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Pubbl. Ven, 9 Set 2022
Sottoposto a PEER REVIEW

La delegazione legislativa tra Parlamento e Governo: verso un potere normativo negoziato tra organi costituzionali

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Alessandra Foderini
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi Roma Tre



Davanti all´uso e all´abuso degli atti normativi equiparati alla legge ordinaria, oggi non può che risultare di estrema centralità l´analisi dello strumento della delega legislativa. Soprattutto nelle ultime Legislature, infatti, si è assistito al mutamento del sistema delle fonti del diritto, vedendo trasformato quel rapporto di regola-eccezione tra leggi e atti normativi di origine governativa che emerge dalla Costituzione. Il presente contributo mira a porre in evidenza tutti i tratti peculiari, le diverse sfaccettature e e le varie problematiche passate e presenti che hanno riguardato la delega legislativa.


ENG

Parliament and Government: normative and theoretical declinations. Towards regulatory power negotiated

Faced the use and abuse of regulatory act equivalent to ordinary law, today the analysis of the instrument of legislative delegation can only be extremely central. Especially in the last Legislatures, in fact, there has been a change in the system of sources of law, seeig transformed that relationship of rule-exception between laws and regulatory acts of governmental origin that emerges from the Constitution. This contribution aims to highlight all the peculiar traits, the different facets and the various past and present problems that have concerned the legislative delegation.

Sommario: 1. Origine, linee evolutive e approdi dell’Assemblea costituente; 2. Il decreto legislativo delegato e il c.d. livello primario di fonti del diritto: gli atti normativi “equiparati” alla legge ordinaria; 3. I tratti distintivi e la qualificazione del potere legislativo delegato: caratteri generali; 4.  Il procedimento di formazione dei decreti legislativi; 4.1. Il controllo del Presidente della Repubblica in sede di emanazione del  decreto legislativo; 5.  La legge di delega come norma interposta e unico strumento per conferire una delega legislativa; 5.1. Le trasformazioni della delega: l’uso frazionato del potere delegato; 5.1.1. Le deleghe integrative e correttive; 5.1.2. Le deleghe tecniche e in bianco; 6. I limiti generali della delega legislativa: i casi di non delegabilità; 6.1. Il divieto di subdelegazione legislativa; 7. I limiti necessari al potere legislativo delegato: l’oggetto definito, il tempo limitato, i principi e i criteri direttivi; 8. I c.d. limiti ulteriori; 9. I profili finanziari: la quantificazione e la copertura degli oneri derivanti dalle deleghe legislative; 10.  La prassi dell’utilizzo della questione di fiducia e dei maxi-emendamenti nella delega legislativa; 11. I rapporti fra decreto-legge, legge di conversione e delega legislativa; 12. L’approvazione di deleghe legislative nella sessione bilancio e le problematiche create dall’impiego delle deleghe nei provvedimenti collegati alla legge di bilancio; 13. La delegazione legislativa e l’attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione; 14. Le deleghe comunitarie; 15. Le ipotesi più discusse di delega legislativa e gli atti affini o parzialmente assimilabili ai decreti legislativi; 15.1. I poteri del Governo nella gestione dei conflitti armati; 15.1.1. I rapporti intercorsi fra le Camere e il Governo nelle crisi internazionali del Golfo persico, Kosovo e Afghanistan; 16. Analisi grafica singola e incrociata della produzione della legge ordinaria, dei decreti legislativi e dei decreti-legge dalla XII alla XVII Legislatura e cenni alla XVIII Legislatura; 17. La delegazione legislativa in prospettiva comparata.

1. Origine, linee evolutive e approdi dell’Assemblea costituente

Fin dagli inizi del moderno costituzionalismo, la possibilità che l’esercizio della funzione legislativa venisse delegata dal Parlamento all’Esecutivo appariva in contrasto con i criteri ispiratori delle nuove forme di Stato, specialmente in relazione ai principi democratici di sovranità popolare, a quelli garantistici di divisione dei poteri e al principio di inderogabilità delle competenze.

Sulla base del principio delegata potestas non potest delegari, Locke affermava che ‹‹il legislativo non può trasferire in altre mani il potere di emanare leggi. In quanto esso è il potere delegato dal popolo, coloro che lo possiedono non possono, infatti, trasmetterlo ad altri››[1].

Sulla base del principio di separazione dei poteri, poteva in effetti condividersi l’idea che i titolari delle singole funzioni statali non potessero comunque disporre a proprio arbitrio dell’assetto delle competenze delineate dalla Costituzione: tutto ciò concorreva a far credere che almeno in linea di massima la legislazione non fosse ulteriormente delegabile al potere esecutivo. Questa concezione troverà riscontro nel secolo diciottesimo attraverso l’affermazione dei principi di sovranità popolare, della separazione dei poteri e della loro traduzione nel dogma della supremazia della legge[2].

Tuttavia, questa concezione dello Stato di diritto, con i suoi principi di divisione dei poteri, supremazia della legge, astrattezza e generalità dell’atto legislativo, sul finire dell’Ottocento era già “in crisi”, poiché questo modello appariva intrinsecamente legato alla società omogenea dello Stato liberale borghese o monoclasse, nella quale ben poteva la legge assumere la connotazione di atto normativo primario per eccellenza, produttore di regole generali e astratte. Con l’affermarsi dello Stato pluriclasse, attraverso il riconoscimento di diritti a strati sempre maggiori di cittadini, quel modello è entrato in crisi, in quanto il diritto è chiamato a rispondere alle diverse esigenze dei vari settori della società. La stessa legge parlamentare, non ha più il solo compito di garantire le varie sfere individuali di libertà, infatti, ma si trasforma sempre più in uno strumento di realizzazione dell’integrazione sociale e della redistribuzione delle risorse economiche[3].

Il divieto di delegazione della funzione legislativa appariva così travolto dalla crisi del dogma della supremazia della legge[4].

Tuttavia, la scelta legislativa di consentire al Parlamento la possibilità di delegare al Governo il potere di adottare atti aventi forza di legge suscitò forti interrogativi in Assemblea costituente[5]. Forti e radicate furono, infatti, le obiezioni al riconoscimento costituzionale della delega legislativa in Assemblea costituente, superate solo in seguito agli autorevoli e maturi contributi di Ambrosini e di Tosato e alla mediazione del Pres. Terracini, preparata dal Laconi e dall’Uberti e condivisa da Rossi e da Lussu[6]. A prevalere furono le valutazioni circa la necessità di rendere meno gravoso e complesso il lavoro del Parlamento, unite alla convinzione che sono le assemblee legislative che − con il loro potere sovrano − delegano tale potestà al potere esecutivo e di conseguenza non si verifica alcuna ‹‹menomazione del prestigio del Parlamento››[7].

Come poi si riscontra, infatti, nell’art. 76, della Costituzione ‹‹si tratta di un potere legislativo discrezionale e non libero nei fini per effetto della predeterminazione parlamentare dei principi e dei criteri direttivi. Temporaneamente delimitato e definito quanto gli oggetti, senza poter coinvolgere altre situazioni sia pure connesse e quindi specializzato per definizione››[8].

Con queste premesse, le ragioni che hanno spinto l’Assemblea Costituente ad inserire l’istituto della delega legislativa appaiono evidenti, poiché, ove questa norma non fosse stata inserita nel testo costituzionale, le delegazioni disposte dal legislatore ordinario si sarebbero potute ritenere ‹‹illegittime per definizione››[9], tanto che la stessa Corte costituzionale parla in tal senso di ‹‹principio generale della inderogabilità delle competenze costituzionali››[10].

Nel nostro ordinamento dunque la previsione costituzionale della delegazione legislativa ha una fondamentale importanza, sia perché ha principalmente lo scopo di delineare e circoscrivere tale fonte del diritto, caratterizzandola e diversificandola dalla legge ordinaria, sia perché in tal modo si è data all’istituto un fondamento costituzionale[11].

2.  Il decreto legislativo delegato e il c.d. livello primario di fonti del diritto: gli atti normativi “equiparati” alla legge ordinaria

Le leggi ordinarie dello Stato rappresentano tradizionalmente per antonomasia il tipo classico di atto normativo primario, la potestà legislativa primaria è attribuita “collettivamente” alle due Camere (art. 70 Cost.) che la esercitano nei modi, nei casi e nelle forme indicati dalla costituzione (artt. 71-74 Cost.).

Accanto, alla legge formale del Parlamento, al livello c.d. primario, abbiamo una pluralità di fonti introdotte dalla vigente Costituzione, note come “atti equiparati alla legge ordinaria”. Tale dizione si rinviene peraltro, anche prima della sua entrata in vigore, nell’art. 2 disp. prel. c.c. e, poi, anche nell’art 15. 1 comma, lett. c.), del t.u. n. 1092/1985, nonché negli artt. 14, 15, 16, legge n. 400/1988.

Tali fonti sono senz’altro le leggi regionali, gli atti legislativi dell’esecutivo (il decreto-legge e il decreto legislativo delegato) e le fonti a competenza costituzionalmente riservata (regolamenti parlamentari e regolamenti degli altri organi costituzionali, quali quelli della Corte Costituzionale, ‹‹probabilmente quelli della Presidenza della Repubblica e del Consiglio superiore della magistratura››[12]).

Ad essi vanno aggiunti ‹‹una vasta serie di atti (o fatti) normativi, imputabili a soggetti diversi, di cui è quantomeno dubbio contestare la primarietà, che si sostanzia nell’immediata subordinazione alle sole norme costituzionali››[13]: il referendum abrogativo, gli statuti regionali, provinciali e comunali, gli atti dell’Unione europea, le norme internazionali generalmente riconosciute, le leggi e fonti di altri ordinamenti statali (richiamate dalle norme del c.d. diritto internazionale privato), gli atti aventi forza di legge delle Regioni (la cui legittimità è sempre stata esclusa dalla giurisprudenza costituzionale).

Dunque ci troviamo di fronte a una molteplicità di atti e fatti normativi che potrebbero essere compresi nel livello primario come “atti equiparati alla legge ordinaria”.

Possiamo distinguere tali atti “equiparati” alla legge con riferimento all’organo titolare della potestà di adottarli[14].

Come è stato già stato evidenziato, la regola è che la funzione legislativa sia esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70 Cost.), ma vi sono delle eccezioni, la prima delle quali è costituita dal decreto-legge, in base al quale il Governo “in casi straordinari di necessità e urgenza” può autoassumersi la potestà legislativa e emanare sotto la sua responsabilità provvedimenti provvisori aventi forza di legge che devono il giorno stesso essere presentati alle Camere per la conversione (e ove siano sciolte devono essere appositamente convocate e si devono riunire entro cinque giorni); infatti tali decreti perderanno efficacia fin dall’inizio se non verranno convertiti in legge entro sessanta giorni, però le Camere posso regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.

La seconda eccezione è costituita dal decreto legislativo delegato: il Governo può esercitare la potestà legislativa (artt. 76 e 77, 1 comma, Cost.) soltanto a condizione di ricevere la delega da parte delle Camere e inoltre tale esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo dal Parlamento se non determinando ex ante: i principi, i criteri direttivi, l’oggetto (che deve essere definito) e il tempo (che deve essere limitato).

Ipotesi particolari sono poi quelle degli atti adottati dal Governo in caso di guerra che si fondano sul conferimento dei poteri necessari (art. 78 Cost.) e dei decreti contenenti le “norme di attuazione” degli statuti costituzionali delle Regioni ad autonomia speciale.

Da questi atti normativi equiparati alla legge ordinaria e adottati dal Governo, si distinguono quelli che non provengono dal Governo, e a cui prima abbiamo accennato, che per la riserva di competenza loro assegnata  o per la loro incidenza sulle leggi e sugli atti legislativi, possono ad essi comunque equipararsi.

Tali atti sono: il referendum abrogativo, i regolamenti parlamentari e forse quelli della Presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale, i bandi militari e, qualora sia possibile affermarne l’esistenza nonostante la mancata attuazione di gran parte dell’art. 39 Cost., i contratti collettivi di lavoro dotati di efficacia erga omnes[15].

Tuttavia gli atti che per antonomasia sono i tipi tradizionali e fondamentali di atti normativi del Governo equiparati alla legge ordinaria sono il decreto-legge e il decreto legislativo delegato e poiché sono “atti aventi forza e valore di legge ordinaria” sono contemplati dall’art. 134 Cost., vale a dire che sono sottoponibili al sindacato di legittimità costituzionale.

Ovviamente ci si soffermerà soltanto sulla trattazione dei decreti legislativi delegati, quali atti equiparati alla legge ordinaria previa delegazione del Parlamento e fissazione dei limiti necessari.

3. I tratti distintivi e la qualificazione del potere legislativo delegato: caratteri generali

L’istituto della delegazione legislativa è previsto dal combinato disposto degli artt. 76 e 77 Cost., ove l’art 76 Cost. stabilisce che ‹‹l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti››, mentre l’art. 77 Cost. stabilisce che ‹‹il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria››.

La possibilità, dunque, che il Governo possa, a certe condizioni, adottare decreti che abbiano il valore di legge ordinaria è ammessa dalla nostra Costituzione come eccezione al principio per cui ai sensi art. 70 Cost. ‹‹la funzione legislativa è esercita collettivamente dalle due Camere››.

Soffermandoci sulle formulazioni delle disposizioni sulla delega legislativa, si nota chiaramente la diffidenza dell’Assemblea Costituente verso questa forma di produzione normativa[16]. Negli enunciati abbondano, infatti, le negazioni: ‹‹l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e oggetti definiti (art. 76 Cost.); il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano il valore di legge ordinaria (art. 77, 1 comma, Cost.)››[17].

Fatti salvi i limiti giuridici all’uso della delegazione legislativa, di cui si tratterà successivamente, le Camere posso ricorrere a questo strumento quando meglio credono.

Diversi infatti possono essere i possibili motivi del ricorso a tale istituto e non delimitabili in un elenco chiuso, infatti solitamente le Camere utilizzano tale strumento quando vogliono disciplinare una determinata materia con norme di grado legislativo, ma a tale volontà non corrisponde la possibilità e la capacità dello stesso Parlamento di approvare la relativa legge. Suddetta situazione può determinarsi per motivi strettamente politici, quando il Parlamento disponendo di una maggioranza poco compatta e incerta, piuttosto che utilizzare lo strumento della legge ordinaria, preferisce limitarsi a fissare i criteri e i principi direttivi della disciplina che verrà poi in concreto successivamente stabilita dal Governo mediante il decreto legislativo delegato; oppure quando il Parlamento, in relazione al calendario dei propri lavori, ritiene di non disporre del tempo necessario per approvare leggi di rilevante ampiezza e “spessore sociale”; oppure, ancora, quando una certa normativa richiede competenze tecniche particolari, che le Camere non possiedono, a differenza del Governo[18].

Soprattutto a partire dagli anni ‘70, si è assistito a un crescente utilizzo dell’istituto della delega legislativa che è stata utilizzato: per riformare interi settori dell’ordinamento, per dare attuazione alle direttive comunitarie, per adottare codici e testi unici e soprattutto per l’approvazione di riforme di rilevante importanza, quali ad esempio, la riforma del processo penale, la riforma tributaria, la riforma del pubblico impiego, la riforma universitaria e la riforma del decentramento amministrativo (le cosiddette leggi “Bassanini”)[19].

Certo è che l’incremento della legislazione delegata costituisce una delle principali tendenze nella produzione normativa delle ultime Legislature, infatti a partire dalla XIII Legislatura il numero dei decreti legislativi delegati si è triplicato rispetto alle precedenti e tale numero oggi ha quasi triplicato quello delle leggi ordinarie approvate dal Parlamento[20].

Un problema, per così dire, tradizionale della delega legislativa, intesa come fattispecie astratta, è l’individuazione della qualificazione del potere normativo delegato. Diversi sono stati i tentativi della dottrina meno recente di accostare la figura in esame ad altre di diritto privato, quali il mandato e la rappresentanza (tale accostamento serviva per distinguere il vero e proprio superamento dei limiti oggettivi del potere legislativo delegato dalla “mala esecuzione” che conseguiva al mancato rispetto dei criteri  indicati dalla legge, generativa di responsabilità soltanto politica), tali tentativi tuttavia hanno creato più problemi che benefici[21]. Più vicino sembra essere l’istituto della delegazione amministrativa, che assume particolare rilievo soprattutto nei rapporti fra Stato e regioni e fra regioni, province e comuni, ma pur nella comunanza di alcuni problemi (come ad es. l’eccezione al principio di inderogabilità delle competenze) si dimostra lontano dal delineare le stesse problematiche della delegazione legislativa[22].

Se nell’ordinamento statutario e in quello fascista la delega legislativa era ammissibile, sia pure in deroga alla Costituzione, per qualunque tempo e per qualunque contenuto (si poteva infatti dire che il legislatore delegato veniva collocato nella stessa posizione del legislatore ordinario, essendo abilitato all’esercizio della potestà legislativa già spettante al Parlamento, anche se quest’ultimo ne conservava l’esclusiva titolarità)[23], oggi tale orientamento non è più sostenibile poiché la nostra Carta costituzionale, oltre ad individuare il solo Governo come destinatario della delega, esige che la legge di delegazione contenga: gli oggetti che possono essere disciplinati dal Governo, la determinazione dei principi e dei criteri direttivi e l’indicazione del limite di tempo entro il quale tale potere può essere esercitato.

In assenza di tali indicazioni, la legge di delega è affetta da invalidità rilevabile dalla Corte costituzionale ex art. 134 Cost. nella forma dell’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 76 Cost., perciò si deve concludere che il Governo oggi esercita una funzione legislativa ben differenziata da quella ordinaria che spetta alle due Camere.

Non è importante che quel potere corrisponda ad un frammento della potestà legislativa del Parlamento o ad un trasferimento in capo al Governo della potestà legislativa[24]; o ancora, come sostiene la recente dottrina costituzionalistica, ad un potere legislativo del tutto nuovo, a fronte del quale le Camere manterrebbero intatta la loro potestà legislativa[25] oppure una funzione legislativa parificata[26]. Questa prospettiva trova ulteriore conferma nei lavori dell’Assemblea Costituente che nell’art. 76 Cost. non introdusse ulteriori specificazioni al termine “esercizio” in riferimento alla funzione legislativa delegata.

