella che ha inflitto[54]. Tra le pene previste vi sono: lapidazione, impiccagione, decapitazione, amputazione[55], flagellazione e reclusione[56].

Inoltre la legislazione italiana contiene una evidente sperequazione tra uomini e donne[57]: l’ammontare del risarcimento dovuto varia in base al sesso della vittima: per le donne è la metà dell’uomo[58]. La testimonianza di un uomo vale quanto quella di due donne[59]. La donna ha bisogno dell’autorizzazione del marito per lavorare al di fuori delle mura domestiche e per lasciare il paese[60]. Secondo l’articolo 886 del Codice Civile iraniano, in caso di morte del figlio, il padre eredita i 2/3 del patrimonio, mentre la madre soltanto 1/3[61].

Le donne hanno l’obbligo di indossare lo hijab in pubblico. L’inadempimento di tale obbligo è punito con l’arresto[62].

La libertà di espressione e manifestazione del pensiero può essere esercitata nei limiti imposti dal rispetto dei precetti coranici[63].

L’articolo 38 della Costituzione iraniana stabilisce che: “Torture, of any kind, in order to obtain confession or information is for- bidden. It is not permissible to force someone to testify, confess, or swear an oath. Such a testimony, confession, or oath is worthless[64].

Il Codice Penale iraniano punisce con la reclusione o (nei casi più “gravi”) con la pena capitale l’omosessualità[65].

Da tempo, numerose organizzazioni internazionali esprimono serie preoccupazioni sulla situazione dei diritti umani in Iran[66].

3. Uccisione del Generale Soleimani: crimine internazionale o legittima difesa?

Il 3 gennaio 2020, il generale Qasem Soleimani - capo della Niru-ye Qods, l'unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile della diffusione dell'ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica[67] - è stato ucciso da un attacco mirato sull'aeroporto internazionale di Baghdad, in Iraq, per ordine del presidente degli Stati Uniti Donald Trump[68].

Per comprendere se tale azione sia o meno legittima, è necessario ricostruire la disciplina di diritto internazionale applicabile al caso di specie.

L’articolo 2, paragrafo 4 (invocato da quanti sostengono l’illegittimità dell’azione), stabilisce quanto segue: “i Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Tale obbligo costituisce un principio di diritto internazionale generale, conseguentemente vincola anche gli Stati non membri dell’ONU e non è suscettibile di deroga pattizia[69].

L’altra disposizione che viene in rilievo (invocata dagli Stati Uniti e da quanti sostengono la legittimità dell’azione) è l’articolo 51 della Carta, a norma del quale: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”.

Non vi sono dubbi sul fatto che l’azione americana sia da qualificare come uso della forza ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 4, della Carta ONU.

Occorre quindi chiedersi se la violazione del divieto di cui all’articolo 2 sia scriminabile ai sensi dell’articolo 51, cioè se l’uccisione di Soleimani sia stata una difesa “legittima”.

In altri termini, l’articolo 2 trova sicuramente applicazione. Bisogna stabilire quindi se sia applicabile anche l’articolo 51.

La dottrina internazionalistica ritiene che presupposto indefettibile della legittima difesa sia l’aver già subito un attacco armato. Il testo inglese dell’articolo 51 stabilisce espressamente che la difesa è legittima “if an armed attack occurs[70], quindi l’attacco armato deve già essere stato sferrato[71].

Il diritto internazionale non offre una specifica definizione di attacco armato sferrato. Per ricostruire la nozione, è utile richiamare i passi fondamentali della Risoluzione n. 3314 del 1974 dell’Assemblea Generale, che fornisce la definizione di “aggressione”. L’articolo 3 della Risoluzione contiene una elencazione – non tassativa, ma puramente esemplificativa – di casi che vengono considerati aggressioni armate (anche senza formale dichiarazione di guerra):

(a) The invasion or attack by the armed forces of a State of the territory of another State, or any military occupation, however temporary, resulting from such invasion or attack, or any annexation by the use of force of the territory of another State or part thereof,

(b) Bombardment by the armed forces of a State against the territory of another State or the use of any weapons by a State against the territory of another State;

(c) The blockade of the ports or coasts of a State by the armed forces of another State;

(d) An attack by the armed forces of a State on the land, sea or air forces, or marine and air fleets of another State;

(e) The use of armed forces of one State which are within the territory of another State with the agreement of the receiving State, in contravention of the conditions provided for in the agreement or any extension of their presence in such territory beyond the termination of the agreement;

(f) The action of a State in allowing its temtory, which it has placed at the disposal of another State, to be used by that other State for perpetrating an act of aggression against a third State;

(g) The sending by or on behalf of a State of armed bands, groups, irregulars or mercenaries, which carry out acts of armed force against another State of such gravity as to amount to the acts listed above, or its substantial involvement therein.

Secondo alcuni autori, l’attacco armato sferrato di cui all’articolo 51 e l’aggressione armata definita dalla risoluzione n. 3314 del 1974 sarebbero sostanzialmente coincidenti, per cui l’attacco armato ricorrerebbe nelle ipotesi sopra menzionate (o ad esse assimilabili)[72].

Secondo altri, invece, le due nozioni sarebbero parecchio distanti[73]. Innanzitutto, nella risoluzione non è fatto alcun esplicito riferimento alla legittima difesa e inoltre sembra che la volontà insita nel testo sia quella di individuare le ipotesi preordinate all’intervento del Consiglio di Sicurezza, ai sensi dell’articolo 39 della Carta, piuttosto che ai sensi dell’art.51[74].

