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Pubbl. Mer, 6 Giu 2018

Il diritto alla vita nella giurisprudenza della CEDU: il caso Lopes de Sousa Fernandes c. Portogallo

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Salvatore Aromando


Traduzione della decisione sul ricorso n. 56080-13 della Grande Camera.


Questo contributo è una traduzione della sentenza CEDU pronunciata nel procedimento n. 56080/13.
Commento introduttivo e traduzione a cura di Salvatore Aromando.

***

Sommario: 1 Introduzione; 2. I fatti; 2.1. Le circostanze del caso; 2.2. La serie di eventi che hanno portato alla morte del ricorrente; 2.2.1. Il trattamento presso l'Ospedale di Vila Nova de Gaia; 2.2.2. Il trattamento ospedaliero presso l'Hospital General Santo António a Porto; 2.3. Misure adottate dalla ricorrente; 3. La legge; 3.1. La presunta violazione dell'art. 2 della Convenzione; 4. L'aspetto sostanziale; 4.1. La decisione della Camera; 4.2. Le argomentazioni delle parti; 4.3. Gli interventi di terze parti; 4.4. La valutazione della Corte; 5. L'aspetto procedurale; 5.1. La sentenza della Camera; 5.2. Le osservazioni delle parti; 5.3. La valutazione della Corte; 6. Conclusione; 6.1. Applicazione dell'articolo 41 della Convenzione; 6.2. Danni; 6.3. Costi e spese; 6.4. Interessi di mora.

1. Introduzione

Tale decisione della Grande Camera (n° 56080/13) ha origine dal ricorso di un cittadino di nazionalità portoghese, la signora Maria Isabel Lopes de Sousa Fernandes, nei confronti dello Stato portoghese.

La ricorrente, attraverso la violazione dell’art. 2 (diritto alla vita) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, denuncia la morte del suo coniuge, a seguito di un’infezione acquisita in ospedale e alla mancanza di assistenza medica. La ricorrente, inoltre, denuncia anche le autorità a cui si è rivolta nell’avere spiegazioni riguardo al deterioramento dello stato di salute del marito, poiché non son state capaci di adempiere alla richiesta della ricorrente, ovvero conoscere le cause che hanno portato al repentino peggioramento delle condizioni di salute del Sig. António Rui Calisto Fernandes.

Sulla base degli artt. 6 (diritto ad un equo processo) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo), la ricorrente denuncia la durata e l’esito della procedura nazionale, connesse alla propria vicenda.

2. I fatti

2.1. Le circostanze del caso

La ricorrente è nata nel 1969 e risiede a Vila Nova de Gaia. Il marito della ricorrente, il sig. António Rui Calisto Fernandes, è nato nel 1957 ed è deceduto l’8 marzo del 1998, a seguito di complicanze mediche, occorse dopo aver subito un intervento chirurgico, finalizzato alla rimozione di polipi nasali.

2.2. La serie di eventi che hanno portato alla morte del marito della ricorrente

2.2.1. Il trattamento presso l'Ospedale di Vila Nova de Gaia

Il 26 novembre del 1997, il signor Fernandes è stato ammesso al Centro Ospedaliero di Vila Nova de Gaia (Centro Hospitalar de Vila Nova de Gaia) per una poliposi nasale. Il 27 novembre dello stesso anno è stato sottoposto ad un’operazione ed il giorno successivo, alle ore 10.00, è stato dimesso dall’ente ospedaliero. Il 29 novembre, all’una di notte, la ricorrente si presenta col marito al Pronto Soccorso del CHVNG, poiché l’uomo soffriva di violenti mal di testa e presentava un continuo stato d’agitazione. Visitato dal neurologo in quel momento in turno, lui ed altri dottori hanno sostenuto che il signor Fernandes avesse dei problemi di carattere psicologico, prescrivendogli dei tranquillanti. In tale frangente, la ricorrente si oppone alle dimissioni del marito dal centro ospedaliero. Al mattino, l’uomo è stato visitato da un ulteriore equipe medica e, alle ore 10.00, una puntura lombare rivela una meningite batterica, venendo così trasferito nell’unità di terapia intensiva.

Il 30 novembre, una risonanza rivela un edema celebrale, a seguito della quale, una seconda, realizzata il 2 dicembre, rileva la riduzione dello stesso. Col miglioramento delle sue condizioni, il sig. Fernandes viene trasferito presso un’altra ala dell’ospedale, assistito dal Dr. J.V. Il 10 dicembre 1997 gli vengono diagnosticate due ulcere duodenali. Tre giorni dopo, il marito della ricorrente viene dimesso dall’ospedale, poiché le sue condizioni vengono considerate stabili raccomandando, tuttavia, controlli ambulatoriali. Il 18 dicembre, il sig. Fernandes ritorna al pronto soccorso del CHVNG, accusando vertigini e mal di testa. Viene visitato dal Dr. J.V., il quale lo mette sotto osservazione, in virtù di un’acuta diarrea, dolori addominali ed una forte anemia. Il giorno successivo, un’endoscopia fatta sul paziente, rivela che quest’ultimo ha un’ulcera gastroduodenale. Il 23 dicembre 1997, il sig. Fernandes viene dimesso dall’ospedale, gli vengono prescritti una dieta e dei medicinali ed una visita medica viene fissata per l’8 febbraio 1998.

Il marito della ricorrente continua a soffrire di diarrea e dolori addominali ed il 9 gennaio 1998 ritorna nuovamente al centro ospedaliero sopracitato ma, il Dr. J.V., non ritiene opportuno procedere con ulteriori controlli, cosicché il sig. Fernandes ritorna a casa nello stesso giorno. Il 25 gennaio 1998, l’uomo viene riammesso al centro ospedaliero ed una colonscopia rivela una colite ulcerosa infetta. Test batteriologici hanno mostrato la presenza del batterio Costridium difficile ed il paziente viene curato con antibiotici ed un trattamento per via endovenosa. Su richiesta della moglie del sig. Fernandes (la ricorrente), il dottor J.V. dimette il proprio paziente il 3 febbraio 1998, prescrivendogli medicinali da somministrare per via orale, sollecitando il sig. Fernandes ad ulteriori accertamenti, presso l’ambulatorio del plesso ospedaliero.

2.2.2. Il trattamento ospedaliero presso l’Hospital General Santo António a Porto.

Il 17 febbraio 1998, il sig. Fernandes viene ammesso alla struttura ospedaliera di Porto, a seguito di una diarrea cronica ed un’anemia microcitica. L’uomo si è sottoposto ad una colonscopia, un’endoscopia ed analisi del sangue. L’equipe medica ha considerato varie possibilità legate alle condizioni del paziente, considerando anche un’infezione da Costridium difficile, ma tutte queste ipotesi sono state escluse. Tuttavia, è stato trovato un citomegalovirus, successivamente trattato.

Il 5 marzo 1998, il sig. Fernandes viene visitato da un dottore, il quale ritiene lo stato di salute del paziente sotto controllo ma, il giorno successivo, le condizioni di salute di quest’ultimo peggiorano. Viene visitato da un medico, il quale sospettava di un possibile viscus perforato. Vengono realizzate un’ecografia a raggi X ed una addominale. Quest’ultima, rileva delle asciti all’addome, non confermate dalle analisi iniziali. Alle ore 5.30, il marito della ricorrente viene visitato da un ulteriore medico, il quale constata della resistenza alla palpazione addominale. Una analisi ha rilevato un’alcalosi metabolica ma non vi erano segni di ipocalcemia. Una sigmoidoscopia ha rilevato che il marito della ricorrente aveva una rettocolite. Il 7 marzo 1998, all’una di notte, al paziente viene dato dell’ossigeno, poiché presentava difficoltà nella respirazione. Due ore dopo, il signor Fernandes viene visitato da un medico di medicina generale e successivamente da un chirurgo. Quest’ultimo evidenziava l’urgenza di un intervento chirurgico, in virtù della presenza e della diffusione di una peritonite.

Il signor Fernandes viene portato in sala operatoria alle ore 4.00 e vi rientra nuovamente alcuni minuti dopo, col fine di preparare l’intervento chirurgico, nello specifico, la trasfusione di sangue. Rientra in sala operatoria quattro ore dopo. Muore il giorno successivo alle 2.55.

Con riferimento al certificato di morte redatto dall’ospedale Santo António, il marito della ricorrente è morto a causa di una setticemia provocata da una peritonite ed un viscus perforato.

2.3. Misure adottate dalla ricorrente

Il 13 agosto del 1998, la sig.ra Lopes scrive una lettera congiunta al Ministero della Salute portoghese, l’ARS Norte (Administração Regional de Saúde do Norte) e l’Associazione dei Medici, lamentando la mancanza di risposte, relative al deterioramento delle condizioni di salute del marito e della sua sopravvenuta morte.

Il 20 settembre del 2000, l’IGS (Inspeção-Geral de Saúde) ha disposto un’inchiesta. Un rapporto rilasciato nel 2006 ha concluso che non sussistevano motivi che evidenziassero responsabilità disciplinari dovute a comportamenti negligenti, da parte delle strutture ospedaliere oggetto della lamentela. Inoltre, in tale rapporto, viene dichiarato che la decisione del dottor J.V. di consigliare al paziente un trattamento medico ambulatoriale non era appropriata e sufficiente, poiché il paziente sarebbe dovuto rimanere in ospedale, sotto supervisione dei medici. Per tali motivi, l’Ispettorato Generale ha aperto un procedimento disciplinare nei confronti del dottor in questione, pendente fino all’esito del procedimento giudiziario.

Nel procedimento penale, il dottore J.V. che è stato accusato di omicidio (per negligenza), viene assolto nel gennaio del 2009. La Corte ha dimostrato che non c’erano elementi evidenti che dimostrassero responsabilità del medico sulla morte del paziente.

Il 28 dicembre del 2001, l’Associazione dei Medici portoghese ha deciso di non procedere con ulteriori azioni legali nei confronti della sig.ra Lopes, ritenendo che non vi erano elementi che evidenziassero una cattiva condotta o della negligenza medica. Un ricorso fatto dalla ricorrente nei confronti del Consiglio Disciplinare dell’associazione medica portoghese, viene dichiarato inammissibile, poiché realizzato al di fuori delle date di scadenza, entro le quali presentare tale reclamo.

Il 6 marzo del 2003, la signora Lopes intraprende una azione legale nei confronti della Corte Amministrativa e Fiscale di Porto, rivelatasi un insuccesso, azione nella quale la ricorrente richiedeva un risarcimento a seguito della morte del coniuge. Il ricorso è stato respinto dalla Corte nel febbraio del 2013.

3. La legge

3.1. La presunta violazione dell'art. 2 della Convenzione

La ricorrente contesta una presunta violazione del diritto alla vita del marito. Nella fattispecie, la donna denuncia il fatto che suo marito è stato vittima di una infezione acquisita in ospedale, che il personale medico non ha fornito assistenza e si è mostrato negligente nelle proprie diagnosi, nel trattamento e nelle dimissioni del marito. In particolare, la donna reclamava le modalità con cui il coniuge è stato assistito e le dosi di medicinali a lui somministrate, ritenute eccessive. Tuttavia, la vedova non si è espressa sulle dimissioni del marito, autorizzate il 3 febbraio 1998 dal dottor J.V., essendo una decisione presa in sua assenza. La ricorrente, inoltre, denuncia anche che le autorità a cui si è rivolta hanno fallito nel fornire le cause che hanno portato al deterioramento dello stato di salute del marito, fino a quel momento in perfetta forma, oltre a non aver ricevuto le giuste informazioni sulla morte dell’uomo e constatato la lentezza delle misure nazionali adottate.

