• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Gio, 14 Feb 2019

La Corte europea dei Diritti dell´Uomo certifica (e condanna) il fallimento delle autorità italiane nel caso Ilva

Modifica pagina

Stefano Solidoro


Con la pronuncia nel caso Cordella, in risposta al ricorso promosso da centinaia di residenti della provincia di Taranto, il Giudice di Strasburgo stigmatizza senza mezzi termini l´operato dell´Italia nella gestione della crisi ambientale ed economica, generata dal colosso siderurgico nel capoluogo ionico.


Sommario: 1. Premessa. 2. Dall’ Italsider all’ Ilva. Le inchieste giudiziarie e l’intervento dello Stato. 3. Cordella e altri c. Italia. La violazione dell’art. 8 CEDU. 3.1. (segue) La violazione dell’art. 13 CEDU. 4. Qualche spunto di riflessione.

1. Premessa.

Negli ultimi anni, le vicissitudini del polo siderurgico tarantino “Ilva” hanno avuto una rilevante eco sulla cronaca politica, economico-sociale e infine giudiziaria del nostro Paese. All’interno di tale controversa vicenda, ben lungi dal considerarsi conclusa sotto ogni aspetto, il 24 gennaio 2019 è una data da ricordare.

Chiamata in causa dall’iniziativa di un nutrito gruppo di residenti del capoluogo pugliese, infatti, per la prima volta la Corte europea dei Diritti dell’Uomo è intervenuta sulla questione Ilva, sancendo senza mezzi termini la responsabilità dello Stato italiano in relazione agli artt. 8 e 13 della Convenzione EDU, che presidiano rispettivamente il diritto alla vita privata e familiare nonché quello ad un ricorso effettivo. 

La decisione[1], per quanto assunta nella ordinaria composizione camerale e dunque ancora soggetta ad eventuale gravame dinanzi alla Grand Chambre, riveste un’indubbia importanza stanti i più che prevedibili riflessi sull’opinione pubblica, sempre più attenta all’operato della Corte di Strasburgo.

2. Dall’ Italsider all’ Ilva. Le inchieste giudiziarie del 2012 e l’intervento dello Stato. 

È opportuno illustrare brevemente gli antefatti storici più rilevanti della questione.

All’inizio degli anni sessanta, un insieme di fattori geografici, logistici e socio-occupazionali convincono la dirigenza statale dell’allora “Ilva Alti Forni e Acciaierie d'Italia” – dal ’64, “Italsider” - a fare di Taranto il sito del più grande complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa. Nell’arco di due decenni, il complesso industriale tarantino è stato oggetti di notevoli investimenti, vedendo quasi triplicare la propria superficie, prima che la crisi delle partecipazioni pubbliche negli anni Ottanta imponesse la privatizzazione dell’azienda metallurgica, con il ritorno alla denominazione “Ilva” all’indomani del passaggio di proprietà dell’impianto al Gruppo Riva, nel 1995. Sin da allora, nonostante l’andamento incerto del settore, l’acciaieria è rimasta centrale per l’economia del capoluogo pugliese e non solo, come testimonia l’enorme indotto che intorno all’Ilva orbita e che da questa tutt’oggi dipende.

Con il passare del tempo, l’incidenza dello stabilimento industriale su ambiente e salute pubblica diventa argomento sempre più pressante all’interno della comunità locale, allarmata dall’anomala incidenza di talune gravi malattie cardiovascolari e respiratorie nella popolazione tarantina, rispetto alla media nazionale. Il nesso tra patologie e sostanze nocive risultanti dall’attività produttiva dell’acciaieria viene dapprima ombreggiato da alcuni importanti studi dell’Istituto Superiore di Sanità[2], salvo poi essere ribadita dalla ARPA Puglia, che con i suoi rapporti porta nel 2011 il Ministero dell’Ambiente a concedere all’Ilva un’Autorizzazione Integrata Ambientale dai caratteri molto restrittivi, condizionata alla drastica riduzione delle sostanze inquinanti prodotte. Nel mentre, tuttavia, si è oramai attivata la macchina della giustizia. Sulla base di due perizie, chimiche ed epidemiologiche, ordinate dalla Procura di Taranto nell’ambito di una maxi inchiesta (“Ambiente svenduto”) per disastro ambientale e altri reati nei confronti della dirigenza Ilva, nell’estate del 2012, il Gip di Taranto ordina il sequestro preventivo senza facoltà d’uso dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico.