Le fattispecie, di cui alle lettere c), e), f) e g), non sono inquadrabili in un attacco armato in senso tecnico e quindi non possono essere riconducibili all’esercizio della legittima difesa. Da ciò si dedurrebbe che la risoluzione individua le ipotesi affinché il Consiglio di Sicurezza possa reagire, piuttosto che quelle che legittimerebbero gli Stati a rispondere[75].

Nella nozione di armed attack rientrano tutte quelle situazioni che implicano un uso della forza vietato dall’articolo 2, paragrafo 4, della Carta, tale da minacciare l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di uno Stato. Non ha importanza che l’atto sia direttamente posto in essere da uno Stato; si parla di aggressione armata anche di fronte all’intervento di gruppi e bande irregolari. Perché si possa parlare di attacco armato di uno Stato, l’appoggio garantito da quest’ultimo a tali gruppi deve essere finalizzato ad un sovvertimento della sovranità del soggetto, vittima dell’attacco stesso[76].

Il problema della legittima difesa preventiva si era posto in passato in relazione alle armi nucleari. Data la potenza distruttiva di tale arma, alcuni Stati hanno ritenuto affermato la legittimità di una difesa preventiva qualora diretta a sventare un attacco nucleare, che avrebbe certamente determinato la sicura perdita della propria sovranità territoriale e della capacità stessa di fronteggiare l’attacco[77]. La legittima difesa di cui all’articolo 51 può essere esercitata anche con armi nucleari, purché vengano rispettati i limiti di necessità e proporzionalità della risposta rispetto all’attacco, nonché le altre norme di diritto consuetudinario (in special modo quelle umanitarie e di diritto militare)[78].

Secondo un indirizzo dottrinale, in questo specifico caso sarebbe irragionevole non garantire ad uno Stato la possibilità di difendersi da un attacco chiaramente imminente e di tale portata da provocare danni irreparabili[79].

Altri hanno ritenuto non condivisibile tale principio, in considerazione del fatto che - in realtà - la Carta ONU nulla avrebbe a che vedere con l’uso delle armi nucleari[80]. Infatti, nell’ambito della Commissione delle Nazioni Unite sull’energia atomica, gli Stati avevano auspicato che la nozione di attacco armato si estendesse non solo al “the actual dropping of an atomic bomb”, ma anche a “certain steps in themselves preliminary to such action”. Questo darebbe luogo ad alcune considerazioni. Innanzitutto che, nel testo della Carta, non ci si riferisce alla potenzialità devastante di questo tipo di armamenti. Da questo deriverebbe che non è possibile valutare l’articolo 51 in modo estensivo, solamente basandosi sull’assunto che il tipo di armamenti di cui si discute non dà la possibilità di difendersi adeguatamente. È quindi esclusa la possibilità di adottare la legittima difesa preventiva e il testo dello Statuto andrebbe considerato con riguardo a quanto espresso a livello letterale[81].

È stato - tuttavia - ulteriormente osservato che i limiti posti dalla Carta sono assolutamente inconsistenti nella generale prassi degli Stati. Che hanno sempre fatto ricorso all’uso della forza anche quando l’attacco, sebbene imminente, non fosse ancora stato sferrato[82]. Dunque i presupposti di legittimità della legittima difesa sarebbero non soltanto quelli enucleati dall’articolo 51, bensì anche quelli del diritto internazionale (anteriore e successivo alla Carta): perciò non soltanto quando l’attacco sia ormai stato sferrato, bensì anche questo - sebbene non ancora iniziato - sia tuttavia imminente.

Il problema nasce dalla natura stessa del diritto internazionale: non imposto da una autorità sovraordinata (come è lo Stato rispetto ai cittadini negli ordinamenti nazionali), ma creato dalla Comunità internazionale, nel suo insieme di entità superiorem non reconoscentes[83].

Altri ancora sostengono che gli Stati che hanno sottoscritto la Carta devono rispettarne le previsioni, senza alcuna possibilità di rifarsi a principi che sono esclusi dal testo che è stato adottato, e che dunque la legittima difesa preventiva sia solamente un pretesto per aggirare il generale divieto di uso della forza contenuto nell’articolo 2 della Carta[84].

Secondo dottrina quasi unanime, la legittima difesa preventiva era ammessa prima dell’entrata in vigore della Carta. A partire da tale momento, invece, essa deve essere esclusa[85].

Gli Stati stessi, nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, hanno generalmente condannato la possibilità di ricorrere all’uso della forza[86].

Tale interpretazione restrittiva ha ricevuto l’avallo della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Nicaragua c. Stati Uniti del 1986[87].

