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Pubbl. Lun, 18 Nov 2019

Cultura giuridica dello ius pubblicum ecclesiasticum e la codificazione piano-benedettina

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Diano Francesco


Alcune importanti tappe storiche della codificazione piano-benedettina: la fioritura della produzione giuspubblicistica e il legame con il “movimento codificatorio” ottocentesco; la connessione fra Ius Publicum Ecclesiasticum e la codificazione piano-benedettina; i principi giuspubblicistici della cultura odierna inseriti nel Codice del 1917; la “funzione cooperativa” del diritto pubblico ecclesiastico nell’epoca contemporanea.


Sommario: 1. La genesi del Codex Iuris Canonici del 1917; 1.1. Il “travaglio” del Codex Iuris Canonici con riferimento ai Codici europei; 1.2. I principi giuspubblicistici confluiti nel CIC del 1917; 2. La “svolta costituzionale”: una rinnovata ecclesiologia e un “nuovo” sguardo sul mondo; 3. Conclusioni.

1. La genesi del Codex Iuris Canonici del 1917

1.1. Il “travaglio” del Codex Iuris Canonici con riferimento ai Codici europei

Il percorso di questa prima codificazione è stato lungo e travagliato, perché la sua ispirazione non proviene dalla tradizione canonica, ma si inserisce nel solco delle codificazioni statuali secondo i principi espressi dal giusnaturalismo, che cominciarono a prendere forma concreta già alla fine del XVIII secolo con l’esigenza razionalistica di dare fondamenti di unità e stabilità al Diritto che regola il rapporto diretto tra Stato e cittadini. Dunque, la codificazione del Diritto della Chiesa arriva come ultima esperienza codificatoria di ambito europeo nel ‘900.

Questo processo era iniziato con la codificazione francese (1804) e poi austriaca (1911); i cosiddetti “grandi codici”, che pur avendo i loro limiti, sono da valutare oggi in una prospettiva più ampia.

Nel 1869-1870, ossia durante il Concilio Vaticano I, si parlò per la prima volta di un codice per il Diritto canonico. La Chiesa aveva un immenso patrimonio da rivedere e risistemare sulla base dei “segni dei tempi”. La prima discussione conciliare in merito, si dovette interrompere per la breccia di Porta Pia ad opera di Cadorna, il 20 settembre 1870, avvenimento che fermò il Concilio. La questione “codice” si ripropose fortemente sia con l’elezione al soglio pontificio di Pio X, sia - ancor prima - con la riflessione della dottrina. Tuttavia, in questo frangente, ci furonoanche veri e propri tentativi privati di codificazione, studi che dovevano portare come conseguenza finale ad esprimersi a favore o contro la scelta codiciale.

La questione influenzerà molto anche il dibattito della dottrina e la Curia Romana[1]. Si creano due posizioni: chi sostiene la necessità di un codice sul modello europeo, chi vuole risistemare aggiornandolo il Corpus Iuris Canonici. Discussioni spazzate via dall’ascesa al soglio pontificio di Giuseppe Sarto, Pio X. Quest’ultimo, fin da quando era cancelliere nella diocesi di Treviso, poi vescovo di Mantova e patriarca di Venezia, sentì la necessità di avere nella Chiesa un codice di Diritto Canonico utile e comprensibile, specialmente per il bene dei fedeli. Difatti, salito al soglio pontificio nel 1903, Pio X avvia subito la codificazione, precisamente il 19 marzo 1904, con il Motu Proprio Arduum Sane Munus. Inizia così l’opera di sistemazione delle fonti che avverrà proprio mediante l’affermazione della scelta codiciale e lo strumento del CIC del 1917.

Nel 1900, intanto, viene promulgato il codice tedesco. E mentre tutti i codici europei avevano come finalità quella di staccarsi completamente dalla tradizione precedente, il fine della Chiesa, sarà completamente differente: infatti, attribuisce grande importanza alla consuetudine come fonte del Diritto, ma anche allo Ius vetus, considerato patrimonio di inestimabile valore, quindi da mantenere. Inoltre, si fa riferimento al caso di lacuna legis, stabilendo che tra le altre fonti si può accogliere la comune e costante esperienza della dottrina dei probati auctores (can. 6 §2); il nuovo codice si caratterizzerà per unitarietà e sistematicità.

