Nascere in Euro. Parte 2 di 4: È destino che la società libera sia più produttiva
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Saverio Setti
Analisi storica, economica e politologica dello sviluppo dell´Unione monetaria e dell’opposizione politica ad essa in due casi di studio: la Lega Nord ed il Movimento 5 Stelle.
Questo contributo fa parte di una serie di articoli di approfondimento sull'Euro:
Parte 1 - “La democrazia è la forma politica del capitalismo”
Parte 2 - "È destino che la società libera sia più produttiva"
Parte 3 - "Bond, Eurobond"
Parte 4 - "Paradigma dell'economista? Non spacciarsi da profeta"
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Sommario: [...] 6. Lo Sme è morto, viva l’Uem!; 7. I Controllori dell’Euro; 8. La Crisi del Sistema.
6. Lo Sme è morto, viva l’Uem!
Jacques Delors nel 1985 divenne «il presidente più federalista che abbia guidato l’esecutivo di Bruxelles»[1] e fu l’estensore del Rapporto omonimo, vero punto di svolta nell’integrazione monetaria.
Nel corso del vertice di Hannover[2], il Consiglio, riunitosi al fine di dare risposte concrete e comuni alla crisi che si stava profilando, affidò a Delors il compito di proporre tappe concrete e rapide per ripercorrere la strada tracciata, ma poi abbandonata, dal Piano Werner. Il Rapporto Delors fu presentato al Consiglio di Madrid un anno dopo.
Delors mise in chiaro che, per proseguire verso una vera unione monetaria, erano necessarie profonde modifiche sia al Trattato di Roma che all’Atto unico europeo. Il risultato delle quali avrebbe trasferito la sovranità monetaria e la gestione macroeconomica dallo Stato alla Comunità.
Per giungere a quel risultato, e questa fu la novità e il moltiplicatore d’efficacia del Rapporto, Delors puntava su uno stretto e vincolante gradualismo. La soluzione era quella di dividere il processo su una distinzione contenuto-contenente. In una fase viene creata la struttura (un trattato, una particolare istituzione eccetera) e in quella successiva essa viene investita di competenze. Rapidamente[3], nella prima fase non c’è trattato, ma un approfondimento delle procedure esistenti; nella seconda viene adottato un trattato e posta in essere una struttura giuridica; nella terza fase, la responsabilità delle politiche monetarie sarà effettivamente trasferita alla detta struttura. La novità, rispetto a trattati e piani precedenti, consta nel fatto che il Rapporto Delors stabilisce anche chiare ed ineludibili scadenze: una tabella di marcia, forse un po’ forzata, ma che ha condotto all’obiettivo.
Il dibattito che ha seguito la pubblicazione del Rapporto ha riproposto il classico confronto tra la componente di mercato e la componente istituzionale degli ordinamenti monetari.
La creazione di moneta è prerogativa del “Re”. Il problema era che, sul piano politico internazionale[4] non esiste un “Re”. Un primo compromesso potrebbe essere un regime di cambio fisso, ma si cercherebbe di tenere coerente il Terzetto impossibile. Un regime di cambio fisso, dunque, non è sufficiente a colmare il vuoto di governo: è il cosiddetto «problema dell’ennesimo paese»[5]. Il Piano Werner proponeva un’unione monetaria fondata su regole di cambio fisso e puntava, nei fatti, alla formula del coordinamento. Funzionava, pertanto, con la formula dell’egemonia, la politica monetaria dell’area essendo stata quella del Paese più forte. Il Comitato Delors interpretava il cambio fisso come base di partenza, per una moneta unica che si sarebbe poi andata sviluppando autonomamente.
Non meno importante è la parte privata, perché nelle economie sviluppate la gran massa monetaria è creata dall’azione delle banche commerciali[6]. Dunque la prerogativa del “Re” è limitata dalla libertà dei singoli di scegliere in che moneta operare e, conseguentemente, farne variare il prezzo.
