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Pubbl. Lun, 22 Ago 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

La responsabilità internazionale ed il ruolo delle imprese multinazionali: un rapporto policromatico

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Luigimaria Riccardi
AvvocatoUniversità di Pisa


La Corte internazionale di Giustizia si è pronunciata su una complessa vicenda avente ad oggetto le violazioni di norme internazionali pattizie e consuetudinarie, richiamando in parte lo schema di progetto di articoli sulla Responsabilità internazionale degli Stati predisposto dalla CdI nel 2001. Quanto ancora lontani da una sua codificazione?


Recentemente la Corte Internazionale di Giustizia (di seguito CIG) si è pronunciata in una districata controversia tra “Costa Rica v. Nicaragua/ (joined cases il 16 dicembre 2015, antecedentemente erano due ma poi riunite) avente ad oggetto le violazioni di alcune norme internazionali pattizie e consuetudinarie, richiamando in auge l’istituto della responsabilità internazionale. La CIG mette in luce una serie di rilevanti questioni ancora ad oggi irrisolte e offre spunti di riflessione per un nuovo modello di parametrazione della responsabilità internazionale (es. richiamando l’operatività del principio di precauzione e prevenzione, del rapporto tra responsabilità e riparazione oppure sulla vincolatività delle misure cautelari adottate, in particolare con riferimento al rapporto tra attività di costruzione e preservazione del territorio attraverso l'individuazione dell'obbligo dello Stato di effettuare un'analisi di impatto ambientale qualora l'attività in questione produca effetti trasfrontalieri). 

Ora, con il termine Responsabilità internazionale si indicano le relazioni giuridiche conseguenti alla violazione di una norma di diritto internazionale (generale e/o pattizio) la quale comporta la commissione di un illecito internazionale. Nel 2001 la Commissione di diritto internazionale (di seguito CDI) nel relativo progetto di articoli sulla responsabilità internazionale ha stabilito che “ogni atto internazionalmente illecito di uno Stato comporta la sua responsabilità internazionale”. Le relazioni giuridiche conseguenti all’illecito consistono nel problematico rapporto che si instaura tra lo Stato autore dell’illecito e lo Stato vittima dello stesso. Il primo avrà l’obbligo di adempiere alla riparazione ed il secondo avrà il diritto di pretenderla. Inoltre allo Stato leso è riconosciuto il diritto di comminare una contromisura nei confronti del primo.

Una prima questione che si pone è quella di comprendere se tale contromisura operi automaticamente oppure solo nel momento in cui lo Stato autore dell’illecito non si attivi per la riparazione in favore dello Stato leso, il quale potrà agire attraverso una contromisura che sarà quindi solo strumentale alla realizzazione della riparazione stessa.

Una seconda questione, sempre inerente al diritto e alla esecuzione della contromisura, si pone con riferimento alla possibilità che lo Stato autore dell’illecito debba rispondere nei confronti di una pluralità di controparti statali, come accade ad esempio se si presentasse la violazione di una norma contenuta in un Trattato multilaterale. In questo caso ovviamente è possibile che non tutti gli Stati siano stati lesi materialmente anzi che solo uno di essi abbia subito concreti danni. In quest’ultimo caso chi avrà il diritto di agire in contromisura? Al riguardo esistono due dottrine: 1) la prima considera rilevante solo il danno materialmente subito e sofferto e quindi dando solo allo Stato che ne presenta le caratteristiche concrete il diritto ad agire in contromisura ed invocare la responsabilità, 2) la seconda teoria (maggioritaria) invece tiene in considerazione il danno giuridico conferendo a tutti gli Stati il diritto ad intervenire per invocare la responsabilità, ma solo allo Stato concretamente leso il diritto di agire in contromisura. Ovviamente la medesima contromisura dovrà rispettare taluni limiti imposti dalle norme di diritto internazionale consuetudinario (es.art.2 par.4 Carta ONU sul divieto dell’uso della forza, e il divieto di aggressione), la cui violazione comporterebbe un illecito di più grave importanza data la rilevanza cogente di alcune disposizioni quale quella stabilita nella risoluzione 3314 del 1974 sulla definizione di aggressione.