Sotto la direzione del Card. Pietro Gasparri il Codice di Diritto Canonico sarà promulgato da Benedetto XV il 27 maggio 1917 per la sola Chiesa Latina, non quella Orientale, eccetto ciò che per sua natura spetta anche a lei (can. 1). Ispirandosi - come detto - alle moderne codificazioni statuali, il nuovo Codice intende dare un ordine razionale alla normativa vigente. Il Codice non riguarda, se non consta il contrario, le leggi liturgiche (can. 2), né le convenzioni tra gli Stati (can. 3). Non toglie, se non è detto espressamente, diritti acquisiti, privilegi e indulti (can. 4); Qualunque pena (can. 6 §5), come pure le norme disciplinari (can. 6 §6), di cui non si fa menzione nel Codice sono abrogate.

Il diritto precedente contenuto nelle collezioni viene riassorbito in larghissima misura, ma con la particolarità che le norme nel loro insieme ora costituiscono un unicum, in quanto sono da considerarsi emanate contemporaneamente dalla stessa Autorità, quale Supremo legislatore. Vengono introdotti 854 nuovi canoni senza fare riferimenti alle loro fonti.Il modello classico che si ispira alle Istituzioni di Giustiniano, comune alle nuove codificazioni, è il criterio che regola l’ordine sistematico della ripartizione della materia in personae, res, actiones.

Il Codex del 1917 si compone di 2414 canoni distribuiti in cinque libri. Il Libro I presenta le fonti del Diritto e il computo del tempo (cann. 1-96); il Libro II De personis (cann. 87-725) contiene il Diritto costituzionale della Chiesa ed è suddiviso in De clericis, De religiosis, De laicis; il Libro III De rebus (cann. 726-1551) disciplina i sacramenti, il culto, il Magistero e il patrimonio; il Libro IV De processibus (cann. 1552-2194) e il Libro V De delictis et poenis (cann. 2195-2414).

Il Codice pio-benedettino fu accolto favorevolmente per il progresso che mostrava come codificazione in senso moderno, per la tecnica legislativa e la certezza derivata dal carattere di obbligatorietà della legge, per le definizioni legali e lafacilità della consultazione[2]. Al Card. Gasparri, presidente della commissione e grande conoscitore dell’ambiente laicista francese, va il merito di aver voluto fortemente “ricomprendere” la Chiesa in una lettura più prettamente giuridica, che fu la base per abbandonare la forte posizione apologetica assunta dalla dottrina fino a quel momento.

1.2. I principi giuspubblicistici confluiti nel CIC del 1917

L’unicità del Diritto Canonico e del CIC, deriva anche dall’influenza della scienza giuspubblicistica. L’ecclesiologia è ancora quella tridentina, ma la codificazione risente molto della giuspubblicistica europea: questo forte legame emerge dai canoni, rispettando ed evidenziando l’unicità della codificazione canonica.

Come detto, Pio X morirà nel 1914 e il CIC-17 verrà promulgato nel 1917 da Benedetto XV. Nel nuovo CIC, la matrice giuspubblicistica, «ha indirettamente posto le basi per disciplinare determinate materie all’interno del Codice piano-benedettino»[3] come scrive il Professor Nacci.

Sarà la rilettura squisitamente giuridica, data dal Card. Pietro Gasparri, cui si accennava al termine del precedente paragrafo, a gettare effettivamente le basi per trattare il carattere pubblicistico dell’ordinamento giuridico canonico. Un processo questo che, si avvia nell’ambito dell’annosa quaestio dottrinale cominciata nella Germania del ‘700, la cosiddetta dicotomia “pubblico-privato” riferita al Diritto canonico e qualificante lo stesso.

Questo aspetto fu ereditato, com’è comprensibile, dal diritto statale, con lo spirito del “movimento codificatorio” ancora in atto. La Chiesa, proprio come lo Stato, fu definita una società giuridica (societas iuridice), ma si qualificherà anche come perfecta, ovvero, avente in sé tutte quelle potestà che le sono proprie e che le derivano dal suo fondatore divino; dunque, la perfezione giuridica della Chiesa si fonda su Gesù che l’ha voluta nella sua realtà visibile come societas inequalis, società gerarchica, in cui il primato di Pietro non è solo di onore, ma anche di piena giurisdizione e viene direttamente affidato a lui e ai suoi successori nell’ufficio petrino.