Nei primi anni ’80, il governo americano venne accusato dal Nicaragua, di aver usato contro di lui la forza armata diretta, disseminando mine nelle acque territoriali nicaraguensi, violando palesemente il diritto internazionale consuetudinario e causando danni alle navi mercantili del Nicaragua e di altri Stati. Gi U.S.A. erano anche accusati di aver attaccato i porti, le installazioni petrolifere e le basi navali e inoltre di aver fornito assistenza logistica ai ribelli anti-sandinisti (i c.d. contras). Gli Stati Uniti, dal canto loro, sostenevano che le operazioni militari intraprese nei confronti del Nicaragua fossero assolutamente lecite, in quanto svolte sulla base della legittima difesa collettiva riconosciuta dal diritto internazionale generale e dalla Carta delle Nazioni Unite ed inoltre che il loro intervento era stato richiesto dai tre Stati latinoamericani che erano rimasti vittima di un attacco nicaraguense: El Salvador, il Costa Rica e l’Honduras[88].La Corte stabilì innanzitutto che le manovre militari condotte dagli U.S.A. in Nicaragua erano di per sé illecite, in quanto costituivano una violazione del principio che vieta l’uso della forza. Tale infrazione riguardava, in primo luogo, l’assistenza prestata ai contras, che rientra a pieno titolo in quelle attività che, secondo la Risoluzione n.3314 del 1974 sulla definizione di aggressione, sarebbero riconducibili all’aggressione indiretta, compiuta con l’organizzazione di gruppi armati o il loro semplice sostegno[89].A questo punto, bisogna però verificare se questi atti, che di per sé costituirebbero un’aggressione, possano essere giustificati dalla necessità di proteggere i confini propri o altrui da un attacco armato[90]. Per concludere che “the United States was lawfully exercising its right of collective self-defense, it must first be found that Nicaragua engaged in an armed attack against El Salvador, Honduras or Costa Rica”. La Corte sembra, già in questo passaggio, sottolineare che per poter giustificare l’intervento per legittima difesa è necessario trovarsi di fronte ad un attacco armato già sferrato (“engaged”, nel testo inglese). È quindi chiaro che la Corte prende in considerazione solamente la legittima difesa, come risposta ad un attacco già lanciato. Dopo aver fatto questa prima considerazione, la Corte, valutando le singole incursioni nicaraguesi nei territori degli Stati, per ponderare il ricorso statunitense alla legittima difesa, dichiarò che “...there are however considerations which justify the Court in finding that neither these incursions, nor the alleged supply of arms to the opposition in El Salvador, may be relied on as justifying the exercise of the right of collective self-defense (da parte degli U.S.A.)”. La manovra statunitense era ancora più ingiustificata dal momento che la Corte non ritenne nemmeno esistente l’assenso degli Stati direttamente investiti delle presunte illegittime incursioni nicaraguensi. La Corte si espresse affermando che “...has seen no evidence that the conduct of those States was consistent wich such a situation, either at the time when the United States first embarked on the activities which were allegedly justified by self-defense, or indeed for a long period subsequently”[91]. La Corte evidenziò che l’intervento americano era stato esercitato in un momento anteriore all’effettiva richiesta dei Paesi direttamente coinvolti dalle presunte incursioni del Nicaragua e che quindi non fosse giustificabile[92]. La Corte esprime questa presa di posizione nel paragrafo 195, laddove si legge che “a State cannot itself determine and declare that another State had been victim of an attack and go to its assistance unasked”. Da tali considerazioni, emergono ulteriori dubbi circa la legittimità giuridica dell’azione del Presidente americano derivano poi dalla circostanza che l’Iraq non aveva autorizzato gli Stati Uniti a condurre un attacco armato sul proprio territorio. Quanto all’ammissibilità dell’impiego di armi nucleari [93].

Quello però che a noi interessa maggiormente, cioè la considerazione per cui la difesa può essere esercitata solamente quando l’attacco armato che la legittima è già stato sferrato, viene espresso chiaramente dalla Corte in alcuni passaggi fondamentali per l’interpretazione della volontà giurisprudenziale. Innanzitutto, nel paragrafo 195, in cui si afferma che “the exercise of this right is subject to the State concerned having been the victim of an armed attack”; poi, nel paragrafo 211, con riguardo alla difesa collettiva, dicendo “States do not have a right of collective armed response to acts, which do not constitute an armed attack”; e inoltre nel paragrafo 232 della decisione, laddove si afferma che “the exercise of the right of collective self-defense presupposes that an armed attack has occurred[94].

Per completare questa succinta ricostruzione del quadro normativo internazionale esistente, è necessario fare un accenno in merito all’istituto della c.d. aggressione indiretta.

Nei lavori preparatori della Risoluzione n.3314 del 1974 sulla definizione di aggressione, così come accaduto durante la stesura della Carta, era emersa la possibilità di sviluppare l’idea di “aggressione indiretta”[95], ma l’idea venne abbandonata perché un tale riconoscimento avrebbe attribuito agli Stati una discrezionalità sostanzialmente illimitata nell’individuare ipotesi di aggressione legittimanti l’uso della forza, con la conseguenza di ridurre l’articolo 2, paragrafo 4, della Carta ad una scatola vuota[96]. Senza dare conto dei numerosi orientamenti emersi in dottrina e nelle dichiarazioni ufficiali degli Stati[97], la questione può essere così sintetizzata: essendo impossibile sia dare una definizione generale di aggressione indiretta sia elencare in maniera tassativa tutte le possibili ipotesi di siffatto tipo di illecito, per “aggressione indiretta” va intesa un’azione di forza che comporti una minaccia per la sovranità e l’indipendenza politica dello Stato[98].

Il 3 gennaio 2020, al momento dell’uccisione di Soleimani, l’Iran non stava per sferrare nessun attacco imminente, idoneo a minacciare la sovranità e l’indipendenza degli Stati Uniti. Né tanto meno vi era stato un attacco già sferrato.

Non è dunque invocabile l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite per giustificare l’attacco.

L’azione di Trump da alcuni è stata qualificata come contromisura (istituto riconosciuto ed ammesso dal diritto internazionale quale reazione all’illecito internazionale perpetrato da uno Stato in danno di un altro)[99], giustificata dall’asserito sostegno fornito dall’Iran al terrorismo internazionale. Tali accuse non sono mai state provate[100]. Dunque neanche questo istituto può essere invocato a sostegno della legittimità dell’attacco.

Inoltre, quando uno Stato ritiene che un determinato individuo abbia commesso c.d. gross violations (cioè gravi violazioni) di diritti umani, di competenza della Corte penale internazionale[101], ha uno specifico mezzo di azione per perseguire legalmente tale soggetto: l’articolo 14 dello Statuto della Corte penale internazionale permette di segnalare una situazione nella quale uno o più di tali crimini appaiono essere stati commessi.

Uno Stato può segnalare al Procuratore una situazione nella quale uno o più crimini di competenza della Corte appaiono essere stati commessi, richiedendo al Procuratore di effettuare indagini su questa situazione al fine di determinare se una o più persone particolari debbano essere accusate di tali crimini.