All’interno degli ordinamenti degli Stati si distingue tra la responsabilità civile e quella penale, al contrario nel diritto internazionale questa differenziazione non sembra esistere ancora ma si tende a considerare la responsabilità internazionale molto simile alla prima, soprattutto in considerazione delle conseguenze che da essa discendono. Talvolta la stessa violazione della norma internazionale però potrebbe comportare la responsabilità penale dell’individuo che la abbia materialmente provocata. Un tentativo però di differenziare la natura della responsabilità internazionale è stato fatto dalla CDI distinguendo tra crimini e delitti internazionali, tentativo non andato a buon fine a causa dell’opposizione di alcuni Stati come gli U.S.A. Il Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale ha trovato nel 2001 una forma più o meno omogenea, quale risultato di un lungo percorso e che ebbe il suo principio nel 1949 poi proseguito e perfezionato fino ad oggi ma con scarsi risultati. Importante però è sottolineare che, pur essendo il progetto rimasto in una sorta di limbo, la CIG è intervenuta in più riprese a considerare ed affermare che talune norme del progetto rientrano nel diritto internazionale consuetudinario. Ora prendendo in considerazione l’art. 2 del progetto si può comprendere quali siano gli elementi costitutivi del fatto illecito, ovvero due: 1) la violazione della norma di diritto internazionale, come elemento oggettivo e 2) l’imputabilità della condotta lesiva ad uno Stato. Partendo dall’elemento oggettivo, esso si caratterizza per la mera violazione di un obbligo internazionale generale e/o pattizio, ciò che importa è che la norma sia in vigore nel momento in cui lo Stato ponga in essere la condotta. Di notevole e più vivo interesse sembra invece avere l’elemento soggettivo il quale invece consiste nel capire se la condotta perpetrata possa o meno essere imputabile allo Stato. La questione non deve essere sottovalutata, infatti essa pone notevoli e plurime criticità nel momento in cui la violazione della norma internazionale provenga non direttamente da un organo dello Stato ma da un individuo o da un gruppo di individui. Infatti nel primo caso è molto semplice imputare la condotta illecita allo Stato proprio in virtù che il fatto è commesso o omesso da un organo statale sia esso amministrativo, legislativo o giudiziario, si pensi in quest’ultimo caso alla possibilità che un giudice statale convenga in giudizio uno Stato in palese violazione della norma di diritto consuetudinaria relativa alla immunità degli Stati dalla giurisdizione relativamente ad atti iure imperii (importante tematica in quest’ultimo ambito sorge nel caso in cui una persona chiami a rispondere uno Stato di un crimine efferato quali quelli contro l’umanità o di guerra, oggi oggetto di un notevole dibattito nel nostro paese tra la Corte costituzionale, la Corte di Cassazione e la CIG, si pensi al “caso Ferrini”  o alla recente sentenza del Tribunale di Piacenza del 26 settembre 2015). Nel momento in cui è un individuo a commettere un illecito la questione che si pone è come ritenere imputabile lo Stato. Un primo caso appare di facile apprensione. Nel momento in cui l’individuo o il gruppo agisca su istruzione ufficiale dello Stato considerato (si pensi al caso in cui un comando militare rapisca un individuo all’estero su ordine dello Stato). In altri casi l’individuo o chi per esso potrebbe agire come un organo statale (art. 8 del progetto) o ancora nel caso in cui la condotta materiale dell’individuo venga fatta propria dallo Stato attraverso una dichiarazione successiva o anche attraverso fatti concludenti (si pensi al caso “Ostaggi a Teheran”, in cui il comportamento degli studenti islamici, che presero in ostaggio agenti diplomatici degli USA, fu avallato dagli organi statali). Un caso complesso si pone quando apparentemente l’individuo sembri agire in modo indipendente ed autonomo ma in sostanza