I due modelli, statale e canonico, sono così avvicinati dallo Ius Publicum Ecclesiasticum[4] che assorbe, inoltre, al suo interno anche la triade statale della potestà: esecutiva, giudiziaria e legislativa. Ancora, la matrice giuspublicistica si rifletterà anche nella divisione delle materie dei canoni contenuti nel codice piano-benedettino.

Alcuni esempi che incarnano concetti e principi di tale matrice sono rappresentati nello specifico dai seguenti canoni: il can. 265 è profondamente collegato al tema dell’indipendenza da ogni potestà temporale, per il diritto proprio e nativo di inviare legati pontifici; mentre nel can. 1160 si ribadisce che i luoghi sacri sono esenti dalla potestà dello stato. Poi i cann. 1322 e 1495: attestano il diritto indipendente di possedere, amministrare, acquistare e alienare beni temporali per i fini propri della Chiesa. Un ultimo esempio è rappresentato dal can. 2214 §1 circa il Diritto penale canonico.

Questa forte matrice si ritroverà anche nel CIC-83, sebbene priva di ogni valenza apologetica e sarà - come asserisce il prof. Nacci - il vero e proprio ponte di collegamento fra lo Ius Pubblicum Ecclesiasticum e il CIC-17, non più per finalità apologetiche, ma come base per trattare della Chiesa come societas iuridice perfecta. Difatto, si assisterà da ora in avanti ad un vero e proprio ripensamento della scienza giuspubblicistica.

La Chiesa, ormai da più parti lontana dalle esigenze di cambiamento del mondo, in quel periodo èancora legata alla struttura della Controriforma. Sarà il Concilio Vaticano II a determinare una svolta “epocale” su più fronti, specie quello dell’ecclesiologia, con ricadute sullo Ius Publicum Ecclesiasticum[5].Tuttavia, il Codex Iuris Canonici del 1917 regolerà per sessantasei anni, insieme alla produzione giuridica successiva, la vita della Chiesa fino alla promulgazione del nuovo Codex, che avverrà il 25 gennaio 1983, e la sua entrata in vigore la prima domenica di avvento del 1983. Per quarantadue anni il primo Codex della Chiesa ha rappresentato, pur con le comprensibili imperfezioni, la fonte indiscussa del Diritto, cioè fino a quando il Papa Giovanni XXIII annunciò il 25 gennaio 1959 l’indizione del Concilio Ecumenico, del Sinodo diocesano romano e la riforma del Codice di Diritto Canonico.

2. La “svolta costituzionale[6]”: una rinnovata ecclesiologia e un “nuovo” sguardo sul mondo

Il maturare dei tempi porterà al Concilio Vaticano II, tappa quasi obbligata nella storia della Chiesa. Il nuovo quadro è quello di una grandissima differenza di costumi rispetto all’epoca in cui era indubbia la centralità della cristianità nella società europea. In quest’epoca di veloci mutamenti storici, sarà proprio il nuovo Concilio a dare le basi per una rivisitazione dello Ius Publicum Ecclesiasticum, attraverso i suoi documenti[7]. Tra di essi spiccano le Costituzioni Lumen Gentium (LG) e Gaudium et Spes (GS): esse espongono come la Chiesa si è autodefinita e come si è posta in relazione con il mondo.

La LG offrirà un nuovo approccio nella definizione della Chiesa. Già il primo numero sulla Chiesa mistero, fa superare la visione di Chiesa come realtà visibile e strettamente giuridica. Si accentua il suo aspetto invisibile, in analogia con la natura umana e divina di Cristo (LG 8). Dunque, il nucleo della Chiesa si colloca nell’azione trinitaria dove risulta prevalente l’aspetto pneumatologico e non più le istituzioni.