La ricorrente, in virtù di quanto accaduto, ne deduce che vi siano state violazioni degli articoli 2, 6.1 e 13, dei quali, il primo afferma il seguente:"Il diritto alla vita di ogni individuo deve essere protetto dalla legge”.

La Corte, nel ribadire il proprio ruolo giuridico sui fatti qui esplicitati, ha ritenuto opportuno esaminare soltanto le violazioni a capo dell’art. 2 della Convenzione.

4. L’aspetto sostanziale

4.1. La decisione della Camera

La Grande Camera ha stabilito che vi è stata una violazione dell’articolo 2 della Convenzione, osservando che il secondo gastroenterologo che aveva evidenziato un IGS, un ENT e pannelli di malattie infettive, misure adottate prima dell’intervento dell’associazione portoghese dei medici, avevano tutte indicato che la meningite era una complicanza che sarebbe potuta sorgere in casi eccezionali di poliposi. Inoltre, la Camera ha rilevato che i dubbi sul pannello delle malattie infettive, nei procedimenti dell'Associazione medica portoghese, erano stati espressi, in merito alla tempestività con cui era stata diagnosticata la meningite del paziente.

La Camera riteneva che anche il semplice fatto che il paziente avesse subito un'operazione chirurgica, presentando un rischio di meningite infettiva, avrebbe dovuto giustificare un intervento medico immediato, in conformità con il protocollo medico sulla supervisione postoperatoria.

Tuttavia, ciò non era stato fatto. Senza voler speculare sulle possibilità di sopravvivenza del marito della richiedente, ossia se la sua meningite fosse stata diagnosticata in precedenza, la Camera ha ritenuto che la mancanza di coordinamento tra il reparto ORL e l'unità di emergenza dell'ospedale, rivelava carenze nel servizio ospedaliero pubblico, privando il paziente della possibilità di accedere ad adeguate cure di emergenza. Questo aspetto è stato ritenuto sufficiente per scoprire che lo Stato aveva fallito nel suo obbligo di proteggere l'integrità fisica del signor Fernandes.

4.2. Le argomentazioni delle parti

(a) Il ricorrente

La ricorrente sosteneva che, con riferimento alle recenti decisioni relative all’art. 2 CEDU (Dodov v. Bulgaria, no. 59548/00, 17 gennaio 2008; Mehmet Şentürk and Bekir Şentürk v. Turkey, no. 13423/09, ECHR 2013; Arskaya v. Ukraine, no. 45076/05, 5 dicembre 2013; Asiye Genç v. Turkey, no. 24109/07, 27 gennaio 2015; and Elena Cojocaru v. Romania, no. 74114/12, 22 marzo 2016), la Corte aveva riscontrato che vi era stata una violazione del suddetto articolo, nel suo ambito sostanziale, oltre all’aver stabilito, concretamente, la mancata tempestività e diligenza auspicabile nelle circostanze del caso, il cui fallimento aveva contribuito a mettere a rischio la vita della vittima. La ricorrente osservava che, nei casi summenzionati, il ​​fattore che aveva pesato maggiormente nella sentenza della Corte, era l'assenza del tempestivo trattamento medico, il quale, nelle circostanze di ciascun caso, poteva ragionevolmente attendersi e la cui assenza aveva contribuito in modo significativo alla catena di eventi che hanno messo a rischio la vita di pazienti poi morti. La donna ha constatato come in queste diverse situazioni la Corte abbia evidenziato che non è stato fatto alcun appello speculativo su quali potrebbero essere state le probabilità di sopravvivenza delle vittime, se le carenze identificate non si fossero verificate; ciò che contava, era il rischio irragionevole a cui, nelle circostanze di ogni caso, il paziente era stato esposto e che avevano contribuito alla catena di eventi che avevano portato alla sua morte.

La ricorrente osservava che, nel determinare i fatti rilevanti, la Corte aveva applicato il test "oltre ogni ragionevole dubbio", secondo il quale la prova richiesta poteva derivare da una combinazione sufficientemente persuasiva di inferenze e presunzioni. La signora Lopes, ha riscontrato, contrariamente a quanto sostiene il governo portoghese, che la sentenza della Camera ha fornito un'applicazione concreta di tali principi ai fatti in causa, sottolineando, poi, che la stessa Corte ha, a tal proposito, applicato gli stessi principi, nella causa Elena Cojocaru.

La ricorrente concordava con i fatti così esposti nella sentenza della Camera, nonché col ragionamento adottato, nel trovare una violazione sostanziale dell'articolo 2 della Convenzione. Ha inoltre affermato che la Corte avrebbe dovuto anche prendere in considerazione almeno un altro fattore aggravante. In tale contesto, la richiedente ha sostenuto che, indipendentemente dall'origine del batterio che ha causato la meningite, il trattamento non era stato somministrato con la stessa rapidità richiesta dalla situazione. La squadra di emergenza che aveva preso in carico il marito della richiedente presso il CHVNG era del tutto ignara, o aveva ignorato, il fatto che una poliposi nasale era stata eseguita due giorni prima nello stesso ospedale trattando, invece, il paziente, sulla supposizione che fosse affetto da problemi psicologici. La richiedente sosteneva che il paziente non aveva ricevuto alcun trattamento tra il suo arrivo al pronto soccorso alle 13.30 e alle 10 circa, quando era stata eseguita la puntura lombare.

La ricorrente sosteneva che, sebbene la meningite batterica non fosse stata la causa immediata della morte del marito, era innegabile che tale evento avesse dato luogo alla successione di complicazioni cliniche, proseguita fino alla sua morte (l'8 marzo 1998), come diretta conseguenza di setticemia causata da peritonite. Sosteneva che le complicazioni cliniche di cui il marito aveva sofferto tra il 29 novembre 1997 e l'8 marzo 1998 non potevano essere considerate isolatamente l'una dall'altra, come se non vi fosse alcun nesso tra esse. Basandosi sulla relazione che costituiva la base per la relazione finale dell'IGS, la ricorrente ha sostenuto che, nel caso di specie, vi era stata una serie di complicazioni cliniche (infezioni opportunistiche, ulcere e altre malattie o sintomi patologici), ciascuna delle quali potrebbe essere attribuita in misura maggiore o minore a un evento precedente, nella catena determinante il deterioramento delle condizioni del defunto. Il punto di partenza in questa catena di eventi era stata una meningite, attribuibile ad un batterio acquisito in ospedale, che non era stato trattato con la prontezza richiesta dalla situazione, con la conseguente necessità di intensificare il trattamento antibiotico, risultante in un peggioramento dello stato di salute della vittima. Ciò aveva contribuito alla comparsa di complicazioni - e in particolare di infezioni e ulcere opportunistiche - che, avvenute in successione, avevano provocato la morte del paziente.

La ricorrente ha inoltre affermato che vi erano stati altri casi di negligenza medica, come le quattro occasioni in cui il marito era stato imprudentemente dimesso dall'ospedale (13 dicembre 1997, 23 dicembre 1997, 9 gennaio 1998 e 3 febbraio 1998). Inoltre, sosteneva che la causa diretta della morte del marito, l'8 marzo 1998, costituiva innegabilmente una negligenza medica. Ha affermato che vi era stato un ritardo inspiegabile nell'esecuzione della chirurgia, che avrebbe dovuto aver luogo il 6 marzo, ma che in realtà non era stata eseguita fino al 7 marzo alle 20:00, momento in cui era troppo tardi per curare la peritonite.

A tal proposito, la donna sosteneva l’indiscutibilità della peritonite attribuibile, al caso del marito, ad un'ulcera duodenale e al conseguente viscus perforato. Si richiedeva un intervento chirurgico urgente, col fine di evitare l'insorgenza di setticemia incontrollabile, come nel caso di specie. Non c'era quindi alcuna spiegazione ragionevole del fatto che l'intervento chirurgico non fosse stato eseguito fino alle 20.00 del giorno seguente. In tal senso, la ricorrente ha sostenuto che tale circostanza faceva parte della serie di ritardi ingiustificabili nella consegna di cure mediche adeguate a suo marito, le quali, lo avevano privato della possibilità di accedere a tale assistenza. Ciò, costituiva un'ulteriore violazione della parte sostanziale dell'articolo 2 della Convenzione. A questo proposito, è stato sostenuto che, anche se la necessità di un intervento chirurgico non fosse diventata evidente fino al 7 marzo, questo non spiegava ancora il motivo per il quale non era stato chiamato un chirurgo fino alle 3 del pomeriggio, lasciando quindi il paziente senza un'assistenza efficace, oltre ad essere stato portato in sala operatoria senza la preparazione necessaria, con il risultato di ripetute entrate ed uscite dalla sala, ritornandovi verso le 8 di sera, quando era in una condizione molto seria, tra la vita e la morte.

(b) Il Governo portoghese

Il governo ha inizialmente sostenuto che la validità della tesi alla base della denuncia della ricorrente – ovvero, che l'intero corso del trattamento clinico del marito deceduto era stato contrassegnato da una serie di carenze ed errori interconnessi - non era stata dimostrata in nessuno dei procedimenti giuridici realizzati a livello nazionale. Non era mai stato provato che la morte del marito della ricorrente fosse attribuibile a negligenza medica. Il governo portoghese sosteneva che la sentenza della Camera aveva ammesso che non era stata accertata alcuna negligenza medica e che la morte del marito della ricorrente non era stata causata da un evento avvenuto il 29 novembre 1997, evento identificato e caratterizzato dall'Aula come mancanza di coordinamento tra il reparto ORL e il Pronto Soccorso del primo ospedale. Questo, secondo la Camera, attestava le "carenze nel servizio ospedaliero pubblico" e aveva "privato il paziente della possibilità di accedere ad adeguate cure d'emergenza". Nonostante l'assenza di negligenza medica e di un nesso causale, la Camera ha ritenuto tale constatazione "sufficiente, per la Corte, a ritenere che lo Stato abbia violato l'obbligo di proteggere l'integrità fisica", in violazione dell'aspetto sostanziale dell'articolo 2 della Convenzione.

Il governo, riferendosi alla giurisprudenza della Corte (Byrzykowski c. Polonia, n. 11562/05, § 104, 27 giugno 2006, Eugenia Lazăr c. Romania, 32146/05, §§ 68-72, 16 febbraio 2010; Centro di risorse legali per conto di Valentin Câmpeanu c. Romania [GC], 47848/08, § 130, ECHR 2014 e Powell c. Regno Unito (dec.), 45305/99, ECHR 2000 V ), sosteneva che nel settore dell'assistenza sanitaria, l'obbligo positivo sorgente per gli Stati contraenti, ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione, al fine di prevenire la morte causata da negligenza medica, era essenzialmente di natura procedurale e comportava l'obbligo di istituire una regolamentazione strutturale che richiedesse agli ospedali, siano essi privati ​​o pubblici, di adottare misure adeguate per garantire che le vite dei pazienti siano protette. Alla luce dei fatti della causa e della giurisprudenza della Corte, il Governo ha sostenuto che la conclusione della sentenza della Camera sollevava seri dubbi al riguardo.

Secondo il governo, il sistema sanitario in Portogallo, all'epoca dei fatti, era sostenuto da un regime normativo completo e appropriato. I pazienti erano coperti da una carta che includeva i loro diritti e doveri e potevano presentare reclami formalmente. I medici erano soggetti a regole etiche e, nell'esercizio delle loro funzioni, erano tenuti a rispettare le buone pratiche mediche e ad applicare le conoscenze tecniche e scientifiche, in conformità con le migliori pratiche e i protocolli clinici pertinenti. Inoltre, tutte le attività ospedaliere, sono state sottoposte a un sistema di supervisione e i medici che non hanno rispettato il dovere di diligenza o le norme etiche, erano passibili di sanzioni disciplinari. In caso di accusa di negligenza, con conseguente morte di un paziente, poteva essere avviato un procedimento penale per il reato di omicidio colposo e poteva essere intentata un'azione legale per la responsabilità civile.