Inevitabile a questo punto l’esplosione del caso a livello nazionale, con la reazione delle autorità pubbliche che non si fa attendere. Innanzitutto, con il d.l. 207/12, convertito con legge 24 dicembre 2012 n. 231 (c.d. “Salva Ilva”) viene concessa la facoltà d’uso dei beni sequestrati, così da assicurare il proseguo della produzione industriale[3]. È l’inizio di una serie convulsa di provvedimenti normativi che decretano il commissariamento dell’Ilva[4] nonché l’immunità penale per i commissari e per i futuri acquirenti del complesso[5], in relazione alle condotte da questi poste in essere nell’attuazione del piano di risanamento ambientale dell’azienda: peraltro, anche la deadline di tale attuazione viene più volte procrastinata tramite decreto[6], causando un feroce scontro istituzionale con gli enti territoriali locali, sfociato dinanzi al giudice amministrativo.

Va aggiunto come i tentativi dello Stato italiano di porre rimedio alla questione Ilva siano stati stigmatizzati anche dall’Unione europea, che nel 2013 ha aperto una procedura di infrazione – tuttora pendente - contro il nostro Paese, reo di aver violato la Direttiva sulle Emissioni Industriali[7] con una gestione insufficiente della crisi: senza dimenticare che, in tempi più recenti[8], la Commissione europea ha bocciato il sistema di aiuti pubblici con il quale il colosso siderurgico è stato “tenuto in vita” sino alla cessione al magnate indiano Arcelor Mittal.

3. Cordella e altri c. Italia. La violazione dell’art. 8 CEDU.

Di tutto quanto su premesso i giudici di Strasburgo danno atto nella premessa della sentenza in commento[9], che anzi non trascura di esaminare nel dettaglio le istanze di tutela dell’ambiente e della salute pubblica emerse a più riprese nel corso degli anni, così come il travagliato iter legislativo ed amministrativo della vicenda.

Originato da due ricorsi del 29 luglio 2013 e del 21 ottobre 2015, poi riuniti, il giudizio dinanzi alla Corte EDU vede lo Stato italiano accusato di aver violato gli artt. 2 (diritto alla vita), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione. Superata una fitta schiera di eccezioni preliminari formulate dal Governo italiano, tuttavia, la Camera decide di non esaminare la doglianza attinente l’art. 2, ritenendola assorbita nella censura sub articolo 8: è sotto questo profilo, dunque, che la Corte si preoccupa di ricomprendere le prospettate lesioni al bien-être individuale e collettivo, riferibili alla mancata adozione di idonei interventi di contenimento ambientale da parte delle autorità. Tanto più che, come gli stessi ricorrenti si premurano di sottolineare, oggetto del contendere non è la dimostrazione di un puntuale esito patologico in capo ad uno o più soggetti, quanto piuttosto “…le mancanze dello Stato nel prendere le misure idonee a proteggere la salute e ambiente...” della popolazione[10].

Il Giudice europeo, pur sottolineando come “…né l’articolo 8 né alcuna altra disposizione della Convenzione garantisce specificatamente una protezione dell’ambiente in quanto tale…” ribadisce quindi che “… l’efficacia nefasta sulla sfera privata o familiare di un individuo…”, scaturita da un fenomeno di degradazione ambientale, senza alcun dubbio integra una violazione dell’art. 8 comma 1 CEDU quando è tale da “…intaccare il benessere delle persone e privarle del godimento del proprio domicilio…[11].

Nel caso di specie, la Corte ritiene che il nesso tra attività industriale e deterioramento del quadro clinico generale nel capoluogo ionico sia difficilmente contestabile, stanti i numerosi studi condotti negli anni da qualificati soggetti istituzionali – Ministero della Salute in primis – nonché da enti statali e regionali. Su queste basi, il Giudice di Strasburgo non può che constatare da un latoil prolungarsi di una situazione di inquinamento ambientale pericolosa per la salute dei ricorrenti e, più in generale, per quella dell’insieme della popolazione residente nelle zone a rischio…”, dall’altro il fallimento dello Stato italiano nel “…prendere tutte le misure necessarie ad assicurare la protezione effettiva del diritto degli interessati al rispetto della loro vita privata…”: come risultato, la violazione dell’art. 8 comma 1 consegue dal mancato raggiungimento di un “giusto punto di equilibrio” tra l’interesse dei cittadini e l’interesse (economico) della collettività a veder proseguita l’attività industriale[12].