Molto importante è il collegamento che viene offerto tra Chiesa e regno di Dio[8]; pur affermando che la Chiesa è il regno di Cristo (LG 3), si chiarisce che il regno non è di questo mondo e che il popolo di Dio lo introduce nella storia (LG 13). Gesù ha dato inizio alla Chiesa annunciando il regno e la stessa ha avuto il mandato di instaurare il regno fra le genti (LG 5). Il fine della Chiesa, poi, è quello di estendere il regno a tutta la terra, entrando nella storia degli uomini, ma trascendendo i tempi e i confini dei popoli (LG 9).

Le due entità salvifiche Chiesa-regno, non sono mai equiparabili, ma sono intimamente connesse. Questo perché si evidenzia la dimensione missionaria ed escatologica della Chiesa, che pellegrina nella storia si presenta al mondo come sacramento (LG 48-49), come “germe di unità e di speranza” (LG 14 e 17).

Attraverso LG, il Vaticano II ha presentato una ecclesiologia di comunione, ben lontana da quella gerarchica tridentina: infatti, l’impostazione comunionale, ha avviato un ripensamento naturale dei rapporti Chiesa-Stato, potremmo dire, un nuovo punto di partenza per le relazioni “Chiesa-Mondo”, che ritroviamo all’interno della Costituzione pastorale, Gaudium et Spes. In questo documento si affronta il rapporto la Chiesa e il mondo contemporaneo. Un rapporto che prende il via dal nuovo respiro ecclesiale e che è perciò, intimamente connesso con la Lumen Gentium. Quest’ultima pone in essere il nuovo ruolo della Chiesa nel mondo, mentre la Gaudium et Spes contraddistingue specificamente i rapporti della Chiesa con il mondo.

Nel commento di Rahner, si sostiene che la nuova Costituzione pastorale, non solo è un documento per impostare le relazioni Chiesa-mondo, ma come già dal proemio (1-3) si mette in luceuna nuova direttiva concreta per l’uomo contemporaneo, tacendo sulle definizioni teologiche. Una direttiva intesa come invito e raccomandazione a tutti gli uomini di buona volontà. Potremmo definire GS come il documento che dà risposta a tutti coloro che si chiedevano se la Chiesa avesse potuto corrispondere ai cambiamenti della storia e dell’umanità. Infatti, al n. 3, si “proclama” la risposta tanto attesa, ovvero il necessario inserimento della Chiesa in un dialogo, come strumento della Chiesa per offrire all’umanità le energie di salvezza che sotto la guida dello Spirito Santo riceve dal suo fondatore. Questo ci allontana dall’ecclesiologia gerarchica tridentina e post-tridentina e definisce la nuova funzione e il nuovo ruolo della Chiesa nel mondo e con il mondo. In GS 1, si percepisce una Chiesa che desidera ardentemente porsi in un rapporto intimamente solidale con il genere umano e la sua storia.

Nella linea di un nuovo modo di concepire le relazioni della Chiesa con il mondo, si delineano all’interno della Costituzione pastorale nuovi principi teorici importanti, che gettano le basi di quella che Fantappié definisce la “svolta costituzionale”. Di seguito vengono presentati, seppur brevemente, alcuni eminenti principi.

Il numero 76 viene titolato Communitas politica et Ecclesia (n. 76): un nuovo approccio del Diritto Pubblico Ecclesiastico e nuove coordinate per potersi interrogare circa lo “sguardo” da avere sul mondo e il rapporto con le comunità politiche. Sempre nello stesso numero si parla, infatti, di società pluralistica; una comunità con molti ordinamenti, plurale, dove anche dentro la singola realtà ci sono differenti componenti. La distinzione dice la sua originalità, ma non esclude la collaborazione.

Comunità politica e Chiesa sono indipendenti e autonome l’una e l’altra nel proprio campo[9].  Ma entrambe si pongono a servizio della vocazione umana e sociale del genere umano. Si fa riferimento in questo passaggio a San Tommaso, che sostiene che le persone umane sono il fine e l’oggetto di tutte le istituzioni. Poi, si asserisce che le due realtà Chiesa-mondo sono accomunate dal perseguire entrambe il bene comune, concetto intrinsecamente legato a quello di “sana collaborazione” (sana cooperatio), motore primo per la regolamentazione dei rapporti tra Chiesa e comunità politiche.