Tale ente, ha notato che nessuna opinione di esperti, documenti o altre prove presentate a livello nazionale, avevano confermato le accuse formulate dalla richiedente. Quest'ultima, secondo il governo, aveva contestato le diagnosi fatte, i farmaci prescritti, i tempi dell'operazione e le decisioni di dimissioni, ad eccezione di quella concessa il 3 febbraio 1998, che lei e suo marito avevano chiesto alla struttura ospedaliera. Tuttavia, il governo ha sottolineato che la conclusione raggiunta dai vari organismi domestici, che avevano raccolto prove da un gran numero di medici e altri esperti, era che l'assistenza che i medici interessati avevano fornito al paziente non aveva rivelato alcuna condotta negligente ed errori commessi. Il Governo affermò, inoltre, che tutte le cure e le spese necessarie erano state fornite al marito della richiedente; in particolare, non era stato manifestato il fallimento nel fornire assistenza essenziale o il rifiuto di ammettere e assistere il paziente. Avendo riguardo del quadro normativo, il governo ha ritenuto che le circostanze della presente causa non rivelassero alcun inadempimento da parte delle autorità portoghesi, a rispettare l'obbligo positivo loro imposto, in forza dell'articolo 2 della Convenzione.

Il governo ha ribadito che la sentenza della Camera non era stata sufficientemente motivata e che si era allontanata dall'attuale giurisprudenza della Corte, in un'area di fondamentale importanza, creando in tal modo incertezza giuridica per lo Stato. É stato sostenuto che, nel trovare una violazione del diritto alla vita ai sensi dell'articolo 2, in assenza di negligenza medica, di qualsiasi nesso causale accertato con la morte del paziente o di qualsiasi mancata prestazione di trattamento, rifiutando di ammettere o frequentare il paziente, ma semplicemente sulla base di un'eventuale mancanza di coordinamento tra i servizi ospedalieri che non ha avuto conseguenze per il valore tutelato dalla norma, la Camera aveva agito come un quarto grado e aveva ampliato l'area di competenza della Corte, col fine di includere la valutazione in abstracto del funzionamento dei servizi sanitari nazionali, pur non essendo questo il suo ruolo.

4.3 Gli interventi di terze parti

(a) Il governo del Regno Unito

Il governo del Regno Unito ha osservato che nella presente causa si sollevavano dubbi sulla misura in cui uno Stato contraente potesse violare l'aspetto sostanziale dell'articolo 2 della Convenzione, a causa di carenze nella fornitura di cure mediche. A questo proposito, ha sostenuto che gli Stati Contraenti avevano un obbligo positivo ai sensi dell'articolo 2 § 1, di rendere i regolamenti obbligatori per gli ospedali, ad adottare misure appropriate per la protezione della vita dei loro pazienti. L'inosservanza di tale obbligo di regolamentazione delle cure mediche, potrebbe comportare una violazione dell'aspetto sostanziale dell'articolo 2, qualora tale omissione abbia comportato la morte di una persona, nell'ambito della giurisdizione dello Stato contraente. Tuttavia, secondo il governo del Regno Unito, le carenze nella fornitura di cure mediche da parte di operatori sanitari e personale ospedaliero, non hanno assunto la responsabilità dello Stato contraente sotto l'aspetto sostanziale dell'articolo 2, ma potevano riguardare solo l'aspetto procedurale dell’articolo 2. Il governo del Regno Unito, riferendosi a un numero di casi determinati da questa Corte, ha sottolineato che i casi precedenti erano stati decisi in modo coerente con questi principi generali.

Per quanto riguarda l'aspetto sostanziale dell'articolo 2, in relazione alla mancata prestazione dell'assistenza sanitaria, il governo del Regno Unito ha sottolineato che la Convenzione non conteneva disposizioni esplicite che riconoscevano il diritto alla fornitura di qualsiasi tipo di assistenza sanitaria, né il diritto di essere fornito, con assistenza sanitaria, di qualsiasi standard particolare. A tale proposito, è stato sostenuto che il tribunale, in entrambi i casi citati sopra, Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk e Asiye Genç si erano basati su un obiter dictum ([GC], 25781/94, ECHR 2001 IV), ovvero si è fatto riferimento ad una richiesta di rifiuto di cure mediche, a un'intera sezione di una popolazione. É stato inoltre ritenuto, in ogni caso, come le circostanze nei casi summenzionati fossero state particolari e gravi. Il governo del Regno Unito ha inoltre osservato che in questi decisioni, e anche nel caso di Aydoğdu c. Turchia (numero 40448/06, 30 agosto 2016), la Corte aveva applicato la linea giurisprudenziale Osman (v. Osman c. Regno Unito, 28 ottobre 1998, Relazioni delle sentenze e decisioni 1998 VIII). Tale organo sosteneva che questa giurisprudenza non poteva essere estesa ai casi in cui le cure mediche erano state fornite a una persona, essendo state offerte in modo deficiente (ad esempio, perché vi era stata negligenza medica). Infine, il governo del Regno Unito ha osservato che i casi turchi anteriormente citati e il caso di Elena Cojocaru, suggerivano che poteva esserci una violazione dell'aspetto sostanziale dell'articolo 2, in cui c'era una disfunzione nel sistema sanitario. Tuttavia, riteneva che una disfunzione nella gestione di un particolare reparto ospedaliero o medico, o un coordinamento disfunzionale tra due diversi ospedali, non sarebbe, di per sé, sufficiente per impegnare gli obblighi dello Stato contraente, sotto l'aspetto sostanziale dell'articolo 2, a meno che è stato accertato che la disfunzione era il risultato del mancato rispetto, da parte dello Stato contraente, dei suoi obblighi normativi.

(b) Il governo irlandese

Il governo irlandese ha fornito alla Corte un resoconto dettagliato della regolamentazione della pratica medica in Irlanda, affermando il suo aver provveduto, in modo adeguato, a garantire elevati standard professionali tra gli operatori sanitari e la protezione della vita dei pazienti. La sentenza della sezione sembrava suggerire tuttavia che, nonostante ciò, uno Stato contraente potrebbe ancora essere considerato in violazione dell'articolo 2, a causa di un errore di giudizio da parte di un operatore sanitario. Il governo dell'Irlanda ha sostenuto che la sentenza della Camera suggeriva, inoltre, che, anche nel caso in cui un caso fosse stato rigorosamente esaminato da un sistema nazionale adeguato e non fosse stato individuato alcun errore, la Corte poteva tuttavia sostituire il proprio ragionamento a quello delle corti e dei tribunali nazionali. A questo proposito, è stato sostenuto che la sentenza della Camera, nel caso in esame, rappresentava un allontanamento dalla giurisprudenza consolidata.

Analizzando i casi di negligenza medica e di assistenza sanitaria trattati dalla Corte negli ultimi sedici anni, il governo irlandese ha affermato che la Corte ha adottato un approccio coerente in relazione all'applicazione dell'articolo 2, sia negli aspetti sostanziali che procedurali. I principi emersi erano i seguenti:

  • (1) dove uno Stato contraente aveva fornito disposizioni adeguate per assicurare elevati standard professionali tra gli operatori sanitari e la protezione della vita dei pazienti, questioni come un errore di giudizio da parte di un professionista della salute o di un coordinamento negligente tra gli operatori sanitari nel trattamento di un particolare paziente, non erano sufficienti per chiamare uno Stato contraente a rendere conto, dal punto di vista dei suoi obblighi positivi, ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione, a proteggere la vita;
  • (2) potrebbe esserci un'eccezione nel caso in cui la negligenza, imputabile al personale medico di quell'ospedale, andasse oltre un semplice errore o negligenza medica. Queste circostanze sembravano accadere, laddove i tribunali nazionali trovavano il personale responsabile in un contesto ospedaliero responsabile più per negligenza e/o dove c'era un rifiuto di cura/trattamento medico, con la conseguenza che la vita del paziente veniva messa in pericolo.

Il governo dell'Irlanda ha sostenuto che nessuna eccezione del genere era esistita nei fatti della presente causa. Ha sottolineato la pertinenza delle opinioni dissenzienti allegate alla sentenza della Camera, così come il dissenso del giudice Sajó nel caso di Elena Cojocaru. In conclusione, il governo irlandese ha affermato che il ragionamento esistente, stabilito dalla giurisprudenza precedente, dovrebbe essere adottato e proseguito nel caso in esame. A suo avviso, qualsiasi deroga a tale giurisprudenza comporterebbe incertezza giuridica nell'applicazione degli obblighi dell'articolo 2 e comprometterebbe la validità degli sforzi interni e delle autorità coinvolte nella regolamentazione dell'assistenza sanitaria, specialmente in circostanze in cui non vi era alcun nesso di causalità tra una presunta violazione del dovere e una ferita o morte.

4.4. La valutazione della Corte

(a) Sintesi della giurisprudenza pertinente

La Corte è spesso chiamata a pronunciarsi su denunce relative ad una violazione dell'articolo 2 della Convenzione, nel contesto dell'assistenza sanitaria. Un numero considerevole di questi casi, riguarda accuse di negligenza che si sono verificate nel contesto delle cure mediche negli ospedali. A questo proposito, la Corte considera che la presente causa fornisce un'opportunità di riaffermare e chiarire la portata degli obblighi sostanziali positivi degli Stati, in tali casi.

La Corte sottolinea, anzitutto, che diverse considerazioni sorgono in altri contesti, in particolare, per quanto riguarda il trattamento medico delle persone private della libertà o di persone particolarmente vulnerabili sotto la tutela dello Stato, dove lo Stato ha una responsabilità diretta per il benessere di questi individui (vedi, per esempio, Slimani c. Francia, n. 57671/00, CEDU 2004 IX (estratti) e Centro di risorse legali per conto di Valentin Câmpeanu, §§ 143-44). Tali circostanze non sono in discussione nella presente causa.

(i) Principi generali

La Corte ribadisce che la prima frase dell'articolo 2, che figura tra le disposizioni più fondamentali della Convenzione e sancisce anche uno dei valori fondamentali delle società democratiche che costituiscono il Consiglio d'Europa, impone allo Stato, non solo di astenersi dal prendere "intenzionalmente" la vita, ma anche prendere le misure appropriate per salvaguardare la vita di coloro che sono sotto la sua giurisdizione (v. Calvelli e Ciglio, § 48, e Vo, § 88). 

La Corte ha sottolineato più volte che, sebbene il diritto alla salute - riconosciuto in numerosi strumenti internazionali - non sia così tra i diritti garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli (v. Vasileva c. Bulgaria, n. 23796/10, § 63, 17 marzo 2016), l'obbligo positivo sopra menzionato deve essere interpretato nel contesto di qualsiasi attività, pubblica o meno, in cui possa essere in gioco il diritto alla vita (v. Centro di risorse giuridiche per conto di Valentin Câmpeanu, § 130), anche nell'ambito della sanità pubblica.

Nel particolare contesto dell'assistenza sanitaria, la Corte ha interpretato l'obbligo positivo sostanziale dello Stato di adottare regolamenti che obbligano gli ospedali, siano essi privati ​​o pubblici, ad adottare misure appropriate per la protezione della vita dei pazienti (cfr. molte altre autorità, Oyal c. Turchia, No. 4864/05, § 54, 23 marzo 2010, e Lambert e altri c. Francia [GC], n. 46043/14, § 140, CEDU 2015 (estratti)).