Lo Stato che sottopone il caso, deve indicare - per quanto possibile - le circostanze rilevanti e presenta la documentazione di supporto di cui dispone.

Alla luce di tutto quanto esposto, l’azione del Presidente americano (peraltro non autorizzata dal Congresso[102], né dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite) ha violato il divieto di uso della forza di cui all’articolo 2 della Carta ONU, in assenza dei presupposti necessari per l’applicazione dell’istituto della legittima difesa di cui all’articolo 51 della Carta. Dunque l’uccisione del generale Soleimani costituisce un illecito internazionale che obbliga gli Stati Uniti all’adozione delle adeguate misure riparatorie e legittima l’Iran ad adottare contromisure in autotutela secondo i principi generali del diritto internazionale[103].

Note e riferimenti bibliografici

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[2] IBP, Inc., Iran Export-Import, Trade and Business Directory - Strategic Information and Contacts, Washington DC, 2016, 41 e ss.

[3] Reuters, Iran's Khamenei bans holding direct talks with United States, 13 agosto 2018.

[4] F. M. PALOMBINO, Introduzione al diritto internazionale, Roma, 2019. A. GIOIA, Diritto internazionale, Milano, 2013, 385. C. FOCARELLI, Schemi delle lezioni di diritto internazionale, Perugia, 2003, 75. A. COMBA, Fondo monetario internazionale, Enciclopedia del diritto, Milano, 2011, 542.

[5] A. CONTE, 4 novembre 1979, a Teheran viene occupata l’Ambasciata Americana, 4 novembre 2018. A. CAMINITI, GLI OSTAGGI U.S.A. A TEHERAN – 1979, Genova, 10 giugno 2013, http://acciesse.org/download/ACS-file-175.pdf. J. L. GOLDSMITH, E. A. POSNER, The Limits of International Law, Oxford University Press, 2005, 57. D. P. HOUGHTON, US Foreign Policy and the Iran Hostage Crisis, Cambridge University Press, 2001. D. FARBER, Taken Hostage: The Iran Hostage Crisis and America's First Encounter with Radical Islam, Princeton University Press, 2005. D. JOHANYAK, Behind the Veil. An American Woman’s Memoir of the 1979 Hostage Crisis, Akron, 2007. M. BOWDEN, Guests of the Ayatollah: The Iran Hostage Crisis: The First Battle in America's War with Militant Islam, New York 2007. C. DE BELLAIGUE, Im Rosengarten der Märtyrer. Ein Porträt des Iran. Aus dem Englischen von Sigrid Langhaeuser, München 2006, 101–104. E. ABRAHAMIAN, A History of Modern Iran, Cambridge University Press, 2008, 168. M. PANAH, The Islamic Republic and the World: Global Dimensions of the Iranian Revolution, London, 2007.

[6] Par. 57.

[7] Par. 58.

[8] R. ALVANDI, Nixon, Kissinger, and the Shah: The United States and Iran in the Cold War, Oxford University Press, 2014. D. A. SADOFF, Bringing International Fugitives to Justice: Extradition and its Alternatives, Cambridge University Press, 2016, 264 ss.

[9] A.M. ANSARI, Modern Iran since 1921, the Pahlavi and After, Londra, 2003. M.R. PAHLAVI, Missione per il mio Paese, Rizzoli, 1961, traduzione di Augusto Marcell. S. BELTRAME, L'Iran, il petrolio, gli Stati Uniti e le radici della Rivoluzione Islamica, Rubbettino, 2009. R. KAPUSCINSKI, Shah-in-shah, Milano, 2001. M. EMILIANI, M. RANUZZI DE BIANCHI, E. ATZORI, Nel nome di Omar. Rivoluzione, clero e potere in Iran, Bologna, 2008.

[10] Par. 59.

[11] Par. 59.

[12] E questa è la seconda questione che si trova ad affrontare la Corte, dopo avere appurato che l’attacco armato degli studenti non era imputabile all’Iran, poiché essi avevano agito spontaneamente e a titolo personale.

[13] Par. 61.

[14] A. CASSESE, Diritto internazionale, Bologna, 2013, 130 e ss.

[15] Par. 95. Diritto internazionale in civica, ILLECITO INTERNAZIONALE, IMMUNITÀ, MEDIO ORIENTE: La crisi degli ostaggi americani a Teheran, 27 giugno 2016. I. HASA, Il Grande Satana v. Lo Stato Canaglia: analisi delle politiche statunitensi nei confronti dell’Iran dal 1945 ai giorni nostri, 2014, https://core.ac.uk/download/pdf/79616304.pdf.

[16] ALGIERS ACCORDS, January 19, 1981, DECLARATION OF THE GOVERNMENT OF THE DEMOCRATIC AND POPULAR REPUBLIC OF ALGERIA.

[17] Peraltro il principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario, che può essere derogato soltanto dalla necessità di fare cessare gravi violazioni dei diritti umani. Si veda M. TARANTINO, IL NASCENTE DIRITTO DI INGERENZA UMANITARIA ALLA LUCE DEI CONFLITTI PIÙ RECENTI, Informazione della Difesa, n. 4 del 2002, 35-36.