Come sopra accennato, non è fondamentale risolvere tale problema, poiché si tratta solo di una questione di punti di vista, dato che la scelta di una o di un’altra ricostruzione non incide sul significato effettivo e nemmeno sull’applicazione pratica delle norme costituzionali, infatti il Governo non disporrà mai di un potere di legiferare tanto ampio da equipararsi a quello posto in capo al Parlamento. ‹‹Tanto che vi è concordia in dottrina su un’importante conseguenza pratica nei rapporti tra le due Camere e l’Esecutivo, che scaturisce dall’esercizio della delega legislativa: la c.d. revoca espressa, vale a dire la possibilità di revoca della delega tanto attraverso una legge che abroghi espressamente la precedente legge di delegazione, quanto attraverso la c.d. revoca tacita, vale a dire mediante una legge che, pur non contenendo una disposizione di abrogazione espressa, disciplini nella sostanza, in tutto o in parte, l’oggetto della delega stessa prima che il Governo abbia adottato il decreto legislativo››[27].

In sintesi, può affermarsi, circa il potere legislativo delegato che: poiché la legge delegante fissa i principi e i criteri direttivi dell’attività legislativa delegata, questa non può mai determinare liberamente gli interessi e gli scopi da raggiungere, ma deve ritenersi vincolata nei suoi fini; che il suo esercizio è ‹‹circoscritto nel tempo››, infatti l’attività del Governo si distacca nettamente da quanto disposto dall’art. 70 Cost., poiché la funzione legislativa dell’Esecutivo è temporanea, mentre quella del Parlamento è permanente e, infine, che la potestà legislativa delegata al Governo è ‹‹specializzata per definizione››, poiché è destinata a disciplinare oggetti definiti, a differenza della funzione legislativa del Parlamento che è generale ex art. 70 della Costituzione[28].

Dunque non possiamo assimilare il potere delegato al Governo allo stesso potere che è proprio del Parlamento, ma ad un potere che si affianca al potere legislativo ordinario e che è da esso guidato, essendo legato alla legge di delegazione emanata dal Parlamento e dovendo rispettare le linee di confine da essa tracciate.

Certo è che oggi il sistema delle fonti del diritto che dovrebbe vedere al suo vertice la legge ordinaria come fonte principale di produzione normativa, appare profondamente mutato. L’utilizzo dei decreti legislativi e dei decreti-legge, infatti, nelle ultime Legislature è notevolmente aumentato e ha trasformato e rovesciato quel rapporto di “regola-eccezione” tra leggi e atti normativi di origine governativa che emerge dalla nostra Carta costituzionale.

‹‹In questa nuova prospettiva è il Governo ormai l’artefice principale, “ordinario”, della produzione normativa››[29].

4.  Il procedimento di formazione dei decreti legislativi

Il procedimento di formazione dei decreti legislativi in parte trova la sua disciplina in Costituzione e in parte nella legge ordinaria.

L’art. 14, L. 23 agosto 1988, n. 400 stabilisce che i decreti legislativi adottati dal Governo ai sensi dell’art. 76 Cost. sono emanati dal Presidente della Repubblica con la denominazione di ‹‹decreto legislativo›› e con l’indicazione, nel preambolo, della legge di delegazione, della deliberazione del Consiglio dei ministri e degli altri adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione.

Sempre in base a quanto previsto dall’art. 14 della L. n. 400 del 1988, l’emanazione del decreto legislativo deve avvenire entro il termine fissato dalla legge di delegazione e il testo del decreto legislativo adottato dal Governo deve essere trasmesso per l’emanazione al Presidente della Repubblica, almeno venti giorni prima della scadenza del termine.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, il momento conclusivo dell’iter di formazione del decreto legislativo è la fase dell’emanazione, poiché è in questo momento che si può ritenere concluso l’esercizio della funzione legislativa con riferimento all’osservazione del termine indicato dalla legge di delega[30]. Da un lato, infatti, la Corte costituzionale non dà rilievo alla sola circostanza che nel termine sia stata deliberata da parte del Consiglio dei ministri l’approvazione del decreto, poiché ‹‹l’adozione della legge delegata, cui non sia ancora seguita l’emanazione dell’atto, vale bensì a definire le disposizioni, senza che l’atto stesso possa considerarsi già compiuto››; dall’altro, sempre sotto questo aspetto, non è rilevante nemmeno la data di pubblicazione, anche quando è tardiva, poiché la pubblicazione del decreto legislativo nella Gazzetta Ufficiale costituisce per la Corte ‹‹condizione di efficacia, non requisito di validità della legge, che esiste […] anche prima della sua pubblicazione››[31]. Non si trova d’accordo con tale orientamento giurisprudenziale una parte della dottrina: alcuni considerano, infatti, determinante l’adozione del decreto legislativo delegato, altri aderiscono alla tesi della Corte costituzionale, considerando decisiva la fase dell’emanazione, mentre altri ancora sostengono che anche la pubblicazione dovrebbe intervenire entro il termine, per non premiare l’inerzia del Governo[32].

Tuttavia, la conseguenza di questo orientamento giurisprudenziale è che in questo modo si viene a creare, fra l’emanazione e la pubblicazione, un intervallo di tempo non determinabile, dal quale il Governo potrebbe trarre “vantaggio”: in apparenza rispettando il termine della delegazione, ma in sostanza oltrepassando lo stesso e alterando talvolta la serie procedimentale di formazione delle leggi delegate (in tal senso, vi sono stati casi in cui i singoli ministri hanno in parte mutato le disposizioni già deliberate dal Consiglio dei ministri, mentre in altri casi, sia pure eccezionali, le modificazioni sono state introdotte addirittura dopo l’emanazione del decreto legislativo)[33]. Seguendo tale orientamento, sembrerebbe quasi che il trattamento dei decreti legislativi può venir equiparato al regime cui sono assoggettati gli atti governativi mancanti della forza e del valore delle leggi[34].

Un ulteriore profilo, disciplinato sempre dalla stessa legge ordinaria, riguarda il caso in cui la delega  si riferisca ad una pluralità di oggetti distinti che possono essere disciplinati in modo separato: in tal caso il Governo può esercitarla mediante più atti successivi per uno o più di quegli oggetti (c.d. esercizio frazionato della delega)[35]. In ogni caso, qualora il termine previsto per l’esercizio della delega ecceda i due anni (c.d. delega ultrabiennale), il Governo è tenuto a richiedere il parere delle due Camere sugli schemi dei decreti delegati. Il parere è espresso dalle Commissioni permanenti delle due Camere  competenti per materia entro sessanta giorni, indicando specificamente le eventuali disposizioni non ritenute corrispondenti alle direttive della legge di delegazione. Il Governo poi, nei trenta giorni successivi, dopo aver esaminato il parere, ritrasmette i testi con le sue osservazioni e con le eventuali modificazioni alle Commissioni per il parere definitivo, che deve essere espresso entro trenta giorni. Anche nella c.d. delega ultrabiennale, il parere delle Commissioni permanenti delle due Camere non si trasforma da obbligatorio in vincolante e si esclude che dopo il secondo parere il Governo possa introdurre nel testo finale del decreto delle norme nuove rispetto a quelle sulle quali precedentemente le Commissioni permanenti avevano espresso il proprio parere[36].

Inoltre, sia i decreti legislativi che i decreti-legge, per espressa previsione dell’art. 16, L. n. 400/1988, non sono più soggetti al controllo di legittimità della Corte dei conti, che in precedenza interveniva, per quanto riguarda i decreti legislativi, dopo il decreto presidenziale di emanazione e che aveva suscitato molte perplessità, poiché l’esclusiva giurisdizione sugli atti con forza di legge è attribuita alla Corte costituzionale[37]. Tuttavia, il comma 2 dell’art. sopra citato, prevede che il Presidente della Corte dei conti, quando ne faccia richiesta la Presidenza di una delle Camere o anche su iniziativa delle Commissioni parlamentari competenti, trasmetta al Parlamento le valutazioni delle Corte, circa le conseguenze finanziarie che deriverebbero dalla conversione in legge di un decreto legge o dalla emanazione di un decreto legislativo adottato dal Governo su delegazione delle Camere.

In dottrina ha suscitato ampio dibattito la questione dei vincoli procedimentali introdotti dalla L. n. 400 del 1988, specialmente con riferimento ai decreti legislativi.

Alcuni hanno ritenuto che la previsione di quei vincoli costituisca un’attuazione dei principi costituzionali, altri ne hanno sostenuto la vincolatività a condizione che la legge di delegazione, mediante un rinvio all’art. 14 della L. n. 400 del 1988, incorpori quelle prescrizioni, altri ancora hanno affermato invece che, quando la legge di delega non lo escluda, le prescrizioni si inseriscono automaticamente nella delega.

Più in generale la tesi favorevole alla previsione di tali vincoli è stata argomentata in base alla qualificazione delle prescrizioni contenute nell’art.14 della L. n. 400 del 1988 come norme sulla produzione, quest’ultime ‹‹in genere vincolanti per il legislatore futuro e, in particolare, pongono limiti di validità-legittimità per gli atti legislativi del Governo, sempre che esse non si rivelino incompatibili con norme formalmente costituzionali››[38].

La dottrina maggioritaria guarda però con sfavore la disciplina, attribuendo rilievo ‹‹all’origine e quindi al valore o tipo di atto che nella specie ha prodotto le norme sulla produzione e sulla base di questa argomentazione si afferma che la L. 400 del 1988 non è la legge di delega  specificamente abilitativa il singolo decreto ma, è mera legge ordinaria››[39]. Così, con riferimento all’art. 14 della L. n. 400/1988, che impone l’obbligo al Governo di sentire le Commissioni  permanenti per le deleghe di durata ultrabiennale, è stato possibile affermare che ‹‹tale obbligo, in quanto non insito nella legge di delegazione, appartiene più ai doveri di correttezza  politico-costituzionale che ai limiti di validità dei decreti legislativi››[40].

La questione riguarda la complessa problematica dei c.d. autovincoli legislativi, vale a dire del rapporto tra le norme sulla produzione e le norme di produzione, nella specie tra normativa sulla delega e normativa di delega[41].

La giurisprudenza ha fornito qualche elemento per propendere per la “tesi negativa”: la capacità condizionante della L. n. 400/1988 rispetto ai singoli atti aventi forza di legge del Governo non è stata pienamente riconosciuta. Basti pensare alla sentenza della Corte costituzionale n. 196/2004, in riferimento alle prescrizioni circa il requisito di omogeneità dell’oggetto del decreto legge contenute nella L. n. 400 del 1988, ove la Corte afferma che tale carattere ‹‹seppur opportunamente previsto›› dalla legislazione ordinaria non integra un requisito costituzionalmente imposto. Sembra andare in diversa direzione un parere del Consiglio di Stato, Ad. Gen. n. 2/2004 del 25 ottobre del 2004, dove si argomenta la derivazione dell’obbligo del proprio intervento consultivo sugli schemi dei decreti legislativi di codificazione e riassetto, stabilito in via generale dall’art. 17, comma 25, della L. 29 luglio 2003, n. 229, concludendo che tale intervento è necessariamente richiesto ‹‹anche laddove la specifica norma di delega non dovesse contenere tale indicazione››[42].

Come è stato osservato ‹‹l’assunto per cui la norma generale sulla delega per il riassetto sarebbe applicabile all’esercizio della potestà legislativa delegata in materia, in assenza di una diversa prescrizione nella singola legge di delega, finisce per riposare su presupposti logici non troppo dissimili da quelli fondati dalla teoria degli autovincoli legislativi››[43].

Analizzato l’iter di formazione dei decreti legislativi, bisogna sottolineare che nella prassi queste fasi sono state integrate da altri adempimenti, che precedono e condizionano l’adozione dei decreti legislativi da parte del Consiglio dei ministri.

Queste fasi ulteriori possono essere raggruppate in due categorie: nella prima rientrano tutti i previ adempimenti di ordine amministrativo, sulla base dei quali la potestà legislativa delegata è divenuta vincolata invece che libera, nella seconda rientrano invece tutte le varie fasi di collaborazione fra il Parlamento e il Governo, che riducono sul piano politico le scelte legislative operabili dal Consiglio dei ministri[44].

Circa il primo punto, è noto che i contenuti di alcuni tipi di leggi-provvedimento, delegate dal Parlamento al Governo, sono stati del tutto o in parte predeterminate, attraverso un rinvio ad altri atti non legislativi, in genere preesistenti, disposto dalla stessa legge-delega (ad es. l’art. 4 della L. 21 ottobre 1950, n. 841, ha stabilito che le quote dei terreni da espropriare, nell’ambito di quella riforma fondiaria, dovessero essere ricavate dai catasti in vigore alla data del 15 novembre 1949)[45].

Per quanto riguarda il secondo punto, negli ultimi anni è stato dato particolare rilievo alla fase preparatoria dei testi dei decreti legislativi, mediante l’istituzione di Commissioni parlamentari in sede consultiva, chiamate a cooperare con il Governo, le quali vengono coinvolte a più riprese nel procedimento, nelle materie di loro competenza, da parte delle leggi deleganti. Nei confronti di questa prassi, parte della dottrina ha sollevato qualche dubbio, dal momento che costituisce una forma particolare di delegazione, che non trova riscontro nella Carta costituzionale, ma tali perplessità invece, per altra parte della dottrina non trovano fondamento, poiché la Costituzione non regola affatto la fase preparatoria della formazione delle leggi delegate e non vieta che il Parlamento imponga al Governo ulteriori limitazioni, rispetto a quelle minime che vengono espressamente previste dalla legge[46]. Restano però aperti in dottrina due problemi. Il primo riguarda se si può ancora parlare di un procedimento legislativo comune nella formulazione dei decreti legislativi: parte della dottrina opta per la tesi affermativa, mentre  un’altra di segno opposto afferma che, generalmente nella prassi, le delegazioni tendono a generare rapporti di tipo organizzativo tra il Parlamento e il Governo[47]. In secondo luogo, ci si chiede se la mancata osservanza delle procedure prescritte dalle leggi di delega determini a carico delle leggi delegate un vizio sindacabile dai giudici ordinari oppure dalla Corte costituzionale; tuttavia la prima tesi è minoritaria, optando la maggior parte della dottrina e soprattutto la stessa Corte costituzionale per la tesi opposta[48].

4.1. Il controllo del Presidente della Repubblica in sede di emanazione del decreto legislativo 

Abbiamo visto che il decreto viene approvato dal Consiglio dei ministri e successivamente emanato dal Capo dello Stato; l’emanazione, come la promulgazione per le leggi, è preceduta da un controllo, che può dar luogo ad un rinvio dell’atto al Governo.

Il controllo esercitato in sede di emanazione, è disciplinato dall’ art. 14, comma 2, della L. n. 400 del 1988, il quale prevede che l’emanazione debba avvenire entro il termine fissato dalla legge di delegazione e che comunque la delibera del Consiglio dei ministri deve essere presentata al Presidente della Repubblica almeno venti giorni prima.

L’emanazione, dunque, esprime sia l’esito positivo del controllo, sia il perfezionamento delle statuizioni in un documento.

Nel silenzio della Costituzione, si è molto discusso in dottrina della possibilità per il Presidente della Repubblica di esercitare un controllo in sede di emanazione degli atti aventi forza di legge e si sono contrapposte diverse tesi. Una tesi attribuisce al Presidente della Repubblica un potere identico a quello che può esercitare in sede di promulgazione delle leggi (art. 74 Cost.), altrimenti – secondo questa parte della dottrina − perderebbe di significato l’obbligo per il Governo di trasmettere il testo del decreto legislativo al Capo dello Stato almeno venti giorni prima della scadenza; infatti, quest’ultimo, può chiedere al Governo, per motivi sia di merito che di legittimità, il riesame del decreto, a meno che ciò non comporti la caducazione del potere delegato per scadenza del termine fissato dalla legge di delegazione[49]. Un’altra tesi vede nel silenzio della Costituzione un limite a questo potere[50], mentre un’altra parte della dottrina attribuisce al Capo dello Stato poteri anche più ampi di quelli spettanti in sede di promulgazione[51]. Tuttavia, circa quest’ultima tesi, parte della dottrina osserva − anche se ciò viene sostenuto in riferimento al decreto-legge, tuttavia può offrire spunti di riflessione – che la scelta di prefigurare un rafforzamento del potere presidenziale in sede di emanazione rischia di palesare una sorta di paradosso[52]. ‹‹Bisogna, infatti, tener conto che l’espansione del ruolo del Capo dello Stato, […], altro non si traduce se non in un’operazione di erosione della funzione di controllo che le Camere sono chiamate a svolgere in sede di conversione in legge del decreto. In pratica, alla crescita del Presidente corrisponde una correlativa deminutio delle Camere››[53].