Tuttavia, non ha escluso la possibilità che gli atti e le omissioni delle autorità, nel contesto delle politiche di sanità pubblica, in determinate circostanze, possano impegnare la responsabilità delle parti contraenti, ai sensi dell'articolo 2 (cfr. Powell).

(ii) Giurisprudenza in materia di negligenza medica

Nei casi in cui le accuse di negligenza medica sono state fatte nel contesto del trattamento di un paziente, la Corte ha coerentemente sottolineato che, quando uno Stato Contraente ha provveduto adeguatamente a garantire elevati standard professionali tra gli operatori sanitari e la protezione delle vite di pazienti, questioni come un errore di giudizio da parte di un operatore sanitario o il coordinamento negligente tra gli operatori sanitari nel trattamento di un particolare paziente, non sono sufficienti per se stessi a chiamare uno Stato contraente a rendere conto, dal punto di vista dei suoi obblighi positivi, ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione per proteggere la vita (v. tra molte altre autorità, Powell, citata sopra, e Sevim Güngör c. Turchia (dec.), 75173/01, 14 aprile 2009).

Fino ad oggi, nei casi riguardanti negligenza medica, la Corte ha raramente trovato carenze nel quadro normativo degli Stati membri in quanto tali (v. Arskaya, § 91, e, Z v. Polonia, n. 46132 / 08, §§ 110-12, 13 novembre 2012, v. anche Altuğ e altri c. Turchia, 32086/07, § 73, 30 giugno 2015, Glass v. The United Kingdom, (dec.), 61827/00, 18 marzo 2003 e Sevim Güngör, citata sopra).

Nel caso Arskaya c. Ucraina, la ricorrente asseriva che suo figlio, che era stato ricoverato in ospedale per polmonite e tubercolosi, era morto a seguito di negligenza medica, a causa di norme inadeguate di assistenza sanitaria per i pazienti che rifiutavano il consenso al trattamento. La Corte, quando ha riscontrato una violazione sostanziale dell'articolo 2, ha osservato che i regolamenti locali che regolano l'ammissione dei pazienti alle cure intensive erano inadeguati. Ha inoltre rilevato che mancavano norme appropriate per stabilire la capacità decisionale dei pazienti, compreso il loro consenso informato al trattamento. Riteneva, pertanto, che le autorità non avessero adottato misure sufficienti per istituire un quadro normativo che assicurasse come la vita del figlio della richiedente fosse adeguatamente tutelata dalla legge, come richiesto dall'articolo 2 della Convenzione (ibid. §§ 84-91).

In un certo numero di casi, la Corte ha anche affrontato la sostanza delle richieste di negligenza medica dei ricorrenti. Tuttavia, in tutti questi casi, tali affermazioni sono state considerate infondate sui fatti, perché non era stata accertata alcuna negligenza medica a livello nazionale, in particolare, da parte di esperti medici (si veda, ad esempio, Skraskowski c. Polonia (dec.), 36420/97, 6 aprile 2000, Siemiska c. Polonia, n. 37602/97, 29 marzo 2001, Buksa c. Polonia (dec.), 75749/13, § 13, 31 maggio 2016, e Mihu c. Romania, no 36903/13, § 67, 1 marzo 2016). La Corte ribadisce che non spetta a essa speculare, sulla base delle informazioni mediche che gli sono state trasmesse, se le conclusioni degli esperti medici su cui sono state fondate le decisioni dei tribunali nazionali siano corrette (vedere Sayan c. Turchia, 81277 12, § 112, 11 ottobre 2016, e Balcı c. Turchia (dec.), N. 58194/10, § 45, 20 ottobre 2015, e i casi ivi citati).

La Corte ha esaminato tali questioni, di fatto, sotto il profilo procedurale, considerando che gli eventi che hanno portato alla morte del paziente e la responsabilità degli operatori sanitari coinvolti, erano questioni che dovevano essere affrontate dal punto di vista dell'adeguatezza dei meccanismi in atto per far luce sul corso di quegli eventi, permettendo che i fatti del caso fossero esposti all'esame pubblico. Non da ultimo, a beneficio dei richiedenti (si veda, per esempio, Trzepalko c. Polonia (dec.), no 25124/09, § 24, 13 settembre 2011, Oyal, citata sopra, Eugenia Lazăr, citata sopra, §§ 69-70, Rinkūnienė v. Lituania (dec.), 55779/08, 1 dicembre 2009, e Zafer Öztürk c. Turchia, n. 25774/09, § 46, 21 luglio 2015).

(iii) Giurisprudenza sul diniego dell'assistenza sanitaria

La Corte ha inoltre affermato che può sorgere una questione ai sensi dell'articolo 2, quando viene dimostrato che le autorità di uno Stato contraente hanno messo a rischio la vita di un individuo, attraverso la negazione dell'assistenza sanitaria, che si sono impegnati a mettere a disposizione della popolazione (v. Cipro c. Turchia § 219).

Fino a poco tempo fa, il tipo di cause esaminate dalla Corte, in riferimento al suddetto principio, riguardava i richiedenti che affermavano che lo Stato doveva pagare una particolare forma di trattamento convenzionale, perché non erano in grado di sostenere i costi che comportava (cfr. , ad esempio, Nitecki c. Polonia (dec.), 65653/01, 21 marzo 2002; Pentiacova e altri v. Moldova (dec.), n. 14462/03, CEDU 2005 I; Gheorghe c. Romania (dec. .), 19215/04, 22 settembre 2005 e Wiater c. Polonia (dec.), 42290/08, 15 maggio 2012) o che dovrebbero avere accesso a medicinali non autorizzati per cure mediche (vedere Hristozov e Altri contro Bulgaria, nn. 47039/11 e 358/12, CEDU 2012 (estratti)). La Corte non ha riscontrato una violazione dell'articolo 2 in nessuno di questi casi, né perché riteneva che alle ricorrenti fossero state fornite sufficienti cure mediche e servizi, su un piano di parità con altre persone in una situazione simile (cfr. Nitecki e Gheorghe, entrambi citate sopra) o perché i ricorrenti non avevano fornito alcuna prova che le loro vite fossero state messe a rischio (v. Pentiacova e a.). Nella sentenza Hristozov e a., la Corte non ha contestato i regolamenti che disciplinano l'accesso a medicinali non autorizzati in situazioni in cui le forme convenzionali di trattamento medico sembravano insufficienti e ha ritenuto che l'articolo 2 della Convenzione non potesse essere interpretato nel senso di richiedere l'accesso a medicinali non autorizzati per i malati terminali, da regolare in modo particolare (ibid. § 108).

In tale contesto, la Corte ribadisce che questioni come l'assegnazione di fondi pubblici nel settore dell'assistenza sanitaria, non sono una questione su cui la Corte dovrebbe prendere posizione e che spetta alle autorità competenti degli Stati contraenti esaminare e decidere come assegnare le loro risorse limitate, in quanto tali autorità sono in una posizione migliore rispetto alla Corte per valutare le richieste pertinenti, in considerazione delle scarse risorse, e assumersi la responsabilità delle difficili scelte che devono essere fatte tra esigenze meritevoli (cfr. Wiater, § 39, Pentiacova e altri e Gheorghe, citati sopra).

La Corte ha riscontrato una violazione procedurale nel caso Panaitescu c. Romania (no 30909/06, 10 aprile 2012), dove considerò che lo Stato non era riuscito a impedire che la vita del richiedente venisse messa a rischio, evitandolo con l'assistenza sanitaria appropriata, come ordinato dai tribunali nazionali. Si trattava di un caso eccezionale che riguardava il rifiuto da parte delle autorità nazionali di fornire gratuitamente al paziente un particolare farmaco oncologico costoso, in circostanze in cui i tribunali nazionali avevano accertato che l'individuo in questione aveva tale diritto.

(iv) Sviluppi recenti giurisprudenziali

La Corte osserva che le parti, nelle loro osservazioni, si sono concentrate su alcuni casi recenti, riguardanti la mancata fornitura di cure mediche di emergenza, nel contesto dell'assistenza pre o postnatale.

Una violazione sostanziale dell'articolo 2 è stata trovata nel contesto della negazione dell'assistenza sanitaria, in Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk, dove la moglie del primo ricorrente che era incinta, è morta in un'ambulanza, a causa del rifiuto dei medici di trasportare una operazione urgente e a causa della sua incapacità di pagare le spese mediche. A questo proposito, la Corte ha affermato che non era contestato che il paziente fosse arrivato all'ospedale in gravi condizioni e che aveva richiesto un intervento chirurgico d'urgenza, in mancanza di conseguenze estremamente gravi. Sebbene la Corte non volesse speculare sulle possibilità di sopravvivenza della moglie del primo ricorrente nel caso avesse ricevuto cure mediche, ha ritenuto che il personale medico fosse pienamente consapevole del fatto che, trasferire il paziente in un altro ospedale, avrebbe messo a rischio la sua vita. A riguardo, ha preso atto del fatto che il diritto interno non disponeva di disposizioni in materia, atte a prevenire il mancato conferimento al paziente delle cure mediche che aveva richiesto, a causa delle sue condizioni. Pertanto, la Corte ha ritenuto che la moglie del primo ricorrente, vittima di un flagrante malfunzionamento dei servizi ospedalieri interessati, fosse stata privata della possibilità di accedere ad adeguate cure di emergenza (ibid. §§ 96-97).

Nel caso di Asiye Genç, il neonato del ricorrente morì in un'ambulanza, dopo essere stata rifiutata l'ammissione a un certo numero di ospedali pubblici, a causa della mancanza di spazio o di attrezzature adeguate nelle loro unità neonatali. La Corte, considerando che lo Stato non aveva sufficientemente assicurato la corretta organizzazione e funzionamento del servizio pubblico ospedaliero, o più in generale il suo sistema di protezione della salute, sosteneva che il figlio del ricorrente era stato vittima di una disfunzione nei servizi ospedalieri ed era stato privato l’accesso a un appropriato trattamento di emergenza. Sottolineava che il bambino non era morto perché c'era stata negligenza o un errore di giudizio nelle sue cure mediche, ma perché non era stato offerto alcun trattamento di sorta. La Corte ha quindi concluso che vi era stato un rifiuto di fornire cure mediche, con conseguente rischio per la vita del paziente (ibid. §§ 80-82).

In Elena Cojocaru, la figlia incinta del ricorrente, che soffriva di una grave condizione prenatale, morì dopo che un medico dell'ospedale pubblico si era rifiutato di eseguire un cesareo di emergenza e fu trasferita in un altro ospedale, a 150 km di distanza, senza la supervisione di un medico. Il neonato è morto due giorni dopo. La Corte ha rilevato che le circostanze, in quel caso, costituivano un fallimento nel fornire un adeguato trattamento di emergenza (ibid. § 125) poiché, indipendentemente dal motivo, il trasferimento del paziente aveva ritardato il trattamento di emergenza di cui aveva bisogno. L'apparente mancanza di coordinamento dei servizi medici e il ritardo nella somministrazione del trattamento di emergenza appropriato attestano una disfunzione nei servizi ospedalieri pubblici (ibid. § 111).