sotto la supervisione ed il controllo dello Stato. La questione che ivi si pone è in che modo provare tale controllo o il grado di controllo che lo Stato deve aver perfezionato sull’individuo per essere considerato responsabile a livello internazionale. Secondo un primo orientamento, avallato dal Tribunale per la ex-Iugoslavia, si ritiene sufficiente provare un overall controll ovvero un controllo generale, così estendendo la portata di applicabilità della responsabilità internazionale. Un secondo e più apprezzabile orientamento ritiene invece che sia necessario un puntuale ed effettivo controllo su ogni specifico atto lesivo, teoria prospettata nella famosa sentenza “Nicaragua v. U.S.A.” del 1986 e poi avallata dalla stessa CDI nel progetto di articoli, considerata dichiarativa del diritto internazionale consuetudinario. Inoltre, sull’azione dell’individuo, il progetto di articoli non risponde circa la possibilità di inquadrare una responsabilità internazionale dello Stato in virtù di un comportamento interindividuale qualora lo Stato “tolleri” e non si attivi per impedire le violazioni perpetrate. In particolare il Progetto rimane sul vago analizzando quelle che sono le conseguenze imputabili ad uno Stato in relazione di attività svolte in altro territorio sovrano da parte dei così detti “Private contractors”. Un elemento importante sembra essere quello che né il danno né la colpa assurgono quali elementi costitutivi del fatto illecito ma solo come criteri guida nell’identificare lo Stato materialmente danneggiato e quindi fornire la prospettiva di colui che potrà legittimamente agire in contromisura e invocare la responsabilità con conseguente diritto alla riparazione. Sembra infatti che ciò che venga in considerazione dal progetto di articoli e dal diritto consuetudinario è il “pregiudizio giuridico”. Partendo da tale premessa si ritiene rilevante comprendere se alla luce del diritto internazionale consuetudinario e pattizio sia possibile individuare una più estesa rilevanza del danno e/o della colpa quale elementi guida della responsabilità internazionale. Nell’ambito delle cause di esclusione del fatto illecito il progetto di CDI prende in considerazione le seguenti fattispecie: consenso dell’avente diritto, stato di necessità, forza maggiore, legittima difesa, l’estremo pericolo e le contromisure. Tralasciando la descrizione delle singole fattispecie, è importante osservare come nel progetto del CDI sembra essere rimasta irrisolta una importante questione ovvero l’obbligo (da parte del soggetto danneggiante) di indennizzare lo Stato leso pur in presenza di una esimente. Il punto è evocato dall’art. 27 let. B) del progetto. Secondo una parte della dottrina non tutte le esimenti comporterebbero questo obbligo (es. la legittima difesa o la contromisura), inoltre, secondo il commentario della CDI, sembra che sia l’an sia il quantum dell’indennizzo dipenderebbero da un accordo tra le parti coinvolte, senza neppure specificare se tutte le esimenti o solo alcune di esse implichino l’indennizzo. In particolar modo si evidenzia la necessità di un approfondimento di un’esimente che ad oggi riveste un ruolo assai importante ovvero quella dello “Stato di necessità ambientale”. Come ha precisato la CIG nella nota sentenza “Costruzioni dighe sul Danubio”, non solo appartiene al diritto internazionale consuetudinario ma permette di violare un obbligo internazionale adducendo un danno irreparabile grave all’ambiente e all’ecosistema, quali “interessi essenziali” della Comunità internazionale (ex art. 25 del Progetto).  Tale connotazione comporterebbe, in caso di violazione dei suddetti interessi, una responsabilità aggravata dello Stato. Un’altra interessante problematica sostanziale attiene alla disciplina riguardante la responsabilità internazionale per fatto lecito ovvero da attività conformi alle norme internazionali ma che possono produrre notevoli danni ai soggetti di diritto internazionale.