Inoltre, secondo un’altra parte della dottrina, il controllo potrebbe giungere, a differenza che per le leggi, fino al rifiuto dell’emanazione del decreto[54]; tale tesi per alcuni non è condivisibile non potendo spettare al Presidente della Repubblica un giudizio definitivo di costituzionalità, senza eludere i poteri della Corte costituzionale[55]. Sul punto viene sottolineato da un altro filone  dottrinale − anche se ciò viene ancora una volta sostenuto in riferimento al decreto-legge, tuttavia può offrire spunti di riflessione − che occorre una ‹‹certa cautela nel configurare un significativo potere di rifiuto dell’emanazione di decreti-legge da parte del Presidente della Repubblica, a fronte di un potere di mera sospensione in sede di promulgazione delle leggi […]. Invero, il riconoscimento di un simile potere interdittivo del Presidente, comportando un’evidente implicazione di quest’ultimo nell’attività normativa del Governo, dovuta alla vincolatività della posizione presidenziale, finirebbe per alterare la simmetria delle relazioni che il Capo dello Stato intrattiene, rispettivamente, con il Parlamento da un canto e il Governo dall’altro. Insomma, una fonte di squilibrio che parrebbe – per questo aspetto – prefigurare una riedizione dell’idea di una coinvolgimento forte, sul piano della normazione, fra Capo dello Stato e Governo e, in definitiva, di una sorta di compartecipazione sostanziale del primo nell’attività del secondo››[56]. Anche se, sul punto occorre sottolineare che lo stesso Presidente Napolitano ha confermato, in un comunicato, l’esistenza di una prassi ormai consolidata della «consultazione informale […] tra il Governo e la Presidenza della Repubblica in ordine all’adozione di un decreto-legge, attraverso la quale il Presidente, non diversamente da quanto compiuto per la promulgazione delle leggi, è chiamato a verificarne i profili di costituzionalità, senza ovviamente alcun intervento sulle scelte di indirizzo e di contenuto del provvedimento d’urgenza che restano sotto l’autonoma ed esclusiva responsabilità del Governo»[57]. Non solo, una prassi di negoziazione non parrebbe estranea neppure ai rapporti fra Presidente e Governo in occasione dell’emanazione di decreti legislativi

Pur immaginando l’esistenza della possibilità di rifiutare l’emanazione, è abbastanza diffuso il convincimento che alla base di una siffatta decisione presidenziale vi debba essere un problema di qualificabilità dell’atto in quanto tale, cioè di sua riconoscibilità, la quale può essere messa in dubbio dalla presenza di un vizio capace di minarne la riconducibilità al tipo di appartenenza[58]. In sostanza, l’assenza di requisiti formali minimi o, comunque, la violazione di norme essenziali sulla normazione in grado di pregiudicare la qualificazione dell’atto – si pensi all’ipotesi in cui l’atto viene emanato oltre il termine fissato,  o manca di una legge di delegazione – prefigurando un vizio che, più che di illegittimità, sarebbe da declinare in termini di nullità-inesistenza dell’atto, costituirebbe, per il Presidente, un ostacolo obiettivo all’emanazione[59]. Ipotesi, quest’ultima, a cui la dottrina affianca il casi in cui ‹‹la legge disponga in così patente spregio della Costituzione da violare essenziali regole competenziali o aggirare limiti neppure superabili con legge costituzionale››[60].

Accanto a queste eventualità, a riscuotere un ampio consenso è l’ipotesi di rifiuto di emanazione nel caso in cui il Capo dello Stato possa in tal modo incorrere in una delle due fattispecie di reato previste dall’art. 90 Cost., per le quali non vale il generale principio dell’irresponsabilità presidenziale: vale a dire, l’attentato alla Costituzione e l’alto tradimento[61].

Nell’ipotesi invece del rinvio, parte della dottrina, facendo un’analogia con l’art. 74 Cost., conclude che l’unico effetto del rinvio possa essere un riesame dell’atto e una nuova deliberazione da parte del Governo[62]. Tuttavia alla luce della prassi seguita nelle ultime Legislature, secondo un’altra parte della dottrina, tale conclusione non sembrerebbe soddisfacente, poiché una nuova deliberazione da parte del Governo risulterebbe inutile e non idonea a sanare il vizio[63]. Per inquadrare correttamente la questione bisogna allora evidenziare la differenza tra il potere di emanazione e promulgazione, infatti tali poteri anche se simili, sono differenti nei modi del rinvio, in quanto ‹‹formali e procedimentalizzati nel caso della legge, liberi e informali nel caso degli atti aventi forza di legge››[64]. È stato osservato infatti che ‹‹per quanto riguarda la legge, se il testo approvato dalle Camere è difforme da quello promulgato, non v’è dubbio che debba prevalere il primo, mentre nel caso del decreto-legge il testo trasmesso dal Governo non possiede alcuna identità giuridica distinta e differenziata da quella del testo emanato che è quello del decreto-legge››[65], come sarebbe comprovato anche dal fatto che nel caso dei decreti-legge e dei decreti legislativi ‹‹la delibera del Consiglio dei ministri, anche se documentata nel verbale della seduta, non acquista allo stato attuale della legislazione e della prassi un preciso rilievo esterno››[66]. Sviluppando questa importante differenza, parte della dottrina sostiene che, ‹‹mentre nel caso della legge con il rinvio può chiedere alle Camere solo una nuova deliberazione, nel caso degli atti aventi forza di legge il Presidente potrebbe spingersi sino a chiedere che il procedimento di formazione dell’atto venga ripetuto nuovamente››[67].

Alcune recenti vicende offrono uno spunto di riflessione del ruolo del Presidente della Repubblica come autorità garante della correttezza dell’iter di formazione degli atti che vengono sottoposti al suo esame[68].

Un ampio dibattito in dottrina è stato suscitato dalla vicenda Englaro, che anche se riguarda un decreto-legge offre sul punto importanti spunti di riflessione[69]. Il comunicato del Presidente della Repubblica con cui si dà notizia del diniego di emanazione del decreto-legge adottato dal Governo sembra effettivamente alludere ad un vero e proprio veto assoluto.

La dottrina sul punto ha sottolineato che, se non si considera la peculiarità della vicenda, si potrebbe concludere che nel caso di specie il Presidente della Repubblica abbia esercitato un potere di veto al di là del costituzionalmente consentito[70]. Tuttavia, viene affermato che se la carenza della necessità ed urgenza viene riconosciuta come ‹‹un vizio del presupposto ed in particolare del presupposto funzionale, dovrebbe essere fatta rientrare fra quelle violazioni delle norme essenziali sulla normazione in grado di riflettersi sulla stessa qualificazione dell’atto che tradizionalmente giustificano la prefigurazione di un potere presidenziale di rifiutare l’emanazione››[71].

Seguendo tale dottrina, dovrebbe essere attribuito al Presidente della Repubblica un medesimo potere di veto nel caso in cui fosse adottato un decreto legislativo avente un vizio in grado di pregiudicare la qualificazione dell’atto, vale a dire un vizio che sarebbe in grado di declinare l’atto come nullo-inesistente. In questo caso tale vizio costituirebbe per il Presidente un ostacolo obiettivo all’emanazione.

5.  La legge di delega come norma interposta e unico strumento per conferire una delega legislativa

La Costituzione prevede che la funzione legislativa che spetta alle Camere (art. 70 Cost.) non può essere esercitata dal Governo se non previa delega del Parlamento (art. 77 Cost.), con la determinazione dei principi e dei criteri direttivi, per un tempo determinato e per oggetti definiti (art. 76 Cost.) e solo il Governo, d’altra parte, può essere destinatario della delega (art. 76 Cost.). Gli atti adottati dal Governo ed emanati dal Presidente della Repubblica (art. 87, comma 5, Cost.) hanno valore (art. 77 Cost.) e forza di legge e sono sottoposti al sindacato della Corte costituzionale (art. 134 Cost.).

Siamo davanti a un potere legislativo nuovo, creato dalla stessa legge di delegazione, ma anche delimitato da quest’ultima con i  principi e i criteri direttivi,  limitato nel tempo e definito negli oggetti.

‹‹I decreti delegati, dunque, pur efficaci  ex se, sono condizionati, quanto alla propria validità e forse, persino efficacia, alla non disformità dalla legge di delegazione››[72].

La legge di delega, insieme alla Costituzione si pone a fondamento del potere legislativo del Governo e costituisce il parametro di legittimità di quest’ultimo. Da ciò emerge che la legge di delega può essere considerata come norma interposta tra la norma costituzionale dell’art. 76 Cost. e il singolo decreto legislativo delegato. La Corte costituzionale, infatti, nella sentenza n. 3 del 1957 ha affermato che ‹‹sia il precetto costituzionale dell’art. 76 Cost., sia la norma delegata costituiscono la fonte da cui trae legittimazione la legge delegata››, perciò il contrasto con la legge delegante, sarebbe contrasto con la Costituzione e da ciò ne deriva che l’eventuale violazione della legge delegante (c.d. norma interposta) determina l’incostituzionalità del decreto governativo per indiretta violazione degli artt. 76 e 77, comma 1, della Costituzione[73].

Nella Costituzione, non si ritrovano disposizioni che prevedono sanzioni in caso di mancato o parziale esercizio della delega, infatti in queste ipotesi avremmo una responsabilità soltanto politica[74] e non sarebbe neanche esperibile il ricorso alla Corte costituzionale per conflitto tra i poteri dello Stato perché la mancata adozione del decreto legislativo da parte del Governo non comporta alcuna lesione della competenza delle Camere, infatti nulla impedisce ad esse di stabilire con propria legge la disciplina delegata al Governo[75].

La formulazione degli artt. 76 e 77 Cost. non fa espresso riferimento alla legge come unico strumento con il quale il Parlamento può delegare il Governo ad adottare atti con forza di legge, atti che vengono denominati formalmente dall’art. 14, comma 1, della L. 23 agosto 1988, n. 400 “decreti legislativi”, mentre anteriormente venivano denominati “decreti delegati”, per distinguerli dai decreti del Presidente della Repubblica che riguardano l’emanazione dei regolamenti amministrativi[76].

L’art. 15, comma 1, lett. a), della L. n. 400 del 1988  risolve il problema vietando la possibilità di conferire deleghe legislative mediante decreto-legge. La Corte costituzionale nella sentenza n. 39 del 1971 e nella sentenza n. 220 del 1974 esclude che l’approvazione di un ordine del giorno o di una mozione possa equivalere ad una delegazione, anche se questi atti possono essere utilizzati a fini interpretativi. Inoltre l’art. 72, ultimo comma, Cost. riserva all’Assemblea l’approvazione delle leggi di delega, prescrivendo la c.d. “riserva di legge d’Assemblea”, cioè l’obbligo per ciascuna Camera di approvare il disegno di legge di delegazione, facendo ricorso al procedimento legislativo caratterizzato dall’intervento delle Commissioni in sede referente e escludendo la possibilità di ricorrere al procedimento caratterizzato dall’intervento delle Commissioni in sede deliberante o redigente[77].

La possibilità di ricorrere al decreto-legge era già stata esclusa dalla dottrina precedentemente all’entrata in vigore della disposizione, sulla base di due argomenti: il primo è la necessità che vi sia distinzione tra il soggetto delegante e il soggetto delegato, perché altrimenti non vi può essere il controllo del primo nei confronti del secondo, ma tale argomento non sembra convincente poiché la funzione di controllo del Governo è comunque esercitabile da parte delle Camere in sede di conversione in legge del decreto-legge nel termine di sessanta giorni, infatti in tale sede può essere eliminata o modificata la disposizione[78]; il secondo argomento è l’insussistenza dei straordinari motivi di necessità e urgenza su cui, ai sensi dell’art. 77 Cost., si basa il decreto-legge, oltre al fatto che in tale ipotesi mancherebbe l’approvazione in assemblea articolo per articolo che è un requisito essenziale della formazione della legge di delega (e tale vizio non può essere sanato dalla legge di conversione)[79].

Si deve anche escludere la proroga con decreto-legge di precedente delega (fatta salva la possibilità di discutere sulla sanabilità del vizio quando il decreto stesso contiene  un articolo unico destinato a questo scopo), come la possibilità di deleghe tacite e implicite.

La Corte costituzionale con la sentenza n. 63 del 1988 ha peraltro espressamente affermato che ‹‹l’atto di conferimento al Governo di delega legislativa può avvenire solo con legge››, ma non ha dichiarato illegittimi gli interventi mediante decreto-legge che dovevano prorogare il termine fissato dalla legge di delegazione o derogare ai principi e criteri direttivi stabiliti da quest’ultima[80].

5.1. Le trasformazioni della delega: l’uso frazionato del potere delegato

Un’altra caratteristica della delega legislativa, diffusa soprattutto in passato, è quella dell’istantaneità, secondo la quale il Governo deve dare piena e concreta attuazione alla delega ricevuta con un unico atto e non con una serie di atti[81]. Secondo tale dottrina, infatti, la delega legislativa oltre a richiedere, la previa determinazione dei principi, del tempo e del contenuto, deve essere anche istantanea, cioè suscettibile di un unico atto di esercizio, nel quale dovrebbe esaurirsi il potere delegato.

Tuttavia l’idea che la delega legislativa debba essere istantanea per definizione non è mai stata universalmente accolta, infatti la maggior parte della dottrina ritiene che si tratterebbe di una invenzione dottrinale, poiché non sussiste un esplicito divieto costituzionale ad un esercizio frazionato della stessa[82]. Tale dottrina infatti, tenendo in considerazione dei limiti fissati dall’art. 76 Cost. alla delegazione, ritiene che tale potere, anche se esercitabile entro un tempo limitato, possa essere nuovamente utilizzato[83].

Entrambe le tesi però si basano su una premessa comune, vale a dire il silenzio dell’art. 76 Cost. sul punto, il quale prevede la possibilità della delegazione della funzione legislativa, fissandone i limiti, ma non dice nulla sulle modalità di tale esercizio.

Di fatto, le delegazioni ad esercizio “frazionato”, note nell’ordinamento statutario e fascista, non sono venute meno neanche in quello repubblicano.

Al di là di queste divergenze dottrinali, l’art. 14, comma 3, della L. n. 400 del 1988 stabilisce, infatti che: ‹‹se la delega legislativa si riferisce ad una pluralità di oggetti distinti suscettibili di separata disciplina, il Governo può esercitarla mediante più atti successivi per uno o più degli oggetti predetti››. Tuttavia, ciò sta a significare che ad essere possibile è soltanto l’ipotesi di esercizio frazionato attraverso atti complementari e non un esercizio ripetuto della delega, altrimenti – afferma la dottrina − la delegazione al Governo diventerebbe in effetti non un’attribuzione temporanea e circoscritta, ma istituzionale della competenza a legiferare, in violazione dell’art. 70 Cost. che riserva alle Camere la titolarità della funzione legislativa[84].

Nella prassi, infatti, si registrano sempre più frequentemente casi di delegazione che consentono al Governo un uso frazionato del potere delegato oppure che stabiliscono un termine per l’esercizio normale della delega ed un secondo termine entro il quale il Governo può adottare uno o più decreti (noti come “decreti correttivi”) con cui modificare la disciplina adottata con il primo decreto, al fine di adeguarla ai principi e i criteri direttivi contenuti nella legge di delega[85].

Secondo le sentt. nn. 38 del 1959, 58 e 156 del 1985 della Corte costituzionale, infatti, non è possibile nemmeno esclude un limitato potere correttivo del Governo sui decreti emanati, purché risulti esplicitamente o implicitamente consentito nella legge di delega e sia volto ad eliminare i difetti del primo atto di esercizio; né questo potere, tenuto conto della sua speciale e limitata valenza, dovrebbe risultare escluso per il fatto che di esso non fa menzione l’art. 14, comma 3, della L. n. 400 del 1988[86].

Ovviamente, sia l’uso frazionato del potere delegato, sia quello correttivo, devono rispettare il termine fissato dalla legge di delegazione per l’esercizio della delega.

5.1.1. Le deleghe integrative e correttive

Anche in considerazione del fatto che alla delega legislativa, soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, si ricorre per affrontare delicati e complessi temi politici per la realizzazione di riforme di importanti settori, possono osservarsi nella prassi molteplici “tipi” di deleghe legislative. Assumono particolare rilievo le deleghe correttive e integrative. Tali deleghe, proprio in virtù della loro struttura, vengono denominate in molteplici modi: ‹‹ad attuazione rinnovabile››, ‹‹bifasiche›› e ‹‹polifasiche››.[87]

In particolare, nelle deleghe integrative e correttive accade che la legge di delegazione fissi un primo termine per l’esercizio da parte del Governo di quella che viene definita delega principale e un secondo termine entro il quale il Governo potrà adottare disposizioni integrative e correttive. Il termine per l’esercizio dell’integrazione e della correzione decorre dall’adozione del decreto principale.

Si ritiene che un decreto legislativo correttivo e integrativo, debba fondarsi su una delega: 1. espressamente limitata nell’oggetto alla sola correzione e/o integrazione; 2. caratterizzata da ulteriori criteri e principi, oltre a quelli posti dalla delega “originaria”, volti ad orientare in modo specifico la correzione/integrazione della delega; 3. che sia conferita, anche se non proprio contestualmente alla delega primaria, comunque prima dell’emanazione dei decreti legislativi “principali”[88].

Anche se la prassi dell’integrazione e correzione ha avuto origine negli anni Settanta, è soprattutto nelle ultime legislature che il Parlamento ha autorizzato il Governo, sempre in un maggior numero di occasioni, a ricorrere a decreti legislativi correttivi e integrativi.

Tali decreti, che hanno il compito di integrare e correggere il primo decreto, in realtà hanno finito col produrre un trasferimento della funzione legislativa dal Parlamento al Governo. L’Esecutivo vede infatti ampliati i propri poteri, poiché è in grado di intervenire sugli atti precedentemente posti in essere per modificarli, dopo aver verificato gli effetti da essi prodotti.

Queste deleghe tuttavia, oltre gli aspetti positivi, presentano anche dei rischi: in primo luogo, creano l’instabilità delle norme prodotte, poiché i decreti legislativi principali già emanati possono essere modificati da successivi interventi del Governo e di conseguenza si possono creare dei rischi per la certezza del diritto (molte volte infatti i decreti correttivi e integrativi hanno completamente o parzialmente riscritto la disciplina del decreto principale); in secondo luogo vi sono stati episodi di “correzione della correzione” che hanno reso instabile non solo il decreto principale ma anche gli stessi decreti correttivi e integrativi; in ultimo, la ratio di simili delegazioni legislative dovrebbe consistere nella possibilità data al Governo di verificare gli effetti del primo decreto legislativo ed eventualmente di correggerne la portata alla luce delle prime applicazioni, tuttavia nella prassi, le leggi di delega non indicano le ragioni e lo scopo dell’intervento integrativo e correttivo, finendo col consentire una continua reiterazione del potere delegato[89].