L’architettura istituzionale che avrebbe vigilato sul nuovo sistema monetario sarebbe stata marcatamente asimmetrica: centralizzata la politica monetaria, decentrata la politica fiscale. Se l’imposizione tributaria restava in mano statale, il controllo monetario sarebbe stato assunto
da un’istituzione nuova, in seno alla quale saranno prese decisioni collettive sia per quel che riguarda la crescita del credito e della moneta, sia per quel che riguarda l’utilizzo di altri strumenti di politica monetaria, come il tasso di interesse.[7]
L’obiettivo finale restava quello di giungere ad una moneta unica. Questo perché nello SME il fattore critico era
una regola di cambio che doveva retroagire, per così dire, sulle decisioni di politica monetaria e, c’è da augurarsi, anche su quelle di politica economica; ogni cosa si focalizzava e si basava su un impegno riguardante i tassi di cambio. Un’unione monetaria, invece, comprende sì la fissità irrevocabile dei cambi, ma si focalizza e si basa fondamentalmente sul cambiamento nel modo di condurre la politica monetaria. Questo è un punto molto importante, non sempre apprezzato appieno dagli esperti.[8]
Per farlo era necessario creare i presupposti politico-economici, al fine di avviare un grande processo in tre fasi per giungere all’euro.
Gli elementi di base che Delors individuò come base dell’unione economica erano:
- Il mercato unico;
- La politica di concorrenza;
- Il coordinamento delle politiche economiche;
- Le politiche strutturali di sostegno regionale.
La convergenza dei suddetti avrebbe creato un’area ottimale, dove non sarebbe stato possibile ricorrere al tasso di cambio per correggere gli squilibri economici. Al fine di garantire la sostenibilità della strada verso l’euro, avrebbero dovuto essere fissati norme vincolanti per il controllo dei deficit di bilancio e le modalità di finanziamento dei disavanzi.
Sulla base del Rapporto Delors, venne presa la decisione di avviare la prima fase dell’Unione monetaria europea già a partire dal 1° luglio 1990. Nello stesso anno, al Consiglio di Strasburgo, si decise di pianificare una nuova conferenza intergovernativa che rivedesse i Trattati. Questa conferenza culminò il 7 febbraio 1992 con la firma del Trattato di Maastricht.
La prima fase era stata la completa apertura dei capitali, nel momento di crisi che è stato brevemente esposto. Oltre all’apertura, in questa fase sono stati stabiliti i processi primigeni di sorveglianza e controllo dell’andamento economico-finanziario a livello nazionale. Qualora il giudizio comunitario su questi andamenti avesse dovuto esprimere delle riserve, sarebbero state formulate idonee raccomandazioni ai singoli membri, al fine di orientare in senso correttivo la loro politica economica. Sono state, inoltre, stabilite nuove procedure di coordinamento per le politiche di bilancio a medio termine ed una concertazione preventiva per le azioni di bilancio a lungo termine.
Nella seconda fase, iniziata il 1° gennaio 1994, i Paesi membri dovevano conseguire una netta convergenza in preparazione all’unione completa. Al fine di indirizzare, coordinare e controllare questo processo, fu istituito a Francoforte l’Istituto monetario europeo, che, nel 1998, si sarebbe evoluto in Banca centrale europea. Il compito primario, in quel frangente, era costruire un’efficiente struttura di prestatore di ultima istanza. Disse Carlo Azeglio Ciampi:
L’intento specifico è quello di evitare che difficoltà transitorie di un singolo istituto si trasformino in crisi d’insolvenza e si diffondano in effetti a catena all’intero sistema, finanziario ed economico. Le banche [e, in questo contesto, anche gli Stati n.d.A.], con riserve liquide modeste rispetto al volume della raccolta e con attività il cui valore non è facilmente stimabile dal mercato, sono per loro natura esposte a crisi di fiducia. La possibilità di accedere al credito dell’istituzione in grado di fornire base monetaria rafforza la fiducia che i depositanti ripongono nelle banche e negli Stati, contribuisce alla stabilità del settore. […]
Il credito di ultima istanza deve essere disponibile per enti illiquidi ma non insolventi[9] […]. Se si offrisse loro la prospettiva certa del rifinanziamento, crescerebbe l’inclinazione a incorrere in rischi eccessivi, si ostacolerebbe il progresso del mercato interbancario, del mercato monetario. Distinguere, nell’incalzare degli eventi, tra enti illiquidi ed insolventi può essere arduo.[10]
Due problemi, quello del rischio morale (moral hazard) e dell’essere troppo grandi per fallire (too big to fail), che il futuro riproporrà con violenza al sistema economico europeo.
