ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Sab, 1 Giu 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Autodichia del parlamento: giustizia domestica e verifica dei poteri

Modifica pagina

Silvana Galdieri


Una disamina degli articoli 64 e 66 della Costituzione sul tema della “giustizia domestica” e della “verifica dei poteri” esercitate dalle Camere, delle quali si indagano, anche nel quadro delle pronunce della Corte Costituzionale, alcuni profili problematici che vengono in evidenza alla luce dei regolamenti e della prassi parlamentare.


Sommario: 1. L’autodichia nella storia delle istituzioni parlamentari e nell’attuale ordinamento costituzionale – 2. Le norme regolamentari del Parlamento in materia di autodichia – 3. La giurisprudenza costituzionale in materia di giustizia domestica – 4. L’articolo 66 della Costituzione: la “verifica dei poteri” e i margini di discrezionalità – 5. L’articolo 66 e la giurisprudenza della Corte Costituzionale: le questioni della “zona franca” della legislazione elettorale e della convalida degli eletti.

1. L’autodichia nella storia delle istituzioni parlamentari e nell’attuale ordinamento costituzionale

L’istituto dell’autodichia, in senso generale, esprime il potere di alcuni organi costituzionali di essere giudici, di solito attraverso strutture interne a tal fine istituite, del contenzioso sorto in relazione agli atti di amministrazione adottati e, in un’accezione di maggiore ampiezza, riconduce a tale competenza ogni atto sottratto alla giurisdizione comune e, quindi, la stessa materia sottoposta al controllo interno del Parlamento dall’articolo 66 della Costituzione. Si tende, però, a ritenere più proprio l’uso del termine autodichia ove lo si riservi a quella giustizia domestica chiamata a conoscere delle controversie sorte tra l’Amministrazione e il suo personale e, secondo un’attribuzione oggi disconosciuta dalla giurisprudenza, con i terzi[1].

Nel nostro ordinamento la potestà di esercitare una giustizia interna, secondo l’accezione più ampia del termine, è attribuita, oltre che alle Camere, alla Corte Costituzionale e, di recente, anche alla Presidenza della Repubblica[2], mentre sono state abrogate le norme che ne riconoscevano l’esercizio da parte della Corte dei Conti[3].

L’autodichia è istituto storicamente risalente che affonda le sue radici nelle istituzioni parlamentari inglesi – ancor prima che queste evolvessero, a partire dalla “bloodless revolution”, verso forme più prossime a quelle attuali – risultando la funzione da essa esplicata consonante con il carattere di Alta Corte di Giustizia che originariamente connotava il Parlamento inglese[4]. Posta a presidio dell’indipendenza di questo, l’autodichia ha inizialmente quel carattere che si definisce “geografico”, investendo la sua competenza ogni ambito interno al perimetro fisico del Parlamento[5]. Si dovrà attendere il XIX secolo per poter citare la pronuncia di una Corte che inizi a porre una distinzione competenziale fondata sulla natura degli atti e dei diritti in gioco[6].

Il dibattito dottrinale di fine ’800 in Italia si animò proprio intorno al tema di una riconsiderazione in senso limitativo del complesso degli interna corporis, fermo il riconoscimento del nesso inscindibile tra le indiscusse guarentigie dell’autonomia e dell’autarchia e quella dell’autodichia, intesa in dottrina, in primis, come riserva di sindacato interno degli atti prodotti dallo stesso organo costituzionale.[7]

A fronte di una giurisprudenza che, salvo isolati casi[8], non sottraeva alla competenza dell’autodichia del Parlamento le controversie nelle quali avesse merito la tutela di diritti soggettivi, la dottrina ammetteva invece alla competenza della giurisdizione comune quegli atti riconosciuti come amministrativi sebbene adottati da organi delle Camere[9].

Nel nostro ordinamento l’indipendenza del Parlamento, per la posizione di centralità e preminenza che gli si riconosce all’interno di esso, trova garanzie di rango costituzionale attraverso specifiche disposizioni della Carta che gli conferiscono, in particolare, autonomia (articolo 64) e potere di verifica dei titoli di ammissione dei propri componenti (articolo 66). Tali articoli sono trasposizione pressoché letterale degli omologhi 61 e 60 dello Statuto albertino, ma da leggere ora con il cifrario del nuovo impianto costituzionale. L’autonomia è declinata, nel dettato della Costituzione, in forma di potestà di normazione interna, attraverso la quale si dispone e si regola l’autarchia, ossia l’autogoverno dell’istituzione.

Se l’articolo 66, prevedendo l’esercizio di una funzione giudicante interna, è fonte diretta di una forma di autodichia, quella esercitata dalle Camere per conoscere in via esclusiva dei ricorsi avverso atti dell’Amministrazione trova parimenti fondamento, sia pure indiretto, nella Costituzione.

Il fondamento giuridico della giustizia domestica si rinviene dunque nell’articolo 64 della Costituzione, nel presupposto che da questa non possa prescindersi se non in danno dell’autonomia del Parlamento poiché la funzione di garanzia, che riguardo a tale autonomia è svolta dalla potestà regolamentare interna, sarebbe vanificata se altro organo potesse sindacarne gli atti.

Vi è anche chi esprime un opposto orientamento che, facendo riferimento all’assenza di una netta separazione dei poteri, porta a non riconoscere un grado di indipendenza tale da sottrarre gli atti di alcuni organi costituzionali al vaglio giurisdizionale. Si sottolinea, in proposito, che garanzia di legittimità costituzionale si rinviene nelle forme di reciproco controllo, di livello costituzionale, cui lo stesso Parlamento, ad esempio, non si sottrae per le competenze riconosciute alla Corte Costituzionale.

Accolta la teoria che giustifica l’autodichia sul piano sistematico, si pone la questione di quanto ampio possa essere il suo ambito di applicazione, considerato che il dato teleologico che contraddistingue tali istituti di garanzia è quello della salvaguardia del distinto esercizio delle funzioni proprie di ciascun organo costituzionale. Ed è proprio in tale dato che dovrebbe rinvenirsi, allora, il limite alla loro applicabilità, dovendosi intendere questa mirata ad assicurare il rispetto del principio di legalità, non nella portata più generale del termine, ma nel senso più stringente di legalità costituzionale[10].

Di conseguenza è opinabile, secondo parte della dottrina, che il principio di autodichia possa opporsi a «tutti i soggetti dell’ordinamento, quindi anche [a] quei soggetti che stabilmente o occasionalmente si relazionino con le Camere ad esempio sulla base di rapporti giuridici di lavoro dipendente o di natura negoziale»[11]. Quella che è messa in discussione è, dunque, l’autodichia come prevalentemente intesa dalla letteratura giuridica, ristretta cioè al più limitato campo della risoluzione delle controversie tra amministrazione interna dell’organo costituzionale e personale dipendente.

Discorda da questa impostazione chi ritiene, al contrario, che anche per l’ambito dei rapporti con i dipendenti – delle cui correlate controversie conosce la giustizia domestica – non è da escludere una relazione funzionale con l’attività propria del Parlamento, atta a giustificare l’esclusione della competenza della comune giurisdizione.

2. Le norme regolamentari del Parlamento in materia di autodichia

La Costituzione, come si è già avuto modo di dire, manca di qualsiasi riferimento diretto all’autodichia della quale gli atti fonte sono invece i Regolamenti parlamentari, adottati secondo il disposto dell’articolo 64, o norme sub regolamentari, che ne contengono la previsione e la disciplina di esercizio.

La formulazione dell’articolo 12 del Regolamento del Senato del 1971 ha fatto ritenere, in via deduttiva, che l’autodichia rientrasse nell’oggetto della normazione amministrativa interna delegata al Consiglio di Presidenza, chiamato ad approvare “i provvedimenti relativi al personale stesso nei casi ivi previsti”. L’articolo 12 del Regolamento della Camera, adottato anch’esso nel 1971, invece, statuiva direttamente che fosse l'Ufficio di Presidenza a decidere «in via definitiva i ricorsi che attengono allo stato e alla carriera giuridica ed economica dei dipendenti della Camera».

L’Ufficio di Presidenza era così chiamato, dall’originaria formulazione del comma 3 dell’articolo 12, ad emanare le norme relative allo stato giuridico, al trattamento economico e di quiescenza, alla disciplina dei dipendenti della Camera e, contemporaneamente, a giudicare dei ricorsi[12] avverso atti di amministrazione che di tali competenze erano emanazione, finendo con l’essere giudice di se stesso.