Certo è che, soprattutto nelle ultime Legislature, le deleghe contengono molto spesso una espressa autorizzazione al Governo ad esercitare tale potere in modo ripetuto, anche se al solo fine di integrare e correggere il decreto principale. Alcuni considerano queste previsioni, alla luce del principio di istantaneità, costituzionalmente illegittime, poiché tale requisito, in mancanza di una disposizione espressa, sarebbe deducibile implicitamente dagli artt. 70 e 76 Cost.[90]; altri pur ritenendo che la delega si consumi in un unico atto, ammettono la possibilità di un esercizio continuato dei poteri ricevuti dal Parlamento, quando viene attribuito al Governo di adottare una certa disciplina adeguandola nel tempo alle varie esigenze[91]; altri invece superano tale problema della ripetibilità del potere del delegato, considerando le deleghe integrative e correttive come deleghe collegate, ma distinte dalla delega principale, anche se vengono conferite dal Parlamento con un unico atto, in cui vengono previsti due termini di esercizio[92].

Parte della dottrina ha evidenziato che, rispetto al prolungato spostamento della funzione normativa, che si realizza attraverso la previsione di correzioni e integrazioni, l’intervento consultivo delle Commissioni parlamentari può rappresentare un utile contrappeso[93]. In queste deleghe, infatti, vengono introdotte delle clausole che prevedono meccanismi che rendono il termine per l’esercizio del potere delegato flessibile, al fine di consentire al Governo di adeguarsi ai pareri resi dalle Commissioni. Tale effetto può realizzarsi in due modi: con la proroga automatica del termine o con il ricorso a decreti integrativi e correttivi. Sono proprio le clausole di questo secondo tipo che consentono al Governo di adottare decreti integrativi e correttivi per adeguarsi ai pareri delle Commissioni parlamentari.

Simili clausole sono censurabili per diverse ragioni: ‹‹innanzitutto, perché in tal modo i decreti integrativi e correttivi vengono utilizzati con funzione completamente diversa da quella loro propria. In secondo luogo, in quanto le osservazioni contenute nel parere vengono recepite da un atto diverso da quello rispetto al quale sono state formulate […] Infine, e questo rappresenta sicuramente il profilo più grave, la potestà integrativa e correttiva del Governo si attiva a seguito di un comportamento scorretto dell’esecutivo che rimane il dominus delle scadenze della delega››[94].

Questioni diverse, invece, pongono le deleghe integrative e correttive previste in atti autonomi e distanti nel tempo da quella principale, le c.d. deleghe integrative e correttive “a distanza” o deleghe c.d. “polifasiche”. Queste particolari deleghe servono a consentire un nuovo intervento del Governo in settori che sono già stati oggetto di delegazione e che necessitano di modifiche per le mutate esigenze sopraggiunte nel tempo. La scelta di tale tipo di delega da parte del Parlamento risiede nella volontà di ‹‹ancorare l’operato del Governo a scelte già operate dal legislatore precedentemente, in realtà sotto tale tipo di delega, nella maggior parte dei casi si cela una comune delega legislativa di riforma di un settore e non di assestamento e di perfezionamento››[95].

Con tali tipi di deleghe integrative e correttive non vi è il pericolo dell’instabilità della disciplina, perché tali interventi si verificano dopo un lungo periodo rispetto alla delega principale.

Nella prassi i confini della “correzione” sono stati in più occasioni superati, al Governo è stato attribuito un vero e proprio potere di legislazione reiterata (non autorizzata) che, spesso, si è manifestato in una riscrittura in toto della disciplina che era contenuta nei decreti principali.

Analizzando, invece, il problema della decretazione integrativa e correttiva dal punto di vista giurisprudenziale, dobbiamo soffermarci in particolare su due sentenze della Corte costituzionale, la sentenza n. 206 del 2001 e la sentenza n. 367 del 2007.

La sentenza n. 206 del 2001 assume particolare importanza, perché superando la precedente giurisprudenza in materia, in cui i decreti correttivi e integrativi venivano trattati come comuni decreti legislativi, la Corte ha sottolineato che, essi vengono utilizzati soprattutto ‹‹in occasione di deleghe complesse, il cui esercizio può postulare un periodo di verifica dopo la prima attuazione, e dunque la possibilità di apportare modifiche di dettaglio al corpo delle norme, sulla base dell’esperienza o di rilievi ed esigenze avanzate dopo la loro emanazione, senza necessità di far ricorso a un nuovo procedimento parlamentare, quale si renderebbe necessario se la delega fosse ormai completamente esaurita e il relativo termine scaduto››. Sempre questa sentenza aggiunge che ‹‹si deve intervenire solo in funzione di integrazione o correzione delle norme delegate già emanate, e non in funzione di un esercizio tardivo della delega principale […] rispettando pienamente i medesimi principi e criteri direttivi››.

Dunque secondo la Corte, nel giudizio di legittimità costituzionale, il decreto principale dovrebbe rappresentare il parametro interposto per verificare se il decreto integrativo o correttivo si sia mantenuto nei limiti dell’integrazione e correzione. Il decreto integrativo e correttivo risulta viziato per violazione del requisito del tempo limitato, in quanto adottato fuori termine se modifica totalmente il contenuto della prima delega o vengono trattati oggetti non contenuti nella delega principale[96]. ‹‹La Corte sembra dunque aver utilizzato il limite delle “modifiche di dettaglio” combinandolo con quello del “tempo limitato” e aver scartato la diversa prospettiva che, facendo leva sulla funzione di integrazione e correzione come funzione specializzata, avrebbe condotto a ritenere tali atti viziati da eccesso di potere per sviamento della funzione tipica››[97].

Tuttavia, una successiva decisione, la sentenza n. 367 del 2007 della Corte costituzionale, potrebbe rappresentare un ritorno alla vecchia giurisprudenza che riteneva necessario e sufficiente per la legittimità del decreto integrativo e correttivo il rispetto dei medesimi principi e criteri della delega principale, non rilevando il decreto principale come parametro. La Corte inoltre, non richiama neppure il limite delle “modifiche di dettaglio”, ma è questo elemento, insieme alla normativa già adottata nel decreto principale, che permette di ritenere incostituzionali quei decreti integrativi e correttivi che disciplinano oggetti non regolati dal decreto principale, o che nell’ambito dell’oggetto, riscrivono totalmente la disciplina già adottata[98].

D’altro canto anche il Consiglio di Stato si è espresso sul potere del Governo di adottare deleghe integrative e correttive, al fine di circoscrivere la portata dell’intervento governativo.

In due pareri in particolare il Consiglio di Stato, riprendendo posizioni espresse dalla giurisprudenza costituzionale, formula considerazioni in riferimento alle deleghe correttive e integrative e sottolinea che il potere governativo di integrazione e correzione non può essere dilatato nei fatti fino a diventare un autonomo esercizio del potere legislativo, poiché viene conferito per un determinato scopo[99]. Il potere di integrazione e correzione è legato, infatti, all’attuazione della delega principale da cui decorre il termine per l’esercizio della delega correttiva e deve fare seguito a una fase di sperimentazione applicativa del primo decreto. Viene inoltre affermato che il Governo può e deve adottare decreti integrativi e correttivi per garantire la qualità formale e l’eliminazione di illegittimità costituzionali o comunitarie e di errori tecnici e di contraddizioni[100].

Tali osservazioni vengono condivise dalla maggior parte della dottrina, tuttavia una parte di essa afferma che, quando il Governo esercita il potere di integrazione e correzione, lo fa rischiando di essere smentito da una successiva decisione della Corte costituzionale[101].

Ricordiamo poi che, partendo dal presupposto che i decreti principali e correttivi sono frutto di un’unica delega nella quale vi sono due termini di esercizio, quando la delega principale è scaduta, gli oggetti che non sono stati disciplinati dal decreto principale non dovrebbero essere più oggetto di un altro intervento da parte del Governo, a meno che una nuova delega non lo autorizzi. Infatti i decreti principali e quelli integrativi e correttivi sono legati e ciò che non è stato disciplinato dai primi, non lo può essere neanche dai secondi, altrimenti si verificherebbe un esercizio tardivo della delega legislativa[102].

Alle stesse conclusioni si può giungere pur partendo dal presupposto che la delega principale e la delega per l’integrazione e correzione sono due deleghe distinte, ma coordinate. Anche in questo caso la seconda delega non è autonoma rispetto alla prima, poiché soltanto se viene esercitata nei termini, è possibile effettuare un intervento integrativo e correttivo. I decreti per l’integrazione e correzione non possono modificare il decreto principale al punto di stravolgerne il contenuto, poiché verrebbe superata la funzione di integrazione e correzione ad essi attribuita[103].

5.1.2. Le deleghe tecniche e in bianco

Con l’espressione “deleghe tecniche”, si intende un meccanismo di produzione normativa in forza del quale la regolazione di materie al alto contenuto specialistico e tecnico viene demandata in primo luogo al Governo (in quanto dotato di competenze tecniche necessarie), ma in secondo luogo anche alle autorità amministrative indipendenti (in quanto organismi dotati di conoscenze specifiche).

Le deleghe tecniche, da un punto di vista generale, sono il frutto di quella tendenza che conduce alla progressiva sottrazione delle competenze normative del Parlamento. Tali deleghe sono state analizzate soprattutto con riferimento alla problematica del recepimento nel nostro ordinamento giuridico della normativa di derivazione comunitaria, caratterizzata da un contenuto altamente tecnico.

I primi studi sulla delegazione tecnica hanno avuto inizio negli anni Novanta, in riferimento alla sempre maggiore elasticità che acquistava la delegazione rispetto a quanto veniva disposto dall’art. 76 Cost. e alla progressiva “fuga” da tali disposizioni costituzionali.

La sempre maggiore incidenza, soprattutto negli ultimi anni, della normativa di carattere tecnico sulla produzione comunitaria, ha posto l’attenzione sulle modalità di recepimento delle direttive comunitarie nel nostro ordinamento, aprendo la strada all’utilizzo dello strumento della delega legislativa come metodo e tecnica di trasposizione di tali regole. Alcuni commentatori hanno parlato in riferimento a tale fenomeno di ‹‹riserva di legislazione delegata››, la quale consentirebbe al Governo di predisporre decreti legislativi delegati attraverso cui recepire nel nostro ordinamento ‹‹un complesso ampio e disomogeneo di norme comunitarie di carattere prevalentemente tecnico››[104].

Il fenomeno presenta, da un punto di vista generale, tre indici di riferimento: la previsione di pareri delle commissioni parlamentari competenti per materia sugli schemi di decreti legislativi adottati in via preliminare dal Governo, la peculiarità del termine previsto nelle leggi-delega per l’adozione dei decreti legislativi, la particolare configurazione, in riferimento a questa tipologia di deleghe, dei principi e criteri direttivi[105].

Per quanto riguarda il primo indice, è da rilevare che le leggi comunitarie annuali abbiano costantemente previsto una disposizione ad hoc, in virtù della quale gli schemi dei decreti legislativi preordinati a dare attuazione alle direttive comunitarie vengono assoggettati al parere obbligatorio delle commissioni parlamentari competenti in materia, espresso nel termine di quaranta giorni dalla trasmissione degli stessi. Con riferimento al secondo indice invece, vale a dire la questione del “tempo limitato” per l’esercizio del potere delegato, alcuni studiosi hanno parlato di una ‹‹flessibilizzazione del termine››[106]; con questa espressione sono state qualificate tutte quelle previsioni, contenute nelle leggi-delega, in virtù delle quali si opera una proroga del termine (solitamente automatica di novanta giorni) per l’esercizio della delega medesima, tutte le volte che questo venga a scadere trenta giorni dopo il termine per la formulazione del parere delle commissioni parlamentari competenti per materia.

Per quanto attiene l’ultimo punto degli indici, vale a dire quello che riguarda i principi e i criteri direttivi della delega, ci si deve soffermare sulla sempre maggiore elasticità di cui questi sono dotati. È stato affermato, infatti, come per le deleghe tecniche ‹‹il limite dei principi e criteri direttivi vede attenuarsi la sua efficacia conformativa, poiché i parametri cui il legislatore delegato risulta vincolato sono ritenuti rilevabili dalle stesse connotazioni intrinseche delle potestà dislocate››[107]. Questo avviene soprattutto nelle ipotesi di deleghe per il recepimento delle direttive comunitarie e trova il proprio fondamento nel fatto che ‹‹le direttive comunitarie contengono già, per loro natura, disposizioni di principio destinate ad essere recepite dagli stati, cosicché appare ardua l’ulteriore individuazione di principi e criteri direttivi nella legge di delega, tanto più nel caso delle direttive a contenuto dettagliato, (come quelle tecniche)››[108].

Dunque alla base del fenomeno delle deleghe tecniche si trova l’idea per cui la tecnicità è essa stessa un “limite ulteriore” rispetto a quelli derivanti dall’art. 76 Cost. Vale a dire, attraverso il richiamo alla tecnicità della materia già regolata in ambito comunitario, verrebbe a realizzarsi una sorta di integrazione del limite costituzionale dei principi e criteri direttivi, assoggettando in tal modo il Governo ad una disciplina di fatto già compiuta e a un margine molto limitato di discrezionalità per il recepimento.

Si può leggere la tecnicità, alla luce della recente giurisprudenza costituzionale[109], come uno strumento di compensazione rispetto all’estrema genericità dei principi e criteri direttivi.

È proprio la sempre maggiore elasticità ed indeterminatezza dei principi e criteri direttivi che costituisce il “filo conduttore” tra le deleghe tecniche e le c.d. deleghe in bianco.

Il fenomeno delle deleghe in bianco sembra già essere presente nelle riflessioni di Jürgen Habermas, che già parlava nel 1996 di ‹‹rinvii in bianco››, ‹‹programmi legislativi aperti›› e ‹‹leggi di indirizzo poggiate su incerta prognosi››[110].

Nel nostro ordinamento l’individuazione di una specifica categoria di deleghe in bianco è stata oggetto di un’ampia discussione dottrinale, che ha portato alla delineazione di due diversi orientamenti interpretativi: un primo orientamento, che si basa sulle sentenze della Corte costituzionale nn. 111 e 128 del 1986, osserva che appare difficile parlare di deleghe in bianco, dovendosi piuttosto far riferimento al concetto di “ampie deleghe”, delle quali si può sempre trovare la ratio, non attribuendosi in questo caso un illimitato potere in capo al Governo[111]; sul versante opposto si colloca quella dottrina che ha riconosciuto espressamente la possibilità di una configurazione del concetto di delega in bianco (inquadrando il fenomeno nella distorsione della delega legislativa rispetto al modello delineato dall’art. 76 Cost.), sulla base della generalità e vaghezza nell’indicazione dei principi e criteri direttivi e sulla possibile commistione che si potrebbe verificare tra questi ultimi e l’oggetto della delega medesima[112]. Sulla scia di questo secondo filone interpretativo, la Corte costituzionale nella sentenza n. 224 del 1990, nel qualificare le possibili declinazioni dei principi e criteri direttivi, riconosce che questi ultimi costituiscono ‹‹una fenomenologia estremamente variegata, che oscilla da ipotesi in cui la legge pone finalità dai confini molto ampi e sostanzialmente lasciate alla determinazione del legislatore delegato a ipotesi in cui la legge fissa principi a basso livello si astrattezza, finalità specifiche, indirizzi determinati e misure di coordinamento definite››.

In particolare, analizzando il fenomeno delle deleghe in bianco, con particolare riferimento alla problematica del recepimento nel nostro ordinamento della normativa di derivazione comunitaria, è stato osservato come la determinazione dei principi e criteri direttivi avvenga di fatto per relationem. Si comprende, così, che nel caso delle deleghe per l’attuazione delle direttive comunitarie siano proprio queste ultime a fissare in via diretta i principi e i criteri direttivi cui il legislatore delegato dovrà attenersi, realizzandosi in quest’ottica una ‹‹sostanziale trasfigurazione della legge di delega, la quale da fonte immediata ed esclusiva di produzione delle regole di indirizzo, diviene autentica norma in bianco di determinazione indiretta dei limiti da far valere nei confronti dell’atto delegato››[113].

In definitiva, il fenomeno delle deleghe per il recepimento della normativa comunitaria costituisce, con riguardo al nostro ordinamento, uno dei più evidenti esempi di norme di delega contenenti rinvii in bianco.

6. I limiti generali della delega legislativa: i casi di non delegabilità

La funzione legislativa delinea il “campo” entro il quale la delegazione legislativa può operare.

In linea di principio la legge di delegazione può avere come oggetto qualsiasi materia, anche che si tratta di materie coperte da riserva di legge o di materie rientranti nell’ultimo comma dell’art. 72 della Costituzione[114]. Nel primo caso, vale a dire per le materie coperte da riserva di legge, tale conclusione deriva dal fatto che i decreti legislativi sono atti dotati di forza di legge e perciò completamente fungibili nei confronti della legge[115]. L’ammissibilità della delega legislativa in materia coperta da riserva di legge è stato un tema molto discusso in sede di Assemblea costituente. In sede di seconda sottocommissione, infatti, si propose di escludere la delega in questi settori e lo stesso presidente Terracini propose e fece approvare una norma in cui era previsto un divieto di delega in materie attinenti alle libertà. Tali tendenze limitative sono oggi ancora presenti in dottrina, tuttavia si tratta di posizioni rimaste isolate[116].

Tuttavia tali opinioni, contraddette non solo dalla maggior parte della dottrina, ma anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale[117], ‹‹hanno il torto di non considerare che le riserve di legge non sono collocabili totalitariamente sul medesimo piano, ma corrispondono a peculiari e distinte esigenze, buona parte delle quali non è compromessa dal ricorso alla delega legislativa. Eventualmente, dunque, il discorso andrebbe circoscritto alle riserve di legge sorrette da una specifica ratio che non possa venir soddisfatta se non da un esclusivo intervento legislativo delle Camere […]››[118].