[18] G. SICK, H. SAUNDERS, W. CHRISTOPHER, American Hostages In Iran: The Conduct of a Crisis, Yale University Press, 1985. A. F. LOWENFELD, L. W. NEWMAN, J. M. WALKER, Revolutionary Days: The Iran Hostage Crisis and the Hague Claims Tribunal, A Look Back, Yonkers, NY, 1996. D. D. CARON, THE NATURE OF THE IRAN-UNITED STATES CLAIMS TRIBUNAL AND THE EVOLVING STRUCTURE OF INTERNATIONAL DISPUTE RESOLUTION, Berkley, 1990, 104 ss.. Brower & Davis, The Iran-United States Claims Tribunal After Seven Years: A Retrospective View from the Inside, 43 ARB. J. 16 (1988); THE IRAN-UNITED STATES CLAIMS TRIBUNAL 1981-1983 (R. Lillich ed. 1984); Stewart, The Iran-United States Claims Tribunal: A Review of Developments 1983-84, 16 L. & POL'Y INT'L Bus. 677 (1984); and Selby & Stewart, Practical Aspects of Arbitrating Claims Before the Iran-United States Claims Tribunal, 18 INT'L LAW. 211 (1984).

[19] Lo Scià, recandosi negli Stati Uniti, aveva portato con sé parte del proprio patrimonio. L’Iran aveva instaurato davanti alle Corti americane numerose cause volte ad ottenere la restituzione di tali beni. Gli Stati Uniti, avendo concesso il diritto di asilo allo Scià, avrebbero potuto invocare il principio dell’immunità statale. A rigore, infatti, i beni portati dal sovrano sul suolo americano erano funzionali all’esercizio del diritto di asilo concesso dagli Stati Uniti, i quali si sarebbero potuti legittimamente rifiutare di restituirli. Tuttavia, con gli Accordi di Algeri, essi si impegnavano a non invocare tale eccezione in nessun giudizio di restituzione davanti a Corti americane. Ciò costituiva un enorme vantaggio processuale per le cause proposte dall’Iran davanti alle Corti statunitensi aventi ad oggetto la restituzione dei beni dello Scià.

[20] P. ZENGERLE, Extension of Iran Sanctions Act passes U.S. Congress, 1° dicembre 2016, Reuters (Washington).

[21] R. SIMBAR, Iran and the US: Engagement or Confrontation, Journal of International and Area Studies, 13 (1), 2006, 73–87.

[22] T. REID, How US helped Iraq build deadly arsenal, The Sunday Times, London, 31 dicembre 2002, www.thetimes.co.uk/. M. ILLAHI, Citadel of Shia Imams: Persecution & Resistance, Victoria, British Columbia, Canada, 1° gennaio 2020.

[23] P. HUCHTHAUSEN, America's Splendid Little Wars: A Short History of U.S. Engagements from the Fall of Saigon to Baghdad, New York, 2004. J. L. LEVINSON, R. L. EDWARDS, Missile Inbound, Annapolis, Naval Institute Press, 1997. M. PALMER, On Course to Desert Storm, University Press of the Pacific, 2003. B. PENISTON, No Higher Honor: Saving the USS Samuel B. Roberts in the Persian Gulf, Annapolis, Naval Institute Press, 2006. J. SWEETMAN, Great American Naval Battles, Annapolis, Naval Institute Press, 1998. C. L. SYMONDS, Decision at Sea: Five Naval Battles that Shaped American History, Oxford University Press, 2005. H. L. WISE, Inside the Danger Zone: The U.S. Military in the Persian Gulf 1987–88, Annapolis, Naval Institute Press, 2007. P. RAZOUX, La guerre Iran-Irak: Première guerre du Golfe (1980-1988), Paris, 12 settembre 2013, 433-445, 608. J. W. FONDREN, JOINT TASK FORCE OPERATIONSIN THE PERSIAN GULF, Air War College, 1989, 24-28, 55. E. KARSH, Iran-Iraq - La lunga guerra, Oxford, 2011, 31-60. S. A. KELLEY, Better lucky than good: operation Earnest Will as gunboat diplomacy, Monterey, California, Stati Uniti, 2007, 20-65, http://www.nps.edu/Academics/Centers/CCC/Research/StudentTheses/kelley07.pdf, archiviato su WaybackMachine il 5 giugno 2010.

[24] U. MAZZA, La battaglia aeronavale dello Stretto di Hormuz, RID - Rivista Italiana Difesa, nº 1/2018, 86-91.

[25] Secondo U. MAZZA, op. cit.: 1 fregata, 1 cannoniera e almeno 3 motoscafi affondati, 1 fregata gravemente danneggiata, 1 aereo danneggiato, 60 morti, 100 feriti. Gli statunitensi invece registrarono unicamente la perdita di un elicottero AH-1 Cobra con il suo equipaggio: decollato dal Wainwright in missione di ricognizione quella sera stessa, l'aeromobile si schiantò in mare 24 chilometri a sud-ovest dell'isola di Abu Musa, non è chiaro se per un incidente o perché colpito da fuoco antiaereo iraniano. Per numero e tipologia di unità impiegate da entrambe le parti, lo scontro del 18 aprile risultò il più grande combattimento navale sostenuto dalla United States Navy dalla fine della seconda guerra mondiale, nonché il primo della storia in cui la Marina statunitense fece uso di missili superficie-superficie antinave.

[26] International Court of Justice, Oil Platforms (Islamic Republic of Iran v. United States of America), 12 dicembre 1996, https://www.icj-cij.org/en/case/90/judgments, paragrafi 20 e 42 ss.

[27] International Court of Justice, Oil Platforms (Islamic Republic of Iran v. United States of America), 6 novembre 2003, https://www.icj-cij.org/files/case-related/90/090-20031106-JUD-01-00-EN.pdf. J. A. GREEN, The Oil Platform Case: an Error in Judgment?, Journal of Conflict & Security Law, Vol. 9, No. 3 (Winter 2004), Oxford University Press, 357-386, https://www.jstor.org/stable/26294374. W. H. TAFT IV, Self-Defense and the Oil Platforms Decision, Yale Journal of International Law, Vol. 29, Issue 2, Article 3, 2004, 295-306.