Il caso di Aydoğdu, citato sopra, riguardava la morte di un bambino prematuro, a causa di una combinazione di circostanze, in particolare, a causa di una disfunzione nel sistema sanitario in una particolare regione della Turchia (ibid. §§ 55 e 76). In quel caso, la Corte ha ritenuto che le autorità responsabili dell'assistenza sanitaria dovevano essere a conoscenza, al momento degli eventi, che esisteva un rischio reale per la vita di più pazienti, incluso il bambino del richiedente, a causa di uno stato cronico che era conoscenza comune, e tuttavia non era riuscito a prendere alcuna delle misure che si potevano ragionevolmente aspettarsi da loro, per evitare tale rischio. La Corte ha osservato che il governo non aveva spiegato perché l'adozione di tali misure avrebbe costituito per loro un onere impossibile o sproporzionato, tenendo presente le scelte operative che dovevano essere prese in termini di priorità e risorse (ibidem § 87). Ha quindi ritenuto che la Turchia non si fosse preoccupata di assicurare l'organizzazione e il funzionamento adeguati del servizio ospedaliero pubblico in questa regione del paese, in particolare a causa della mancanza di un quadro normativo che stabilisse norme per gli ospedali, nel garantire la protezione delle vite di bambini prematuri. La Corte, osservando che, a parte il comportamento negligente del personale medico, c'era un nesso causale tra la morte del bambino e i problemi strutturali sopra menzionati, sosteneva che il bambino era stato vittima di negligenza e carenze strutturali. Ciò aveva effettivamente impedito di ricevere un appropriato trattamento di emergenza e ammontava al rifiuto di fornire cure mediche, con il risultato che la vita del paziente veniva messa in pericolo (ibid. § 88).

I tratti predominanti che emergono nei casi summenzionati - a parte il caso di Elena Cojocaru, che segue la linea adottata nella sentenza della Camera nella presente causa - dimostrano chiaramente che la Corte ha distinto questi casi, laddove esiste un'affermazione discutibile di una negazione delle cure d'emergenza, immediate dai casi che riguardano accuse di mera negligenza medica (v. Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk, §§ 85, 104 e 105, Aydoğdu, §§ 62, 76 e 80, e Asiye Genç, §§ 73 , 76 e 82, vedere anche M. v. Turkey, 4050/10 (dec.), 15 ottobre 2013, e Sayan, citata sopra, §§ 111-12, dove i richiedenti non erano in grado di dimostrare la validità del presunto rifiuto di assistenza sanitaria). Pertanto, l'approccio adottato in tali casi non può essere trasposto nei casi in cui le accuse riguardano la semplice negligenza medica.

Questi casi sono, secondo la Corte, eccezionali, in cui la colpa imputabile agli operatori sanitari andava oltre un semplice errore o negligenza medica. Si trattava di circostanze in cui il personale medico, in violazione dei suoi obblighi professionali, non era in grado di fornire cure mediche d'emergenza, pur essendo pienamente consapevole che la vita di una persona sarebbe stata messa a rischio, se tale trattamento non fosse stato dato (cfr. Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk, cit., § 104).

Inoltre, come osservato dal governo del Regno Unito, l'approccio della Corte, in particolare nel caso Aydoğdu, è analogo al criterio da esso applicato, nell'esaminare l'obbligo positivo sostanziale dello Stato di intraprendere misure operative preventive di protezione di un individuo, la cui vita è imminente a rischio reale (vedi, per i principi generali, Osman, §§ 115-16). Ad Aydoğdu, l'incapacità di fornire cure mediche di emergenza, è il risultato di una disfunzione dei servizi ospedalieri in quella particolare regione, una situazione di cui le autorità erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza, ma che non avevano affrontato, adottando le misure necessarie per impedire vite di pazienti messi a rischio. A questo proposito, la Corte sottolinea che la disfunzione dei servizi ospedalieri di cui si parlava ad Aydoğdu e Asiye Genç, non riguardava il coordinamento negligente tra diversi servizi ospedalieri o tra diversi ospedali, nei confronti di un particolare paziente. Riguardava una questione strutturale legata alle carenze del quadro normativo (cfr. Aydoğdu, citata sopra, § 87).

(b) L'approccio della Corte

Alla luce della giurisprudenza sopra sintetizzata, la Corte ritiene che l'approccio finora adottato debba essere chiarito.

A tale proposito, la Corte ribadisce che nel contesto di presunta negligenza medica, gli obblighi sostanziali degli Stati in materia di cure mediche sono limitati a un obbligo di regolamentazione, vale a dire l'obbligo di istituire un quadro normativo efficace per gli ospedali, sia privati ​​che pubblici, per adottare misure appropriate per la protezione della vita dei pazienti.

Anche nei casi in cui è stata accertata la negligenza medica, la Corte riscontra, di norma, una violazione sostanziale dell'articolo 2, solo se il pertinente quadro normativo non garantisce una protezione adeguata della vita del paziente. La Corte ribadisce che, quando uno Stato contraente ha adottato disposizioni adeguate per garantire elevati standard professionali tra gli operatori sanitari e la protezione della vita dei pazienti, questioni quali un errore di giudizio da parte di un professionista della salute o un coordinamento negligente tra gli operatori sanitari nel trattamento di un particolare paziente, non può essere considerato sufficiente per chiamare uno Stato contraente a rendere conto, dal punto di vista dei suoi obblighi positivi, ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione, per proteggere la vita (v., tra le molte altre autorità, Powell e Sevim Güngör, entrambi citati sopra).

Per l'esame di un caso particolare da parte della Corte, la questione se vi sia stato un fallimento da parte dello Stato nei suoi compiti regolamentari, si richiede una valutazione concreta delle asserite carenze, piuttosto che una di tenore astratto. A questo proposito, la Corte ribadisce che il suo compito non è normalmente quello di rivedere la legge e la pratica pertinenti in abstracto, ma determinare il modo in cui esse sono state applicate agli interessati, ovvero quando il richiedente ha dato luogo a una violazione della Convenzione (v. Roman Zakharov c. Russia [GC], No. 47143/06, § 164, CEDU 2015 e i casi citati in esso). Pertanto, il semplice fatto che il quadro regolamentare possa essere carente sotto certi aspetti non è di per sé sufficiente per sollevare una questione ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione. Deve essere dimostrato che ha operato a detrimento del paziente (v. Z v. Polonia, citata sopra, §§ 110-12, e Arskaya, citata sopra, §§ 84-91).

Si deve inoltre sottolineare che l'obbligo di regolamentare degli Stati deve essere inteso in senso più ampio, includendo il dovere di assicurare l'efficace funzionamento di tale quadro normativo. Le funzioni di regolamentazione comprendono, quindi, le misure necessarie per garantire l'attuazione, compresa la supervisione e l'applicazione.

Sulla base di questa più ampia comprensione dell'obbligo degli Stati di fornire un quadro regolamentare, la Corte ha ammesso che, nelle circostanze molto eccezionali descritte di seguito, la responsabilità dello Stato, ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione, può essere coinvolta nel rispetto degli atti e delle omissioni dei fornitori di assistenza sanitaria.

Il primo tipo di circostanze eccezionali riguarda una situazione specifica in cui la vita di un singolo paziente viene consapevolmente messa in pericolo, negando l'accesso a trattamenti di emergenza salvavita (vedi, ad esempio, Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk; v. Sayan , entrambi citati sopra). Non si estende alle circostanze in cui si ritiene che un paziente abbia ricevuto un trattamento carente, scorretto o ritardato.

Il secondo tipo di circostanze eccezionali si verifica quando una disfunzione sistemica o strutturale nei servizi ospedalieri porta a privare un paziente dell'accesso a trattamenti di emergenza salvavita e le autorità che erano a conoscenza o avrebbero dovuto sapere di tale rischio, non hanno intrapreso misure necessarie per evitare che lo stesso si materializzi, mettendo così in pericolo la vita dei pazienti, compresa la vita del paziente interessato (vedi, ad esempio, Asiye Genç e Aydoğdu, entrambi citati sopra).

La Corte è consapevole del fatto che a volte può non essere facile distinguere tra casi che riguardano la semplice negligenza medica e quelli in cui si nega l'accesso a trattamenti di emergenza salvavita, in particolare, perché potrebbe esserci una combinazione di fattori che contribuisce alla morte di un paziente.

Tuttavia, in questo frangente, la Corte ribadisce che, affinché un caso ricada in quest'ultima categoria, devono essere soddisfatti i seguenti fattori, presi cumulativamente. In primo luogo, gli atti e le omissioni dei fornitori di assistenza sanitaria devono andare oltre un semplice errore o negligenza medica, nella misura in cui tali operatori sanitari, in violazione dei loro obblighi professionali, negano un trattamento medico di emergenza al paziente, pur essendo pienamente consapevoli che la vita della persona è a rischio se tale trattamento non viene dato (vedi Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk, citata sopra, § 104).

In secondo luogo, la disfunzione trattata dev'essere oggettivamente e autenticamente identificabile come sistemica o strutturale, per poter essere imputata alle autorità statali, e non deve semplicemente comprendere casi individuali in cui qualcosa potrebbe essere stato disfunzionale, nel senso di andare storto o di funzionare male. (vedi, in particolare, Aydoğdu, citata sopra, § 87, e Eugenia Lazăr, citata sopra, §§ 69-70).

In terzo luogo, deve esserci un collegamento tra la disfunzione lamentata e il danno che il paziente ha subito. Infine, la disfunzione in questione, deve essere il risultato dell'insuccesso dello Stato nel rispettare l'obbligo di fornire un quadro normativo nel senso più ampio sopra indicato (vedere paragrafo 189 sopra e, ad esempio, Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk, citati sopra, § 96, e Aydoğdu, citata sopra, §§ 87-88).

(c) Applicazione di tali criteri alla presente causa

La Corte osserva che, nella presente causa, la richiedente non asseriva e né implicava che la morte del marito fosse stata causata intenzionalmente. Affermò che suo marito aveva perso la vita a causa di un'infezione acquisita in ospedale e di vari casi di negligenza medica verificatisi durante il trattamento, e che i medici incaricati di curarlo non avevano intrapreso le misure necessarie per salvare la vita del marito. In particolare, sosteneva che suo marito era stato infettato in ospedale dal batterio di Pseudomonas cepacia, che aveva causato la meningite del marito; che un grave errore di diagnosi era stato fatto quando il marito era andato al pronto soccorso del CHVNG il 29 novembre 1997; che questo ritardo nella diagnosi aveva permesso lo sviluppo di una infezione potenzialmente letale che doveva poi essere trattata con dosi molto elevate di farmaci, con effetti collaterali gastrointestinali estremamente dannosi; che la decisione di licenziare il marito dal CHVNG in varie date non era stata accompagnata dal necessario follow-up medico; e che l'ulcera duodenale perforata era stata diagnosticata ben prima dell'intervento eseguito il 7 marzo 1998.

In via preliminare, la Corte sottolinea che non spetta a lei rimettere in discussione la valutazione dello stato di salute del paziente (ora deceduto) da parte dei medici o le loro decisioni in merito a come avrebbe dovuto essere trattato (cfr. Glass, cit. sopra). Tali valutazioni e decisioni cliniche sono state fatte sullo sfondo dello stato di salute del paziente in quel momento e sulle conclusioni dello staff medico riguardo a quali misure dovevano essere prese per il suo trattamento. A questo proposito, la Corte osserva che il trattamento medico fornito al marito della richiedente è stato sottoposto a controllo interno e che nessuno degli organi giudiziari o disciplinari che hanno esaminato le accuse del richiedente ha trovato, alla fine, alcun difetto con il suo trattamento medico. Inoltre, mentre alcuni esperti hanno espresso preoccupazioni o critiche riguardo ad alcuni aspetti del suo trattamento, nessuna delle prove dell'esperto medico ha definitivamente stabilito l'esistenza di negligenza medica nel trattamento del marito della richiedente.