Nel secondo caso, vale a dire le materie di cui all’ultimo comma dell’art. 72 Cost., una parte della dottrina ha sostenuto che la riserva d’Assemblea ha soltanto la funzione d’imporre al Parlamento di seguire una determinata procedura per la discussione e l’approvazione delle leggi e non anche quella di disciplinare il riparto delle competenze normative tra le Camere e il Governo[119]. Altri sostengono che le riserve d’Assemblea coincidono con le riserve di legge formale e, di conseguenza, la sola implicazione che in tal modo si verrebbe a creare consiste nell’incostituzionalità delle eventuali leggi deleganti e dei conseguenti decreti legislativi che fossero emanati in materia elettorale[120]. Per altro verso, infine, si è negata anche la delegabilità di leggi previste dalla Costituzione come forma di controllo sul Governo (come la legge di conversione del decreto-legge)[121].

La delega presuppone in capo al delegante la titolarità dei poteri delegati e da ciò deriva che non sono delegabili poteri di cui il delegante non sia titolare. Di conseguenza tutto quello che rientra nella competenza legislativa ordinaria, compresa l’adozione di provvedimenti, può essere delegato nella forma e con gli effetti dell’art. 76 della Costituzione[122].

Come si accennava, è opinione largamente diffusa quella che esclude la possibilità di delega in tutte quelle ipotesi caratterizzate dall’esistenza di un rapporto di controllo tra il Parlamento e il Governo, quali, oltre al caso del conferimento della stessa delega legislativa, l’autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali (art. 80 Cost.), la conversione in legge dei decreti-legge (art. 77 Cost.), l’approvazione del bilancio preventivo e consuntivo dello Stato (art. 81 Cost.), l’istituzione per legge di commissioni parlamentari d’inchiesta (art. 82 Cost.), la deliberazione dello stato di guerra ed il conferimento al Governo dei poteri necessari (art. 78 Cost.) e tutte quelle ipotesi nelle quali la Costituzione non si limita a stabilire una riserva di legge ma indica espressamente che gli eventuali interventi legislativi devono necessariamente essere adottati dalle Camere (riserva di organo e non soltanto di atto)[123].

Una particolare questione è sorta intorno alla possibilità di una delega legislativa nel caso delle leggi “rinforzate”. Secondo una parte della dottrina, infatti, tale possibilità deve essere esclusa, poiché il decreto legislativo è parificato alla legge ordinaria e non a leggi qualificate da ulteriori presupposti o elementi che ne costituiscono il rinforzo (come nel caso degli accordi tra lo Stato e la Chiesa cattolica di cui all’art. 7 Cost. o nel caso delle intese tra lo Stato e le rappresentanze delle confessioni religiose diverse dalla cattolica di cui all’art. 8 Cost.)[124]. Mentre, secondo altri, sarebbe ammissibile la delega legislativa nelle ipotesi di leggi ‹‹rinforzate››, poiché, ‹‹niente sembra impedire che il presupposto, o l’elemento di rinforzo, anziché escludere un’eventuale legge di delega, possono essere recepiti da quest’ultima (soprattutto nel caso di accordi o d’intese particolarmente complessi ex artt. 7 e 8 Cost.), come principi e criteri direttivi, venendo conseguentemente ad assumere la veste di parametro della legittimità sia della legge di delega, sia del decreto delegato››[125].

In via generale, poi, non è possibile escludere la delegabilità di leggi ‹‹atipiche››, occorrendo caso per caso valutare la ratio e i profili dell’atipicità[126].

Resta invece irrisolto il problema dell’uso della delega legislativa nella determinazione dei principi fondamentali nelle materie di delegazione concorrente di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione[127]. Si dovrebbe ritenere che oggetto della delega non possa essere una ‹‹legge cornice››, sia perché la fissazione dei principi è riservata dall’art. 76 Cost. al Parlamento, ma anche perché la singola materia, attribuita dall’art. 117, comma 3, Cost. alla legislazione concorrente dovrebbe avere un’estensione più ampia rispetto all’‹‹oggetto definito›› di cui all’art. 76 della Costituzione[128]. Tuttavia, la sentenza della Corte costituzionale n. 359 del 1993 afferma che ‹‹i principi fondamentali di cui all’art. 117 della Costituzione possono essere sempre enunciati in una legge delegata››, ma tale sentenza  va letta soprattutto alla luce della successiva sentenza della Corte n. 280 del 2004, nella quale si afferma che ‹‹è ammesso l’uso della delega nell’enunciazione dei principi fondamentali solo quando l’attività delegata al Governo consiste nella mera ricognizione dei principi esistenti, con caratteri di transitorietà e non di vincolatività per il sistema regionale››. Successivamente la Corte costituzionale nella sentenza n. 50 del 2005 sembra spostare l’accento dall’inammissibilità di deleghe rivolte a definire “nuovi” principi fondamentali alla inammissibilità di deleghe che consentano al legislatore delegato di introdurre norme di dettaglio: ‹‹la lesione delle competenze legislative regionali non deriva dall’uso, di per sé, della delega, ma può conseguire sia dall’avere il legislatore delegato formulato principi e criteri direttivi che tali non sono, per concretizzarsi invece in norme di dettaglio, sia dall’avere il legislatore delegato esorbitato dall’oggetto della delega, non limitandosi a determinare principi fondamentali››.

Invece un limite particolare all’intervento tanto delle leggi di delega quanto dei decreti legislativi è stato stabilito dall’art. 1, comma 2, della L., 27 luglio 2000, n. 212 secondo il quale ‹‹l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica››. L’espressione ‹‹legge ordinaria›› usata nella citata disposizione intende delimitare il potere di interpretazione autentica, in relazione alle particolari caratteristiche della materia tributaria, escludendo che esso venga esercitato mediante decreto-legge o decreto legislativo e implicitamente vietando anche alla stessa legge di delegarne l’esercizio[129]. Tuttavia, poiché si tratta di un limite posto da una legge ordinaria nei confronti del contenuto di atti ad essa parificati, senza nessun riferimento a norme di grado costituzionale, il suo valore è soltanto direttivo e dunque derogabile da successivi atti con forza di legge[130].

È evidente, in conclusione, che la delega legislativa deve operare nel “campo” della funzione legislativa e non fuori di esso, infatti, non sarà possibile delegare: gli atti giudiziari (poiché vi è una riserva di giurisdizione), gli atti bicamerali non legislativi, nonché (secondo quanto previsto in Costituzione prima della riforma del Titolo V della parte seconda del 2001) l’approvazione degli statuti delle regioni ordinarie (poiché lo statuto contiene i principi della materia organizzativa e non potrebbe una legge di delega fissarli preventivamente senza ledere l’autonomia regionale)[131].

6.1. Il divieto di subdelegazione legislativa

Un fenomeno particolare è quello della c.d. subdelegazione, che si verifica quando una norma del decreto legislativo delega a sua volta una parte della disciplina delegata ad un successivo decreto legislativo (c.d. subdelegazione legislativa) ovvero ad un successivo regolamento amministrativo (c.d. subdelegazione regolamentare).

Una parte della dottrina ritiene illegittimo l’intero fenomeno della subdelegazione sulla base del principio delegatus non potest delegare, del carattere dell’imperatività della delega legislativa e sulla base del principio della tassatività delle competenze tracciate dalla Costituzione. Il primo principio risente dell’orientamento che considera oggetto della delegazione il trasferimento dell’esercizio della funzione legislativa[132]. Per quanto riguarda il carattere dell’imperatività è invero ormai superato dalla riconosciuta discrezionalità del Governo sull’attuazione delle deleghe[133]. Il principio di tassatività delle competenze delineato in Costituzione vale in effetti ad escludere la subdelegazione legislativa, ma non quella regolamentare[134]. Infatti la delegazione legislativa può essere conferita soltanto con la legge e non con atti diversi, anche se parificati alla legge. Dunque non è possibile conferire una c.d. subdelegazione legislativa; tuttavia il Governo è competente ad adottare regolamenti amministrativi e dunque è possibile una c.d. subdelegazione regolamentare, senza che però questa alteri le competenze delineate dalla Costituzione[135].

L’art. 17, comma 1, della L. n. 400 del 1988 ha stabilito che ‹‹possono essere emanati regolamenti per disciplinare: a) l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitari; b) l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio […]››. Tale articolo conferma l’ammissibilità della subdelegazione regolamentare. Di conseguenza implicitamente ‹‹il decreto delegato […] potrà autorizzare l’adozione di un regolamento, purché non sugli oggetti per i quali la delega è stata conferita, sebbene sugli oggetti subordinati e consequenziali; non potendo il Governo “degradare” il potere attribuitogli, né eludere il termine previsto per il suo esercizio››[136].

Qualora poi il decreto legislativo autorizzasse l’intervento di uno dei regolamenti previsti dall’art. 17, comma 2, della L. n. 400 del 1988 ( i c.d. regolamenti in delegificazione), tale possibilità è ammissibile soltanto qualora essa sia prevista dalla legge di delega e nel rispetto delle disposizioni del citato comma 2[137].

7. I limiti necessari al potere legislativo delegato: l’oggetto definito, il tempo limitato e i principi e i criteri direttivi

I limiti necessari dei decreti legislativi sono stabiliti dall’art. 76 Cost., vale a dire, la delegazione deve: a) stabilire gli oggetti definiti, in relazione ai quali il Governo può svolgere la funzione legislativa; b) deve indicare il tempo limitato entro cui la delega può essere esercitata; c) deve determinare i principi e i criteri direttivi cui il delegato deve attenersi. Mentre l’art. 72 Cost. ci dice che la legge di delegazione deve essere approvata da ciascuna Camera in Assemblea plenaria e non in commissione, vale a dire prescrive la c.d. “riserva di legge d’Assemblea”.

In riferimento al primo limite, ai sensi dell’art. 76 Cost. la delega deve contenere l’indicazione degli ‹‹oggetti definiti›› che possono essere disciplinati dal Governo. 

Tale espressione ‹‹oggetti definiti›› nasce da una proposta del presidente della seconda sottocommissione (on. Terracini) volta a dare un preciso esito normativo al dibattito svoltosi, così superando i suggerimenti del Comitato di redazione, volti a consentire la delega per ‹‹materie determinate››[138].

 La norma intende delimitare gli spazi dell’intervento governativo attraverso la determinazione degli scopi. Sembrerebbe per cui, anche alla luce dei lavori preparatori, che l’espressione ‹‹oggetti definiti››, stia ad indicare un ambito più circoscritto di quello proprio delle ‹‹materie››, termine ricorrente, in particolare, nella distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, sia prima che dopo la modifica dell’art. 117 della Costituzione[139]. È stato, infatti, affermato che ‹‹l’ambito del potere delegato deve essere non solo definito esattamente dalla legge delega, ma anche in termini non troppo ampi e comunque sempre inferiori all’ambito di una materia di competenza regionale o anche di materie enucleabili alla stregua di altre norme costituzionali››[140].

Inoltre la Corte costituzionale, con specifico riferimento ad una questione relativa ad un decreto legislativo, ha affermato che ‹‹il legislatore delegato, disciplinando una materia non ricompresa nell’oggetto della delega, ma solo “connessa” ad esso, è privo del potere di dettare le disposizioni censurate››[141]. In tale sentenza afferma che il legislatore delegato non può mai disciplinare oggetti diversi da quelli definiti nella delega, non solo nell’ipotesi in cui questi riguardino materie diverse da quella che li comprende, ma anche quando siano soltanto ‹‹connessi›› agli oggetti ‹‹definiti››[142].

Tuttavia, il limite degli  ‹‹oggetti definiti›› è spesso sfumato proprio nel concetto di materia, come è concordemente ritenuto in dottrina e dimostrato  dalla ritenuta legittimità da parte della Corte costituzionale di ‹‹ampie deleghe››, vale a dire quando i confini della delega legislativa risultano “assai estesi”[143]. Infatti, raramente la giurisprudenza della Corte costituzionale ha censurato l’eccesso di delega per esorbitanza dall’oggetto[144].

Una parte della dottrina afferma che ‹‹non è escluso, che un insieme di leggi di delega od anche una sola legge a contenuto plurimo attribuiscano complessivamente al Governo un ambito di normazione corrispondente a una materia; ma ciò potrà accadere solo indicando tutti gli oggetti e dunque le situazioni, gli istituti, i rapporti la cui disciplina è delegata, non anche in modo generico ed onnicomprensivo; e precisando, in relazione a ciascun oggetto, specifici principi e criteri››[145].

Inoltre, il limite degli ‹‹oggetti definiti›› è stato interpretato dalla Corte costituzionale in connessione con quello dei principi e criteri direttivi. In particolare la Corte ha ritenuto, nelle sentenze nn. 125 del 2000, 163 del 2000 e 280 del 2004, che il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa presupponga ‹‹un processo interpretativo relativo all’oggetto, ai principi ed ai criteri direttivi della delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e delle ragioni e finalità poste a fondamento della legge di delegazione››.

Tuttavia non è possibile determinare una volta per tutte, fino a che punto il legislatore delegante possa dilatare la competenza del legislatore delegato, stabilendo quale sia la massima portata complessiva dell’oggetto o degli oggetti di ogni singola legge di delega. Infatti, ‹‹la Costituzione pretende senza dubbio che la materia su cui la delega incide sia ben delimitata, anziché rimanere allo stato fluttuante. Ma ciò non esclude che le competenze delegate possano comprendere ambiti estesissimi, come in effetti si riscontra nella concreta esperienza di questi ultimi anni. Ciò attesta che il Parlamento, quando voglia imputare al Governo le proprie responsabilità legislative, non incontra un limite realmente efficace e rigoroso nella necessaria specificazione dei contenuti della delega››[146].

Quanto al termine della delega, l’art. 76 Cost. ci dice che la legge di delega deve indicare un ‹‹tempo limitato›› entro il quale decreto legislativo deve essere emanato. L’art. 14 della L. n. 400 del 1988 stabilisce che il termine per l’emanazione dei decreti legislativi deve intendersi rispettato se prima della sua scadenza il decreto legislativo sia stato emanato dal Presidente della Repubblica.

In realtà la Costituzione non richiede che il termine della delegazione legislativa sia rigidamente fissato in un momento preciso. La Corte costituzionale nella sentenza n. 163 del 1963, ha chiarito che la scadenza può essere determinata anche in forme diverse dall’indicazione di una ‹‹data fissa di calendario››, purché il momento finale consista in un ‹‹evento futuro ma certo››. Infatti nella stessa sentenza sopra citata, la Corte  ha affermato che ‹‹né dalla lettura, né dalla ratio ispiratrice della norma in esame (l’art. 76 Cost.), rivolta a precludere la facoltà di conferire al Governo deleghe legislative a tempo indeterminato […], è dato trarre alcun elemento da cui si argomenti l’obbligo di determinare in forme tassative la durata del potere delegato. La prescrizione costituzionale deve pertanto ritenersi validamente adempiuta quando la durata stessa sia prefissata in uno qualunque dei modi che consentano di individuare, in via diretta, o anche indirettamente con l’indicazione di un evento futuro ma certo, il momento iniziale e quello finale del termine››. Di conseguenza, il termine può essere sottoposto al verificarsi di un evento incerto nel quando, ma certo nell’an (come avviene quando il termine viene determinato con decorrenza dall’entrata in vigore della legge di delega).

Per cui al di là del divieto di una delega ‹‹permanente›› non vi sono indicazioni in Costituzione sulla durata massima di essa. Certo è che, il termine deve essere commisurato al compito che si affida al Governo e dunque ai criteri direttivi. Nella prassi i termini previsti per l’adozione del decreto legislativo variano da un minimo di due mesi ad un massimo di due anni (abbiamo poi già visto che si danno ipotesi anche di c.d. deleghe ultrabiennali).

Tuttavia sin dagli anni ‘60 accanto al fenomeno dell’integrazione e della correzione del decreto legislativo, si è assistito anche alla proroga e al differimento dei termini previsti dall’originaria legge di delega. Infatti talvolta il Governo ha fatto ricorso all’espediente di ritardare la pubblicazione della legge di delegazione al fine di allungare il termine della delega. In tal senso, la Corte, sempre nella sentenza n. 163 del 1963, ha affermato che ‹‹non può dubitarsi che valida prefissione vi sia quando il dies a quo sia fatto coincidere con la data di entrata in vigore […]. Deve esigersi un rigoroso adempimento dell’obbligo, imposto al potere esecutivo dall’art. 73 Cost., di procedere alle operazioni necessarie a rendere efficace la legge medesima subito dopo che sia intervenuta la pubblicazione, senz’altro indugio oltre quello richiesto dall’espletamento delle attività materiali necessarie per la pubblicazione››. ‹‹Deve essere impedito in ogni modo, che il tempo entro il quale esercitare la delega sia prolungabile ad arbitrio dell’organo cui è affidato l’esercizio stesso››, aggiunge. Qualora vi sia un ritardo nella pubblicazione della legge delegante, la Corte dovrà accertare se vi sia stata una dilazione volontaria del termine ed in caso dichiarerà illegittima in partenza la legge delegante ed annullerà il decreto legislativo emanato[147].

Il fatto che il limite temporale sia stabilito in modo generico dall’art. 76 Cost., senza indicazioni di misure massime, non comporta che sia possibile estendere a dismisura il tempo della delega. Viene in tal senso affermato che ‹‹si deve ritenere implicito che il periodo in questione non possa venire prolungato, al di là di quanto ragionevolmente occorra per un efficace ed organico esercizio del potere delegato; sicché la previsione di un termine manifestamente troppo differito si dimostrerebbe per ciò stesso incostituzionale››[148].

Di solito il tempo della delega è ristretto nell’ambito della legislatura in corso, anche perché altrimenti le scelte del Parlamento condizionerebbero gli indirizzi di politica legislativa delle successive Camere, anche se la prassi degli ultimi anni si è diretta in senso opposto.

L’art. 76 Cost. stabilisce anche che la legge di delega deve determinare i principi e i criteri direttivi ai quali deve attenersi il Governo nell’esercizio della funzione legislativa.

Durante l’elaborazione della Costituzione, Mortati propose, per l’art. 76 Cost., il solo requisito dei ‹‹principi››, tuttavia tale dicitura non trovò il favore dei Costituenti, infatti, in sede di coordinamento il criterio dei principi venne affiancato dal requisito dei ‹‹criteri direttivi››[149].