Le cose terrene e quelle che superano questo mondo sono strettamente unite e la Chiesa stessa si serve delle cose temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. I fini propri della Chiesa sono da realizzare anche mediante i mezzi temporali. La Chiesa, infatti, ha il compito di promuovere ed elevare tutto quello che di vero, buono e bello si trova nella comunità umana, rafforzando la pace tra gli uomini a gloria di Dio.

Come già anticipato altrove, tanto la Costituzione dogmatica che quella pastorale, porranno fine dell’atteggiamento apologetico assunto dalla Chiesa sino a quel momento, lasciando spazio e aprendo la strada alla riflessione “scientifica” tra la Chiesa e le comunità politiche.

Un altro importante documento del Vaticano II sarà la Dichiarazione Dignitatis Humanae (DH), che metterà in luce il rapporto delle persone fisiche e morali con la società umana ed il loro rapporto con il potere pubblico in tema di religione (DH 2).

Nel numero 13 di questa Dichiarazione si chiarisce il concetto di libertas ecclesiae, principio primo e fondante tra Chiesa e comunità politiche, partendo dalla concordia fra libertas ecclesiae e libertas religiosa, che devono essere presenti negli ordinamenti della società civile. Sono due concetti distinti, che hanno fatto dibattere molto la dottrina[10].

Concludendo si può affermare che con la Lumen Gentium, la Gaudium et Spes e la Dignitatis Humanae abbiamo la creazione di una nuova concezione della scienza giuspubblicistica. Essa ha inizialmente realizzato un dissesto strutturale nei rapporti Chiesa-comunità politiche; tuttavia, dopo il Vaticano II, ha propiziato una fioritura dottrinale molto ampia dello Ius Publicum Ecclesiasticum.

Il canonista spagnolo P. Lombardìa sosterrà che dopo il Vaticano II, la nuova impostazione dei rapporti tra Chiesa e poteri politici si basi sull’inserimento del laicato, in quanto viene così superata la precedente distinzione tra la sacra gerarchia e il laicato[11]. Anche il nuovo ruolo del laicato acquisisce valore nell’ottica di una ecclesiologia che, rinnovata rinnova.

3. Conclusioni

Il quadro, delineato dalla storia stessa del Codex del 1917, mette in evidenza il graduale passaggio da un Diritto confuso, invecchiato e frammentato, ad un Diritto ordinato, consolidato, chiaro; inoltre, che la codificazione ha significato una modernizzazione della forma e del contenuto stessi del Diritto canonico.

Redaelli fa anche notare che non devono dimenticarsi gli approfondimenti storiografici realizzati in seno alla commissione codificatrice, l’attenzione prestata ai problemi pastorali e teologici, e, nell’ambito della stessa canonistica esegetica, i pregevoli apporti allo studio dei diversi istituti, tra i quali il matrimonio. Dall’altra parte, la canonistica laica italiana ha saputo portare la scienza del Diritto canonico allo stesso livello della civilistica. Effettivamente, in un contesto caratterizzato da una concezione positivista, statalista e dogmatica del Diritto, quale quella italiana della prima metà del secolo scorso, solo un Codice simile a quelli in uso poteva illuminare sulla giuridicità del Diritto canonico e sulla possibilità di un suo studio scientifico.

Questa somiglianza impedisce di affermare semplicisticamente che il Codice del 1917 sia l’esito di un processo del tutto coerente di sviluppo delle collezioni canoniche precedenti e, dunque, null’altro che un novum Corpus.

D’altro canto, la discontinuità non è così profonda da poter parlare di uno spartiacque essenziale. Il grande contributo al sapere storico canonico che suppone l`opera Chiesa romana e modernità giuridica del Fantappiè permette di affermare che questa modernizzazione evidenzia una discontinuità all’interno però di una fondamentale continuità con la tradizione giuridica della Chiesa.

Se il Codice del 1917 fu veramente il rilancio di un Diritto che era necessario unificare, pur sopprimendo ciò che non era più applicabile - ossia ciò che era obsoleto, ciò che impediva alla Chiesa di vivere sempre meglio il suo mistero - il Codice del 1983 invece ha avuto tutt'altra portata. Ha rinnovato il Diritto nel suo complesso secondo l'ispirazione conciliare: in verità oggi se ne può ammirare l'unità, nonostante il lavoro di tante commissioni diverse, nonostante i ritocchi e le conversioni.