La Corte, a tal riguardo, ribadisce che, salvo in caso di manifesta arbitrarietà o errore, non è compito della Corte rimettere in discussione le constatazioni di fatto compiute dalle autorità nazionali, in particolare quando si tratta di valutazioni di esperti scientifici, chiamati per conoscenza specifica e dettagliata della materia (cfr. Počkajevs v. Lettonia (dec.), 76774/01, 21 ottobre 2004). Ne consegue che l'esame delle circostanze che hanno portato alla morte del marito della ricorrente e la presunta responsabilità degli operatori sanitari coinvolti, sono questioni che devono essere affrontate dal punto di vista dell'adeguatezza dei meccanismi in atto, per gettare luce sul corso di quegli eventi. Questi aspetti vanno esaminati sotto l'obbligo procedurale dello Stato, come indicato di seguito (vedi, tra le altre autorità, Eugenia Lazăr, § 70; Powell (dec.); Sevim Güngör (dec.); E Mihu, § 68, tutti citati sopra).

La Corte osserva che nella presente causa la ricorrente non ha lamentato il fatto che al marito fosse stato negato l'accesso a cure mediche in generale o trattamenti di emergenza in particolare, né vi è alcuna informazione nel fascicolo che possa suggerire una siffatta questione nella presente causa. Piuttosto, la ricorrente ha lamentato che il trattamento medico fornito al marito era stato carente, a causa della negligenza dei medici che lo avevano trattato. Secondo la Corte, un presunto errore nella diagnosi che determini un ritardo nella gestione di un trattamento adeguato o un presunto ritardo nell'esecuzione di un particolare intervento medico non può, di per sé, costituire una base per considerare i fatti di questo caso, alla stregua di quelli riguardanti la negazione dell'assistenza sanitaria.

Inoltre, la Corte ritiene che nel presente caso non siano state addotte prove sufficienti per dimostrare che esisteva, al momento dei fatti, qualsiasi disfunzione sistemica o strutturale che colpisse gli ospedali in cui era trattato il marito della richiedente, che le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere in merito alle necessarie misure preventive (che non hanno intrapreso), e che tale carenza ha contribuito in modo decisivo alla morte del marito della richiedente (v. Asiye Genç, § 80, e Aydoğdu, § 87, entrambi citati sopra). A riguardo, mentre la Corte non ha ignorato le osservazioni critiche formulate dal panel sulle malattie infettive (cfr. Paragrafo 53 sopra), essa ha osservato, in primo luogo, che questo gruppo non ha menzionato alcuna prova a sostegno di tali osservazioni generali, né ha ritenuto che questa presunta carenza abbia contribuito in modo decisivo alla morte del marito della richiedente. In secondo luogo, queste opinioni non sono state approvate dal consiglio disciplinare regionale dell'Associazione medica per la regione del Nord, all’interno della sua decisione, che è stata data dopo aver esaminato le conclusioni di cinque diversi gruppi di specialisti, incluso quello del panel sulle malattie infettive. Infine, nessun altro punto di vista è stato menzionato da altri esperti che hanno fornito prove nei diversi procedimenti a livello nazionale.

Non è stato dimostrato, inoltre, che la presunta colpa imputabile agli operatori sanitari andasse oltre un semplice errore o negligenza medica o che gli operatori sanitari coinvolti nel trattamento del marito della richiedente non fossero riusciti, in violazione dei loro obblighi professionali, a fornire all’uomo cure mediche d'urgenza, pur essendo pienamente consapevoli che la sua vita era a rischio se tale trattamento non fosse stato dato. A questo proposito la Corte, contrariamente a quanto stabilito dalla Camera, ritiene che la presunta mancanza di coordinamento tra il dipartimento ORL del CHVNG e il pronto soccorso dell'ospedale non costituisca, di per sé, una disfunzione nei servizi ospedalieri in grado di impegnare la responsabilità dello Stato ai sensi dell'articolo 2. Nella fattispecie, la Corte non dispone di elementi di prova o di elementi che le consentano di formulare conclusioni o di giungere a conclusioni che stabiliscano una situazione di disfunzioni strutturali o sistemiche, nei servizi di assistenza sanitaria in questione.

Alla luce delle considerazioni sopra menzionate, la Corte considera che il presente caso riguarda accuse di negligenza medica. In tali circostanze, gli obblighi positivi sostanziali del Portogallo si limitano alla creazione di un quadro normativo adeguato, che obbliga gli ospedali, privati ​​o pubblici, ad adottare misure appropriate per la protezione della vita dei pazienti (vedere paragrafi 186 e 189).

Tenendo conto delle norme dettagliate e delle norme stabilite dalla legislazione e dalla prassi interne dello Stato convenuto nella zona in esame (vedere paragrafi 88-109 sopra), la Corte ritiene che il quadro normativo rilevante non evidenzi lacune, come considerare l'obbligo dello Stato di proteggere il diritto alla vita del marito della richiedente. La ricorrente non ha nemmeno sostenuto diversamente.

Pertanto, la Corte constata che non vi è stata violazione dell'articolo 2 della Convenzione nel suo aspetto sostanziale.

5. L'aspetto procedurale

5.1. La sentenza della Camera

La Camera ha rilevato che vi era stata una violazione dell'aspetto procedurale dell'articolo 2 della Convenzione. In origine, ha considerato che l'ordinamento giuridico portoghese forniva ai cittadini mezzi che, in teoria, soddisfacevano i requisiti dell'articolo 2 della Convenzione.

Per quanto riguarda, tuttavia, l'efficacia dei meccanismi, la Camera ha rilevato, in primo luogo, l'eccessiva durata dei procedimenti nazionali dinanzi all'IGS, il tribunale distrettuale di Vila Nova de Gaia e la Corte amministrativa e fiscale di Oporto, che non ha rispettato il requisito di prontezza, ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione. In secondo luogo, ha ritenuto che nessuna delle decisioni prese, né alcuna delle valutazioni degli esperti presentate, avesse affrontato in modo soddisfacente la questione del possibile nesso causale tra le varie malattie sofferte dal paziente due giorni dopo l'intervento. La Camera ha osservato che, in ogni serie di procedimenti, gli eventi erano stati descritti in ordine cronologico, in isolamento l'uno dall'altro. Infine, la Camera ha ritenuto che se la meningite fosse una possibile complicazione in seguito a questo tipo di chirurgia, allora il problema se il marito della richiedente fosse stato debitamente informato dei rischi che avrebbe dovuto affrontare in modo da poter dare il suo consenso informato, doveva essere affrontato dai tribunali nazionali. Nessuna spiegazione era stata fornita nei procedimenti nazionali riguardanti il ​​protocollo medico pre e postoperatorio per questo intervento chirurgico. La Camera, quindi, considerò che le autorità nazionali non avevano affrontato il caso della richiedente, riguardo alla morte di suo marito, in un modo compatibile con i requisiti procedurali dell’articolo 2 della Convenzione.

5.2. Le osservazioni delle parti

(a) Il richiedente

La richiedente ha affermato che, in caso di morte avvenuta in un ospedale senza che la causa venisse chiarita, in linea di principio vi era l'obbligo di istituire un meccanismo procedurale adeguato, per determinare tale causa, di tenere in custodia le persone responsabili e di correggere eventuali carenze nel funzionamento del sistema. A questo proposito ha sottolineato che ha costantemente messo in moto i meccanismi appropriati a livello nazionale. Secondo la giurisprudenza della Corte, l'adempimento dell'obbligo procedurale di cui all'articolo 2, imponeva:

  • (i) l’esistenza di meccanismi giuridici efficaci per stabilire i fatti e la responsabilità di coloro che sono colpevoli
  • (ii) che il compito di stabilire tali fatti e responsabilità sia assunto da persone imparziali;
  • (iii) che le procedure in questione siano avviate e attuate in tempo utile e con prontezza adeguata, senza ritardi non necessari o ingiustificati; e
  • (iv) che vengano presi provvedimenti specifici richiesti dalle circostanze.

Al riguardo, la ricorrente non ha contestato il fatto che le due prime condizioni fossero state soddisfatte nelle circostanze della presente causa. Tuttavia, sosteneva che le autorità nazionali non avevano reagito alla situazione con la prontezza, la reattività e la diligenza necessarie, come stabilito nei paragrafi 132-37 della sentenza della Camera, con la quale concordava. Ha inoltre considerato che vi erano stati numerosi errori che avevano compromesso il processo decisionale. In primo luogo, come ha osservato la Camera, le autorità nazionali non hanno effettuato una valutazione completa, approfondita e soddisfacente. In secondo luogo, come la Camera aveva anche sottolineato, i rischi connessi all'intervento chirurgico previsto non erano stati chiariti al paziente. In terzo luogo, le autorità non avevano nemmeno tentato di determinare l'origine del batterio che aveva causato la meningite e, in quarto luogo, in assenza di una spiegazione adeguatamente motivata per la catena di eventi in questione, l'autopsia avrebbe dovuto essere obbligatoria.

(b) Il governo

Il governo ha sostenuto che la morte di un paziente in ospedale non poteva essere paragonata alla morte di qualcuno che era sotto il controllo delle autorità o della morte di persone vulnerabili affidate ai servizi pubblici. Riteneva che la morte di un paziente a seguito di una procedura medica in ospedale non richiedesse l'istituzione automatica di un'indagine, in particolare quando la morte non suscitava dubbi sulla sua causa o sollevava sospetti sull'esistenza di un atto intenzionale o negligenza medica. Secondo il governo, tuttavia, era necessario un esame di tutte le circostanze, al fine di determinare la causa del decesso, poiché l'esecuzione dell'autopsia era richiesta solo laddove non fosse stato possibile determinarne la causa. Il governo ha sostenuto che, nel caso in esame, non esistevano prove o indicazioni di negligenza medica e che la causa della morte era nota. Ha dichiarato che, ai sensi dell'articolo 54 del decreto legislativo n. 11/98 del 24 gennaio 1998, le autopsie sono state intraprese in caso di morte violenta o in cui la causa della morte era sconosciuta.

Tale istituto notò tuttavia che, quando la ricorrente aveva presentato le sue accuse, erano stati avviati un certo numero di procedimenti di diversa natura, che avevano proseguito il loro corso completo. Tutte le azioni richieste erano state eseguite, così come tutte le azioni appropriate che erano state necessarie, per contribuire a stabilire i fatti e determinare le possibili responsabilità. Il governo ha fornito una descrizione dettagliata delle misure adottate nel corso di ogni serie di procedimenti. Sostenne che i tribunali e gli organi disciplinari coinvolti nella presente causa avevano avuto un insieme chiaro e dettagliato di fatti a loro disposizione riguardanti, in particolare, le cause di morte, che avevano permesso loro di concludere senza alcun dubbio che non vi era stata alcuna negligenza medica. In tale contesto, il Governo ha sottolineato che la ricorrente ha partecipato in ogni fase del procedimento, ha presentato i suoi argomenti e le sue prove in pieno contraddittorio, ha presentato denunce e ha impugnato le decisioni. Inoltre, i procedimenti giudiziari avevano avuto luogo di fronte a giudici indipendenti e imparziali e le udienze erano state pubbliche.

Il Governo ha ammesso che il procedimento è stato lungo. Tuttavia, riteneva che ciò non ostacolasse l'osservanza effettiva dell'obbligo procedurale. Sosteneva che la durata dei procedimenti penali e civili e quelli precedenti all'IGS potevano essere attribuiti proprio agli sforzi compiuti dalle autorità competenti, per affrontare con rigore tutti i fatti del caso e tutti i dubbi espressi dalla ricorrente. In tali circostanze, il Governo riteneva che la durata del procedimento non potesse essere un motivo per trovare una violazione dell'obbligo procedurale, ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione. Al massimo, sosteneva che lunghi procedimenti potevano violare l'articolo 6 § 1 della Convenzione, che era incidentalmente la denuncia presentata dalla ricorrente.