Al contrario di quanto avvenuto per il Senato, la previsione di un duplice grado di giudizio, da esercitarsi tramite organi interni separati, era inizialmente assente dalle norme attinenti la tutela giurisdizionale del personale dipendente della Camera. Anche per le perplessità emerse nella giurisprudenza della Corte Costituzionale – si fa riferimento alla sentenza n. 154 del 1985 – nelle prime norme regolamentari dell’Ufficio di Presidenza in materia di giustizia domestica[13] venne prevista, intanto, la costituzione della Commissione giurisdizionale per il personale, organo giudicante di primo grado.

La Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza restava l’organo deputato ad accogliere le istanze di appello avverso le pronunce della Commissione giurisdizionale, sicché la CEDU, con la cosiddetta sentenza Savino del 2009[14], non mancò di rilevare l’assenza di terzietà in questa fase del giudizio, pregiudizievole del rispetto dei principi di indipendenza e di imparzialità.

Ai rilievi critici della CEDU venne data risposta con la riforma del Regolamento della Camera, avvenuta nello stesso anno, il cui novellato sesto comma dell’articolo 12 disponeva l’istituzione di «organi interni di primo e di secondo grado, composti da deputati in carica» preposti a giudicare sui ricorsi dei dipendenti. A tale previsione regolamentare si sarebbe data attuazione con un successivo Decreto del Presidente dell’Assemblea[15] che modificava il testo regolamentare del 1988 contenente la disciplina della tutela giurisdizionale dei dipendenti della Camera.

Quanto al Senato le norme di autodichia, attuative del generico disposto regolamentare, furono assunte nel 1988 con Decreto del Presidente[16] ed integrate, con ulteriore provvedimento dello stesso organo nel 1990[17], per confluire infine nel “Testo Unico delle norme regolamentari dell'Amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica”[18]. Con tali disposizioni venivano preposti all’esercizio della giustizia domestica la Commissione contenziosa, organo di primo grado di giudizio, e il Consiglio di Garanzia, organo di appello, di cui trattano rispettivamente gli articoli 72 e 75 del T.U. sopracitato.

Ripercorrendo l’evoluzione del quadro normativo interno, si coglie anche un dato non secondario ovvero il progressivo rafforzarsi, in seno al Parlamento, di una visione via via più estensiva dell’autodichia, che rendeva sempre più labile il suo nesso funzionale con l’istituzione parlamentare. La giustizia domestica giungeva così a ricondurre nel suo alveo competenziale sia il contenzioso correlato alle procedure concorsuali che le controversie con soggetti estranei al Parlamento che, a qualunque titolo, avessero instaurato rapporti di diritto comune con l’Amministrazione.

Proprio in relazione a quest’ultima tipologia di controversie si dava vita alla Camera ad un secondo organo di primo grado, il Consiglio di giurisdizione per gli atti di amministrazione non riguardanti i dipendenti, composto da tre deputati, anziché sei come la Commissione giurisdizionale. Costoro erano da individuare tra i parlamentari in possesso dei requisiti di specifica competenza giuridica, criterio peraltro ricorrente per la formazione di tutti gli organi con funzione giurisdizionale delle due Camere e specificati nei relativi Regolamenti.

La stessa netta distinzione veniva operata anche dal punto di vista degli atti normativi con l’approvazione di un regolamento ad hoc rispetto a quello riguardante i dipendenti della Camera, mentre per le impugnazioni delle decisioni assunte dal Consiglio si tornava alla competenza della Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza[19].

Diversi criteri, di lì a qualche anno, venivano adottati dal Senato che, parimenti, ravvisava «la necessità di introdurre nell'ordinamento» interno «specifica normativa volta a precisare le modalità della tutela giurisdizionale (...) relativamente agli atti e ai provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento del personale». A tal fine, infatti, a differenza di quanto avvenuto alla Camera, venivano preposti all’assolvimento delle nuove funzioni gli esistenti organi di autodichia, prevedendosi solo per la Commissione contenziosa una specifica composizione del collegio giudicante. In questo la componente fissa dei tre senatori veniva integrata non con membri individuati tra il personale dell’Amministrazione, come per i giudizi riguardanti il personale, ma con soggetti esterni al Parlamento. In modo analogo non veniva adottato un nuovo, specifico Regolamento, limitandosi il Consiglio di Presidenza ad introdurre le necessarie integrazioni e modifiche nel corpo normativo esistente[20].

Per quanto attiene al rito degli organi di giustizia domestica, benché le procedure siano sostanziate da istituti tratti dalla codicistica civile, non mancano quelli che ne restano esclusi, rilevando, ad esempio, l’assenza di procedure esecutive, non trovando menzione l’opposizione di terzo, e risultando preclusa la possibilità di adire la Cassazione.

Per alcuni istituti della procedura civile, peraltro, il recepimento sarebbe risultato inammissibile, venendo in contrasto con l’impianto stesso degli organi di autodichia. Può richiamarsi, in proposito, l’articolo 51 del c.p.c., che regola i casi di astensione del giudice, e alla cui casistica rimanda il successivo articolo 52 per la definizione delle fattispecie che abilitano a procedere alla ricusazione del giudice. Considerando il modo in cui sono composti i collegi giudicanti degli organi di autodichia, è innegabile che i presupposti per l’astensione o la ricusazione ricorrano in radice, ravvisandosi, infatti, a mente del comma 5 dell’art. 51 c.p.c., il configurarsi di un’ipotesi di immedesimazione organica o di vero e proprio rapporto di servizio[21].

Quanto all’attività svolta dagli organi di autodichia, nel tempo si è andata formando una giurisprudenza interna, anche rispetto agli aspetti procedurali, e spesso di non irrilevante incisività, integrativa ed interpretativa delle norme contenute nei Regolamenti. Vale ricordare, in proposito, che alla Camera il giudizio d’appello ha visto mitigare il suo carattere di revisio prioris instantiae, quale gli derivava dal divieto regolamentare di deposito di nuovi documenti, proprio in ragione della rilettura che la giurisprudenza interna ha fatto di tale disposto[22], mentre la giurisprudenza del Senato, dal canto suo, è intervenuta a negare l’impugnabilità degli atti a contenuto generale.

Di questi, infatti, non è fatta menzione nelle norme della seconda Camera, che appaiono molto più limitative in ordine alla casistica degli atti ammessi al giudizio degli organi di giustizia domestica di quanto invece avvenga per la Camera. Qui valgono disposizioni in forza delle quali il ricorso è ammesso, a tutela di diritti e interessi legittimi, non solo avverso atti a contenuto generale per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge o di regolamento, ma anche in relazione ad atti di natura politica, di alta amministrazione e per alcuni particolari provvedimenti del Presidente e dell’Ufficio di Presidenza, impugnabili per incompetenza o violazione di legge o di regolamento.

Inoltre, altra significativa distinzione è quella che vede l’ammissibilità del solo giudizio di legittimità per il Senato, mentre, alla Camera, per alcuni ambiti del rapporto di lavoro, l’esame del ricorso può estendersi anche al merito.

3. La giurisprudenza costituzionale in materia di giustizia domestica

Negli ultimi anni ha preso corpo un filone giurisprudenziale in tema di autodichia del Parlamento e, in misura minore, della Presidenza della Repubblica, all’interno del quale, soprattutto per quanto riguarda la Consulta, è difficile rintracciare un’assoluta linearità di giudizi.

Volendolo brevemente ripercorrere dall’inizio, occorre risalire alla sentenza n. 154 del 1985 della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi a seguito di alcune ordinanze della Corte di Cassazione che ponevano la questione della «legittimità costituzionale dell'art. 12, n. 1, del Regolamento del Senato della Repubblica (...) e dell'art. 12, n. 3, del Regolamento della Camera dei Deputati (...) e comunque della norma attributiva alle Camere della autodichia sulle controversie di impiego dei propri dipendenti».

La Suprema Corte rilevava il carattere limitativo di tali norme rispetto alla portata generale delle leggi in materia di tutela giurisdizionale, che la induceva a leggere in esse l’istituzione di una giurisdizione speciale, lesiva delle «garanzie di serietà ed effettività di tutela che, in relazione agli artt. 24 e 113 Cost., sono sancite dagli artt. 101, comma secondo, e 108, comma secondo, Cost. sotto il profilo della indipendenza-terzietà o indipendenza-imparzialità del giudice, e di nuovo e più direttamente, dall'art. 24 Cost. sotto il profilo della difesa e del contraddittorio».

La Corte di Cassazione, non rinvenendo la possibilità di ritenere la giustizia domestica connaturata o scaturente dalla «posizione propria dell’organo costituzionale», concludeva che questa non è altro che una desueta forma di privilegio, comunque in contrasto, ove se ne voglia trovare legittimazione nel principio di separazione dei poteri, con principi e diritti posti e tutelati dalla Costituzione.