All’IME e alla Commissione, in questa fase, è spettato il compito di monitorare ed accertare i progressi che ciascun Paese membro avrebbe fatto verso la convergenza. Il Rapporto Delors, e con esso il Trattato di Maastricht, imponeva criteri di stretta convergenza agli Stati che volessero far parte dell’UEM, in particolare[11]:
- Un bilancio pubblico con un disavanzo non superiore al 3% del PIL.
- Un tasso di interesse sui titoli di Stato a lungo termine che non superi di oltre il 2% quello della media dei tre Paesi più virtuosi[12].
- Un tasso medio d’inflazione che, sul piano biennale, non superi di oltre l’1,5% quello dei tre Stati con minore inflazione[13].
- Un debito pubblico non superiore al 60% del PIL o in diminuzione continua e sostanziale verso quel valore.
- Un tasso di cambio stabile. Almeno nei due anni precedenti il Paese non doveva aver svalutato il tasso di cambio centrale della sua moneta nei confronti di nessuna moneta di altro Stato membro e quindi nei confronti dell’ECU.
Queste regole sono uno dei presupposti per la sanità delle bilance interne dei singoli Paesi membri, ma non bastano. Servono «nuovi modi di economizzare sulla fornitura di servizi pubblici e, allo stesso tempo, serve la creazione delle condizioni per sostenere una crescita a lungo termine»[14]. È necessario, dunque, un piano ragionato di crescita, perché la semplice soddisfazione dei criteri UEM sul piano istantaneo non è che illusoria.
Pertanto ciascun membro, basandosi sulle linee guida di Maastricht e sull’intento gradualistico ma ferreo di Delors, avrebbe sottoscritto in seguito[15] il Patto di Stabilità e Crescita[16].
Nella convinzione che pacta sunt servanda, gli Stati membri che hanno avuto accesso all’UEM devono continuare a rispettare i vincoli sul deficit pubblico non superiore al 3% del PIL e sul debito pubblico al di sotto del 60%. A tale scopo sono rilevanti i poteri della Commissione che[17], qualora ravvisi che uno Stato membro sia in procinto di sforare i limiti, emette una raccomandazione non vincolante[18]. Se lo Stato non adotta misure ritenute sufficienti, viene sanzionato con un deposito infruttifero[19] che si trasforma in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo. Questo forte strumento coercitivo, chiamato proceduta di deficit eccessivo, ha consentito di mantenere saldo il controllo sulla salute dei deficit pubblici.
Il 2 maggio 1998, il Consiglio europeo straordinario, sulla base dei dati economici definitivi del 1997, ha reso nota la lista degli 11 Paesi idonei all’adozione della nuova moneta unica: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna. La Gran Bretagna e la Danimarca si sono avvalse dell’opt-out. Il progresso di convergenza verso i parametri di Maastricht non è stato affatto indolore, come dimostra, ad esempio, l’ostile accoglienza riservata dall’opinione pubblica italiana al Contributo straordinario per l’Europa[20], detta eurotassa[21]. Tuttavia i progressi ed i risultati dei Paesi ammessi all’euro furono sorprendenti, in merito di riduzione dell’inflazione.
Il quadrante evidenziato mostra la caduta del tasso inflattivo in seguito alla convergenza verso i parametri di Maastricht. Fonte: ISTAT.
La terza, e definitiva, fase prevista dal Rapporto Delors è effettivamente iniziata il 1° gennaio 1999 con l’introduzione dell’euro[22] e la fissazione irrevocabile dei tassi di cambio delle valute europee.
L’attuazione di quest’ultima fase è stata suddivisa in tre sottoperiodi.