La dottrina si è posta il quesito se sia possibile distinguere i principi dai criteri direttivi, oppure devono essere considerati come un unico concetto.

Secondo alcuni si dovrebbe distinguere i principi dai criteri direttivi, poiché il principio è ‹‹norma che regola la materia, effettivamente applicabile in congiunzione con norme di dettaglio (che da esso ricevono luce) ed anche da solo, ove manchi una previsione specifica del caso concreto››; il criterio invece è ‹‹direttiva al legislatore delegato, di per sé inidonea ad acquistare valore sostanziale ed utilizzabile, una volta espletato il potere, solo come elemento per ricostruire (eventualmente) la volontà storica del legislatore››. Mentre, dunque, il principio sarebbe ‹‹norma sostanziale ancorché (talvolta) incompleta e ad efficacia differita››, la direttiva sarebbe ‹‹norma temporanea e strumentale, destinata a consumare ogni effetto con l’entrata in vigore del decreto delegato, la cui discrezionalità deve orientare nella disciplina di quei profili che, per essere di dettaglio, risultano distinti dai principi››[150]. In tal senso una parte della dottrina afferma che il legislatore delegante dovrebbe da un lato prefissare, sotto forma di principi, le norme fondamentali della nuova disciplina del settore e dall’altro individuare, sotto forma di criteri, le modalità da seguire e gli scopi da raggiungere mediante i conseguenti atti governativi con forza di legge[151].

Secondo altri, viceversa, la formula in questione avrebbe un unico significato, in quanto i principi e i criteri direttivi sarebbero ‹‹due modi diversi di esprimere un unico limite››[152]. Tale orientamento trova conferma nella prassi parlamentare, poiché sono frequenti leggi di delegazione che non distinguono tra determinazione dei principi e quella dei criteri direttivi ma contengono, invece, un unico elenco di norme direttive di vario genere. Inoltre, vi sono anche leggi di delegazione che, per quanto attiene alla determinazione dei principi e criteri direttivi, si sono limitate a rinviare al contenuto di un altro atto normativo primario o a dati di tipo tecnico o all’attuazione di direttive comunitarie (c.d. determinazione per relationem). In alcuni casi la determinazione dei principi e criteri direttivi è stata compiuta soltanto implicitamente, affidando al Governo delegato l’interpretazione delle finalità della delega, ricavabili dalla legge di delegazione o dalle intenzioni del legislatore delegante. Vi sono stati altri casi in cui il legislatore ordinario non ha dettato una adeguata disciplina, limitandosi a fissare delle direttive ambigue, oppure addirittura tralasciando qualunque indicazione di principi o criteri. In tal senso la Corte costituzionale nella sent. 3 del 1957 ha affermato l’incostituzionalità di una legge nella quale difettassero ‹‹anche in parte›› principi e criteri direttivi, ma solo una volta ha censurato una legge sotto tale profilo nella sentenza n. 47 del 1959. In senso opposto invece, si sono verificati casi di leggi deleganti talmente dettagliate e vincolanti che al Governo era riservato il “solo” compito di esecuzione. In ordine a queste deleghe totalmente vincolanti, si è creato il problema circa la loro ammissibilità, ma la Corte costituzionale nella sentenza n. 106 del 1962 ha affermato che non può riflettersi sulla legittimità della legge di delegazione il modo con il quale il legislatore delegato abbia esercitato la delegazione.

Sempre per quanto riguarda il requisito dei principi e dei criteri direttivi, la Corte costituzionale nella sentenza n. 158 del 1985 afferma che  nella legge di delega debbono ricavarsi le indicazioni sufficienti ‹‹ad indirizzare l’attività del  legislatore delegato››. Di conseguenza, la discrezionalità del legislatore delegato può essere più ampia  di quella delineata dall’art. 76 Cost., poiché, come è affermato dalla Corte costituzionale nella sent. 199 del 2003, dipende dal ‹‹grado di specificità dei principi e criteri fissati dalla legge››. Tutto ciò si riflette anche sull’eventuale giudizio di conformità della norma delegata dovendosi tenere conto sia ‹‹delle finalità che, attraverso i principi e i criteri direttivi enunciati, la legge di delega si prefigge con il complessivo contesto delle norme da essa poste›› sia del fatto che ‹‹le norme delegate vanno interpretate nel significato compatibile con quei principi e criteri fissati nella legge delega›› (Corte cost. sent. 199 del 2003). In merito ai rapporti fra legge delega e norma attuativa la Corte costituzionale nelle sentenze nn. 170, 340, 341 del 2007, 112 del 2008, 293 del 2010 e 75 del 2012, ha affermato che il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa deve essere svolto attraverso un confronto tra la norma delegante (al fine di individuarne il contenuto in riferimento ai principi e criteri direttivi, al contesto in cui questi si collocano e alle finalità degli stessi) e la norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con i principi e i criteri direttivi della delega. In tal senso la sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 2001 afferma che ‹‹i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l’interpretazione della portata delle stesse››. Così la successiva sentenza n. 75 del 2012 sottolinea che per determinare quando il decreto legislativo delegato fuoriesce dai confini delineati dalla legge di delega (il c.d. vizio di eccesso di delega) occorre interpretare i principi e i criteri direttivi contenuti in quest’ultima in riferimento alla sua ratio, ‹‹tenendo conto del contesto normativo in cui sono inseriti e delle finalità che ispirano complessivamente la delega ed in particolare o principi e i criteri direttivi specifici››.

8.  I c.d. limiti ulteriori

Oltre ai limiti previsti dall’art. 76 Cost., le singole leggi di delegazione possono introdurre ‹‹limiti ulteriori›› ai quali il Governo deve attenersi nella formulazione dei decreti legislativi.

La possibilità di introdurre ‹‹limiti ulteriori›› è data per scontata dall’Assemblea costituente: infatti, l’on. Perassi nella seduta del 12 novembre 1946 afferma che ‹‹è pacifico che il Parlamento, in caso di delega legislativa, può sempre stabilire i criteri ai quali dovrà attenersi il Governo nel legiferare su una determinata materia […] il Parlamento può in concreto dirigere l’esercizio dell’attività delegata, vale a dire stabilendo nella legge di delegazione che si debba sentire una commissione parlamentare […]; ma non è il caso di menzionarlo nella Costituzione, poiché le Camere possono sempre farvi ricorso quando lo credano››[153].

La Corte costituzionale nelle sentenze nn. 38 del 1964 e 27 del 1979 afferma che ‹‹tali limiti sono vincolanti per il Governo›› e che ‹‹il loro rispetto costituisce una condizione di validità del decreto legislativo […] poiché il potere delegato deve mantenersi sempre nei limiti stabiliti dalla legge di delega››.

La dottrina tuttavia si è domandata se i limiti previsti dall’art. 76 Cost. costituiscono un massimo oppure un minimo, e così se i limiti diversi da quelli posti dall’art. 76 Cost. siano ammissibili o meno. Si è anche chiesta se tali limiti “c.d. ulteriori” possano ricomprendersi nel concetto di ‹‹criteri direttivi››, oppure debbano essere considerati come limiti nuovi e ulteriori e se in questo secondo caso il sindacato sulla loro violazione spetti al giudice ordinario, disapplicando la legge, non essendovi violazione né di norme costituzionali né di norme interposte, oppure, trattandosi comunque di violazioni compiute da atti con forza di legge, la competenza sia della Corte costituzionale[154]. Oggi tali interrogativi sono risolti in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale sull’eccesso di delega. Come già detto in precedenza, innanzitutto la violazione di una norma costituzionale può avvenire sia in modo diretto che indiretto. In questo secondo caso ricorre il c.d. eccesso di delega legislativa, poiché il decreto legislativo violando i limiti posti dalla legge di delega, viola indirettamente anche l’art. 76 Cost. (cfr. Corte cost. sent. n. 3 del 1957).

La legge di delegazione è infatti norma “interposta” e parametro del giudizio di legittimità costituzionale. Nella stessa sentenza, la Corte costituzionale precisò che sono norme interposte tutte le norme contenute nella legge di delega e dunque non soltanto quelle dell’art. 76 Cost., ma anche quelle, eventuali, che stabiliscono limiti “ulteriori” rispetto al termine, all’oggetto definito e ai principi e criteri direttivi. In tal senso infatti l’art. 76 Cost. ha il compito di fissare  i criteri di validità del decreto legislativo, ma tali limiti costituiscono un “minimo” non un “massimo” insuperabile per la legge di delega.

La Corte costituzionale successivamente nelle sentenze nn. 38 del 1964 e 27 del 1970 ha confermato la legittimità dei limiti “ulteriori” e la propria competenza a sindacarne l’eventuale violazione da parte del decreto legislativo.

Tale possibilità di prevedere “limiti ulteriori” si è concretizzata soprattutto nella previsione dell’obbligo di acquisire un parere sugli schemi dei decreti legislativi predisposti dal Governo, espresso dalle competenti Commissioni parlamentari permanenti, talvolta integrate da esperti non parlamentari, oppure da un’apposita commissione bicamerale istituita dalla legge di delega. Spesso inoltre il Parlamento prevede che nella formazione del decreto legislativo siano coinvolti anche altri soggetti, come nel caso in cui le leggi di delegazione prevedono la partecipazione del sistema delle Conferenze. Inoltre l’art. 14 della L. n. 400 del 1988 prevede il meccanismo del doppio parere nell’ipotesi di deleghe c.d. ultrabiennali.

Un problema ancora attuale in tema di limiti ulteriori è quello relativo all’ammissibilità di un parere vincolante da parte delle commissioni parlamentari[155]. Al riguardo la dottrina ha espresso tre tesi. Un primo orientamento ritiene ammissibili tali pareri, soprattutto ritenendo che possano essere utili quando la delega preveda per un lungo periodo di tempo un uso ripetuto del potere legislativo[156]. Una seconda tesi afferma che la previsione di un parere vincolante sarebbe illegittima solo se questo dovesse provenire da organi esterni al Parlamento, poiché in tal modo la normativa di carattere primario verrebbe prodotta al di fuori del Parlamento e del Governo[157].

La terza tesi ritiene la previsione di pareri parlamentari vincolanti costituzionalmente illegittima[158]. Questa parte della dottrina che sostiene l’illegittimità di tali pareri ritiene in primo luogo che ‹‹si trasferirebbe, nella sostanza, ad un organo non abilitato dalla Costituzione l’esercizio di un potere legislativo, per di più mediante una forma di legiferazione né governativa né parlamentare››[159]. In secondo luogo, che vi sarebbe il rischio di un’elusione della riserva di legge d’assemblea, prevista dall’art. 72, ultimo comma, Cost., qualora il parere vincolasse il Governo a prescrizioni difformi da quelle stabilite dalla legge di delega. In terzo luogo che i pareri vincolanti, generando una commistione di ruoli tra il Governo e il Parlamento, non permetterebbero a quest’ultimo di individuare e far valere la responsabilità politica dell’Esecutivo (mentre il ruolo delle Commissioni è quello di sorvegliare sull’osservanza da parte del Governo dei principi e criteri direttivi fissati nella legge di delega e di informare le Camere su eventuali difformità perché queste possano revocare la delega oppure richiamare il Governo al rispetto delle proprie direttive). Senza considerare poi che potrebbe crearsi addirittura una situazione di contrasto tra i due pareri vincolanti espressi dalle Commissioni di Camera e Senato[160]. Infine, è stato affermato che, qualora i pareri si discostassero da quanto previsto nei principi e criteri direttivi, vincolando il Governo ad adottare  l’atto con quel contenuto, si avrebbe l’effetto di ‹‹cambiare tacitamente il contenuto di una legge per la cui adozione vige la riserva d’assemblea››[161].

In conclusione i limiti dei decreti legislativi possono riassumersi nel modo seguente: 1) limiti derivanti dal rispetto di tutte le norme di grado costituzionale; 2) limiti posti dall’art. 76 Cost.; 3) limiti posti dalle singole leggi di delegazione (c.d. limiti ulteriori); 4) limiti posti dall’art. 14 della L. n. 400 del 198.

La competenza della Corte costituzionale sussiste senza dubbio nel caso di violazione dei limiti indicati nei punti 1, 2 e 3. Il discorso è invece più complesso nei riguardi della violazione dei limiti indicati nel numero 4 (o dell’eventuale contrasto con altra legge ordinaria) poiché si tratta di limiti stabiliti da fonti di pari grado gerarchico le cui disposizioni non hanno di certo grado costituzionale e né possono qualificarsi come norme interposte[162].

9. I profili finanziari: la quantificazione e la copertura degli oneri derivanti dalle deleghe legislative

In questo paragrafo si analizza la questione della quantificazione e della copertura degli oneri derivanti dai decreti legislativi. Al riguardo è stato osservato dalla dottrina che ‹‹non risulta chiaro né […] come sia possibile compiere una corretta ed attendibile quantificazione degli oneri derivanti da una disciplina ancora materialmente da scrivere, definita solo attraverso i principi e criteri direttivi posti dalla legge di delega; né […] se debba essere la legge di delega a disporre direttamente la copertura degli oneri suddetti, ovvero se tale compito possa essere demandato anch’esso − ovviamente previa indicazione di principi e criteri direttivi − al decreto legislativo, considerando quindi anche quest’ultimo “legge” importante nuove e maggiori spese ai sensi dell’art. 81 Cost.››[163]. Tale questione è stata esaminata, ma solo parzialmente chiarita, dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 226 del 1976 dove ha affermato che ‹‹dev’essere […] il legislatore delegante a disporre in ordine alla copertura della spesa››; tuttavia la Corte non si è espressa sul se sia sufficiente che il Governo venga a ciò delegato (ovviamente previa fissazione dei principi e dei criteri direttivi)[164].

Inoltre dopo il venir meno dell’art. 16, L. n. 400 del 1988, che disciplinava il controllo preventivo della Corte dei conti sui decreti legislativi, la prassi è stata quella di collocare all’interno della legge di delega sia la quantificazione dell’onere finanziario che la sua copertura.

Certo è che la quantificazione degli oneri tende in questi casi ad essere basata su stime approssimative, poiché si tratta di una disciplina ancora in fieri, e delineata in base a principi e criteri direttivi molto generali. Da tutto ciò deriva che ‹‹la quantificazione dell’onere o la clausola dell’invarianza degli effetti finanziari, nel caso della delega legislativa, tende ad assumere un particolare valore, diventando un limite all’azione del legislatore delegato […] un limite […] piuttosto incisivo, perché di contenuto ben definito e perché il suo rispetto può essere fatto valere in sede di giudizio di legittimità sul decreto legislativo››[165].

Ovviamente sia il Governo che il Parlamento (quest’ultimo nelle Commissioni parlamentari “di settore”) possono essere interessati ad attribuire attraverso il decreto legislativo, maggiori risorse rispetto a quelle originariamente stanziate dalla legge di delega. Tuttavia, il più delle volte, si è fatto utilizzo di deleghe correttive volte a stanziare ulteriori risorse finanziarie rispetto a quelle previste nella legge di delega, di pareri parlamentari in cui si invita il Governo ad emanare ulteriori provvedimenti per modificare determinati trattamenti economici (spesso questo avviene nella forma dei decreti-legge), o ancora di norme di delega che abilitano i decreti legislativi a prevedere nuovi e maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato.

10.  La prassi dell’utilizzo della questione di fiducia e dei maxi-emendamenti nella delega legislativa

Una tendenza in atto negli ultimi tempi è rappresentata dalla frequente apposizione della questione di fiducia sul testo della legge delega. Di ciò è un esempio il Governo Berlusconi che ha fatto ricorso a questo espediente sia nel 2001 con riferimento alla “c.d. Legge Lunardi”, sia nel 2005 nella “c.d. riforma Moratti” e nella riforma dell’ordinamento giudiziario “c.d. riforma Castelli”. Tale prassi non è venuta meno neanche nei successivi Governi, infatti, è stata utilizzata sia dal Governo Monti, che dal Governo Renzi (un esempio: il “c.d. Jobs Act”). Tuttavia l’utilizzo della questione di fiducia in tal senso ha radici ben più lontane, infatti, è stata utilizzata anche la Governo De Gasperi nel 1953, per l’approvazione di una parte dell’articolo unico del d.d.l. C.2971, riguardante la materia elettorale e nella stessa discussione sono state affrontate alcune questioni riguardanti l’apposizione della stessa[166].

Com’è noto la questione di fiducia è un’iniziativa assunta dal Presidente del Consiglio, previo consenso del Consiglio dei Ministri, diretta a subordinare la permanenza in carica del Governo all’approvazione parlamentare di provvedimenti ritenuti dal Governo fondamentali per l’attuazione dell’indirizzo politico ed in relazione ai quali mira a ricompattare la maggioranza governativa. Ha anche l’effetto di contrastare l’ostruzionismo della minoranza; sulla questione di fiducia si vota per appello nominale ed è precluso il voto degli emendamenti presentati al testo su cui il Governo ha posto la fiducia. L’istituto non trova alcuna regolamentazione nella nostra Costituzione, ma trova una sua disciplina nell’art. 116 del Regolamento della Camera e nell’art. 161, comma 4 del  Regolamento del Senato (ove vengono disposti i casi in cui la questione di fiducia non può essere posta) e dall’art. 2, comma 2, della L. n. 400 del 1988[167].

Pur non essendo esplicitamente vietato il ricorso alla questione di fiducia nel conferimento di deleghe legislative, tuttavia è stato osservato che tale istituto può presentare possibili problemi di compatibilità con la riserva di Assemblea prevista dall’art. 72, comma 4, Cost. È stato infatti affermato che la ratio dell’articolo sopra citato non è solo quella di garantire il passaggio prima in Commissione e poi in Assemblea, ma anche di favorire la più ampia discussione sui singoli articoli di legge. Infatti alla base vi è la necessità di favorire un contributo delle opposizioni parlamentari sia nella determinazione dei principi e criteri direttivi sia nella definizione dell’oggetto.