Interessante tematica riguarda in particolare i danni provocati da attività transfrontaliere rischiose (es. l’estrazione di petrolio e carbon-fossili sottomarini, trasporto di sostanze radioattive, di idrocarburi o di rifiuti pericolosi) o pericolose (soprattutto per l’ambiente terrestre, marino e per la fauna ivi localizzata). Su questi punti la CDI ha diviso i lavori in due grandi sezioni approvando due progetti di articoli (non esaustivi ma programmatici): rispettivamente il primo (UN Doc. A/56/10), relativo alle attività rischiose transfrontaliere ed il secondo, nel 2006 (UN Doc. A/61/10) relativo alle attività pericolose transfrontaliere e sulla relativa ripartizione delle perdite. Sul punto esistono alcune importanti Convenzioni internazionali che cercano di stabilire una più peculiare disciplina sulla ripartizione delle perdite, sulla responsabilità e sull’eventuale indennizzo, caratterizzate però ancora da numerose lacune normative e sostanziali (es. art. 2 della Conv. Internaz. sulla resp. Internaz. per i danni causati dagli oggetti spaziali; l’art. 110 della Conv. di Montego Bay sul diritto del mare). Due importanti questioni si pongono sul tema della responsabilità da fatto lecito: 1) se esiste un obbligo di indennizzo da parte dello Stato che, pur rispettando la norma internazionale, abbia causato dei danni ad uno o più soggetti di diritto internazionale; 2) se invece l’attività rischiosa e/o pericolosa fosse intrapresa e gestita da un’organizzazione internazionale chi ne risponderebbe ed in che misura. Importanti in questa materia sono in particolare alcune pronunce giurisprudenziali dei tribunali internazionali (es. Fonderia di Trial del 1941 da parte del Tribunale arbitrale, in cui si affermò il divieto di non usare il proprio territorio in modo dannoso per gli Stati vicini, con conseguente obbligo di indennizzo). Connessa al tema in esame è la questione relativa al Principio di Precauzione, principio da sempre connotato da una grande incertezza giuridica sostanziale, il quale comporterebbe un obbligo di prevenzione onde evitare i rischi di un più grave danno, quantunque non sia certo che quest’ultimo si verifichi. Particolarmente importante sul tema si presenta l’art. 15 della Dichiarazione di Rio sull’ambiente del 1992 nella quale si evince che la “mancanza di certezza scientifica circa il verificarsi di un danno irreversibile non può essere invocata come scusa per non adottare tutte le misure idonee allo scopo”. Tale principio assume una notevole importanza all’interno di un ambito ancora inesplorato quale quello delle biotecnologie, si pensi ad es. all’art. 3 della Convenzione quadro sul cambiamento climatico del 1992 oppure all’art. 10 par. 6 del Protocollo sulla biosicurezza del 2000). Discusso ancora risulta essere la possibile connotazione di tale principio come appartenente al diritto internazionale consuetudinario, essendo la sua natura precettiva molto incerta. Il principio può anche essere connotato da una grande forza programmatica come si evince dal TFUE all’art. 192 par. 2 in cui si afferma che “tale principio è uno dei principi che informa la politica ambientale dell’UE”. Alcuni autori tendono a sottolineare che accanto alla su estesa responsabilità esista una diversa forma che invece funge da presidio alla tutela dei valori fondamentali, non già della generalità degli Stati o alcuni di essi (quale es. la violazione di una norma consuetudinaria o sinallagmatica), ma della comunità internazionale in quanto tale, valori di per sé fondamentali all’essenza della Comunità stessa. Tale responsabilità si differenzia dalla prima per la sua natura aggravata-sostanziale e sotto tre profili: 1) i presupposti, 2) i soggetti legittimati ad invocare la responsabilità internazionale aggravata e 3) il contenuto. A differenza della tradizionale responsabilità sinallagmatica quale responsabilità “privata”, la forma aggravata assumerebbe nell’ordinamento internazionale una forma “pubblica e collettiva”. Sul tema si impongono notevoli questioni di apprezzabile pregio: 1) la possibilità che il danno e/o la colpa possano fungere da elementi costitutivi del fatto illecito, 2) i criteri per invocare ed imputare la responsabilità penale individuale del soggetto che materialmente commetta tali violazioni, da ciò interrogandosi su una eventuale responsabilità internazionale dell’individuo. Il tema della responsabilità internazionale aggravata risulta particolarmente importante con riguardo a quelli che, nella dottrina ed in particolare nella giurisprudenza di diritto internazionale della CIG (Parere sulle riserve alla Convenzione sul Genocidio del 1951 e alla sentenza emessa nel caso Barcelona Traction del 1970), sono stati definiti come obblighi erga omnes. Tali obblighi, come affermato dalla giurisprudenza citata possono avere la propria fonte sia in una norma pattizia (es. Convenzione europea diritti dell’uomo) oppure da norme di diritto consuetudinario (es. principio di Autodeterminazione dei popoli). Questa distinzione è stata ritenuta rilevante dalla CDI nell’individuare lo Stato legittimato ad invocare la responsabilità internazionale, come si evince dalla lettura dell’art. 48 del Progetto di articoli, ma sempre tralasciando qualche lacuna nella sua interpretazione ed applicazione pratica dato da un lato, dal contenuto incerto di tali obblighi e dall’altro dalle incertezze della disciplina predisposta nel Progetto (es. in tema di riparazione uno spunto non sviluppato ma rilevante riguarda la possibilità di interpretare i “beneficiaries” dell’art. 48 includendo anche gli individui, non più come soli beneficiari di fatto ma come veri e propri titolari di diritti).