Il primo, iniziato il 1° gennaio 1999, ha dato avvio alla fase finale dell’UEM. In questo frangente è stato fissato in modo irrevocabile il cambio tra l’euro e le valute facenti parte del suo sistema. Scriveva Paolazzi su «Il Sole 24 ore»:
Il rebus è stato risolto: un ecu uguale un euro. Da questa soluzione sono discesi automaticamente i tassi di conversione di tutte le monete nazionali, comprese le 1.936,27[23] lire per euro. Quel tasso di conversione, infatti, non è altro che il cambio della lira contro l’ecu stabilito l’ultimo giorno di esistenza dell’ecu stesso, il 31 dicembre 1998[24].
Dal 1° gennaio 1999 al 31 dicembre 2001, le valute nazionali hanno circolato a fianco dell’euro, a tassi irrevocabilmente fissi. Tutte le operazioni interbancarie e le emissioni di nuovi titoli di Stato avvenivano in euro, benché essa non fosse ancora esistente sul piano microeconomico.
Nel secondo sottoperiodo, dal 1° gennaio al 1° luglio 2002, monete e banconote in euro hanno fatto la loro comparsa e sostituito le singole monete nazionali che, di conseguenza, hanno perso corso forzoso.
Ultimo sottoperiodo, dal 1° luglio 2002 in poi l’euro è l’unica moneta a corso legale, riconosciuta e gestita dalla BCE.
A più di dieci anni dalla sua nascita è possibile tracciare un bilancio oggettivo dei costi e dei benefici legati alla fissazione irrevocabile dei cambi e all’adozione della moneta unica.
Il primo effetto positivo è stato la minore variabilità dei prezzi di beni e fattori, dunque la diffusione di una minore incertezza nella formazione delle aspettative sui prezzi[25]. La trasparenza dei prezzi ha portato ad una sempre minore segmentazione dei mercati ed alla nascita del «consumatore europeo» Ciò ha incentivato il commercio ed il movimento dei capitali con relativo risparmio sulle commissioni di cambio, anche perché inseriti in un contesto in cui è impossibile ricorrere alla svalutazione competitiva. La politica monetaria ne ha risentito in modo positivo, poiché l’orientamento anti-inflazionistico ha guadagnato credibilità e, quindi, efficacia. Da qui la riduzione del premio al rischio che i tassi d’interesse incorporano in previsione del rischio di svalutazione e quindi convergenza dei tassi d’interesse al livello più basso. In parole povere: grande stabilità e potere di acquisto. Sul piano sociale si rilevano una maggiore confrontabilità dei rapporti imposizione fiscale/benefici dell’intervento pubblico e una maggiore diffusione del senso di appartenenza all’UE.
Chiaramente sono rilevabili anche importanti limiti. Per prima cosa è evidente l’impossibilità di utilizzare la manovra del cambio per aggiustare gli squilibri della bilancia commerciale o per stabilizzare il ciclo economico di un Paese[26], anche perché la banca centrale di quel Paese non è più in grado di generare un signoraggio proprio ed autonomo. Ma, forse, il limite più grave consiste nel fortissimo squilibrio derivante dall’avere un’autorità monetaria centrale forte, cui fa da contraltare una frammentazione fiscale e di politica economica che non consentono l’avvio di efficienti politiche macroeconomiche.
7. I Controllori dell’Euro
A seguito dell’introduzione della moneta unica, è divenuta unica anche la politica monetaria. La sua attuazione è affidata al Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) che è costituito dalla BCE e dalle banche centrali nazionali. Il governo del sistema è affidato al Consiglio direttivo, di cui fanno parte tutti i Paesi dell’area euro, ed al Comitato esecutivo, comprendente il Presidente, il suo Vice e altri quattro membri nominati, di comune accordo, su base intergovernativa per un mandato di otto anni non rinnovabile.
L’obiettivo primario del SEBC è il mantenimento della stabilità dei prezzi[27], cui è subordinato il sostegno alle politiche economiche generali dell’UE.
Per raggiungere questi obiettivi la BCE deve godere dell’indipendenza[28] da parte dei governi degli Stati membri. Il punto fondamentale è l’inflazione.