Contribuiscono a corroborare l’opinione della Corte anche gli interventi da parte della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino e dell’ISDE (International Society of Doctors for Environment), che delineano le criticità nell’azione statale dal punto di vista giuridico-amministrativo e medico-scientifico[13].

3.1. (segue). La violazione dell’art. 13 CEDU.

Decisamente più scarna la motivazione attraverso cui la Camera giunge a rilevare il vulnus al diritto ad un ricorso effettivo, consacrato all’art. 13 della Convenzione.

In modo alquanto lineare, il giudice sovranazionale si limita a ricordare come lo scopo della su menzionata disposizione sia quello di fornire al richiedente “… un mezzo attraverso cui [] porre rimedio, a livello nazionale, alle violazioni dei propri diritti garantiti dalla Convenzione, senza essere costretti ad utilizzare il meccanismo internazionale del ricorso dinanzi alla Corte[14].

Occorrerebbe pertanto individuare, all’interno dell’ordinamento nostrano, uno strumento di natura giudiziaria o amministrativa concretamente idoneo a permettere la decontaminazione delle zone inquinate. In tal senso, la difesa del Governo italiano offre alla Corte EDU un ventaglio di opzioni astrattamente percorribili dai ricorrenti, che spaziano dall’esercizio dell’azione civile in sede penale al giudizio amministrativo di impugnazione, dal ricorso ex 700 c.p.c. alla class action di cui al decreto Brunetta, fino alle particolari ipotesi di azioni a seguito di danno ambientale previste agli artt. 309 e ss. del Codice dell’Ambiente.

Nessuna delle soluzioni prospettate regge però il vaglio del giudice di Strasburgo che, mostrando espressamente di aderire alla tesi dei ricorrenti, denota l’efficacia paralizzante della decretazione d’urgenza nei confronti di qualsiasi tentativo di far valere sul piano civile, amministrativo o penale le legittime aspettative di tutela avanzate dagli abitanti della provincia di Taranto. Da qui, l’inevitabile lesione dell’art. 13, a fronte di un palese vuoto di garanzia che non può essere colmato in via pretoria, quanto piuttosto da un intervento diretto del legislatore.

4. Qualche spunto di riflessione.

Lo si è già affermato in apertura: la pronuncia della Corte EDU è destinata a far parlare molto di sé. Ciò non tanto per la sua rilevanza sul piano “esterno”, posto che è lo stesso giudice ad escludere l’applicazione della procedura di pilot sentencing nella vicenda di specie[15], con ciò ridimensionando la portata della condotta dello Stato italiano in riferimento al diritto convenzionale. Ma è sul piano interno che la sentenza in commento esplica (rectius, potrebbe esplicare) tutta la sua forza dirompente, e ciò ben al di là del carattere di "equa soddisfazione" che la constatazione della violazione da parte dello Stato italiano esplica, ex art. 41 CEDU, per i ricorrenti.

Difatti, le argomentazioni della Corte, evitando con perizia di addentrarsi nel campo minato dell’accertamento di un nesso eziologico tra emissioni e singole patologie, denunciano invece un quadro sintomatico di grave pregiudizio per l’incolumità pubblica, dinanzi al quale non è ammissibile rinunciare ad approntare misure efficaci ed urgenti. Sembra qui che la Corte, senza evocarlo, utilizzi il ben noto principio di precauzione[16], da sempre centrale nel diritto ambientale europeo e non solo. Ma a prescindere da ciò, è indubitabile come a venire certificato è il fallimento dello Stato nella - per vero delicata - opera di bilanciamento tra salute, ambiente e interesse economico nazionale.

Se così è, all’interno del mai sopito dibattito sul caso Ilva, l’intervento del giudice di Strasburgo può naturalmente dare ulteriore linfa alla posizione di chi propugna come unica soluzione della crisi il completo smantellamento del polo siderurgico tarantino. Ma ancora, da un punto di vista prettamente giuridico, le parole della Corte EDU sono forse in grado di meglio sostenere eventuali futuri ricorsi alla Corte costituzionale, già sollecitata nella vicenda[17]: in altri termini c’è da chiedersi se, al netto di una così autorevole stroncatura all’operato delle autorità italiane, la Consulta non possa fare altro che superare il proprio tradizionale self-restraint nel sindacare la discrezionalità del legislatore, parlamentare o delegato, atteggiamento sostenuto nella prima pronuncia sul caso Ilva (la n. 85 del 2013), ma poi significativamente “sconfessato” nella recente sentenza 58/18.