La Consulta non entrava nel merito della questione di legittimità sollevata in via incidentale, pronunciandosi per l’inammissibilità del ricorso alla luce della pregiudiziale dichiarazione di insindacabilità dei Regolamenti parlamentari, che la Corte andava ad inquadrare in un separato ordinamento, privando così tali norme di rilevanza esterna[23]. L’autodichia veniva letta come potere proprio attribuito al Parlamento in ragione della sua sovranità.

Il Giudice delle leggi non mancava comunque di riconoscere un qualche fondamento ai rilievi della Corte di Cassazione in merito alla effettiva capacità della giustizia domestica di assicurare il rispetto pieno dei diritti e dei principi costituzionali in materia di tutela giurisdizionale. Parimenti, però, ravvisava il radicamento dell’autodichia nel sistema costituzionale, fornendole il riparo della potestà riconosciuta al Parlamento di definire esso stesso gli ambiti e i limiti di quell’autonomia, di cui è garanzia l’articolo 64 della Costituzione, che tale non sarebbe se organi terzi potessero intervenire a sindacarne gli atti che da essa promanano. Autonomia, argomenta la Consulta, che è specifico profilo dell’indipendenza guarentigiata alla quale ha diritto il Parlamento quale organo sovrano, che «[l]a Costituzione repubblicana (...) ha collocato (...) al centro del sistema, facendone l'istituto caratterizzante l'ordinamento». Il sistema degli interna corporis trovava così la sua riaffermazione, benché la Cassazione ritenesse di aver letto il superamento di tale “dogma” in precedenti pronunce della Corte Costituzionale.

La Suprema Corte, con una breve ordinanza del 2013[24], con la quale tornava a sollevare questione di incostituzionalità in merito all’articolo 12 del Regolamento del Senato, invitando la Consulta a rivedere la posizione espressa in merito all’insindacabilità degli atti regolamentari, ribadiva che «l’autodichia non è coessenziale alla natura costituzionale degli organi supremi». Inoltre risultava ora più netta l’affermazione che il limite, di cui le disposizioni regolamentari in questione gravano la normativa sulla tutela giurisdizionale, configura l’istituzione di un giudice speciale in violazione dell’art. 102 della Costituzione.

Faceva seguito a tale ordinanza la sentenza n. 120 del 2014, con la quale la Corte Costituzionale si mostrava innanzitutto ferma nell’interpretazione letterale dell’articolo 134 Cost., che indica gli atti sottoponibili al suo sindacato, non considerando, però, ancora una volta prive di pregio le questioni di legittimità enucleate dalla Suprema Corte. Si registrava, tuttavia, un radicale cambio di prospettiva, tale per cui l’autodichia era ora qualificata come un potere dello Stato che il Parlamento esercita nel contesto di un proprio ordinamento.

Le norme regolamentari del Parlamento, a loro volta, venivano riconosciute quali fonti dell’ordinamento generale dello Stato[25], «sottoposte agli ordinari canoni interpretativi, alla luce dei principi e delle disposizioni costituzionali, che ne delimitano la sfera di competenza». L’insindacabilità dei Regolamenti, per la quale non si evocano più principi ascrivibili a «motivazioni storiche o (...) risalenti tradizioni interpretative», è riaffermata comunque in virtù di valutazioni di tipo sistematico. Alla luce di questo nuovo incardinamento ordinamentale dei Regolamenti non sfugge, però, al controllo di legittimità il loro momento applicativo se distorsivo del sistema costituzionale.

Il Giudice delle leggi afferma che l’autodichia certamente ricade nel sistema di garanzie della libertà e dell’indipendenza del Parlamento se posta in relazione «[al]le vicende e [a]i rapporti che ineriscono alle funzioni primarie delle Camere». Osserva, però, che questo nesso non soccorre ad abilitare «un potere decisorio che limit[a] quello conferito dalla Costituzione ad altra autorità» quando la controversia origini da rapporti di lavoro dei dipendenti o da rapporti con i terzi. In questo caso, asserisce la Consulta, con richiamo alla propria precedente giurisprudenza[26], «deve prevalere la “grande regola” dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 della Costituzione)».

La Consulta si dice dunque chiamata a tracciare il confine tra «autonomia delle Camere, da un lato, e legalità-giurisdizione, dall’altro» laddove insorgano «questioni relative alla delimitazione degli ambiti di competenza riservati», da affrontare e risolvere in termini di conflitto tra poteri dello Stato.

La Corte di Cassazione, sulla scia della sentenza n. 120 della Consulta, con una nuova ordinanza[27], sollevava questione di conflitto di attribuzione, lamentando l’esondazione dell’attività regolamentare del Parlamento dagli argini della propria competenza, motivo, questo, di turbativa del potere giurisdizionale e quindi di «alterazione dell'equilibrio dei poteri dello Stato».

Una turbativa che, «versandosi comunque in un’ipotesi di vizio di illegittimità costituzionale in senso lato», richiede l’individuazione delle norme costituzionali delle quali è pregiudizio, e queste si rinvengono, ancora una volta, in via più generale, negli articoli 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma, 108, secondo comma, 111, primo e secondo comma, alla luce dei quali «l’autodichia del Senato nelle controversie di lavoro del proprio personale è in toto invasiva del potere giurisdizionale sicché, non spettando al Senato prevederla con le proprie norme subregolamentari, deve riespandersi l’ordinaria tutela giurisdizionale»[28].

L’invasività della norma subregolamentare del Senato deve almeno riconoscersi – chiede la Suprema Corte – sia pure in forma più circoscritta, per la parte che esclude il sindacato di legittimità di cui all’artico 111, settimo comma, Cost., dovendo ritrovare piena possibilità di esercizio «l’ordinaria facoltà di proporre ricorso straordinario per cassazione per violazione di legge avverso le decisioni in ultimo grado o in grado unico degli organi di giustizia interna del Senato».

Con la sentenza n. 262 del 2017, che faceva seguito alla già richiamata ordinanza della Corte di Cassazione n. 26934/2014, l’istituto dell’autodichia sarà oggetto di completa rilettura ad opera della Consulta. L’interpretazione che ne è data ha carattere estensivo, a formare un sistema chiuso nel quale non viene ravvisata violazione di diritti e principi costituzionali, e la cui sfera di competenza – dalla quale però si escludono i rapporti giuridici con soggetti terzi – è sottratta a qualsiasi ingerenza esterna e riconosciuta non confliggente con quella di altri organi costituzionali[29].

Vi si legge infatti che «[l]’affidamento a collegi interni del compito di interpretare e applicare le norme relative al rapporto di lavoro dei dipendenti con gli organi costituzionali di cui si tratta, nonché la sottrazione delle decisioni di tali collegi al controllo della giurisdizione comune è, in definitiva, un riflesso dell’autonomia degli stessi organi costituzionali»[30]. Dato atto che «gli organi costituzionali poss[o]no, in forza dell’autonomia loro riconosciuta, regolare da sé i rapporti con il proprio personale», comporterebbe un’inammissibile deminutio capitis il consentire «poi (...) che siano gli organi della giurisdizione comune ad interpretare ed applicare tale speciale disciplina».

La Consulta esprime la certezza – e su cosa si fondi tale certezza c’è da dire che si dà poco o per nulla conto – che nessuna alterazione dell’ordine costituzionale deriva dal provvedere il Parlamento ad amministrare giustizia nei conflitti con i propri dipendenti, non ravvisandosi sottrazione di attribuzioni in danno degli organi giurisdizionali.

Nell’autodichia non si riscontra carenza di garanzie, segnatamente di quelle che attengono «al diritto al giudice e alla tutela giurisdizionale effettiva dei propri diritti», delle quali la Consulta si dice da sempre paladina e delle cui «asserite lesioni» rileva, in sede di giudizio per conflitto di poteri, «la ridondanza (...) sulla (...) sfera di attribuzioni costituzionali del ricorrente». Si asserisce, infatti, che i suoi organi «sono chiamati a decidere sulle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti in luogo dell’autorità giudiziaria “comune”» garantendo così che, «per il tramite dell’istituzione di organi interni e procedure di garanzia variamente conformate», «la tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti non [sia] assente».

L’autodichia, si aggiunge, «razionale completamento dell’autonomia organizzativa degli organi costituzionali in questione, in relazione ai loro apparati serventi», risolve in sé ogni forma di garanzia sicché non si rinviene lesività di diritti neanche nel precludere il ricorso straordinario per Cassazione, come garantito dall’articolo 111, settimo comma[31].