Il Governo ha ribadito che, in conformità con la giurisprudenza della Corte, l'obbligo derivante dalla parte procedurale dell'articolo 2 era uno dei mezzi e non il risultato. A questo proposito, se alcuni dubbi fossero persistiti riguardo agli eventi che circondano la morte del marito della richiedente, questo era semplicemente perché c'erano sempre situazioni in cui la scienza medica non era in grado di prevedere, diagnosticare o spiegare. Tuttavia, questo non era in alcun modo attribuibile alla mancanza di sforzi da parte delle autorità nazionali. Il governo, quindi, ha ritenuto che gli obblighi procedurali derivanti dall'articolo 2 della Convenzione fossero stati soddisfatti nel caso di specie. Di conseguenza, hanno chiesto che la domanda fosse respinta, in quanto inammissibile ai sensi dell'articolo 35 § 4 della Convenzione, per il motivo che era manifestamente infondata.

5.3. La valutazione della Corte

(a) Principi generali

La Corte ha interpretato l'obbligo procedurale dell'articolo 2 nel contesto dell'assistenza sanitaria, in quanto richiede agli Stati di istituire un sistema giudiziario efficace e indipendente, in modo che la causa della morte dei pazienti nelle cure della professione medica, sia nel pubblico o nel settore privato, può essere determinata e i responsabili resi tali (vedere, tra le altre autorità, Šilih c. Slovenia [GC], no 71463/01, § 192, 9 aprile 2009, e i casi citati in esso).

Mentre in alcune situazioni eccezionali, in cui la colpa imputabile agli operatori sanitari, è andata oltre un semplice errore o negligenza medica, la Corte ha ritenuto che il rispetto dell'obbligo procedurale debba includere il ricorso al diritto penale (si veda, ad esempio, Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk, § 104-105, e Asiye Genç, § 73, entrambi citati sopra). In tutti gli altri casi in cui la violazione del diritto alla vita o all'integrità personale non è causata intenzionalmente, l'obbligo procedurale imposto dall'articolo 2, per istituire un sistema giudiziario efficace ed indipendente, non richiede necessariamente la fornitura di un rimedio di diritto penale (v. paragrafo 137, v. anche Cevrioğlu c. Turchia, n. 69546/12, § 54, 4 ottobre 2016).

La Corte ribadisce che la scelta dei mezzi per garantire gli obblighi positivi di cui all'articolo 2 è, in linea di principio, una questione che rientra nel margine di valutazione dello Stato contraente. Ci sono diverse strade per garantire i diritti della Convenzione, e anche se lo Stato non ha applicato una particolare misura prevista dal diritto nazionale, può comunque adempiere al suo dovere positivo con altri mezzi (vedi Cevrioğlu, citata sopra, § 55). Tuttavia, affinché questo obbligo sia soddisfatto, tali procedimenti devono non solo esistere in teoria, ma anche operare efficacemente nella pratica (si veda, ad esempio, Byrzykowski, citata sopra, § 105, e Spyra e Kranczkowski c. Polonia, n. 19764/07, § 88, 25 settembre 2012).

In questo contesto, è implicito un requisito di indipendenza del sistema nazionale istituito, per determinare la causa della morte dei pazienti affidati alla professione medica. Ciò richiede non solo una mancanza di connessione gerarchica o istituzionale, ma anche che tutte le parti incaricate di condurre una valutazione nel procedimento per determinare la causa della morte dei pazienti godano dell'indipendenza formale e, di fatto, di coloro che sono implicati negli eventi (vedere Bajić c. Croazia, No. 41108/10, § 90, 13 novembre 2012). Questo requisito è particolarmente importante quando si ottengono referti medici da testimoni esperti (vedi Karpisiewicz c. Polonia (dec.), N. 14730/09, 11 dicembre 2012), poiché è molto probabile che le relazioni mediche dei testimoni esperti abbiano un peso cruciale in una valutazione, da parte della Corte, sulle questioni estremamente complesse di negligenza medica, conferendo loro un ruolo particolarmente importante nel procedimento (vedi Bajić, citata sopra, § 95).

Allo stesso modo, l'obbligo procedurale ai sensi dell'articolo 2, nel contesto dell'assistenza sanitaria richiede, inter alia, che il procedimento venga completato entro un termine ragionevole (vedere Šilih, citata sopra, § 196). In tale contesto, la Corte sottolinea che, oltre alla preoccupazione per il rispetto dei diritti inerenti all'articolo 2 della Convenzione in ogni singolo caso, anche considerazioni più generali richiedono un rapido esame dei casi di negligenza medica in un contesto ospedaliero. La conoscenza dei fatti e dei possibili errori commessi nel corso delle cure mediche è essenziale per consentire alle istituzioni e al personale medico interessato di porre rimedio alle potenziali carenze e prevenire errori simili. Il rapido esame di tali casi è quindi importante per la sicurezza di tutti gli utenti dei servizi di assistenza sanitaria (vedi Oyal, § 76).

Per questo motivo, la Corte ha dichiarato che, nell'articolo 2, in casi riguardanti procedimenti avviati a chiarire le circostanze della morte di un individuo in un contesto ospedaliero, la lunghezza del procedimento è un forte indizio del fatto che lo stesso era difettoso, al punto di costituire una violazione degli obblighi positivi dello Stato convenuto ai sensi della Convenzione, a meno che lo Stato non abbia fornito motivazioni altamente convincenti e plausibili, per giustificare la durata del procedimento (si veda, ad esempio, Bilbija e Blažević c. Croazia, 62870/13 , § 107, 12 gennaio 2016).

Diversamente dai casi riguardanti l'uso letale della forza da parte di agenti dello Stato, quando le autorità competenti devono di propria iniziativa avviare indagini, in casi riguardanti negligenza medica in cui la morte è causata involontariamente, gli obblighi procedurali degli Stati possono entrare in gioco, come istituzione di procedimenti da parte dei parenti del defunto (vedere Šilih, citata sopra, § 156).

Infine, la Corte sottolinea che questo obbligo procedurale non è un obbligo di risultato ma solo di mezzi (ibid., § 193). Pertanto, il semplice fatto che i procedimenti relativi alla negligenza medica si siano conclusi in modo sfavorevole per la persona interessata non significa, di per sé, che lo Stato convenuto abbia violato il suo obbligo positivo ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione (cfr. Besen c. Turchia (dec.), N. 48915/09, § 38 in fine, 19 giugno 2012, EM e Altri c. Romania (dec.), 20192/07, § 50, 3 giugno 2014).

(b) Applicazione di questi principi alla presente causa

La Corte osserva che il marito della richiedente, che era stato in buona salute, subì una operazione di routine in ospedale e finì per soffrire di meningite batterica, ulcere, colite e altre complicazioni mediche che lo portarono alla morte, tre mesi dopo dalla setticemia causata da peritonite e un viscus perforato. In considerazione della succitata sequenza di eventi, la Corte ritiene che la ricorrente avesse motivi discutibili per sospettare che il decesso di suo marito potesse essere il risultato di negligenza medica. Il dovere dello Stato convenuto di garantire l'adempimento degli obblighi procedurali derivanti dall'articolo 2, nel procedimento avviato in relazione al decesso del marito, è quindi impegato nella presente causa (vedere Šilih, citata sopra, § 197). Questo obbligo entrò in gioco sull'istituzione del procedimento da parte del richiedente (ibid., § 156).

La Corte nota che, in caso di negligenza medica, il diritto portoghese prevede, oltre alla possibilità di un procedimento penale, la possibilità di avviare procedimenti per responsabilità civile nei tribunali amministrativi, contro gli ospedali pubblici. Gli ospedali possono, a loro volta, avere il diritto di chiedere il risarcimento del danno da pagare ai funzionari che hanno agito in violazione del loro dovere professionale. Inoltre, una richiesta può essere presentata al Ministero della Salute e all'Associazione medica che cerca di stabilire una responsabilità disciplinare da parte dei membri della professione sanitaria.

Su tale base, la Corte conclude che l'ordinamento giuridico portoghese offre rimedi giudiziari che, in teoria, soddisfano i requisiti degli obblighi procedurali di cui all'articolo 2. Il richiedente non ha argomentato diversamente.

Nella presente causa, il richiedente si è avvalso di tutte le procedure sopra menzionate. La questione è quindi se, nella fattispecie concreta della causa, data l'importanza fondamentale del diritto alla vita garantito ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione e l'importanza particolare che la Corte ha attribuito all'aspetto procedurale di tale disposizione, l'ordinamento giuridico sia trattato adeguatamente con il caso in questione (vedi Dodov, citata sopra, § 86, Arskaya, citata sopra, § 66, e Kudra c. Croazia, No. 13904/07, § 107, 18 dicembre 2012).

In via preliminare, la Corte osserva che la ricorrente non ha contestato l'indipendenza e l'imparzialità delle autorità nazionali o degli esperti che hanno fornito prove nei vari procedimenti. Essa ritiene, inoltre, che il richiedente abbia avuto la possibilità di partecipare attivamente ai vari procedimenti e si sia avvalsa dei suoi diritti procedurali per influenzare il loro percorso. Non vi è nulla nel fascicolo da dimostrare - né la ricorrente ha sostenuto altro dinanzi alla Grande Camera - che è stata messa in una situazione di svantaggio procedurale, nei confronti delle istituzioni mediche o dei medici, in nessuno di questi procedimenti. Resta quindi da verificare se i procedimenti nazionali siano stati efficaci in termini di completezza, tempestività e conclusione entro un termine ragionevole.

Per quanto riguarda l'accuratezza, il Tribunale ritiene opportuno rispondere, in primo luogo, alle censure specifiche sollevate dalla ricorrente nelle sue comunicazioni scritte, relative alla mancanza di un'autopsia e al consenso del marito alla sua operazione (v. paragrafo 209). Per quanto riguarda la prima di queste questioni, la Corte concorda con la tesi della Camera, secondo cui la causa della morte del marito della ricorrente non aveva sollevato dubbi che avrebbero richiesto l'esecuzione di un'autopsia, ai sensi delle disposizioni statutarie a tale riguardo. Per quanto riguarda il secondo problema, in assenza di uno specifico reclamo in merito, la Corte ritiene che gli organi giudiziari e di altro tipo non possano essere censurati per non aver approfondito tale questione (v., Ad esempio, Vasileva, citata sopra, § 76).

La Corte procederà ora all'esame del modo in cui sono stati condotti i procedimenti nazionali.

Per quanto riguarda il procedimento dinanzi all'IGS, la Corte osserva, in primo luogo, che ha impiegato due anni dall'IGS, per ordinare l'apertura di un'inchiesta, e un altro anno per nominare un ispettore a capo dell'indagine. In secondo luogo, per la prima volta, dal richiedente sono state fornite le prove per quasi tre anni e sei mesi, dopo aver contattato le autorità. L'indagine di fronte a questo corpus mancava quindi di prontezza. La Corte osserva, inoltre, che il procedimento dinanzi all'IGS era già scaduto da poco più di sette anni e dieci mesi, prima che il ricorrente fosse informato e che il procedimento disciplinare, avviato contro il dott. J.V., sarebbe stato sospeso, in attesa dell'esito del procedimento penale. Durante questo periodo, il rapporto dell'ispettore è stato accantonato due volte dall'Ispettorato generale per la salute, al fine di ottenere ulteriori informazioni o di ordinare nuove valutazioni di esperti provenienti da diversi settori della medicina interna e della gastroenterologia. L'adozione successiva di tali decisioni, all'interno di una serie di procedimenti ha rivelato, nelle particolari circostanze della presente causa, una deficienza nel modo in cui l'Ispettore Generale ha indagato sul caso.