Quest’ultimo doveva, inoltre, per la prima volta in un'opera di codificazione, organizzare nuovi istituti, auspicati dal Concilio ο solo suggeriti dai suoi documenti: lo ha fatto con molta attenzione al nuovo. Doveva legiferare in una materia nuova, su istituzioni appena sorte: un'esperienza legislativa nuova in effetti è stata inserita nella tradizione canonica, di enorme importanza.

Ulteriormente, anche nella stessa scienza giuridica, è intervenuto un nuovo fenomeno che ha costretto ad un necessario ripensamento generale: il fenomeno della globalizzazione, non solo economica, che ha favorito la produzione di Diritto soprastatuale. Questo nuovo Diritto in particolare, è espressione di fatti economici, quindi non della voluntas legislatoris. Inoltre, la globalizzazione giuridica determina una giuridicità particolare, in quanto la vigenza di questo Diritto supera la territorialità del singolo Stato, per proiettarsi su un piano internazionale.

Per questi motivi è necessario ripensare alle nuove leve del Diritto Pubblico Ecclesiastico, integrando i cambiamenti già portati dal Concilio Vaticano II. In realtà anche il Vaticano II stesso potrebbe apparire non attuabile, se si accoglie il fenomeno di globalizzazione giuridica: il Concilio, infatti, definisce i due ordinamenti relativamente al “proprio campo” di ciascuno; ma la globalizzazione giuridica, forse, porta a ripensare questi rapporti, ponendo al centro la persona. Solo il futuro ci potrà dire il valore e la portata reali della canonistica del postconcilio.

Note e riferimenti bibliografici

Dalla Torre G., La città sul monte. Contributo ad una teoria canonistica sulle relazioni fra Chiesa e Comunità politica, editrice a.v.e., Roma 1996; 3ed., Roma, 2007.

Estrada J., La Iglesia: identidad y cambio. El concepto de Iglesia del Vaticano I a nuestros dias, Ediciones Cristianidad, Madrid, 1985.

Fantappié C., Introduzione storica al diritto canonico, Il Mulino, Bologna, 2003.

Fogliasso E., Il codice di diritto canonico e il “ius pubblicum ecclesiasticum”, in Salesianum, VI (1944), 7-31.

Lombardia E., Le droit publique ecclesiastique selon Vatican II, in Apollinaris, XL (1967), 59-112.

Muselli L., Chiesa cattolica e Comunità politica, Cedam, Padova, 1975.

Nacci M., Chiesa e Stato dalla potestà contesa alla sana cooperatio, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2015.

Redaelli C., L’adozione del principio della codificazione: significato ecclesiologico soprattutto in riferimento alla Ricezione, in La recepciòn y la comuniòn entre las Iglesias, Salamanca (1997), 325–326.

[1] Il dibattito sulla necessità di avviare un percorso di codificazione, iniziato prima del Concilio Vaticano I nella fase preparatoria tra il 1864 e il 1867, trovò ostacoli da parte di officiali della Curia facendo prevalere l’urgenza di affrontare problemi politici incombenti. Anche nelle aule conciliari le proposte di coloro che evidenziarono l’obsolescenza delle leggi canoniche e la presenza di lacune per gli stravolgimenti politici a livello mondiale rimasero soffocate. Il dibattito proseguì fino a fine Ottocento vedendo personalità di grande rilievo, tra cui il Card. Pietro Gasparri, Giovanni Soglia, Camillo Tarquini, Felice Cavagnis e Alfredo Ottaviani.

Per un approfondimento si rimanda alla trattazione specifica Lo Ius Publicum Ecclesiasticum nella speculazione scientifica dei canonisti di Curia contenuta in M. Nacci, Chiesa e Stato dalla potestà contesa alla sana cooperatio, Città del Vaticano, 2015, 33-112.