Certamente qualche perplessità può sorgere in quanto, anche se la sentenza Savino della CEDU, della quale si dirà più compiutamente nel seguito, ha spinto ad una implementazione delle procedure e, ove non già esistenti, alla costituzione di organi separati per l’esercizio della giustizia domestica, questa non sembra aver dismesso del tutto le vesti di un giudice in causa propria. La risoluzione della commistione di funzioni non appare in ogni caso risolutiva dell’assenza di quel principio costituzionalmente garantito che è la terzietà del “giudice”. Infatti i soggetti preposti all’esercizio della giustizia interna delle Camere non possono ritenersi esenti da immedesimazione organica, quale deriva dal loro rapporto con l’organo costituzionale, senza contare, peraltro, che per alcuni membri degli organi di autodichia del Parlamento sussiste un rapporto di servizio con l’Amministrazione.

Inoltre, in un comune quadro ordinamentale di appartenenza – nel quale le norme da cui discende l’autodichia sono riconosciute come fonti di diritto – è facile comprendere che le due forme di giurisdizione presentano differenziati livelli di garanzia[32], dal momento che la giustizia domestica, inficiando l’accesso allo specifico giudizio di legittimità di cui al settimo comma dell’articolo 111 Cost., si pone, in realtà, nella prospettiva di una lesione del diritto al giusto processo tutelato dallo stesso articolo.

La Consulta riconosce, di fatto, almeno in senso sostanziale, carattere giurisdizionale agli organi di autodichia, ma, esclusa la possibilità di individuarvi una giurisdizione speciale, questi restano formalmente non inquadrabili nel sistema, «“interni” ed estranei all’organizzazione della giurisdizione»[33].

Ad ulteriore sostegno del proprio argomentare in favore del carattere giurisdizionale degli organi di autodichia, la Corte evidenzia come abbia già affermato, con la precedente sentenza n. 213[34] dello stesso anno, che questi sono «chiamat[i] a svolgere, in posizione super partes, funzioni giurisdizionali»[35], che costituiscono il requisito oggettivo della «legittimazione (...) a sollevare l’incidente di costituzionalità», rintracciando in essi anche il requisito soggettivo di un giudice a quo[36].

Ma, nel porre tale richiamo, forse proprio per evitare di cadere in contraddizione con la definizione di giurisdizione oggettiva dell’autodichia, data nella stessa pronuncia, il Giudice delle leggi ha cura di “depotenziare” tale requisito soggettivo, precisandolo in termini restrittivi. Il requisito sussiste soltanto come elemento contingente necessario a qualificare l’organo di autodichia come sede idonea a sollevare questione di legittimità costituzionale e solo per tale fattispecie riconosciuto. Il ravvisare nell’autodichia del Parlamento, oltre al dato oggettivo dell’esercizio della funzione giurisdizionale, anche quello soggettivo del giudice avrebbe, infatti, significato riconoscervi implicitamente un organo giurisdizionale tout court, e dunque necessariamente una giurisdizione speciale.

Si coglie in questo ultimo approdo della giurisprudenza costituzionale il riflesso della sentenza Savino della Corte EDU del 2009[37], alla quale si è fatto già più di un cenno, di cui una certa eco già si avvertiva nella precedente sentenza n. 120 del 2014.

In essa il concetto più estensivo di «tribunale» – proiettato oltre il confine di una giurisdizione tradizionalmente intesa secondo la lettura che la Corte fa dell’articolo 6 della Convenzione del 1950[38] – porta a ritenere organi di natura giurisdizionale quelli che, in seno al Parlamento, esercitano l’autodichia[39]. A giudizio della CEDU, però, tali organi – la sentenza si riferiva più precisamente alla Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza della Camera – difettano dei necessari requisiti di indipendenza e di imparzialità, compromessi da «una inammissibile commistione, in capo agli stessi soggetti, tra l’esercizio di funzioni amministrative e l’esercizio di funzioni giurisdizionali»[40].

Il rilievo è mosso in riferimento all’autodichia esercitata dalla Camera ma, a sostegno della sua estensibilità anche al caso del Senato, la Suprema Corte[41] non ha mancato di richiamare la dottrina a commento della sentenza Savino. Questa infatti dà parimenti risalto al difetto di terzietà di tali organi parlamentari – tutelata dal primo comma dell’articolo 111 Cost.[42] – «considerato ad esempio che le decisioni della Commissione contenziosa, ratificate col visto del Presidente del Senato, possono riguardare ricorsi contro decreti del Presidente del Senato».

4. L’articolo 66 della Costituzione: la “verifica dei poteri” e i margini di discrezionalità

L’autodichia del Parlamento investe, secondo quella che si è già detta essere l’accezione più ampia del termine, un altro profilo della sua autonomia, ovvero la funzione di “verifica dei poteri”, attribuita dal dettato dell’articolo 66 Cost.[43] Il principio trova poi concreta attuazione nelle norme regolamentari che istituiscono e regolano l’esercizio delle funzioni della Giunta delle elezioni della Camera dei deputati – artt. 17 e 17-bis del Regolamento generale e Regolamento interno della Giunta – e dell’unica Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato – art. 19 del Regolamento e Regolamento interno per la verifica dei poteri – la quale assomma in sé anche le funzioni demandate dall’art. 68 Cost.

La norma, che è espressa deroga ai principi costituzionali in materia di tutela giurisdizionale, è posta a garantire la difesa dell’autonomia della rappresentanza elettiva, recependo una delle più risalenti “prerogative” delle istituzioni parlamentari[44], peraltro non unanimamente accolta in seno alla stessa Costituente[45].

Il problema che viene a porsi anche in questo caso è quello della conciliabilità della tutela dell’indipendenza del Parlamento con il principio di legalità[46], ovvero se e in che misura possa ritenersi soccombente la tutela giurisdizionale per diritti soggettivi e interessi legittimi. E, forse, era anche alla luce di tale perplessità che erano stati formulati «i disegni di legge n. 67 del senatore Zanda[47] e n. 878 del senatore Buemi[48] (...) assorbiti nel testo della mancata revisione costituzionale Boschi» che «spostava[no] in capo alla Corte Costituzionale (in prima battuta o dopo un ritardo eccessivo delle Camere) la competenza a giudicare sui ricorsi elettorali contro l’elezione dei parlamentari»[49].

Altra questione che di recente si è posta con assoluto rilievo è quella che interroga circa l’ammissibilità o meno di margini di discrezionalità nell’esercizio delle funzioni ex art. 66 e, in caso affermativo, quali ne siano i limiti. Le due opposte teorie hanno avuto spazio di trattazione quando la Giunta delle elezioni del Senato, nel 2016, si è trovata a dover decidere in merito alla sopravvenuta incandidabilità del senatore Minzolini, secondo il dettato dell’articolo 3 del D.Lgs. n. 235/2012, c.d. legge Severino. E proprio la relazione della Senatrice Moro del 18 luglio 2016[50] è una sintesi efficace dei profili dei due orientamenti, entrambi rappresentati nelle precedenti sedute della Giunta delle elezioni.

Nel corso di queste la difesa del Senatore si era fatta sostenitrice di una sindacabilità in ragione della quale «la Giunta, pur non dovendo entrare nel merito della decisione giudiziale, dovrebbe soffermarsi sugli aspetti procedurali della decisione stessa al fine di valutare eventuali violazioni della normativa nazionale e sovranazionale». Sul versante opposto si collocò invece la decisione della Giunta che riteneva inammissibile qualsiasi ulteriore intervento riguardo ad una sentenza divenuta definitiva e della quale la decadenza non è effetto sanzionatorio o penale. La Giunta argomentava che presupposto del giudizio non è la sentenza in sé, risultando quindi inapplicabile il principio di irretroattività della pena, ma il venir meno dei requisiti soggettivi di candidabilità e di mantenimento della carica, fissati con legge ordinaria secondo il dettato dell’art. 51 Cost.

Tesi, questa, fatta propria anche da una «consolidata giurisprudenza costituzionale – dal 2001 ai recenti casi De Magistris e De Luca – » che «considera l’incandidabilità un effetto extrapenale della condanna»[51], atta a rimuovere la possibile ipotesi di un conflitto tra poteri dello Stato. Infatti «la sfera d[i] (...) applicazione» di una sanzione amministrativa «coinvolge la responsabilità politica e giuridica della Camera, che pretenda di ignorarla, piuttosto che mettere in discussione l’integrità dei poteri del giudice penale»[52].