È talmente diffusa la prassi di imporre il voto di fiducia che esso rappresenta ormai uno ‹‹strumento di controllo dei lavori parlamentari››, con la conseguenza che ‹‹l’oggetto della questione non è più l’indirizzo politico perseguito dall’Esecutivo, ma semplicemente la rapida e integrale approvazione di un singolo provvedimento››[168]. Il Governo, allora, ‹‹sottopone o sostiene un progetto di delega›› e vincola le Camere ‹‹al “ricatto” del voto positivo, senza possibilità di discussione o di modifica (sia pure parziale) dello stesso››; viene infatti impedita una ‹‹valutazione sull’an della delega, sull’estensione del suo oggetto, sui tempi e, non da ultimo, sui principi e criteri direttivi››[169], anche se almeno formalmente, non sussiste alcun obbligo per il Parlamento di esprimersi in modo favorevole sulla questione di fiducia.

È stato infatti affermato che il Governo, facendo ricorso a questo istituto, si sia spinto ‹‹fino agli estremi limiti del (costituzionalmente) consentito››, poiché la questione di fiducia viene utilizzata nel corso di un procedimento che già si caratterizza per la rinuncia da parte del Parlamento ‹‹all’esercizio della funzione legislativa che gli è attribuita dalla Costituzione; nel corso di questo procedimento; pertanto, il ricorso alla questione di fiducia dovrebbe essere se non del tutto escluso, quanto meno limitato al minimo […]››[170].

Accanto alla prassi dell’apposizione della questione di fiducia sul testo della legge delega, si affianca ad essa la tendenza della presentazione, di un maxi-emendamento da parte del Governo che sostituisce il disegno di legge di delega[171]. Un recente caso in cui si è avuto un utilizzo congiunto di questi strumenti è rappresentato dalla delega sul “c.d. Jobs act[172].

Ancora una volta ci troviamo di fronte al silenzio della Costituzione poiché non vi è in essa nessuna menzione del potere di porre emendamenti e né tantomeno dell’istituto dei maxi-emendamenti. Tuttavia la dottrina è unanime nel rinvenire un fondamento costituzionale del potere di emendamento, in quanto potere intrinseco all’attività legislativa e implicitamente ricavabile dagli artt. 70 e 72 Cost. (dal primo poiché attribuisce l’esercizio della funzione legislativa collettivamente alle due Camere; dal secondo ove si sottolinea la diversità del testo entrante rispetto a quello uscente dal dibattito in Commissione o in Assemblea) e strumento volto al dibattito e al confronto parlamentare[173].

Certo è che la facoltà di presentare emendamenti è prevista dai rispettivi Regolamenti di Camera e Senato. Ove l’art. 86, comma 1, Reg. Camera e 100, comma 3, Reg. Senato, fissano in linea generale il termine di presentazione degli emendamenti nel giorno antecedente alla seduta nella quale avrà inizio la discussione, mentre i rispettivi commi 5 e 6 prevedono che il Governo possa presentare emendamenti, subemendamenti e articoli aggiuntivi sino all’inizio della votazione dell’articolo o dell’emendamento cui si riferiscono. Applicando poi questo meccanismo ai maxi-emendamenti interamente sostitutivi del testo di legge, questo vantaggio procedurale si traduce quindi non solo in un superamento della discussione svolta sino al giorno della votazione, ma anche in un’impossibilità di discutere l’intero testo rinnovato[174]. Infatti il Governo facendo ricorso alla questione di fiducia si assicura una sicura e tempestiva approvazione parlamentare della delega. Tuttavia, al fine di evitare una molteplicità di posizioni sulla questione di fiducia (dato che l’unità massima su cui la questione si può porre è costituita dall’articolo o da un emendamento ad esso riferito) vengono formulati maxi-emendamenti, spesso sostitutivi dell’intero testo del disegno di legge, i quali una volta approvati, sono diventati maxi-articoli contenenti al proprio interno una o più deleghe legislative[175].

Tale tendenza consente che all’interno di ‹‹un unico articolo, composto di decine e talvolta di centinaia di commi›› sono ricomprese ‹‹un elevato numero di norme››, al fine di ‹‹sostituire gran parte degli articoli del testo legislativo, o, addirittura, l’intero provvedimento per permettere all’Esecutivo di porre un’unica questione di fiducia su tutto il testo in discussione››[176].

Analizzando congiuntamente i fenomeni dell’apposizione della questione di fiducia e della proposizione dei maxi-emendamenti viene osservato che si determina ‹‹un vero e proprio ribaltamento›› di quella che è la ratio dell’art. 76 Cost., poiché da un lato, il Governo ‹‹si appropria della fase della delega […] tramite la questione di fiducia sul maxi-emendamento›› e dall’altro, si prevede una ‹‹compartecipazione anche nella fase di attuazione ed emanazione dei decreti legislativi […] tramite i pareri parlamentari e l’istituzione delle Commissioni ad hoc››[177]. L’‹‹effetto che si ottiene è […] quello di svolgere la sintesi politica ed il confronto sul testo normativo nelle poco limpide e trasparenti sedi extraparlamentari, rendendo il Governo esclusivo tessitore della composizione delle istanze politiche››[178].

La maggior parte della dottrina afferma che, nonostante la prassi stia andando nella direzione opposta, ‹‹il ricorso alla questione di fiducia dovrebbe essere, se non del tutto escluso, quanto meno limitato al minimo, in quanto rischia di irrigidire eccessivamente sia i rapporti tra maggioranza e opposizione, sia [i]l “dialogo” tra Governo e Parlamento››[179].

Interessante è sottolineare  che in occasione della delega legislativa per la riforma dell’ordinamento giudiziario nel 2004, l’allora Presidente della Repubblica Ciampi rinviò il provvedimento alle Camere, rilevando che ‹‹l’analisi del testo [era] resa difficile dal fatto che le disposizioni in esso contenute [erano] condensate in due soli articoli, il secondo dei quali consta[va] di 49 commi ed occupa[va] 38 delle 40 pagine di cui si compone[va] il messaggio legislativo›› e, con l’occasione, richiamò ‹‹l’attenzione del Parlamento su un modo di legiferare, invalso da tempo, che non appar[iva] coerente con la ratio delle norme costituzionali che disciplinano il procedimento legislativo e, segnatamente, con l’articolo 72 della Costituzione, secondo cui ogni legge deve essere approvata “articolo per articolo e con votazione finale”››[180].

La Corte costituzionale, invece, in un primo momento non ha ravvisato contrasti con l’art. 72 Cost. in riferimento alla prassi che collega la questione di fiducia e il maxi-emendamento con la delega legislativa. Infatti, la Corte nelle sentenze nn. 391 del 1995, 148 del 1999 e 1 del 2008 ha considerato comunque conformi a Costituzione quelle procedure di voto che non consentono l’approvazione articolo per articolo. Già nella sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 1998, però, affermava che, pur non potendo sindacare il rispetto dei regolamenti parlamentari, è suo compito verificare il rispetto procedurale, costituzionalmente previsto, dell’approvazione articolo per articolo e con votazione finale. Su questa traccia, la Corte costituzionale nella sentenza n. 32 del 2014, ha sottolineato che proprio la rilevanza della materia oggetto di riforma (poiché si trattava dell’inserimento nella legge di conversione del d.l. n. 272 del 2005, avente ad oggetto essenzialmente le Olimpiadi di Torino del 2006, dell’eliminazione del differente trattamento sanzionatorio previsto per le droghe c.d. pesanti rispetto a quelle c.d. leggere) ‹‹avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite le ordinarie procedure di formazione della legge, ex art.72 Cost.››, mentre il suo inserimento ‹‹in un “maxi-emendamento” del Governo, interamente sostitutivo del testo del disegno di legge di conversione […] su cui il Governo medesimo ha posto la questione di fiducia›› ha precluso ‹‹una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina in tal modo introdotta››[181].

11. I rapporti fra decreto-legge, legge di conversione e delega legislativa

Interessante si rivela anche analizzare i rapporti che si sono andati a delineare, soprattutto negli ultimi anni, fra la decretazione d’urgenza e la delegazione legislativa.

Si è assistito, infatti, ad una interazione fra decretazione d’urgenza e delega legislativa. Questa tendenza è contraddistinta da una sorta di “ripartizione dei compiti” fra il decreto-legge e la delega legislativa: infatti, il Governo interviene inizialmente con un decreto-legge al fine di rispondere all’urgenza di provvedere, con la conseguenza di mettere il Parlamento di fronte al “fatto compiuto” sia della calendarizzazione di determinati provvedimenti, sia dei loro contenuti; in un secondo momento poi, viene conferita una delega all’Esecutivo e attraverso i decreti delegati, sono affrontati gli aspetti più sostanziali. Si può giungere, infine, al ricorso ad uno o più decreti correttivi e integrativi, allo scopo di armonizzare o emendare la disciplina già introdotta[182].

Il ricorso alla legislazione delegata rappresenta dunque soltanto una parte dell’intervento legislativo. Di questo fenomeno è un esempio il “c.d. Jobs act”, in riferimento al quale in un primo momento è stato adottato il d.l. n. 34 del 2014 e successivamente sono state conferite al Governo cinque deleghe a cui si sono poi successivamente aggiunti anche dei decreti integrativi e correttivi.

Stando al dato normativo, gli artt. 15, comma 2, L. n. 400 del 1988 e 72, comma 4, Cost., escludono la possibilità di conferire una delega o anche solo di modificare alcune previsioni mediante un decreto-legge, poiché in tal caso non sarebbe il Parlamento ad attribuire la potestà legislativa nel confronti del Governo, ma sarebbe lo stesso Esecutivo ad autoattribuirsi tale potestà.

Un fenomeno, invece, parzialmente simile ma tuttavia diverso, è la possibilità di prevedere l’atto abilitante da parte del Parlamento all’interno della legge di conversione. Negli ultimi anni, infatti, sono state emesse diverse pronunce da parte della Corte costituzionale che hanno avuto ad oggetto i rapporti fra il contenuto del provvedimento governativo e il testo della legge di conversione. Il loro esame presenta profili di interesse rispetto al tema qui trattato, in quanto le osservazioni della Consulta sono tese a valorizzare il legame che sussiste fra decreto-legge e legge di conversione.

In particolare, il punto di svolta è arrivato nel 2007, quando la Corte ha iniziato a sindacare le norme “intruse” in sede di conversione[183]. Tuttavia un ruolo centrale in tale evoluzione giuridica è rivestito dalle sentenze nn. 22 del 2012 e 32 del 2014 della Corte costituzionale.

Nella sentenza n. 22 del 2012, il giudice delle leggi limita la possibilità di emendare il decreto, in base alla funzione della conversione, sul punto il giudice delle leggi afferma che ‹‹l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., […] deriva [dal]l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge››. In tale pronuncia la Consulta precisa che fra decreto-legge e legge di conversione deve esservi «necessaria omogeneità» in quanto è proprio l’art. 77, 2 comma Cost. ad escludere la «possibilità di inserire nella legge di conversione […] emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario».

La sentenza n. 32 del 2014 la Corte costituzionale rende più netto il solco tracciato da questa precedente pronuncia, infatti, il giudice delle leggi pone ancor maggiore attenzione al profilo della fuoriuscita della legge di conversione dal nesso funzionale con il decreto[184]. Infatti – rammenta la Corte − ‹‹l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua››. La legge di conversione infatti, a detta della Corte nella sent. n. 32 del 2014, ha natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto. ‹‹Dalla sua connotazione di legge a competenza tipica derivano i limiti alla emendabilità del decreto-legge. La legge di conversione non può, quindi, aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore. Diversamente, l’iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l'atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare››.

Dunque la legge di conversione risulta avere una competenza tipica, specializzata e limitata, non libera, ma funzionalmente tipizzata alla conversione, e deve porsi in termini di coerenza con il decreto-legge. Dunque ‹‹nell’ipotesi in cui la legge di conversione spezzi la suddetta connessione, si determina un vizio di procedura››, un vizio di formazione della disposizione di legge, per violazione dell’articolo 77, secondo comma, Cost.

Dopo aver analizzato queste pronunce ed aver in tal modo specificato la “natura” della legge di conversione, passiamo ora ad esaminare la sentenza n. 237 del 2013 della Corte costituzionale. L’analisi di tale pronuncia risulta essenziale ai nostri fini poiché, il Parlamento ha inserito nell’atto di conversione del d.l. n. 138/2011 una delega al Governo per l’adozione di uno o più decreti legislativi[185].

In tale sentenza il giudice delle leggi, ripercorrendo i passi della sentenza n. 63/1998, ribadisce come, in nome dell’“autonomia” degli istituti disciplinati agli artt. 76 e 77 Cost., uno stesso atto parlamentare possa contestualmente svolgere la duplice funzione di controllo ex post dell’intervento legislativo del Governo e di impulso ad una sua ulteriore attività di normazione. Secondo la Corte la “forma” del provvedimento principale non condizionerebbe (qualora risultino rispettati tutti i requisiti procedurali e sostanziali indicati dalla Costituzione) la facoltà delle Camere di utilizzare quello stesso atto (e quella stessa procedura) di conversione per esercitare anche una diversa – e separata – prerogativa ad esse riconosciuta. Le parole del giudice delle leggi illustrano come la disposizione di delega introdotta nell’ordinamento attraverso la legge di conversione deve essere ricondotta direttamente alla potestà legislativa del Parlamento.

Del resto, infatti, come è stato precedentemente analizzato, la Corte costituzionale nella sentenza n. 22/2012 se da un lato ha affermato la natura specializzata e funzionalmente tipizzata della legge di conversione, dall’altro ha sottolineato che ‹‹ragioni di economia procedimentale›› possono incidere sulle modalità di conversione di un decreto-legge, fino a giustificare l’introduzione nella stessa procedura di una delega legislativa, oppure ‹‹l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa››.

Tuttavia, bisogna vedere quali sono i presupposti ai quali la Consulta subordina la possibilità di utilizzare il procedimento di conversione di un decreto-legge ai fini di attribuire una delega al Governo per la regolamentazione di una data materia.

Se infatti in un primo momento (sent. n. 63/1998) il giudice delle leggi sembrava poter avallare un ricorso “illimitato” al conferimento di deleghe in sede di conversione, escludendo che il contenuto o le premesse del decreto-legge potessero influire sull’ambito della legge di delega, a partire dalla sentenza n. 22/2012 – come si è precedentemente visto − la Corte ha stabilito che l’attività legislativa del Parlamento non strettamente collegata alla procedura di conversione del decreto-legge può trovare legittima esplicazione solo ‹‹a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione››. Da ciò discende che vi sono precisi limiti alla possibilità di conferire una delega legislativa che sono strettamente connessi all’obbligo di preservare la linea di continuità e di coerenza che intercorre fra legge di conversione e decreto-legge. Non può, in altre parole, venir meno quel rapporto di strumentalità che unisce la legge di conversione al decreto governativo.

È questo il requisito che il Giudice costituzionale definisce come ‹‹omogeneità complessiva dell’atto normativo rispetto all’oggetto o allo scopo›› che deve sempre collegare l’atto di conversione alla disciplina varata in via d’urgenza. La rottura di tale vincolo è, pertanto, sintomo di un uso improprio di un’attribuzione che la Costituzione affida al Parlamento, vale a dire la conversione di un decreto-legge.

Ne consegue che, anche rispetto ad una procedura parlamentare diretta a coniugare il potere di conversione di un decreto-legge con l’esercizio di una delega legislativa, l’omogeneità appare la condizione indispensabile per non recidere il legame fra la normativa complessivamente approvata e la funzione tipica cui sono indirizzate (almeno prevalentemente) le attività delle Camere in osservanza dell’art. 77 Cost.

Dunque da questo punto di vista, il ruolo specifico della legge di conversione non risulta intaccato se l’Assemblea vi ricorre per delegare al Governo la produzione di norme legislative in ambiti non estranei alla ratio del decreto contestualmente convertito. Al riguardo, infatti, nella sentenza n. 237/2013 la Corte rileva che la disposizione di delega contenuta nell’atto di conversione del d.l. n. 138/2011, non altera l’omogeneità del decreto-legge oggetto di conversione, perché interviene su aspetti affrontati anche dalla normativa emanata dall’Esecutivo.

Non si può invece ritenere, ad avviso del giudice delle leggi, che le disposizioni di delega introdotte nell’atto di conversione siano vincolate ai caratteri di necessità e di urgenza alla base dei poteri costituzionalmente riconosciuti al Governo[186]. Tale orientamento risulta evidente anche dalla già richiamata sentenza n. 22 del 2012 della Corte costituzionale, ove il giudice costituzionale è arrivato, come si è visto, a circoscrivere la legittima presenza di norme estranee alla legge di conversione ancorandole comunque allo “scopo tipico” di quest’ultima e, quindi, alla necessità di non spezzare l’unicità della sequenza procedimentale configurata dall’art. 77 Cost. Ha cioè preferito sganciare il controllo di tali disposizioni dal collegamento con i requisiti della normazione d’urgenza per affidarsi al criterio della omogeneità, nella declinazione che valorizza il rapporto funzionale da cui trae origine il potere di conversione delle Camere[187].

12. L’approvazione di deleghe legislative nella sessione bilancio e le problematiche create dall’impiego delle deleghe nei provvedimenti collegati alla legge di bilancio

Un altro espediente utilizzato dal Governo è quello di qualificare alcuni disegni di legge di delega come provvedimenti collegati alla legge di bilancio. Così facendo l’Esecutivo si è potuto avvalere anche degli strumenti previsti dai Regolamenti parlamentari per la sessione bilancio, superando in tal modo l’ostruzionismo delle opposizioni.

Questo escamotage ha permesso al Governo, soprattutto dal 1992 al 1997, di utilizzare il particolare iter parlamentare della decisione annuale di bilancio, che risulta accelerato rispetto al normale procedimento di formazione dei decreti legislativi[188].