[28] DISSENTING OPINION OF JUDGE ELARABY, 133-148, 290-305.

[29] Precisamente: 1) attentato suicida del 18 aprile 1983 all’ambasciata statunitense di Beirut, Libano, in cui persero la vita 32 cittadini libanesi, 17 americani e 14 visitatori. 2) attentato suicida del 23 ottobre 1983 condotto con un furgone carico di esplosivo contro gli edifici della Multinational Force in Lebanon (MNF, operazione di Peacekeeping portata avanti dall’ONU durante la seconda guerra civile libanese, durata dal 1975 al 1990), uccidendo 241 soldati americani, 58 francesi e 6 civili, oltre ai due attentatori. 3) attentato con camion esplosivo del 25 giugno 1996 alla sede dell’aviazione americana presso le Khobar Towers, nella città di Khobar, in Arabia Saudita, in cui persero la vita 19 soldati americani e un cittadino saudita; 498 persone rimasero gravemente ferite dall’esplosione. J. M. GOODARZI, Syria and Iran: Diplomatic Alliance and Power Politics in the Middle East, New York, 2006. H. W. KUSHNER, Encyclopedia of Terrorism, Thousand Oaks, California, Stati Uniti, 2003. G. MARTIN, The New Era of Terrorism: Selected Readings, Thousand Oaks, California, Stati Uniti, 2004. B. DARAGAHI, Victims Of 1983 Bombing Of U.S. Embassy In Beirut Recalled, Los Angeles Times, 19 aprile 2008.

[30] CNN, Iran responsible for 1983 Marine barracks bombing, judge rules, 30 maggio 2003, archiviato su WaybackMachine il 4 giugno 2003.

[31] UNITED STATES DISTRICT COURT FOR THE DISTRICT OF COLUMBIA, 22 dicembre 2006, archiviato su WaybackMachine il 14 giugno 2007.

[32] F. KAPLAN, America’s Flight 17. The time the United States blew up a passenger plane—and tried to cover it up, 23 luglio 2014.

[33] Mentre gli americani avevano affermato che si era trattato di un errore umano.

[34] International Court of Justice, Case concerning the aerial incident o 3 july 1988 (Islamic Republic of Iran v. United States of America).

[35] A. ANGHIE, Imperialism, Sovereignty and the Making of International Law, Cambridge University Press, 2007, 277 e ss.

[36] R. JERVIS, Understanding the Bush Doctrine,Political Science Quarterly, Vol. 118, No. 3, 2003, 365-388, https://www.jstor.org/stable/30035780. La dottrina internazionalistica, all’unanimità, ha ritenuto incompatibile con i principi generali del diritto internazionale la strategia politica adottata dal Presidente americano. Si veda B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2014, 414-415.

[37] D. LINZER, U.S. Uses Drones to Probe Iran For Arms. Surveillance Flights Are Sent From Iraq, The Washington Post, 13 febbraio 2005, A. SCOTT TYSON, Iran Protests U.S. Aerial Drones, The Washington Post, 8 novembre 2005.

[38] L. HURLEY, U.S. top court rules Iran bank must pay 1983 bomb victims, 20 aprile 2016.

[39] A livello regionale, il 27 ottobre 2016 il Parlamento europeo ha adottato una Risoluzione sulla sicurezza nucleare e la non proliferazione, con la quale ha espresso ‹‹profonda preoccupazione per le crescenti minacce nucleari derivanti dall'atteggiamento della Russia (annessione della Crimea), che hanno implicazioni per la sicurezza, la stabilità e la prevedibilità a livello mondiale, e per il deterioramento delle relazioni con la NATO, comprese le potenziali violazioni del trattato sulle forze nucleari a medio raggio (INF), le dichiarazioni che indicano una maggiore propensione a fare uso di armi nucleari e le affermazioni secondo cui sarebbe allo studio un eventuale dispiegamento di armi nucleari in altri territori in Europa; richiama l'attenzione sulle esercitazioni militari russe che simulano l'impiego di armi nucleari contro la Polonia ed esprime profonda preoccupazione per il dispiegamento di sistemi missilistici Iskander con capacità nucleare nell'enclave di Kaliningrad, che confina con Stati membri dell’UE quali la Polonia e la Lituania; ricorda che, nel parere consultivo del 1996, la Corte internazionale di giustizia ha statuito che, in base al vigente diritto internazionale, essa non poteva formulare una conclusione definitiva quanto alla legittimità o illegittimità dell'uso di armi nucleari da parte di uno Stato in un caso estremo di legittima difesa››.

[40] M. SOSSAI, L’adozione del trattato sul disarmo nucleare tra entusiasmo, perplessità e aperta opposizione, SIDI Blog, 31 luglio 2017. N. RONZITTI, Lo stato del disarmo nucleare, Osservatorio di politica internazionale, IAI – Istituto di affari internazionali, n. 77 del novembre 2017. L. MAGI, L’obbligo di disarmo nucleare quale obbligo a realizzazione progressiva, Rivista di diritto internazionale, Milano, Vol. 101, Nº 1, 2018, 58-89. M. FILIPPETTA, L’Italia e il trattato di non proliferazione nucleare, 2018. A. SINAGRA, P. BARGIACCHI, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Milano, 2009, 192.

[41] C. STELLARI, Testate nucleari nel mondo: chi ha che cosa, Babilon Magazine: a geopolitical experience, 7 gennaio 2018. Le testate nucleari oggi esistenti sarebbero così ripartite: Russia (7.000), Stati Uniti (6.800), Francia (300), Cina (270), Regno Unito (215), Pakistan (130-140), India (120-130), Israele (80), Corea del nord (meno di 10).