In questa circostanza tornavano poi ad essere riproposte le stesse problematiche emerse in ordine alla giustizia domestica circa il carattere giurisdizionale dell’organo parlamentare che, negato in questa circostanza dalla stessa Giunta, dava luogo al conseguente rilievo della difesa dell’assenza di un giudice. Se ne deduceva dunque, in relazione alla tutela invocata, la violazione del diritto espresso dall’ordinamento europeo, sovraordinato a quello nazionale, leso dall’inosservanza dei principi della Convenzione dei diritti dell’uomo che a tale ordinamento è da ricondursi.

La fase successiva della procedura, quella che investe direttamente l’Assemblea, veniva affrontata secondo un avviso del tutto contrario con lo svolgimento di un esame «della correttezza giuridica della sentenza», atto a configurare una non ammissibile forma di «controllo sull’attività dei giudici»[53]. Non mancarono coloro che ritennero non criticabile la decisione del Senato di non applicare la sanzione della decadenza, notando per prima cosa – avendo probabilmente a mente la gerarchia delle fonti – che l’azione ermeneutica doveva essere svolta nei confronti della legge Severino alla luce del dettato dell’articolo 66 Cost., e non il contrario.

È l’assunto di una funzione giudicante che perderebbe di significato se dovesse risolversi in puri atti dichiarativi: il «termine “giudicare” fu scelto proprio per il suo senso forte di apprezzamento  (...) rispetto ad altri termini più deboli come “verificare”»[54]. L’importante, si aggiunge, è che non venga meno, quale titolo di garanzia, la rimozione di influenze di tipo politico, il che riporta ad una delle critiche non secondarie mosse da sempre alla prerogativa parlamentare della verifica dei poteri. Critiche che non appaiono astrattamente avanzate se si considera, a dimostrazione di un ondivago orientamento del Senato, la dichiarata decadenza del senatore Berlusconi, nel 2013, e quella del senatore Galan, nel 2016.

In merito è brevemente da notare come il rilievo di un giudizio in qualche modo soggetto a tale tipo di condizionamento avesse preso maggiormente corpo dopo l’introduzione del sistema elettorale maggioritario[55], caratterizzato da una più netta contrapposizione tra blocchi politici. Forse prima era meno avvertibile, ma ugualmente presente: l’assenza di confronti politici “muscolari”, in un pervasivo clima di consociativismo, giovava a dargli meno risalto. Non secondario, in proposito, il fatto che l’espandersi dell’attività giudiziaria e l’instaurarsi di un clima di antipolitica nel Paese, con una distorta percezione delle garanzie di cui gode il Parlamento, abbia fatto sì che l’articolo 66 sia divenuto «il campo di battaglia per la riaffermazione del primato della politica»[56].

5. L’articolo 66 e la giurisprudenza della Corte Costituzionale: le questioni della “zona franca” della legislazione elettorale e della convalida degli eletti

Il controllo di legittimità costituzionale in materia di leggi elettorali ha da sempre dovuto confrontarsi con la discrezionalità riconosciuta al legislatore «nello stabilire le regole “di accensione” del sistema democratico, regole che in qualche modo sono legate, anche se non formalmente certamente “materialmente”, alle norme costituzionali»[57]. Con l’esercizio della funzione legislativa per tale ambito, il Parlamento dà voce a quella sovranità che proviene dal popolo, definendo i criteri per ricavare la composizione delle Assemblee dal dato numerico del voto, oggetto di un diritto costituzionalmente garantito.

La Corte Costituzionale, che in precedenza non aveva mancato di dare atto di tale discrezionalità del legislatore, con l’innovativa sentenza n. 1 del 2014[58] non la riconoscerà, però, priva di limiti[59], ammettendo al suo sindacato la legge n. 270 del 21 dicembre 2005[60], modificativa delle previgenti norme in materia elettorale[61]. Il limite, la cui sussistenza giustifica l’ammissibilità del quesito, è posto «dalla peculiarità e dal rilievo costituzionale, da un lato, del diritto oggetto di accertamento; dall’altro, della legge che, per il sospetto di illegittimità costituzionale, ne rende incerta la portata»[62].

La volontà della Corte di pervenire comunque ad una pronuncia – è dichiarato esplicitamente l’intento di evitare che si «cre[i] una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale» – la porta ad ammettere in modo inusuale la possibilità che in sede di giudizio di accertamento di un diritto possa azionarsi lo strumento incidentale del rilievo di costituzionalità.

D’altronde, escluso che si voglia, come avverrà in sentenze successive, procedere ad una dichiarazione di inammissibilità, la scelta non ha alternative. Non è infatti ravvisabile, stante il disposto dell’articolo 66 Cost., la possibilità di riconoscere la competenza della comune giurisdizione per un contenzioso che investa un qualunque momento delle procedure elettorali. Né può negarsi che quella delle «Assemblee elettive (...) sia una sede nella quale è intuitivamente difficile (anche se giuridicamente non impossibile) che si sollevino dubbi di costituzionalità portati all’esame della Corte»[63].

Il fatto, poi, che il diritto tutelato sia un diritto costituzionale, quello di voto, apre anche alla prospettiva di processi «molto simili a ricorsi diretti di costituzionalità sul modello del recurso de amparo constitucional spagnolo o del Verfassungsbeschwerde tedesco»[64]. E su tale tematica s’innesta quella di una aggirata possibile pregiudiziale di fictio litis per la sovrapponibilità della questione incidentale con il petitum del giudizio principale che, più che volto, come dovrebbe essere, «a fa[r] valere un interesse qualificato ad apprendere “un bene della vita”», sembra invece «mira[re] soltanto, attraverso il compiacente filtro del giudice a quo, alla dichiarazione d’incostituzionalità della legge»[65].

Prevale, dunque, l’elemento sostanziale del voler «garantire il principio di costituzionalità» per cui non può prescindersi dal sindacato della Corte «anche allo scopo di scongiurare «la esclusione di ogni garanzia e di ogni controllo» su taluni atti legislativi».

Il riferimento all’articolo 66 Cost., qui sotteso, si farà esplicito con la successiva sentenza n. 35 del 2017 ove si legge che «il diritto di voto non potrebbe altrimenti trovare tutela giurisdizionale, in virtù di quanto disposto dall’art. 66 Cost. e dall’art. 87 del d.P.R. n. 361 del 1957, come interpretati dai giudici comuni e dalle Camere in sede di verifica delle elezioni, anche alla luce della mancata attuazione della delega contenuta nell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69».

Sembrerebbe dunque che l’esclusione della comune giurisdizione dal conoscere di controversie in materia elettorale sia solo il portato di un’ermeneutica dell’articolo 66 operata dai giudici e dal Parlamento, sicché nulla vieta che una legge ordinaria possa disporre diversamente. Ma, si chiedono alcuni commentatori, perché allora la Consulta non è intervenuta a censurare «l’art. 87 del d.P.R. 361/1957, nella parte in cui, riservando alla Camera dei deputati il «giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e, in generale, su tutti i reclami presentati agli Uffici delle singole sezioni elettorali o all'Ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente» sembra escludere qualsiasi intervento della giurisdizione ordinaria o amministrativa?»[66].

Alla luce di quella che è la finalità più generale dell’art. 66, ossia la tutela dell’autonomia del Parlamento, è quest’ultimo orientamento della Consulta ad apparire più coerente con il dettato costituzionale, sembrando «incongruo postulare un controllo esclusivo da parte del Parlamento sulla legislazione elettorale che si limiti a valutare solo i risultati delle operazioni di voto»[67]. Di più potremmo affermare che nemmeno avrebbe senso una tale attività di controllo, per le finalità che si pone e per il carattere politico che riveste, se essa dovesse applicarsi secondo regole sulle quali altri sono abilitati ad intervenire.

L’“attacco” della Corte Costituzionale all’articolo 66 sembra esplicarsi anche in altra parte della sentenza n. 1 del 2014 laddove si afferma che «il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti» e dunque le procedure di elezione del Parlamento sono fatto concluso prima che nelle Giunte delle elezioni ne intervenga la convalida, della quale, posta tale affermazione, è da chiedersi quale sia la funzione e in che rapporto entrino i due istituti[68].

La proclamazione, si afferma in dottrina, è il momento dell’assunzione della carica nel quale una situazione che rileva giuridicamente, quella di eletto, riceve qualificazione giuridica con l’attribuzione della carica di Deputato o di Senatore, divenendo, il singolo, membro di un organo collegiale. La proclamazione, «pur avendo [i]n questo senso (...) non (...) mera efficacia dichiarativa dei risultati elettorali già accertati, ma (...) un’immediata efficacia costitutiva essendo essa “atto di certezza pubblica”»[69], mantiene in ogni caso la natura di provvedimento provvisorio. Infatti ad essa segue la convalida, da ritenersi a carattere confermativo[70], da parte degli organi parlamentari che svolgono in tale sede un complesso di verifiche secondo le attribuzioni dell’articolo 66 Cost. e delle leggi ordinarie che ne sono emanazione.