Per quanto riguarda i procedimenti dinanzi all'Associazione medica, la Corte osserva che questa ha risposto prontamente alla richiesta del richiedente, chiedendo il parere di cinque dei suoi gruppi di specialisti, subito dopo aver ricevuto le cartelle cliniche del paziente, e che la durata complessiva del procedimento dell'associazione medica era di circa quattro anni e cinque mesi e posto su due livelli. Ciò non può essere considerato di per sé irragionevole. Tuttavia, la Corte non può perdere di vista il fatto che il procedimento davanti a questo organo specializzato consisteva, semplicemente, nell'esaminare le cartelle cliniche del paziente e le opinioni dei gruppi di specialisti. Il procedimento è stato scritto e non sono state raccolte prove. Visto da questo punto di vista e in assenza di spiegazioni da parte del governo, la durata di questi procedimenti era irragionevole.

Alla luce di quanto sopra espresso, la Corte ritiene che il procedimento disciplinare nella presente causa non possa essere considerato efficace ai fini dell'articolo 2. È inoltre necessario esaminare l'efficacia del procedimento penale.

A questo proposito la Corte nota che, nella presente causa, non vi è nulla che indichi che la morte del marito della richiedente sia stata causata intenzionalmente, e le circostanze in cui si è verificata non erano tali da sollevare sospetti a tale riguardo. Pertanto, l'articolo 2 non richiedeva necessariamente un rimedio di diritto penale. Tuttavia, se ritenuti efficaci, tali procedimenti sarebbero di per sé in grado di soddisfare l'obbligo procedurale dell'articolo 2 (vedere Šilih, citata sopra, § 202).

La Corte osserva, in primo luogo, che le autorità inquirenti hanno avviato un procedimento penale nei confronti del Dr J.V., semplicemente sulla base della relazione adottata dall'Ispettore nel procedimento dinanzi all'IGS, senza condurre ulteriori indagini (v. paragrafo 62). Di conseguenza, il procedimento penale riguardava solo la questione ristretta, contenuta nelle accuse che erano state presentate, e non trattava alcuna delle altre cause di presunta negligenza medica denunciate dalla ricorrente. Questo, di per sé, è sufficiente per ritenere che fossero carenti. Avendo riguardo della portata limitata del procedimento penale, il richiedente non poteva essere accusato di non fare appello contro la sentenza della Corte. In secondo luogo, il procedimento non era né tempestivo, né la sua durata complessiva era ragionevole. Tra il 29 aprile 2002 e il 7 dicembre 2007, le autorità giudiziarie non hanno compiuto passi procedurali significativi, ad eccezione di quelli menzionati nei precedenti paragrafi 60 e 61, un periodo di quasi cinque anni e sette mesi. Il procedimento, nel complesso, è durato sei anni, otto mesi e diciannove giorni.

Alla luce delle summenzionate carenze, la Corte ritiene che i procedimenti penali nella presente causa fossero anche inefficaci ai fini dell'articolo 2. La Corte ritiene, inoltre, necessario esaminare l'efficacia del ricorso per risarcimento, proposto dalla ricorrente nei confronti dei tribunali amministrativi.

Come menzionato sopra (v. punto 138), secondo la Corte, tali procedimenti erano, in linea di principio, idonei a fornire il risarcimento più appropriato, in relazione alla morte del marito della ricorrente. Tuttavia, la Corte non ritiene di averlo fatto nel caso di specie, per i seguenti motivi.

La Corte osserva che la prima caratteristica che colpisce di questi procedimenti è la loro considerevole lunghezza. Rileva che il procedimento di risarcimento davanti al tribunale amministrativo e fiscale di Oporto è iniziato il 6 marzo 2003 e si è concluso il 26 febbraio 2013. Sono quindi durati nove anni, undici mesi e venticinque giorni, su due livelli di giurisdizione. Contrariamente a quanto affermato dal governo, il fascicolo non suggerisce che un procedimento così lungo fosse giustificato dalle circostanze del caso. In particolare, la Corte sottolinea che la Corte amministrativa e fiscale di Oporto ha impiegato più di quattro anni per prendere una decisione preliminare e altri quattro anni per organizzare le audizioni. La Corte ritiene che un tempo così lungo prolunghi la prova dell'incertezza non solo per i ricorrenti, ma anche per i professionisti medici interessati.

In secondo luogo, la Corte ritiene che, ai fini dell'obbligo procedurale dell'articolo 2, l'ambito di un'indagine di fronte a questioni complesse che sorgono in un contesto medico non può essere interpretato come limitato al tempo e alla causa diretta della morte dell'individuo. La Corte non può speculare sui motivi per cui l'origine del batterio che ha causato la contrazione della meningite da parte del marito della ricorrente, non può essere stabilita a livello nazionale. Ritiene tuttavia che, laddove vi sia una pretesa prima facie discutibile, di una catena di eventi che potrebbe essere scatenata da un presunto atto di negligenza che potrebbe aver contribuito alla morte di un paziente, in particolare se si tratta di una accusa di infezione acquisita in ospedale, ci si può aspettare che le autorità conducano un esame approfondito della questione. La Corte ritiene che tale esame non sia stato condotto nel caso di specie, in cui i tribunali nazionali, invece di effettuare una valutazione complessiva, si sono avvicinati alla catena di eventi come una successione di incidenti medici, senza prestare particolare attenzione a come potrebbero essere correlati a vicenda.

In sintesi, la Corte considera che il sistema nazionale nel suo complesso, di fronte a un caso discutibile di negligenza medica che ha causato la morte del marito della richiedente, non ha fornito una risposta adeguata e tempestiva, in conformità con l'obbligo dello Stato ai sensi dell'articolo 2. Di conseguenza, vi è stata una violazione dell'aspetto procedurale di tale disposizione.

6. Conclusione

La Corte reitera che non c'è stata violazione della parte sostanziale dell'articolo 2 della Convenzione e che c'è stata una violazione della parte procedurale dell'articolo 2 della stessa. La Corte, pertanto, respinge l'eccezione preliminare del Governo, secondo cui la domanda è manifestamente infondata.

6.1. Applicazione dell'articolo 41 della Convenzione

L'articolo 41 della Convenzione prevede:

"Se la Corte constata una violazione della Convenzione o dei relativi Protocolli, e se la legge interna dell'Alta Parte Contraente in questione consente solo un parziale risarcimento, la Corte, se necessario, può offrire un risarcimento equo alla parte lesa."

6.2. Danni

Nel procedimento dinanzi alla Camera, la ricorrente ha chiesto rispettivamente 174.580 euro (EUR) e 100.000 euro, a titolo di danno pecuniario e non patrimoniale.

Per quanto riguarda la somma richiesta in relazione al danno patrimoniale, la Camera ha riscontrato, oltre alla mancanza di prove a sostegno del reclamo, nessun nesso di causalità tra la violazione riscontrata e il presunto danno patrimoniale. Di conseguenza, ha respinto tale richiesta. Al contrario, riteneva che il giusto risarcimento dovesse essere concesso in considerazione del fatto che la violazione degli aspetti sostanziali e procedurali dell'articolo 2 aveva causato alla richiedente un danno non patrimoniale, mettendola in una posizione di angoscia e frustrazione. Ha assegnato alla richiedente 39.000 EUR sotto tale capo.

Prima della Grande Camera, nelle sue osservazioni del 31 agosto 2016, la ricorrente non ha avanzato alcuna richiesta specifica di equo risarcimento. Tuttavia, all'udienza dinanzi alla Grande Camera, il rappresentante della ricorrente ha fatto riferimento alla sua domanda dinanzi alla seguente ed ha sottolineato che la ricorrente ha accettato la decisione presa da tale organo, in merito al risarcimento.

Il Governo non ha commentato la questione del risarcimento, dopo che è stata sollevata dal rappresentante della ricorrente, all'udienza dinanzi alla Grande Camera.

La Corte reitera che l'Articolo 41 autorizza l’offerta alla parte lesa, affinché sia appropriata alla seguente (vedere Karácsony e altri c. Ungheria [GC], 42461/13, § 179, ECHR 2016 [estratti]).

A questo proposito, osserva che non vi è dubbio che una richiesta di equo risarcimento è stata debitamente formulata durante la procedura di comunicazione dinanzi alla Camera, entro i termini prescritti (cfr. Schatschaschwili c. Germania [GC], n. 9154/10, § 167, ECHR 2015 e Nagmetov c. Russia [GC], n. 35589/08, § 62, 30 marzo 2017), che portano ad un risarcimento del richiedente, a titolo di danno non patrimoniale.

Inoltre, la Corte nota che, mentre il richiedente non avanzò alcuna rivendicazione recente per il risarcimento entro il termine prescritto, nel procedimento dinanzi alla Grande Camera, la donna successivamente, ha fatto riferimento al suo reclamo davanti all'Aula e ha affermato di aver accettato la decisione presa da quest'ultimo, per quanto riguarda la somma. Il governo, che ha avuto l'opportunità di rispondere a questa richiesta in udienza, non ha obiettato.

Alla luce di quanto menzionato, la Corte è convinta che una "domanda" di equo risarcimento sia stata presentata alla Corte nella presente causa.

Come la Camera, la Corte non ravvisa alcun nesso causale tra la violazione riscontrata e il danno patrimoniale non motivato addotto, e respinge questa richiesta.

Per quanto riguarda il danno morale, la Corte osserva che lo Stato non è stato ritenuto responsabile per la morte del marito della richiedente. Nondimeno, ritiene che la richiedente debba aver subito gravi disagi e frustrazione, a causa dell'inadeguatezza e della natura protratta del procedimento da lei avviato, al fine di chiarire le circostanze relative alla morte del marito. Decidendo in equità, come richiesto dall'articolo 41, la Corte assegna alla signora Lopes 23.000 euro, sotto questo capo.

6.3. Costi e spese

Poiché la ricorrente, a cui è stato concesso il gratuito patrocinio per il procedimento dinanzi alla Grande Camera, non ha presentato alcuna richiesta di risarcimento per costi e spese, la Corte non rilascia alcuna indennità sotto questo capo (cfr. Perdigão c. Portogallo [GC], 24768/06, § 87, 16 novembre 2010).

6.4. Interessi di mora

La Corte ritiene appropriato che il tasso di interesse di mora dovrebbe essere basato sul tasso di prestito marginale della Banca centrale europea, a cui dovrebbero essere aggiunti tre punti percentuali.

PER QUESTE RAGIONI, LA CORTE

  1. si unisce al merito, all'unanimità, dell'eccezione preliminare del Governo secondo cui la domanda è manifestamente infondata e la respinge;
  2. Dichiara, con quindici voti contro due, che non vi è stata violazione della parte sostanziale dell'articolo 2 della Convenzione;
  3. Dichiara, all'unanimità, che vi è stata una violazione del capo procedurale dell'articolo 2 della Convenzione;
  4. Dichiara, con quindici voti contro due,
    1. che lo Stato convenuto deve versare alla richiedente, entro tre mesi, la somma di EUR 23.000 (ventitremila euro), più eventuali imposte che possono essere addebitabili su tale importo, in relazione al danno non pecuniario:
    2. dalla scadenza dei tre mesi summenzionati fino al pagamento dell'interesse semplice sull'importo, ad un tasso pari al tasso di prestito marginale della Banca centrale europea durante il periodo predefinito, più tre punti percentuali;
  5. Respinge, con quindici voti a due, il resto della domanda della richiedente per soddisfazione equa.