Diversi studi empirici hanno rilevato che nei paesi industrializzati, in particolar modo negli anni settanta e ottanta, maggiore era il grado di indipendenza della banca centrale, minore era il livello di inflazione. Di qui l’assunto, ampliamente dimostrato, secondo il quale le banche centrali che prendono ordini dal governo tendono a produrre livelli di inflazione più elevati rispetto alle banche centrali politicamente indipendenti.[29]
Concorde è Ciampi, secondo cui «la discrezionalità della banca centrale ha natura tecnica». La struttura della Banca centrale europea ha la caratteristica di essere scarsamente controllabile e non sanzionabile in caso d’insuccesso nella conduzione della politica monetaria. Sensibili a questo deficit di accountability sono Tremonti[30] e Stiglitz che sostiene che «i banchieri centrali devono diventare più sensibili non solo verso chi investe ma anche verso chi rischia di perdere il lavoro in seguito alle loro scelte»[31].
Al fine di assicurare la stabilità dei prezzi – obiettivo finale -, la BCE ha calcolato che l’inflazione debba essere compresa nell’intervallo 0 – 2% annuo – obiettivo intermedio. L’unico modo operativo di conseguire gli obiettivi è agire sulla politica monetaria, o, più precisamente, sulle passività a vista delle autorità monetarie e dei depositi indisponibili presso il SEBC[32].
Per l’attuazione di quanto detto, la BCE si serve di particolari strumenti[33].
Lo strumento principale è rappresentato dalle operazioni di mercato aperto: acquisto (immissione di moneta dal sistema) o vendita (sottrazione di moneta) sul mercato dei titoli pubblici. Queste operazioni possono essere a titolo temporaneo o definitivo. Le prime, dette di pronti contro termine, consentono di immettere temporaneamente liquidità nel sistema, producendo un effetto diretto sulla base monetaria ed indiretto sui tassi d’interesse.
Qualora le banche abbiano bisogno di liquidità overnight, possono accedere alle operazioni su iniziativa delle controparti. Consistono in operazioni di finanziamento marginale, aventi un certo tasso Xmassimo, o di deposito presso la BCE, aventi un tasso Xminimo. Il valor medio del corridoio Xmassimo/Xminimo è il tasso ufficiale per il SEBC.
Attuando una manovra del tasso ufficiale, la BCE può agire sulla politica monetaria. Ad esempio, se la Banca centrale europea alza i tassi, le banche commerciali, nel timore di dover ricorrere alle operazioni di rifinanziamento a costi più elevati, limiteranno l’espansione del credito.
Ulteriore strumento è il cosiddetto «effetto annuncio». Al semplice manifestarsi della volontà di una modifica dei tassi, le banche possono ritenere conveniente adeguarsi per tempo, per evitare di doverlo fare in condizioni di mercato variate e quindi meno prevedibili.
Ultimo strumento di controllo della base monetaria è la manovra delle riserve obbligatorie. La BCE può obbligare le banche dell’area euro a depositare sui loro conti correnti, presso le Banche centrali nazionali, una certa quantità di denaro proporzionale alle passività di bilancio. Ovvio che, un aumento della suddetta aliquota comporterebbe una limitazione del credito.
8. La Crisi del Sistema
Non è pertinente a questo scritto una disamina su quanto accaduto in seguito alla crisi del mercato americano del 2007.
Questa crisi, però, è uno spunto per verificare se e quanto il sistema possa essere resiliente e tramite quali politiche monetarie l’euro possa difendersi da attacchi speculativi, shock asimmetrici e settoriali.
S’è visto come la politica monetaria possa essere diretta in senso espansivo o restrittivo. Empiricamente[34] risulta che mentre è sempre possibile restringere il credito, ampliarlo è molto più complesso.