Su tali considerazioni deve aver avuto pregio, probabilmente, la necessità che, considerando chiuso il procedimento elettorale, potesse trovare applicazione il principio secondo il quale «la sentenza, che dichiara l’invalidità della norma, ne provoca l’annullamento togliendole l’efficacia, cioè l’idoneità ad essere applicata anche ai rapporti pregressi, con il limite dei cosiddetti rapporti esauriti»[71].

Diversamente, lasciare la porta aperta a possibili impugnative delle elezioni significava assumere una responsabilità di natura politica, potendone conseguire lo scioglimento delle Camere che avrebbe privato di ogni effetto l’avvenuto esercizio del diritto di voto. Il possibile verificarsi di tale eventualità era così scongiurato e rinviato al momento successivo della convalida, dunque rimesso alla responsabilità dell’organo politico, il Parlamento, ove questo avesse voluto «riconoscere che le impugnative eventualmente proposte in sede di verifica delle elezioni ex art. 66 Cost. (...) siano vere impugnative giurisdizionali», ammettendo «la retroattività della sentenza della Corte e l’inapplicabilità delle norme dichiarate incostituzionali»[72].

Il ritenere esaurito l’iter delle elezioni rafforzava, inoltre, anche la difesa degli atti assunti a monte della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità della legge, risolvendo in maniera più netta il rischio di un loro possibile annullamento. Difesa altrimenti da affidare, unicamente, ad un più astratto principio di continuità dello Stato che, invece, viene esplicitamente richiamato dal Giudice delle leggi per i futuri atti da assumere da parte del Parlamento, ponendosi il parallelismo con il regime di prorogatio delle Camere. Ma, a ben vedere, per essere tale regime ristretto nei limiti dell’ordinaria amministrazione e dei provvedimenti d’urgenza, ha poco pregio «invocar[lo] (...) per sostenere la piena legittimità giuridica e politica del Parlamento»[73].

Note e riferimenti bibliografici

[1]    Sull’argomento si veda A. Placanica, Autodichia delle Assemblee parlamentari, in Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari-Voci di un dizionario parlamentare, Camera dei Deputati, 1994, n. 3, p. 189 ss.; A. lo Calzo, L’autodichia degli organi costituzionali: il difficile percorso dalla sovranità istituzionale alla garanzia della funzione, Quarto seminario annuale del Gruppo di Pisa con i dottorandi in materie giuspubblicistiche, Roma, 18 settembre 2015.

[2]    Decreto presidenziale 24 luglio 1996, n. 81, integrato e modificato dai successivi decreti 9 ottobre 1996, n. 89, e 30 dicembre 2008, n. 34. I decreti presidenziali hanno natura di atti amministrativi interni e non sono assoggettati alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

[3]    Art. 12 della legge 6 agosto 1984, n. 425.

[4]    Quello dei Parlamenti, o Alte Corti di Giustizia, è fenomeno tipico dell'Inghilterra medievale dal quale, sul finire del secolo XIII, avrà origine un modello che prefigura le moderne istituzioni parlamentari. Tali risalenti organi assembleari    – quali il Witenagemot, prima, e, più tardi, il Magnum Concilium – affiancavano il sovrano, tra l’altro, nell’amministrazione della giustizia. La funzione giurisdizionale di organo d’appello della Camera dei Lord – della quale si iniziò a discutere sul finire del XIX secolo in relazione ai processi di razionalizzazione del sistema giudiziario (Judicature Acts del 1872 e del 1873) – è venuta del tutto meno solo nel 2005 con il Constitutional Reform Act istitutivo della Supreme Court of the United Kingdom.

[5]    Blackstone asseriva che «[t]he privileges of parliament are likewise verj large and indefinite», («i privilegi del Parlamento sono ad un tempo molto ampi e indefiniti») (W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, Book I, Chapter 2, § 225, 1765). Come annotato al testo dell’opera edito nel 1916 a San Francisco da Baxcroft-Wititxei Company, sino alla terza edizione l’Autore aggiungeva che il privilegio principale del Parlamento consiste nel fatto che non è dato a chiunque conoscerne i privilegi, ma solo al Parlamento stesso, richiamando poi l’autore l’asserzione di Sir John Fortescue, secondo il quale il Parlamento è un’istituzione così «alta e possente» – «high and mighty» nel testo originale – che i giudici non possono determinarne i privilegi.

[6]    Ci si riferisce al noto caso Stockdale v. Hansard (1839); il primo si riteneva diffamato dal secondo che, per conto della Camera dei Comuni, ne aveva pubblicato un atto con contenuti offensivi nei suoi riguardi. L’insindacabilità dell’atto, rivendicata dalla Camera, non venne riconosciuta dalla Corte, mancando, a giudizio di questa, la connessione con la funzione legislativa.

[7]   «Nel diritto» – esercitabile attraverso lo strumento del Regolamento interno di cui all’articolo 61 dello Statuto – di «determinare il modo secondo il quale ogni Camera abbia ad esercitare le proprie attribuzioni», è compreso anche quello di determinare con piena autonomia i mezzi economici ed amministrativi per l'esercizio delle attribuzioni medesime. Quindi il diritto di fissare il proprio bilancio e quello di organizzare i proprì servizi interni senza intromissione né dell'altra Camera né dell'Esecutivo; i quali diritti costituiscono due altre guarentigie necessarie alla indipendenza delle assemblee politiche». Inoltre, «posto il principio che ciascuna Camera ha diritto esclusivo di determinare nel proprio regolamento il modo in cui eserciterà le sue attribuzioni e prerogative statutarie, segue come conseguenza che ciascuna Camera possiede altresì il diritto esclusivo d'interpretare e dichiarare in ogni caso dubbio l'estensione e i limiti delle sue stesse attribuzioni e guarentigie». Così in F. Racioppi - I. Brunelli, op. cit., p. 234, p. 249 s.

[8]    Si richiama Corte di cassazione di Roma, Sezioni Unite; udienza 28 giugno 1904; Talamo e Mannajuolo c. Camera dei deputati, in il Foro Italiano, Vol. 29, Parte I, 1904, pp. 777/778 ss. In via preliminare la Corte asserisce che «[n]on implica alcun sindacato sull’esercizio della funzione legislativa, e rientra perciò nella giurisdizione dei tribunali ordinari, l’esame della questione se la Camera dei deputati sia tenuta al risarcimento di danni per avere reso impossibile o impedito, col rigetto del relativo progetto di legge, l’adempimento di un’obbligazione contrattuale verso privati, da essa anteriormente assunta». Una menzione merita anche una sentenza del Tribunale di Roma del 1925 nella quale un inciso adombra che nel rapporto d’impiego dei dipendenti del Parlamento, limitatamente al «pagamento  dello stipendio o di altre indennità», possa ravvisarsi «la sussistenza di diritti subbiettivi». (Tribunale di Roma, Udienza 19 giugno 1925; Marino c. Camera dei Deputati, in Il Foro Italiano Vol. 50, Parte I, 1925, pp. 953/954 s.).

[9]    Il giurista Carlo Lessona, nella nota a margine alla decisione del Consiglio di Stato del 9 settembre 1898 che dichiarava non costituire «atto amministrativo impugnabile davanti alla IVa Sezione del Consiglio di Stato una deliberazione della Camera dei deputati in comitato segreto, relativa alla gestione economica della Camera stessa», sosteneva la tesi contraria, ritenendo che, sebbene «il comitato segreto può essere corpo legiferante e politico» – in tal caso posto sotto la tutela delle guarentigie parlamentari – «sembra manifesto che le deliberazioni di un ramo del parlamento, emanino esse dai questori, dal Consiglio di Presidenza, o dalla Camera o dal Senato deliberanti per affari interni in comitato segreto, hanno non solo per oggetto veri atti amministrativi, ma anche carattere di una pubblica Amministrazione dello Stato (...) e se ledono l’interesse di individui violando la legge, emettono deliberazioni impugnabili avanti alla IVa Sezione». (Il Foro Italiano, Vol. 23, Parte III, 1898, pp. 107/108).

[10]  Sull’argomento si veda R. Dickmann, Autonomia costituzionale e principio di legalità a garanzia dell’indipendenza delle Amministrazioni degli organi costituzionali, in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna n. 6/2014.

[11]  R. Dickmann, op. cit., p. 1.

[12]  Funzione, questa, divenuta oggetto della specifica disposizione del comma 6 dell’articolo 12, introdotto con la riforma del Regolamento del 1998.