Ricordiamo che, in quest’ultima decisione, il Giudice delle Leggi è stato chiamato in causa per vagliare la legittimità dell’art. 3 d.l. 92/15, disposizione che ripristinava la facoltà d’uso di un altoforno dell’acciaieria precedentemente sequestrato a seguito del decesso di un lavoratore, causato dalla mancata predisposizione di idonee misure di sicurezza. Nonostante la forte analogia con il caso analizzato nel 2013, stavolta la Corte rileva che “…il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.)[18].

Valutata come indizio di un nuovo corso della giurisprudenza costituzionale in materia di bilanciamento tra diritto alla salute e interessi economici[19], la suddetta sentenza della Consulta trova oggi un esplicita conferma nonché un saldo referente nella pronuncia Cordella, da cui pertanto si auspica possa derivare una maggiore attenzione delle autorità italiane per il martoriato territorio della provincia di Taranto.

 

[1] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sezione Prima, Sentenza Cordella e altri c/ Italia, 24 gennaio 2019.

[2] Ci si riferisce in particolare ai rapporti SENTIERI (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio Inquinamento) del 22 ottobre 2012 e del 14 maggio 2014, entrambi consultabili all’indirizzo http://www.salute.gov.it.  Va segnalato, inoltre, come nel 2018 un ulteriore rapporto SENTIERI, non ancora accessibile per intero, abbia nella sostanza confermato la persistenza della contaminazione ambientale in atto nel SIN (Sito di Interesse Nazionale) tarantino, con tutto ciò che ne consegue in termini di mortalità per talune gravi patologie, specie di natura oncologica.

[3] Sul punto la Consulta, sollecitata dal GIP di Taranto, con la sent. n. 85 del 9 aprile 2013 ha ritenuto non sussistere profili di illegittimità costituzionale della legge 231/12, sollevati dal GIP di Taranto in relazione agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 27, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112, 113 e 117, primo comma, della Costituzione.

[4] D.l. 4 giugno 2013, n. 61.

[5] D.l. 5 gennaio 2015, n. 1, D.l. 27 giugno 2015, n. 83, D.l. 9 giugno 2016, n. 98.

[6] D.l. 4 dicembre 2015, n. 191, D.l. 30 dicembre 2016, n. 244, D.l. 20 giugno 2017, n. 91.

[7] IED (Industrial Emissions Directive), ovvero la Direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento).

[8] Ci si riferisce alla decisione del 20 gennaio (http://ec.europa.eu/competition/state_aid/cases/262365/262365_1735693_57_2.pdf) con la quale la Commissione europea ha ingiunto all’Italia di recuperare due finanziamenti erogati all’Ilva s.p.a., ritenendoli aiuti di Stato illegali.

[9] Sentenza Cordella, In Fatto, § 8-91.

[10] Sentenza Cordella, In Diritto, § 142.

[11] Ibidem, § 100, 101 e 157.

[12] Ibidem, § 172-174.

[13] In particolare, la Relazione ISDE è reperibile all’indirizzo https://www.peacelink.it/ecologia/docs/5229.pdf.

[14] Sentenza Cordella, § 175

[15] Ibidem, § 177-182. La “sentenza pilota” è una particolare forma di pronuncia tramite la quale la Corte EDU, spesso in presenza di plurimi ricorsi vertenti sulla medesima tematica, sanziona un problema strutturale nella legislazione dello Stato, non limitandosi a condannarlo ma spingendosi a indicare, nel dispositivo, le misure più adatte che lo Stato stesso deve porre in essere per porre rimedio alla violazione del diritto convenzionale. Un caso paradigmatico di utilizzo del pilot sentencing riguarda proprio il nostro Paese, con la pronuncia Torreggiani del 2013, in cui l’Italia si è vista addebitare gravi insufficienze nel sistema penitenziario, con riferimento al noto problema del sovraffollamento carcerario.

[16] Art. 191 TFUE. Come noto, il principio de quo impone l’utilizzo di misure cautelative in materia ambientale, in situazioni di rischio nelle quali non sia possibile avere (o attendere) una valutazione scientifica decisiva, tale da escludere eventuali pregiudizi per la salute umana, naturale e vegetale.

[17] C. cost. sentenza 9 aprile 2019, n. 85; sentenza 7 febbraio 2018, n. 58.

[18] C. cost., sentenza 58/18, § 3.3. del Considerato in Diritto.

[19] G. Amendola, Ilva e il diritto alla salute. La Corte costituzionale ci ripensa? in www.questionegiustizia.it.