[42] La traduzione italiana del Trattato di non proliferazione nucleare è stata curata dal Ministero della difesa ed è rinvenibile qui.

[43] Dossier ISPI – Istituto per gli studi di politica internazionale, Accordo con l’Iran: nuovi equilibri cercansi, 16 luglio 2015.

[44] A. FIGUS, Politica estera dell'Iran tra Occidente e crisi nucleare, Roma, 2014.

[45]Remarks by President Trump on the Joint Comprehensive Plan of Action”, White House, 8 maggio 2018. A. PERTEGHELLA, Approfondimento ISPI su L’USCITA DEGLI USA DALL’ACCORDO SUL NUCLEARE IRANIANO: CONSEGUENZE E IMPLICAZIONI PER L’ITALIA, Osservatorio di politica internazionale, n. 139 – settembre 2018.

[46] L'Iran dichiara la fine dell'accordo nucleare: «Via i limiti all'arricchimento dell'uranio», Il Messaggero, 5 gennaio 2020.

[47] E. ABRAHAMIAN, Tortured Confessions, 1999, 135-136, 167-169. A History of Modern Iran, Cambridge University Press, 2008, 168.

[48] M. OLIVIERO, I Paesi del mondo islamico, in P. CARROZZA, A. D GIOVINE, G. F. FERRARI (a cura di), Diritto costituzionale comparato, Tomo I, Roma, 2014, 597 e ss. C. MOE, Refah Revisited: Strasbourg's Construction of Islam, Norwegian Institute of Human Rights, Advance draft for circulation at the Conference of Experts, "Emerging Legal Issues for Islam in Europe", Central European University, Budapest, Hungary, 3-4 June 2005,, archiviato su Wayback Machine il 27 agosto 2008 .

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[54] UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees), Iran: Islamic Penal Code, consultato il 10 gennaio 2020.

[55] Amnesty International, Iran: Authorities committing torture by cruelly amputating man’s hand, 24 ottobre 2019.

[56] Amnesty International, Iran: Death by stoning, a grotesque and unacceptable penalty, 15 gennaio 2008, archiviato su WaybackMachine il 14 giugno 2013.

[57] A. FRIDMAN, M. KAYE, Human Rights In Iran, American Jewish Committee, 2007, 4-5.

[58] S. EBADI, A. MOAVENI, Iran Awakening: A Memoir of Revolution and Hope, New York, 2006, 117.

[59] A. FRIDMAN, M. KAYE, op. cit, 4-5.

[60] A. FRIDMAN, M. KAYE, op. cit, 4-5.

[61] Il testo del Codice Civile iraniano può essere consultato in inglese al seguente link.

[62] Agence France Presse, Iran vows crackdown on 'inappropriately' dressed women, 24 febbraio 2007, archiviato su WaybackMachine il 27 febbraio 2007.

[63] Human Rights Watch, THE IRANIAN LEGAL FRAMEWORK AND INTERNATIONAL LAW, www.hrw.org/reports/1999/iran/Iran99o-03.htm.

[64] Testo in inglese consultabile su WIPO.

[65] E. ZARROCH, M. RAHMAN, Iranian Legal System and Human Rights Protection, The Islamic Law and Law of the Muslim World e-journal, New York law school 3.2, 2009.

[66] OHCHR (United Nations High Commissioner for Human Rights), Current situation in Iran remains of serious concern, human rights expert tells the UN General Assembly, New York - Ginevra, 29 ottobre 2014. OHCHR (United Nations High Commissioner for Human Rights), Iran: UN expert concerned by crackdown on protests and strikes, Ginevra, 11 marzo 2019. UN News, UN rights chief ‘extremely concerned’ over deadly crackdown on protesters in Iran, 6 dicembre 2019, https://news.un.org/en/story/2019/12/1052911. Bahá’í International Community, UN General Assembly expresses "deep concern" about human rights in Iran, 2008; International community expresses serious concern over human rights in Iran, 16 dicembre 2016.

[67] Dal 1998 fino alla morte, è stato capo della Niru-ye Qods (in lingua persiana "Brigata Santa", a volte chiamata anche Forza Quds dalla stampa occidentale), l'unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile per la diffusione dell'ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica. Si veda A. MURATORE, Chi era il generale Qasem Soleimani?, InsideOver, consultato il 9 gennaio 2020.

[68] ANSA, Soleimani, l'Iran minaccia gli Usa: 'I militari lascino le basi', 5 gennaio 2020.

[69] A. GIOIA, Diritto internazionale, Milano, 2010, 353.

[70] O. SCHACHTER, The Prohibition of force, in General Course of Public International Law, The University of Chicago Law Review, 1986, 131.

[71] E. JIMENEZ DE ARECHAGA, International law in the past third of a century, Leiden, Olanda, 1978, 97; General Principles of International Law governing the conduct of States, General Course of Pubblic International Law, Recueil, 1978. P. LAMBERTI ZANARDI, La legittima difesa nel diritto internazionale, Milano, 1972.

[72] H. McCOUBREY - N. D. WHITE, International law and armed conflict, 1992, 52. B. BROMS, The definition of aggression, Vol. I, 1977, 370.

[73] E. SCISO, L’aggressione indiretta nella definizie dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Riv. Dir. Int., Vol. LXVI, 1983, 272 e ss.

[74] M. BELTRAMI, LA LEGITTIMA DIFESA NELLA CARTA DELLE NAZIONI UNITE, Pubblicazioni Centro Studi per la Pace, 2000, 78, www.studiperlapace.org.

[75] M. BELTRAMI, ibidem.

[76] M. BELTRAMI, op. cit., 81.

[77] M. BELTRAMI, ibidem.

[78] B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2014, 413.