[13]  La materia venne inizialmente regolata dal decreto del Presidente della Camera n. 420 del 16 maggio 1988 che rendeva esecutiva la delibera dell’Ufficio di Presidenza del precedente 28 aprile con la quale veniva approvato il “Regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti della Camera”.

[14]  CEDU, Causa Savino e altri c. Italia – Seconda Sezione – sentenza 28 aprile 2009 (ricorsi nn. 17214/05,20329/05, 42113/04).

[15]  Decreto del Presidente della Camera 15 ottobre 2009, n.781.

[16]  Decreto del Presidente del Senato 1 febbraio 1988, n. 6314. Con tale atto si dava esecuzione alla delibera del Consiglio di Presidenza del 18 dicembre 1987.

[17]  Deliberazione del Consiglio di Presidenza 6 dicembre 1990, n. 123/90.

[18]  Decreto del Presidente del Senato 11 dicembre 2003, n. 9962.

[19]  A seguito della specifica previsione introdotta nel Regolamento della Camera dei Deputati con la riforma dell’anno precedente, il Decreto del Presidente del 22 giugno 1999 dava attuazione alla Delibera dell’Ufficio di Presidenza, di pari data, con la quale era stato approvato il “Regolamento per la tutela giurisdizionale relativa agli atti di amministrazione della Camera dei deputati non concernenti i dipendenti”.

[20]  Deliberazione del Consiglio di Presidenza del Senato 5 dicembre 2005, n. 180, recante il “Regolamento del Senato della Repubblica sulla tutela giurisdizionale relativa ad atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento”. Il Presidente del Senato, in forza della delega contenuta nell’atto del Consiglio, procedeva ad apportare «le necessarie modifiche di coordinamento al vigente testo unico delle norme regolamentari dell'Amministrazione» (Decreto del presidente del Senato 1 marzo 2006).

[21]  La Commissione contenziosa per le controversie con i dipendenti, secondo il dettato dell’art. 72 del delle norme regolamentari dell'Amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica, è composta da tre senatori, un consigliere parlamentare, un dipendente (scelto dal Presidente tra una terna eletta da tutti i dipendenti di ruolo), nominati tra “persone particolarmente esperte”. Cfr. I. Diaco, L’autodichia delle Camere parlamentari, Canterano, Aracne Editrice, 2018.

[22]  Si veda in proposito, ex plurimis, il parere del 5 luglio 2012 del C.S.M., espresso a valle dell’emanazione del D.L. 83/2012 che riformulava l’art. 345 c.p.c., ove si afferma che «il giudizio di secondo grado in appello, nell’attuale sistema normativo italiano è disciplinato quale nuovo processo con effetto pienamente devolutivo, cosicché realizza una sostanziale duplicazione del giudizio di primo grado, sia pure con limiti relativi alla proposizione di domande nuove ed alla richiesta di nuova attività istruttoria» Si veda anche G. Malinconico, I “codici di procedura” dell’autodichia della Camera dopo la decisione n. 14/2009 della corte europea dei diritti dell’uomo. Guida alla lettura delle modifiche dei regolamenti di tutela giurisdizionale della camera dei deputati, in federalismi.it, n. 22/2009.

[23]  In proposito si veda L. Brunetti, Autodichia delle Camere: una “deroga” a un principio “che non conosce eccezioni”?, in Osservatorio sulle Fonti, n. 2/2018.

[24]  Ordinanza della Corte di Cassazione del 6 maggio 2013, n. 136.

[25]  Si accede «alla tesi che l’autodichia sia un potere dello Stato, seppur essa si eserciti nell’ambito della competenza dell’ordinamento parlamentare». La Consulta «lasciava chiaramente intendere che l’autodichia fosse l’esercizio di “giurisdizione”, ma ancora non si sapeva, se “piena”, oppure soltanto (“materiale”, per usare l’espressione di Mortati; “sostanziale”, per usare la terminologia di Benvenuti, ovvero) “oggettiva”, come ci dirà la Corte, nel dicembre 2017». Così in L. Brunetti, op. cit., p. 7.

[26]  La sentenza citata è la n. 379 del 1996.

[27]  Ordinanza della Corte di Cassazione del 19 dicembre 2014, n. 26934.

[28]  ivi

[29]  Sul punto si veda S. Gattamelata, La compatibilità dell’autodichia con il sistema repubblicano: parole alla Consulta, in Amministrativ@mente, Fascicolo 1-2/2016.

[30]  «Il che però rende, come è facile intuire, non inattaccabile l’argomentazione della Corte (...) in quanto sfere di autonomia normativa spettano, nell’ordinamento italiano, anche ad altri organi  (si pensi al Consiglio Superiore della Magistratura, o ad alcune autorità indipendenti), senza che per ciò solo sia neppure immaginabile la costruzione di forme di giurisdizione domestica a favore del personale da essi dipendente, che per la Corte resta riservata solo alle Camere, alla Presidenza della Repubblica e alla stessa Corte Costituzionale». Così in N. Lupo, Sull’autodichia la Corte Costituzionale, dopo lunga attesa, opta per la continuà (nota a Corte Cost. n. 262 del 2017), in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna n. 12/2017, p. 4.

[31]  «In sostanza la Corte, pur riconoscendo il fondamento costituzionale – esplicito o implicito – dell’autodichia come svolgimento costituzionalmente garantito del “momento applicativo” dell’autonomia degli organi costituzionali per quanto concerne il rapporto di lavoro dei propri dipendenti, certamente non ha voluto giustificare l’autonomia ad essa sottesa come clausola di soluzione delle garanzie giuridiche dei predetti dipendenti, che discendono dall’ordinamento generale e dalla Costituzione in primis». (R. Dickmann, op. cit., p. 9).

[32]  «Questo disallineamento produce un primo effetto distorsivo, poiché favorisce la costruzione di un ordinamento “interno”, di una monade politica, avulsa dalla cornice di legalità costituzionale con il rischio del presentarsi di quella che autorevole dottrina ha definito la “teologia dei corpi separati”». (G. Marolda, Fumata nera per il punto di equilibrio tra l’autonomia costituzionale delle Camere e del Presidente della Repubblica e il potere giudiziario. Breve nota alla sentenza n. 262/2017 della Consulta, in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna n. 2/2018, p. 2).

[33]  Può anche dirsi, con altre parole, che «è speciale il giustificativo costituzionale dell’autodichia e, come tale, non collide con l’art. 102, secondo comma, Cost., mentre non è speciale la giurisdizione domestica».(R. Dickmann, op. cit., p. 10).

[34]  Con questa sentenza, a parere di alcuni commentatori, la Consulta, sulla scia della sentenza n. 120, con una scarna argomentazione, sembra volere individuare ulteriori possibili modalità di accesso al sindacato di legittimità costituzionale, tornando poi, con la sentenza n. 262, ricca di ampi excursus argomentativi, a posizioni di assoluta chiusura, riespandendo la sfera di operatività dell’autodichia. In proposito si veda L. Castelli, Il “combinato disposto” delle sentenze n. 213 e n. 262 del 2017 e i suoi (non convincenti) riflessi sull’autodichia degli organi costituzionali, in AIC - Osservatorio Costituzionale, Fasc. 01/2018).

[35]  Sull’argomento cfr N. Lupo, op. cit., p. 2 s.

[36]  La Corte Costituzionale riconosce sussistenti quelli che, in via interpretativa, si ritengono essere i requisiti, soggettivo ed oggettivo, previsti dall’articolo 23 della Legge n. 87/1953, secondo un criterio ermeneutico con il quale la giurisprudenza della Consulta «ha più volte interpretato i due requisiti – soggettivo (il giudice) e oggettivo (il giudizio) – richiesti dalla legge per poter sollevare una questione incidentale di legittimità costituzionale, anche mediante letture non restrittive di entrambi, al fine di ridurre le aree normative sottratte al controllo di costituzionalità» (Corte Cost., sentenza n. 164 del 2008). La Corte, nella stessa sentenza, rivedendo il proprio precedente orientamento, ha ritenuto necessaria la contemporanea presenza dei due requisiti. Sull’argomento si veda L. Castelli, op. cit.

