Pubbl. Lun, 14 Gen 2019
È responsabile l’Amministrazione penitenziaria in caso di suicidio del detenuto
Modifica paginaCon l’ordinanza n. 30985/18 del 30/11/2018, la Suprema Corte ha affermato la responsabilità civile dell’Amministrazione penitenziaria nel caso di suicidio annunciato di un detenuto. Sussiste, dunque, un nesso causale tra il comportamento omissivo del personale dell’istituto penitenziario in punto di sorveglianza e l´evento.
Il casus decisius:
In seguito al suicidio annunciato di un detenuto nel carcere di Vibo Valentia, i suoi prossimi congiunti avevano adito il Tribunale competente affinché acclarasse la responsabilità civile del Ministero della Giustizia. Gli istanti deducevano in fatto che l’amministrazione penitenziaria aveva principalmente sottovalutato la gravità della situazione, non considerando che il detenuto aveva già manifestato in precedenza le proprie intenzioni suicide, a seguito del provvedimento restrittivo della sua libertà personale.
Sulla scorta di tali motivazioni, l’iniziativa giudiziaria promossa dai congiunti del suicida risultava vincente in primo grado e, pertanto, il Ministero veniva condannato a risarcire il danno non patrimoniale cagionato; tuttavia, la Corte d’Appello di Catanzaro, adita dal Ministero della Giustizia in sede di gravame, dava ragione a quest’ultimo, deducendo che l’evento-suicidio non fosse né prevedibile né prevenibile, definendolo come “eccezionale”.
I congiunti del detenuto, pertanto, si vedevano costretti ad adire la Suprema Corte che, sulla base delle motivazioni proposte, accoglieva il ricorso e cassava la sentenza d’appello con rinvio.
In particolare, gli Ermellini, con la sopra citata ordinanza, deducevano che l’amministrazione penitenziaria in questione non aveva adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento e che, per di più, il detenuto “non fu sottoposto ad alcuna osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione e ciò in quanto al momento dell’ingresso in carcere, non c’erano né l’educatore, né lo psicologo”. A suffragio della decisione vi era stata un’ulteriore e preponderante circostanza non valutata dal Giudice di secondo grado e cioè l’esistenza di una precedente disposizione del Pubblico Ministero, il quale aveva imposto il regime di detenzione comune al detenuto, nonché il “controllo a vista”, a seguito delle dichiarazioni suicidarie del soggetto.
Sul piano causale, la Cassazione ha sancito che "è incontestabile che ove il (detenuto) fosse stato sottoposto a regime di detenzione comune, come peraltro espressamente richiesto dal pubblico ministero, i suoi intenti suicidari sarebbero stati impediti o comunque resi di assai più ardua realizzazione dalla presenza di altri detenuti.”
Analisi giurisprudenziale
Alla luce di quanto sancito dalla Suprema Corte e, in generale, dalla comune giurisprudenza intervenuta finora sulla delicata questione dei suicidi in carcere, è da ravvisarsi un principio generale di diritto, valido in qualsiasi contesto (anche al di fuori di quello penitenziario), secondo cui le esigenze di sorveglianza vanno necessariamente bilanciate con le esigenze di “cura” del detenuto, onde evitare il verificarsi di spiacevoli eventi.
Il compito dell’amministrazione penitenziaria, dunque, non deve essere soltanto quello di assicurare il controllo, ma di attuare altresì quelle misure volte a salvaguardare il diritto alla vita e, per l’effetto, a scongiurare un pericolo che, di sovente, diventa l’unica via di uscita per alcuni detenuti, non supportati da valido sostegno psicologico, seppur previsto dall’ordinamento giuridico.
In effetti, l’art. 23 del D.P.R. n. 230 del 2000 - Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della liberta - dispone espressamente che “Un esperto dell'osservazione e trattamento effettua un colloquio con il detenuto o internato all'atto del suo ingresso in istituto, per verificare se, ed eventualmente con quali cautele, possa affrontare adeguatamente lo stato di restrizione. Il risultato di tali accertamenti è comunicato agli operatori incaricati per gli interventi opportuni e al gruppo degli operatori dell'osservazione e trattamento di cui all'art. 29."
In via generale, la suddetta regolamentazione normativa prevede, altresì, la Carta dei diritti e dei doveri del detenuto e dell'internato, ovverosia un estratto di disposizioni nazionali e sovranazionali (tra cui la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), attinenti ai diritti e ai doveri del detenuto e dell’internato e contenenti la disciplina ed il trattamento penitenziario. La Carta, disponibile anche online in più lingue, viene di regola consegnata a ciascun detenuto o internato nel corso del primo colloquio con il direttore o con un operatore penitenziario all’atto del suo ingresso in istituto. La sua ratio è quella di consentire una completa cognizione nell’esercizio dei diritti ed assicurare la maggiore consapevolezza delle regole che conformano la vita nel contesto carcerario, come: i doveri di comportamento e le relative sanzioni, l'esercizio del diritto allo studio, le attività culturali e sportive, le possibilità lavorative e di formazione offerte dall'Amministrazione penitenziaria, le norme che regolano i rapporti con i familiari e la società esterna, le misure alternative alla detenzione e quelle premiali.
Tuttavia, se in via di principio le linee guida normative mirano al rispetto dei diritti del detenuto, nella prassi, come accaduto nel caso in esame, si rende quanto mai necessario l’apporto dell’Amministrazione penitenziaria nell’assicurare il completo esercizio degli stessi. Invero, con sentenza n.41474 del 7 ottobre 2013, la Suprema Corte, intervenendo in tema di tutela dei diritti dei detenuti, ha stabilito che: “L’attuale sistema di tutela giurisdizionale dei detenuti nei confronti dei provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria non risulta disciplinato compiutamente dalla Legge e in assenza di un efficace intervento legislativo” spetta al magistrato di sorveglianza “impartire disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati”.
Conclusioni
In conclusione, si può sostenere indubbiamente che le gravi omissioni perpetrate dall’amministrazione penitenziaria in situazioni “di rischio” comportano una responsabilità colposa della stessa, in quanto sussiste la violazione di un obbligo giuridico vincolante.
Anche per questo motivo, si lascia apprezzare la condanna del Ministero della Giustizia, in veste di responsabile civile, per il suicidio del detenuto, in quanto - ci si auspica - idonea a stimolare una riorganizzazione delle pratiche penitenziarie, che devono tendere ad una migliore protezione del diritto alla vita e alla salute delle persone soggette allo stato di restrizione.