[2]Ciò nonostante, alcuni limiti della nuova codificazione furono fin da subito riscontrati per un utilizzo non sempre appropriato del linguaggio giuridico, la cui terminologia spesso presenta commistioni tra ciò che è nuovo e ciò che è antiquato, aprendo a incertezze e aporie. Per questo motivo appena qualche mese dopo la promulgazione del Codex, e prima ancora che entrasse in vigore, Benedetto XV con il Motu Proprio Cum iuris canonici del 15 settembre 1917 istituì una commissione cardinalizia per l’interpretazione autentica del Codice, nominando presidente il Card. Pietro Gasparri. Altro aspetto che si affermò sotto il profilo della critica riguardò l’inadeguatezza del Codex a rappresentare il mistero della Chiesa secondo la tripartizione “personae-res-actiones” del diritto romano e, soprattutto nel collocare i sacramenti nel libroDe rebus. Il Codice pio-benedettino eredita il Diritto canonico tridentino ed è permeato da una concezione di Chiesa che, passando attraverso la Restaurazione, era stata delineata dal Sillabo con i principi di Diritto Pubblico Ecclesiastico. Inoltre, esso recepisce la traduzione giuridica degli sviluppi dogmatici del Vaticano I fissati dalla Costituzione Apostolica Dei Filius e in particolare dalla Pastor Aeternus sul primato di giurisdizione e sull’infallibilità del Magistero del Romano Pontefice. Anche il concetto di societas iuridice perfecta, che permeava il Codex senza apparire esplicitamente nell’uso del termine, finiva per indurre il sospetto di un orientamento codicocentrico del Diritto idoneo a rappresentare una Chiesa come corpo sociale accentuatamente clericale, che si esprimeva nel trinomio “clero-strutture ecclesiatiche-potestà”, lontano dal Diritto costituzionale, che sarà incarnato nella successiva codificazione ispirata al Concilio Vaticano II.

[3]M. NACCI, Chiesa e Stato, 133.

[4]Il Diritto Pubblico Ecclesiastico è stato un valido “strumento” per l’iter codificatorio, così come sviluppato agli inizi del ventesimo secolo (Cf. E. FOGLIASSO, Il codice di diritto canonico e il “ius pubblicum ecclesiasticum”, in Salesianum, VI (1944), 7-31). Pensiero ripreso e confermato anche nel libro del Professore, (M. NACCI, Chiesa e Stato, 129).

[5]La scuola dello IusPublicumEcclesiasticum, fondato sulle proposizioni del Sillabo e sull’Enciclica Immortale Dei di Leone XIII, ispirerà larghi settori della canonistica fin quasi alle soglie del Vaticano II.

[6]L’espressione “svolta costituzionale” fa riferimento al Concilio Vaticano II ed è utilizzata in C. FANTAPPIÉ, Introduzione storica al diritto canonico, Bologna, 2003, 248-256.

[7]Per un approfondimento puntuale si rimanda alla lettura del Capitolo Terzo di: M. NACCI, Chiesa e Stato,135-155.

[8]Il teologo spagnolo Estrada chiarirà che il Concilio non ha inteso precisare teologicamente il rapporto Chiesa-regno.

[9] Per ulteriori chiarificazioni in tal senso, potrebbe essere opportuno uno sguardo alle Carte costituzionali, in particolare l’Art. 7 della Costituzione italiana.

[10] Nella rilettura postuma Conciliare si origineranno dai due distinti concetti, due correnti: secondo alcuni sono identici, quindi la libertà della Chiesa, rientra nella libertà religiosa (idea sostenuta dal prof. Musselli). Questa tesi postula che lo ius libertatis della Chiesa, sarebbe una determinazione dello ius ad libertatem religiosam. Secondo altri, il Concilio ha voluto tenere ben distinti i due concetti, proprio alla luce di DH 13. Tra questi il prof. Dalla Torre. Il termine concordia non può essere confuso con identità, ma addirittura concordia può esserci solo tra realtà distinte. Per un approfondimento si rinvia ai testi degli autori citati: Cf. L. MUSSELLI, Chiesa cattolica e Comunità politica, Padova, 1975; G. DALLA TORRE, La città sul monte. Contributo ad una teoria canonistica sulle relazioni fra Chiesa e Comunità politica, 3ed., Roma, 2007.

[11]Cfr. P. LOMBARDìA, Le droit publique ecclesiastique selon Vatican II, in Apollinaris, XL (1967), 59-112.