[37]  è di qualche attinenza, per quanto, in generale, relativo al prevalere di superiori interessi su quelli del privato, una precedente sentenza CEDU che aveva già riconosciuto «[...] la giuridica rilevanza dell’interesse dello Stato a limitare l’accesso ad un tribunale per talune categorie di lavoratori» e che «spetta innanzitutto agli Stati contraenti – ed in particolare ai Parlamenti nazionali, e non alla Corte stessa – identifcare espressamente i settori della funzione pubblica che implicano l’esercizio di prerogative discrezionali inerenti alla sovranità dello Stato, di fronte alle quali l’interesse individuale deve cedere» (Sentenza del 19 aprile 2007, Vilho Eskelinen ed altri c. Finlandia, così richiamata in G. Pelella, La giurisdizione interna della Camera dei deputati tra principi costituzionali e principi sopranazionali. L’autodichia alla prova della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Il Parlamento della Repubblica: organi, procedure, apparati, Camera dei deputati, Vol. 1, Roma, Camera dei deputati, 2013, p. 265).

[38]  «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge». (Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, articolo 6, comma 1).

[39]  La CEDU ritiene sussistente e conoscibile la “base legale” richiesta dalla Convenzione, rimanendo però estraneo alla formulazione del suo giudizio ogni criterio di proporzionalità atto a contemperare i due interessi in gioco, l’autonomia del Parlamento e la tutela giurisdizionale dei diritti. Sull’argomento si veda B. Randazzo, L’autodichia della Camera e il diritto al giudice: una condanna a metà, in Giornale di diritto amministrativo, n. 10/2009, pp. 1051-1059.

[40]  Sarà anche a seguito dei rilievi di tale natura mossi dalla Corte Europea all’organo di appello interno che la Camera rivedrà il proprio Regolamento approvandolo il 7 luglio 2009. Si prevedeva, come già illustrato in precedenza, l’istituzione di organi interni di primo e di secondo grado per i ricorsi aventi ad oggetto lo stato giuridico, il trattamento economico e di quiescenza e la disciplina dei dipendenti della Camera.

[41]  Ordinanza della Corte di Cassazione del 6 maggio 2013, n. 136.

[42]  Comma inserito dall'art. 1, L.Cost. 23 novembre 1999, n. 2.

[43]  «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità».

[44]  Si può menzionare, in proposito, il Privilege of Parliament Act 1512, con il quale il Parlamento inglese rivendicava come propria competenza giudicare della composizione del Parlamento contro i tentativi di controllare la House of Commons messi in ato da Giacomo I che, in un complessivo tentativo di invalidare le elezioni, si era fatto promotore dell’annullamento, ad opera di una corte locale, della designazione di Francis Goodwin.

[45]  Leone, Mortati, Ambrosini e altri Costituenti rappresentarono il loro favore per una diversa soluzione, in particolare quella di un organo maggiormente connotato in senso giurisdizionale vero e proprio.

[46]  Il principio di legalità, secondo il quale qualunque azione dei pubblici poteri deve trarre legittimazione da una legge, non trova esplicitazione diretta nella Costituzione. Parte della dottrina si è espressa per la tesi della costituzionalizzazione implicita del principio di legalità, mentre dalla giurisprudenza costituzionale questo è ritenuto un principio generale dell’ordinamento, anche se non recepito da una specifica norma della Carta.

[47]  Il disegno di legge, presentato nella XVII Legislatura, riformulava così l’articolo 66 Cost.: «Sui titoli di ammissione dei componenti delle Camere e sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità giudica la Corte Costituzionale, nelle forme e nei termini stabiliti dalla legge ordinaria».

[48]  Anche questo disegno di legge risale alla XVII Legislatura e, parimenti, novella l’articolo 66 Cost. Vi si stabilisce che «Decorsi dodici mesi dallo svolgimento delle elezioni o dal subentro nel seggio, senza che l'Assemblea della Camera competente si sia pronunciata ai sensi del primo comma, i ricorsi già presentati contro la proclamazione di un parlamentare sono riassunti dagli interessati dinanzi alle sezioni unite civili della Corte di cassazione. Il giudicato di accoglimento ha valore di proclamazione dell'avente diritto». Inoltre veniva introdotta la previsione che «Contro le deliberazioni di cui al primo e al secondo comma, l'interessato può proporre ricorso entro quindici giorni alla Corte Costituzionale».

[49]  G. Buonomo, Paradossi dell’autodichia, in mondoperaio - saggi e dibattiti, n. 4/2017, p. 47.

[50]  Senato della Repubblica, XVII Legislatura, Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, Resoconto stenografico n. 2, Discussione in seduta pubblica della seguente elezione contestata: senatore Augusto Minzolini, proclamato nella regione Liguria, 104° seduta, 18 luglio 2016.

[51]  G. Buonomo, op. cit., p. 46.

[52]  M. Gorlani, Intorno ad alcune vicende recenti sul rapporto “necessitato” tra applicazione della legge e autodichia parlamentare, in Costituzionalismo.it, Fascicolo n. 1/ 2017 – Commenti – Parte III, p. 35 s.

[53]  V. Onida, Una votazione «contra legem», Il Sole 24Ore, 20 marzo 2017.

[54]  S. Ceccanti, Ma le Camere hanno potere di giudizio, Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2017.

[55]  Leggi 4 agosto 1993 n. 276 (Norme per l’elezione del Senato della Repubblica) e n. 277 (Nuove norme per l’elezione della Camera dei deputati).

[56]  G. Buonomo, op. cit., p. 46.

[57]  A. Pisaneschi, Giustizia costituzionale e leggi elettorali: le ragioni di un controllo difficile, in Quaderni costituzionali, a. XXXV, n. 1, marzo 2015, p.135.

[58]  Ex plurimis AA.VV., Dibattito sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 2014 dichiarativa dell’incostituzionalità di talune disposizioni della l. n. 270 del 2005, in AIC - Osservatorio Costituzionale, Fasc. 02/2014.

[59]  «La sentenza della Corte lascia ampi margini di intervento al legislatore. In linea di prima approssimazione può dirsi che tutti i principali modelli attualmente in discussione sono tendenzialmente compatibili con i risultati della decisione» come anche «la finalità di “agevolare la formazione di una maggioranza parlamentare” è un “obiettivo costituzionalmente legittimo”. Il vizio riscontrato sta, invece, nella sproporzione tra la scelta di adottare un sistema a base proporzionale e l'entità della distorsione che si realizza con la torsione maggioritaria determinata dal premio» (G. Guzzetta, La sentenza n. 1 del 2014 sulla legge elettorale a una prima lettura, in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna n. 1/2014).

[60]  Legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica).

[61]  D.P.R. 361/1957 (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati).

[62]  A giudizio di alcuni commentatori, il “filtro” della rilevanza costituzionale della questione posta, anche sulla base di considerazioni di diritto comparato, ha senso in caso di proposizione diretta del ricorso e «non può essere trasposto nel giudizio incidentale, perché in questo secondo giudizio il "filtro" è consustanziale al meccanismo stesso dell'incidentalità» dal momento che «la rilevanza salda la proposizione della questione di legittimità alla “concretezza” del processo principale». Così in R. Bin, Chi è responsabile delle «zone franche»? Note sulle leggi elettorali davanti alla Corte, in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna n. 6/2017.

[63]  V. Onida, in AA,VV, op. cit., p. 50.

[64]  G. Comazzetto, Fictio litis e azioni di accertamento del diritto costituzionale di voto dopo la sentenza 35/2017, in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna n. 6/2017.

[65]  F. Sorrentino, in AA,VV, op. cit., p. 68.

[66]  R. Bin, op. cit.

[67]  P. Zicchittu, op. cit., p. 394.

[68]  L’affermazione della Corte Costituzionale «pone una serie di interrogativi. Il primo è quello relativo a quanto previsto dall'art. 66 Cost. in tema di giudizio sui titoli di ammissione e sul procedimento elettorale (cfr. 115 del 1972 e 259 del 2009) e, in particolare, alla funzione del giudizio di convalida. Se, infatti, il procedimento elettorale e i relativi rapporti si ritenessero "esauriti" ai sensi dell'art. 136 Cost. e 30 della legge n. 87 del 1953, sarebbe da ritenere inammissibile la possibilità di rimettere in questione quei rapporti in base ad un intervento di un successivo organo, quale la giunta per le elezioni» (G. Guzzetta, op. cit.).

[69]  A. lo Calzo, La convalida delle elezioni e gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 2014, in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna n. 3/2015, p. 2.

[70]  «Non sarebbe corretto in questi casi parlare di condizione sospensiva perché, come si è detto, la proclamazione è di per sé atto perfetto, né di condizione risolutiva perché dalla mancata convalida non discende alcun effetto sulla carica e le funzioni svolte dal parlamentare, né l’annullamento espresso avrà effetti retroattivi sugli atti posti in essere dal parlamentare» (A. lo Calzo, op. cit., p. 3).

[71]  F. Sorrentino, op. cit., p. 72.

[72]  ivi.

[73]  G. Guzzetta, op. cit.