Si consideri che l’espansione monetaria ha lo scopo di favorire la ripresa durante una crisi. La BCE può aumentare la disponibilità di credito e ridurne il costo, ma ciò può non essere sufficiente. L’apparato produttivo, pur avendo maggiore accesso creditizio, non sarà interessato a intraprendere programmi di sviluppo per ampliare capacità già esuberanti, se non è convinta di un prossimo e radicale miglioramento della situazione di mercato. In sostanza, l’impresa attenderà una ripresa della domanda prima di ampliare la capacità produttiva. Dunque il solo accesso al credito ha importanza limitata.
La politica monetaria, poi, è essenzialmente unica a livello europeo: territoriale e settoriale. Ne consegue che essa non è in grado di adattarsi non solo alle esigenze del singolo Paese[35], quando questo si trovi in recessione e gli altri in espansione, ma anche a quelle di un singolo settore produttivo. In questo caso l’intera area euro si trova in stato di shock asimmetrico. Diviene, dunque, fondamentale che il Paese sia in grado di garantire una concreta flessibilità dei mercati del lavoro e dei prodotti. Qualora non ne fosse capace, si manifesterebbero tensioni inflazionistiche accompagnate da riduzione dei livelli di produzione ed occupazione.
In base a quanto espresso, è palese che la politica monetaria restrittiva può essere efficace in senso antinflazionistico solo quando si manifesti un eccesso di domanda globale. Si deve rilevare, comunque, che l’attenuazione dell’inflazione si sostanzia non in un aumento della produzione, ma in una riduzione del livello della domanda. La scarsità ed il costo del credito, infatti, influenzano direttamente le decisioni di investimento. Il primo effetto di questa contrazione è, ovviamente, contrario all’obiettivo di far aumentare le capacità produttive, perché le aziende non trovano sul mercato i capitali necessari allo sviluppo. Direttamente influenzati sono, poi, i salari che difficilmente possono essere assorbiti dal guadagno, trasformando gli operai in disoccupati. Queste considerazioni dimostrano come una politica monetaria restrittiva non possa che essere congiunturale, perché potrebbero causare un netto rallentamento delle prospettive di sviluppo a lungo termine.
Ultimo aspetto da considerare, almeno in maniera riassuntiva, è il ritardo della politica monetaria. Il più comune è il ritardo di cognizione, ovvero il lasso di tempo tra il momento in cui ci si sarebbe dovuti accorgere dell’opportunità di attuare una certa politica ed il momento in cui ci si rende conto di questo fatto in realtà. Molto più grave è il cosiddetto ritardo d’efficacia, in altre parole il tempo che deve trascorrere prima che le misure producano i propri effetti. Questo ritardo è strettamente connesso con la possibilità che la politica adottata sia sbagliata. Le autorità, vedendo che non produce effetti e considerando che si tratti di ritardo di efficacia, potrebbero accentuare l’intensità di una politica già in partenza errata. In una parola: instabilità[36].
Se si combinano questi concetti con quello già espresso di moral hazard è chiaro che sia necessario un sistema di vigilanza. Nel SEBC la vigilanza prudenziale è attribuita alle Banche centrali nazionali[37]. Tuttavia non è chiaramente assegnato alla BCE il compito di fornire assistenza diretta di emergenza alle singole istituzioni finanziarie. Dunque spetterebbe alle Banche centrali nazionali la scelta se lasciar fallire una banca insolvente o salvarla. Nessun problema per il sistema euro se si trattasse di una banca piccola. Ma se essa fosse too big to fail[38]? Una sua caduta sarebbe così rovinosa da avere effetti sulla politica monetaria. Tuttavia le singole Banche centrali non possono prendere decisioni di politica monetaria per l’intera area euro. Finora, per evitare problemi, «i prestiti sono stati concessi a tassi di favore e sulle garanzie è stato steso un velo pietoso»[39].
Ulteriore considerazione va fatta sull’insufficienza della politica monetaria nella gestione dell’equilibrio del sistema. Il grado di disciplina del mercato deve essere riportato anche al grado di coordinamento della politica fiscale. Senza la pretesa di proporre soluzioni, ci si limita a rilevare che:
- Politiche fiscali divergenti possono generare contrasti di preferenza circa l’orientamento della politica monetaria;
- Conflitti ancora più gravi possono nascere in materia di distribuzione del credito e delle risorse reali.