[79] H. McCOUBREY, N. D. WHITE, International Law and Armed Conflict, Dartmouth, 1992, 46-47.

[80] P. LAMBERTI ZANARDI, La legittima difesa nel diritto internazionale, Milano, 1972, 234 e ss.

[81] P. LAMBERTI ZANARDI, ibidem. M. BELTRAMI, op. cit., 84.

[82] D.W. BOWETT, Reprisals involving recourse to armed force,in International Law: a contemporary perspective, Londra, 1985, 3986.

[83] C. FOCARELLI, Lezioni di storia del diritto internazionale, Perugia, 2002, 2. M. N. SHAW, International Law, Cambridge, 1997, 790. M. N. SHAW, International Law, Cambridge, 1997, 790.

[84]E. JIMENEZ DE ARECHAGA, International law in the past third of a century, Leiden, Olanda, 1978, 97; General Principles of International Law governing the conduct of States, General Course of Pubblic International Law, Recueil, 1978, 96 e ss. Y. DINSTEIN, War, agression and self defense, Cambridge, 187 e ss.  M. BELTRAMI, op. cit., 86.

[85] G. VENTURINI, Necessità e proporzionalità nell'uso della forza militare in diritto internazionale, Milano, 1988, 49-50. N. RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati, Milano, 1998. Intervista all’autore: Prof. Natalino Ronzitti, Lei è autore del libro Diritto internazionale dei conflitti armati edito da Giappichelli: qual era la disciplina dell’uso della forza armata prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite?

Possiamo contare tre periodi. Prima dell’entrata in vigore del Covenant della Società delle Nazioni; dopo l’entrata in vigore del Covenant e la stipulazione del Patto Kellog-Briand; tra l’entrata in vigore del Patto e l’Accordo di Londra del 1945 istitutivo del Tribunale di Norimberga. Nel primo periodo gli Stato erano liberi di muover guerra, esisteva cioè un illimitato ius ad bellum, temperato dal dovere, stabilito dalle Convenzioni dell’Aja del 1899 e1907 di cercare per quanto possibile una soluzione pacifica della controversia allo scopo di evitare il ricorso alla forza armata. Con l’entrata in vigore del Covenant, il diritto di muover guerra non veniva abolito, ma solo limitato. Gli Stati erano liberi di ricorrere all’uso della forza, qualora non venisse eseguita una decisione unanime del Consiglio o lo Stato soccombete non eseguisse una sentenza della Corte permanente di giustizia internazionale. Il Patto Kellog Briand (1928) pone un divieto assoluto all’uso della forza, obbligando gli Stati a risolvere pacificamente le controversie internazionali. Tuttavia il Patto non definiva la legittima difesa, che veniva intesa in modo molto ampio, e non vietava espressamente le rappresaglie armate. Infine, con l’Accordo di Londra, la guerra di aggressione veniva qualificata come un crimine contro la pace, Letture.org, consultato in data 11 gennaio 2020.

[86] L. HENKIN, Non-intervention and the use of force betwen states, in General Course of Public International Law, Recueil, 1989, 156. M. BELTRAMI, op. cit., 90.

[87] A. CASSESE, Diritto internazionale, Bologna, 2013, 368-369. B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2014, 412 e ss. T. TREVES, Diritto internazionale, Milano, 2005, 451 e ss.

[88] D. J. HARRIS, Case and materials on international law, London, 1976, 824. M. BELTRAMI, op. cit., 90 e ss.

[89] Sentenza caso Nicaragua c. Stati Uniti, par. 227-228. M. BELTRAMI, ibidem.

[90] M. BELTRAMI, op. cit., 91.

[91] M. BELTRAMI, op. cit., 92.

[92] C. FOCARELLI, Le contromisure nel diritto internazionale, Milano, 1994, 261-262. M. BELTRAMI, op. cit., 93.

[93] Japan Times, A question of laws: Was U.S. killing of Iran's Soleimani self-defense or assassination?, 4 gennaio 2020.

[94] M. BELTRAMI, op. cit., 93.

[95] M. BELTRAMI, op. cit., 23.

[96] V. A. ROLING, The 1974 U.N. definition of aggression, in A. CASSESE (a cura di), The current legal regulation of the use of force, Oxford, 1986, 416. M. BELTRAMI, ibidem.

[97] Su cui si veda diffusamente M. BELTRAMI, op. cit., 32 e ss.

[98] M. BELTRAMI, op. cit., 38.

[99] T. TREVES, Diritto internazionale, Milano, 2005, 553 e ss. A. CASSESE, Diritto internazionale, Bologna, 2013, 365 e ss. B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2014, 418 e ss.

[100] Zeynab Malakoutikhah (2018) Iran: Sponsoring or Combating Terrorism?, Studies in Conflict & Terrorism, DOI: 10.1080/1057610X.2018.1506560.

[101] L’articolo 5 dello Statuto della Corte penale internazionale, rubricato “Crimini di competenza della Corte”, stabilisce quanto segue: 1. La competenza della Corte è limitata ai crimini più gravi, motivo di allarme per l'intera comunità internazionale. La Corte ha competenze, in forza del presente Statuto, per i crimini seguenti: a) crimine di genocidio (disciplinato dall’articolo 6 dello Statuto); b) crimini contro l'umanità (articolo 7); c) crimini di guerra (articolo 8); d) crimine di aggressione.

[102] S. R. ANDERSON, Did the President Have the Domestic Legal Authority to Kill Qassem Soleimani?, Lawfare, 3 gennaio 2020.

[103] T. TREVES, Diritto internazionale, Milano, 2005, 553 e ss. A. CASSESE, Diritto internazionale, Bologna, 2013, 365 e ss. B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2014, 418 e ss.