Un dibattito di notevole importanza riguardante la disciplina della responsabilità internazionale è quello delle attività delle imprese multinazionali (di seguito IMN) sulle quali aleggia un velo di sfiducia e malcontento da parte degli Stati in via di sviluppo, i quali spesso si ritrovano a subire inevitabilmente ingenti danni economici derivanti dalle attività dirette (produzione, distribuzione, vendita) ed indirette (immistione nelle istituzioni politiche locali) delle IMN che operano sul loro territorio. Molto spesso le IMN sono accusate di accentuare i flussi di importazione dalla società madri, il rimpatrio di utili e di altri proventi (piuttosto che reinvestirli in loco), aggravando così il cronico deficit l’economia del Paese ospite, di limitare lo sviluppo delle consociate locali attraverso accordi commerciali restrittivi e così via. Tre sono i problemi che connotano le IMN : 1) l’assenza di una normativa internazionale uniforme che definisca cosa sono le IMN; 2) la difficoltà attuale di sottoporre le IMN a regole primarie del diritto internazionale non essendo esse soggetti di diritto internazionale; 3) la difficoltà di coordinare i doveri di vigilanza dello Stato di origine con l‘autonomia imprenditoriale riconosciuta alle imprese da Paesi ad economia di mercato. A seconda delle attività esercitate è possibile inquadrare anche danni diversi. I primi, conseguenti ad attività apparentemente lecite sia a livello nazionale che internazionale (es. transfer prices ovvero nella fissazione dei prezzi nelle relazioni commerciali e che l’IMN sfrutta per esportare legalmente risorse del Paese ospite quali di tipo biotecnologiche, Ogm, sfruttando la regolamentazione di un altro Paese con una legislazione fiscale, commerciale e tributaria favorevole giocando con le componenti del proprio gruppo ivi costituite). I secondi invece ricadono direttamente sulla politica del Paese ospite attraverso fenomeni di corruzione e controllo di attività industriali molto spesso rischiose per la salute e l’ambiente. La questione rilevante riguarda la possibilità di inquadrare una disciplina omogenea, uniforme e penetrante di controllo delle IMN da parte dello Stato ospite e di individuare una più certa responsabilità internazionale (anche aggravata, si pensi alla violazione dei diritti dell’uomo in sede di ambiente di lavoro e all’evoluzione continua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di trattamento dello straniero) dello Stato di origine (inteso lo Stato in cui la IMN ha la sede direttiva madre, già di per sé di difficile individuazioni nell’ipotesi del Gruppo). Ad oggi esistono poche fonti normative : a) Dichiarazione su codice di comportamento e b) Decisione n.24 dei Paesi aderenti al Patto Andino, quest’ultimo vincolante per i Paesi membri, ad oggetto un sistema di controllo su investimenti, contratti di trasferimento tecnologico, il divieto di clausole che comportino la impossibilità della consociata locale di riesportare o vendere i prodotti coperti da brevetti o marchi ed un regime di disinvestimento che comporta il recupero del capitale previamente investito. Il regime di per se vincolante perde però efficienza per l’assenza di una normativa di esecuzione delle relative norme a livello internazionale. Inoltre si discute sulla incertezza dei codici “futuri” ovvero a chi saranno destinati? alle IMN o anche agli Stati? come opereranno? quali organismi attueranno l’applicazione del codice e da chi saranno composti?. Questioni di attuale rilevanza considerando l’importanza del fenomeno della globalizzazione e delle sempre più numerose esigenze di internazionalizzazione di realtà imprenditoriali e societarie.

In conclusione e tirando le fila, la responsabilità internazionale permane oggi in un limbo giuridico che implica molto spesso una confusione applicativa ed interpretativa dell'istituto de quo. Il caso in questione, a parere di chi scrive, può rapprensentare ancora una volta la natura policromatica della responsabilità internazionale e l'importanza di giungere ad una più chiara codificazione vincolante per gli Stati della Comunità  internazionale.

 


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