Sul piano empirico è facile un confronto tra le aliquote IVA in vigore negli Stati membri, aventi valori molto divergenti. Si va dall’aliquota unica del 25% danese alla tripartizione francese (2,1% - 5,5% - 19,6%). La mancata armonizzazione delle aliquote comporta un’evasione di circa 600 miliardi l’anno in tutta l’UE[40]. Il traguardo del federalismo fiscale è, nell’opinione di chi scrive, ancora troppo lontano poiché legato alla fiera opposizione statale a cedere questo fondamentale indicatore di sovranità.
Di fronte a questa crisi finanziaria è quindi necessaria una riforma profonda degli istituti finanziari posti a controllo della moneta unica.
Secondo molti analisti[41] i trattati economici europei sono stati sottoscritti sull’ipotesi che il progresso continuo sia la regola e le crisi siano l’eccezione. Il problema è che la crisi sistemica sta divenendo se non la regola, un fatto molto più importante di quanto fosse considerato dieci anni fa. Dunque, per la prima volta, uno Stato è in condizione di comportarsi, di fronte ad un debito, come un privato. Difficile è quindi chiedere a Paesi come la Grecia un’ulteriore politica di rigore. Se l’obiettivo è quello di mantenere all’interno dell’area euro quel Paese, e farlo uscire avrebbe conseguenze assai gravose per la moneta unica – dunque non converrebbe nemmeno alla Germania – è evitare di chiedere un’ulteriore stretta. L’unico modo è quindi quello di “dare una speranza” al Paese, attraverso gli investimenti esteri diretti. In questo modo il debitore può divenire pagatore. E uno dei modi, il più immediato, dato che rapidità d’azione richiedono i mercati, è la creazione di obbligazioni di debito pubblico dei Paesi facenti parte dell’eurozona.
Note e riferimenti bibliografici
[1] D. Felsini, Culture…, cit., p. 90.
[2] Svoltosi il 26 e 27 giugno 1988.
[3] Le tre fasi verranno esposte in seguito.
[4] Perfino della più mera concezione statalista.
[5] Connesso al sistema di calcolo della sequenza di Fibonacci. Si vedano, in proposito, di R. Turco Problema dell’ennesimo termine nelle successioni disponibile a questo link per il metodo di calcolo, qui per un articolo di T. Padoa Schioppa.
[6] Tramite il sistema di riserva frazionaria, per cui l’espansione del credito è calcolabile come, con C il capitale depositato, e rC la riserva.
[7] Rapporto Delors, p. 40.
[8] T. Padoa Schioppa, Il Rapporto Delors, discorso pronunciato a Kronberg (Francoforte) nel novembre del 1989.
[9] Riprende la famosa massima di Bagehot: «Presta liberamente a banche illiquide ma solvibili, a tassi penalizzanti e a fronte di garanzie finanziarie (collaterals) valutate a prezzi pre-crisi».
[10] C. A. Ciampi, Lectio magistralis tenuta in occasione del conferimento della Laurea honoris causa, Pavia, 11 dicembre 1991. Disponibile a questo link.
[11] Introdurre l'euro: i criteri di convergenza, articolo istituzionale comunitario disponibile a questo link.
[12] Al momento della verifica, l’anno precedente all’adesione, il livello del tasso d’interesse non doveva superare il 7%.
[13] Al momento della verifica il tasso effettivo massimo era del 2,7%.
[14] Commissione europea, Public finance in EMU, Bruxelles, 2009, p. 129.
[15] Nel 1997, in preparazione finale all’ultima fase.
[16] Il testo completo del Patto o, ufficialmente, del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione economica e monetaria è disponibile a questo link.
[17] In forza dell’articolo 104 del Trattato di Maastricht.
[18] Che può essere preceduta da un early warning dell’Ecofin.
[19] Il cui ammontare è stabilito nello 0,2% del PIL più 1/10 dell’effettivo disavanzo dalla soglia del 3%.
[20] Un’imposta approvata dal primo governo Prodi il 30 dicembre 1996. L’obiettivo era il reperimento di un surplus di 4.300 miliardi di lire che avrebbero consentito di ridurre il disavanzo statale dello 0,6%, consentendo il rispetto dei parametri di Maastricht.
[21] Interessante approfondimento in Luigi Spaventa e Vincenzo Chiorazzo, Astuzia o virtù?: come accadde che l'Italia fu ammessa all'Unione monetaria, Roma, Donzelli Editore, 2000.
[22] Il nome ECU non fu utilizzato per ragioni linguistiche. Primo perché “écu” in francese significa scudo ed era il nome di un’antica moneta utilizzata in molti Paesi europei (tra cui zone dell’Italia pre-risorgimentale), poi perché in tedesco ein ECU, suona come eine Kuh, ovvero una mucca. Dunque è stato scelto euro poiché è la radice del nome Europa e si trova in tutte le lingue comunitarie (fonte: qui).
[23] Poiché la lira, in seguito alla crisi degli anni ’90 su esposta si era molto svalutata, nel marzo 1995 sfiorò 1.280 contro il marco, quindi 2.500 per un euro; due anni e mezzo prima era a 760. Poi aveva recuperato e si aggirava attorno alle mille per un marco. Il 24 novembre 1996, la delegazione italiana a Bruxelles cercò di negoziare una parità sul marco di 1.050, per quanto le autorità europee insistessero per 950 o meno. La trattativa si chiuse a 990. Da quel rapporto con il marco discese automaticamente il tasso di cambio con l’ECU e quello di conversione con l’euro. Il 31 dicembre 1997 i tassi di cambio registravano 1 ECU = 1.944,67 lire = 1,97581 marchi = 1,08772 dollari = 6,529 franchi francesi. Dunque le 1.936,27 lire per un euro non furono una scelta, ma un passaggio obbligato.
[24] L. Paolazzi, Quel serpente padre dell’euro, speciale su Il Sole 24 Ore del 13 gennaio 2006.
[25] Importante per le PMI, che non hanno accesso all’hedging.
[26] La crisi greca ne è un chiaro esempio.
[27] Alla politica monetaria sono stati tradizionalmente assegnati molti obiettivi: stabilità dei prezzi, equilibrio della bilancia dei pagamenti, pieno impiego dei fattori produttivi, adeguata accumulazione di capitale, eccetera. Pretendere che la politica monetaria persegua tutti questi obiettivi simultaneamente è, a mio parere, pretendere troppo.
[28] Art. 170 del Trattato di Maastricht.
[29] F. Fauri, op. cit., p. 206.
[30] Intervista al TG1 del 23 novembre 2011.
[31] Intervista rilasciata a Giovanni Padula per Il Mondo del 27 marzo 1998.
[32] Ovvero la base monetaria, comprendente la moneta legale circolante detenuta dal pubblico e quella detenuta dagli operatori finanziari.
[33] Si veda, in proposito, la pubblicazione interna della BCE, The monetary policy of the ECB, disponibile a questo link.
[34] Cozzi e Zamagni, op. cit., pp. 414-419.
[35] I casi greco e tedesco nel periodo 2009-2012 lo dimostrano.
[36] Per tutte le rappresentazioni grafiche si veda l’articolo I fallimenti macroeconomici, disponibile a questo link.
[37] Si veda il documento edito dalla BCE dal titolo Il ruolo della banche centrali nella vigilanza prudenziale, disponibile su http://www.ecb.int/pub/pdf/other/prudentialsupcbrole_it.pdf.
[38] Come era Lehman Brothers, che fu però lasciata fallire. Si vedano, in proposito, il paper della Toronto Centre Investement dal titolo Lehman Brothers: too big to fail? e l’articolo di R. Plummer Lehman remains “too big to fail” del 10 settembre 2008 per la redazione on-line della BBC.
[39] Cozzi e Zamagni, op. cit., p. 405.
[40] Commissione Europea, VAT Rates Applied in the member States of the EU, Doc/2206/2000 e 2000.
[41] Tra cui G. Tremonti, si veda l’intervista a Servizio Pubblico del 9 febbraio 2012, disponibile su YouTube.