Tuttavia, si è cercato di apportare dei rimedi a questa prassi. Il divieto di inserire norme di delega nei disegni di legge esaminati in sessione bilancio è stato introdotto prima con riferimento alle risoluzioni parlamentari relative al DPEF 1999-2001 che hanno stabilito che il provvedimento collegato “di sessione” non dovesse ‹‹contenere deleghe legislative al Governo per l’introduzione di riforme organiche di settore o per interventi di riodino […]›› mentre deleghe di tale tipo avrebbero potuto essere collocate nei provvedimenti collegati “fuori sessione”; e successivamente nella L. 208 del 1999 (novellando la L. n. 468 del 1978), che ha previsto che la legge di bilancio non possa contenere norme di delega di carattere ordinamentale ovvero organizzativo e inoltre ha configurato i provvedimenti collegati tutti come “fuori sessione”, cioè da esaminare fuori dalla sessione bilancio e non congiuntamente con i disegni di legge di bilancio.

In tal modo si è stabilito che la legge di bilancio deve contenere esclusivamente norme volte alla realizzazione di effetti finanziari. Come detto, eventuali norme di delega potranno essere collocate nei provvedimenti collegati alla legge di bilancio, ma dovranno essere esaminati fuori della sessione bilancio.

Il Regolamento del Senato e quello della Camera sono stati riformati con l’inserimento dei rispettivi articoli 126-bis e 123-bis volti alla determinazione delle modalità di approvazione dei provvedimenti collegati; a partire dalla XI legislatura, poi, si è ritenuto opportuno ‹‹per evitare provvedimenti collegati omnibus […] inserire un nuovo limite contenutistico, fondato però non su specifiche materie, bensì su presupposti teleologici›› vale a dire ‹‹la razionalizzazione della spesa pubblica e l’aumento delle entrate››[189].

Tuttavia diverse possono essere le problematiche connesse all’utilizzo di deleghe in questi atti: un primo dubbio riguarda l’ampiezza della cessione del potere legislativo da parte dal Parlamento: infatti tali deleghe riguardano solitamente vaste riforme settoriali e difficilmente circoscrivibili nei termini dell’art. 76 Cost.; in secondo luogo si potrebbe contestare la durata dell’attribuzione all’Esecutivo del potere di adottare norme di rango primario, poiché come abbiamo visto il Governo attraverso i decreti integrativi e correttivi amplia il lasso di tempo a sua disposizione, a volte protraendolo addirittura oltre i termini della legislatura; in terzo luogo si potrebbe verificare una violazione dell’art. 76 Cost. ove non fossero previsti principi e criteri direttivi o risultassero talmente vaghi da rivelarsi inconsistenti, consentendo al Governo una discrezionalità troppo ampia[190].

13. La delegazione legislativa e l’attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione

L’adeguamento della disciplina del sistema delle autonomie ai nuovi principi costituzionali introdotti con la legge cost. n. 3 del 2001 di riforma del Titolo V della Costituzione ha individuato nella delega al Governo lo strumento principale attraverso cui realizzare tale finalità.

Nello specifico, nella L. n. 131 del 2003 (cd. Legge La Loggia, diretta all’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 3 del 2001) le disposizioni di delega riguardano due aspetti, quali il rapporto fra la legislazione statale e la legislazione regionale (art. 1) e l’individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali insieme con la revisione complessiva della relativa disciplina (art. 2).

Tuttavia, fra le deleghe previste, soltanto quella contenuta nell’art. 1, comma 4, che affida al Governo il compito di adottare ‹‹uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fondamentali desumibili dalle leggi vigenti nelle materie di potestà legislativa concorrente›› elencate nel nuovo art. 117, comma 3, Cost. è stata esercitata, sia pure soltanto parzialmente. A tale opera di ricognizione, per il compimento della quale era fissato il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge, il legislatore delegante assegnava la finalità di orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni, fino alla determinazione dei nuovi principi fondamentali nelle stesse materie da parte del legislatore statale. È stata scartata l’ipotesi di una delega avente ad oggetto la determinazione dei nuovi principi fondamentali[191] e invece in senso opposto è stata ammessa la possibilità per le Regioni di dettare la propria disciplina sulla base dei principi desumibili dalle leggi statali vigenti, anche anteriori alla riforma del Titolo V, senza dover attendere la determinazione dei nuovi principi fondamentali (secondo quanto affermato dalla stessa L. n. 131 del 2003, comma 3).

Il successivo comma 5, ampliava l’oggetto della delega, poiché veniva previsto che per mezzo dei medesimi decreti ‹‹sempre a titolo di mera ricognizione››, il Governo potesse individuare disposizioni riguardanti le stesse materie di potestà concorrente ma rientranti nella competenza esclusiva dello Stato sulla base dei titoli elencati nel nuovo art. 117, comma 2, Cost.

Tuttavia era stato osservato che la definizione dell’oggetto in termini di ‹‹mera ricognizione››, vale a dire come attività priva di discrezionalità, era parsa poco convincente. Infatti la delega avrebbe potuto nei fatti conferire al Governo il potere di (ri-)delimitare le materie elencate nell’art. 117, comma 3, Cost., di cui si doveva svolgere la ricognizione dei principi; tale operazione non sarebbe stata di mero accertamento ricognitivo, bensì avrebbe avuto un elevato tasso di discrezionalità, poiché dovevano essere ricostruiti gli interessi riconducibili a ciascuna materia.

Prima che il Governo esercitasse il potere conferitogli, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla previsione dell’art. 1, comma 4, con la sentenza n. 280 del 2004 ne ha escluso l’incostituzionalità, in forza di una interpretazione restrittiva della delega, accogliendo in tal senso una ‹‹lettura minimale›› della delega che era stata disposta per l’adozione di decreti ‹‹meramente ricognitivi›› dei principi fondamentali esistenti nelle materie di legislazione concorrente di cui all’art. 117. comma 3, Cost. Questa ‹‹lettura minimale›› ha portato la Corte ad affermare che la delega non consente ‹‹di per sé, l’adozione di norme delegate sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente››. In tal modo la Corte ha respinto i ricorsi regionali, che viceversa, sostenendo il carattere legislativo e innovativo della delega, rilevavano la contraddittorietà con la competenza parlamentare a dettare la disciplina di principio e di conseguenza lamentavano una violazione dell’art. 76 Cost., suscettibile di determinare un’indebita compressione delle competenze regionali[192]. Dalla lettura della delega ‹‹in termini di mera ricognizione e non di innovazione-determinazione dei principi fondamentali›› discende l’assimilazione alle deleghe di compilazione dei testi unici per il coordinamento e la semplificazione delle disposizioni vigenti in una determinata materia, che consentono al Governo soltanto il coordinamento di disposizioni preesistenti. Nella stessa decisione tuttavia, la Corte ha ritenuto non compatibili con quella ‹‹lettura minimale›› le disposizioni di delega contenute nel comma 5 e 6 dell’art. 1, L. n. 131 del 2003, per violazione dell’art. 76 Cost. In entrambe le disposizioni, infatti, l’oggetto della delega viene ad estendersi in maniera impropria e indeterminata, in quanto il Governo delegato non potrebbe limitarsi ad una mera attività ricognitiva, dovendo anche ‹‹fare necessariamente opera di interpretazione del contenuto delle materie in questione››[193].

Per l’attuazione della delega, a garanzia della sua natura ricognitiva, il comma 4 prevede un procedimento aggravato rispetto a quello disciplinato in via generale dall’art. 14 della L. n. 400 del 1988, richiedendo che sugli schemi dei decreti legislativi delegati, predisposti dal Governo su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri insieme con i Ministri interessati, si debba acquisire una serie di pareri parlamentari e della Conferenza Stato-Regioni.

In particolar modo, inizialmente il Governo acquisisce il parere della Conferenza Stato-Regioni e quello delle Commissioni parlamentari competenti e dopo il riesame sulla base dei pareri acquisiti, ritrasmette i testi, insieme alle proprie osservazioni ed eventuali modificazioni, alla Conferenza Stato-Regioni e alle Camere per l’acquisizione del parere definitivo, reso per il Parlamento dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali.

L’esame degli schemi del decreto legislativo aveva la funzione di rilevare l’eventuale omissione dell’indicazione di principi fondamentali desumibili dalla legislazione vigente o l’eventuale inclusione di disposizioni non aventi natura di principi fondamentali o di disposizioni con contenuto innovativo, invece che ricognitivo. Nel caso in cui il Governo non si fosse conformato alle indicazioni contenute nel parere parlamentare definitivo e se ne fosse discostato, avrebbe dovuto giustificare la difformità delle disposizioni contenute nel decreto legislativo indicandone le motivazioni in una relazione da trasmettersi ai Presidenti delle Camere e al Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali, assumendosi in tal modo la responsabilità politica.

Nonostante i pareri previsti fossero soltanto obbligatori e non anche vincolanti, la doppia acquisizione assicurava la partecipazione del Parlamento e delle Regioni all’attività del legislatore delegato. In tal modo si arrivava a una sorta di decisione “negoziata”[194].

Per quanto riguarda l’attuazione della delega. l’art. 1, comma 4, della L. n. 131 del 2003 fissava il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge, tuttavia tale termine ha subito due proroghe entrambe di un anno. Alla scadenza di tale termine, erano stati adottati in tutto tre decreti: il d.lgs. n. 30 del 2006 ricognitivo dei principi fondamentali in materia di professioni, il d.lgs. n. 170 del 2006 di armonizzazione dei bilanci pubblici e il d.lgs. n. 171 del 2006 riguardante le casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Risulta evidente che il Governo ha compiuto un utilizzo limitato del potere conferitogli dal legislatore delegante, infatti, per la maggior parte delle materie incluse nell’elenco dell’art. 117, comma 3, Cost. la ricognizione dei principi non è stata effettuata e nemmeno è stato avviato il procedimento previsto dall’art. 1, comma 4 della cd. Legge La Loggia.

‹‹Poiché i termini fissati per l’acquisizione dei pareri sono stati rispettati, deve concludersi che la lentezza nell’attuazione della delega e i suoi scarsi risultati sono imputabili all’inerzia del Governo››[195].

In tal senso, analizzando i pareri rilasciati nell’ambito dei procedimenti per l’adozione dei decreti si mostra che ‹‹le Regioni, attraverso la Conferenza, sono state l’interlocutore maggiormente critico nei confronti dell’operato del Governo, mentre le Commissioni parlamentari, compresa la Commissione per le questioni regionali, hanno sempre espresso parere favorevole, limitandosi a formulare osservazioni››[196].

In conclusione, il procedimento previsto dall’art. 1, comma 4, L. n. 131 del 2003 ha consentito di adottare soluzioni condivise. ‹‹Si deve peraltro osservare come il contrasto e la negoziazione fra i diversi interlocutori abbiano spesso riguardato, più che l’individuazione dei principi fondamentali vigenti, la preliminare delimitazione delle materie nel cui ambito i principi avrebbero dovuto essere censiti, con ciò contraddicendo di fatto la lettura minimale dell’oggetto della delega indicata dalla Consulta come unica conforme a Costituzione e confermando la difficoltà di tenere distinti concettualmente e in concreto i due piani […]››[197].

Come detto e pare opportuno ribadire, però, non solo l’attuazione della delega per la ricognizione di principi fondamentali nelle materie di potestà concorrente è stata limitata, ma inoltre le altre deleghe contenute nella legge “c.d. La Loggia” sono rimaste del tutto inattuate[198].

14. Le deleghe comunitarie

Sin dall’origine i meccanismi di recepimento del diritto comunitario sono stati caratterizzati dall’utilizzo della delega legislativa, di ciò ne è una dimostrazione la legge di esecuzione del Trattato CEE (l. 14 ottobre 1957, n. 1203) la quale autorizzava il Governo ad emanare decreti aventi valore di legge ordinaria per dare attuazione ad alcune disposizioni dello stesso Trattato. Tale strumento ha poi trovato applicazione anche per l’esecuzione degli atti comunitari derivati, anche se tale utilizzo ha creato delle problematiche, sia di ordine politico, con riguardo ai confini della delega poiché viene sottratta al Parlamento la competenza sulla materia comunitaria, sia di ordine costituzionale, per la dubbia conformità di tali deleghe con la disciplina costituzionale dell’istituto di cui all’art. 76 della Costituzione[199].

A partire dalla l. 9 marzo 1989, n. 86, c.d. legge La Pergola, il legislatore italiano ha concepito la legge comunitaria come strumento periodico di adeguamento dell’ordinamento nazionale a quello comunitario e di adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea.[200]

Tuttavia, il legislatore ha modificato nelle successive leggi comunitarie l’impianto della l. n. 86 del 1989, giungendo fino all’abrogazione espressa di quel modello attraverso la l. 4 febbraio 2005, n. 11 (c.d. legge Buttiglione), per poi proseguire nell’evoluzione normativa attraverso la legge n. 234 del 2012.

È bene sottolineare che nessuna delle suddette leggi individua nello strumento della delegazione legislativa il mezzo esclusivo e neppure prevalente per l’attuazione del diritto comunitario. Se analizziamo però questo elemento in combinazione con l’ulteriore previsione, di cui all’art. 8 della legge n. 11/2005, di un’attuazione in via regolamentare delle direttive comunitarie, previa autorizzazione del Parlamento, in particolare nelle materie rientranti nella competenza legislativa concorrente delle Regioni, si comprende come il decreto legislativo delegato costituisca parte fondamentale dell’attuazione delle regole comunitarie nel nostro ordinamento[201].

Tale utilizzo della delega legislativa ha posto dei problemi di compatibilità con l’art. 76 Cost. In particolare a partire dalla l. n. 422/2000, il Parlamento suole indicare all’Esecutivo i principi e i criteri direttivi generali della delega legislativa, cioè valevoli per tutte le deleghe contenute nella legge comunitaria e caratterizzati da vaghezza. Inoltre, le leggi comunitarie effettuano un mero rinvio ai principi e criteri direttivi contenuti nelle direttive comunitarie, ‹‹in tal modo le direttive comunitarie richiamate dalla legge di delega diventano la “vera fonte” dei principi e criteri direttivi cui devono uniformarsi i decreti legislativi e, in quanto tali, finiscono per essere elevate a parametro dell’eventuale giudizio di legittimità costituzionale del decreto››[202]. Inoltre, la prassi utilizzata dal legislatore di inserire in allegati alle leggi di delega l’elenco delle direttive da recepire mediante decreto legislativo finisce per attribuire all’Esecutivo un potere normativo per materia, invece che in relazione agli oggetti[203]. Infine, a seguito dell’emanazione di nuove direttive comunitarie che modificano le direttive in corso di attuazione, si ha una sorta di proroga automatica del termine di esercizio della delega[204].

Considerando quando finora osservato, è stata rilevata nel nostro ordinamento la prassi di confondere le finalità della delega (che sono quelle contenute nelle norme comunitarie che devono essere attuate) con i principi e criteri direttivi a cui il Governo deve uniformarsi nell’esecuzione della delega stessa. Tale tendenza sembra porsi in aperta violazione con l’art. 76 Cost., se non altro perché il Parlamento “si autopriva” del compito di determinare gli orientamenti di fondo che devono indirizzare l’attuazione delle direttive[205]. Insomma, nel momento in cui la legge di delega è priva di principi e criteri direttivi espressi, il rischio è quello di estromettere il Parlamento dall’attuazione delle norme comunitarie e di consentire al Governo di dettare a se stesso i principi e i limiti a cui attenersi nell’esercizio della legislazione delega[206]. La Corte costituzionale tuttavia, si è pronunciata in senso favorevole rispetto alla prassi consistente nell’indicazione per relationem da parte del Parlamento dei principi e dei criteri direttivi nella legge di delega, ritenendo che questi possono ricavarsi dal contenuto dei singoli atti comunitari da recepire[207].

Si deve aggiungere che le stesse leggi comunitarie contengono delle previsioni secondo le quali i decreti legislativi devono assicurare in ogni caso che, nelle materie oggetto di direttive da attuare, la disciplina sia pienamente conforme alle prescrizioni delle stesse direttive, tenendo anche conto delle eventuali modificazioni che possono intervenire fino all’esercizio della delega stessa[208]. Per assicurare ciò il Parlamento conferisce al Governo, attraverso una vera e propria delega in bianco, la possibilità di abrogare o di modificare le disposizioni legislative sul presupposto dell’esistenza di norme future ed estranee all’ordinamento. La contrarietà di questo tipo di delega allo spirito della Costituzione è evidente poiché ‹‹mentre il rinvio recettizio […] garantisce un intervento del Parlamento, per quanto solo formale […], mediante il rinvio a direttive emanande che modifichino quelle da attuare le Camere vengono invece addirittura spogliate del loro potere sovrano di gestione dell’ordinamento dello Stato››[209].

Tuttavia, ancora maggiori perplessità vengono suscitate dal caso in cui sulla materia che le direttive disciplinano sia posta dalla nostra Costituzione una riserva, relativa o assoluta di legge, anche se la possibilità che un decreto legislativo delegato possa disciplinare una materia riservata è ammessa dalla giurisprudenza della Corte costituzionale[210].

Le leggi comunitarie contengono, poi, una formula secondo la quale ‹‹salva l’applicazione delle norme penali vigenti, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, sono previste sanzioni amministrative e penali per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi››, comunque circoscrivendo l’impiego della sanzione penale solo nelle ipotesi in cui le infrazioni ledano interessi costituzionalmente rilevanti[211]. A tal proposito, è stato sostenuto che il Parlamento in questo modo ‹‹delega all’esecutivo sia la decisione circa la meritevolezza e il bisogno della pena in relazione al bene, sia la scelta della quantità e della qualità della pena, fornendo criteri di penalizzazione […] sommari e ripetitivi››[212]. Tuttavia, la Corte costituzionale nell’ordinanza n. 134 del 2003, ha affermato che, nel momento in cui la legge comunitaria definisce la specie e l’entità massima delle pene e allo stesso tempo detta il criterio restrittivo del ricorso alla sanzione penale solo per la tutela di interessi che abbiano “valore costituzionale”, la stessa legge comunitaria con riferimento alla sanzione penale delimita in modo sufficientemente preciso l’ambito delle scelte del Governo nell’impiego dello strumento penale. La Corte aggiunge, nella stessa ordinanza, che ‹‹a carico del legislatore delegante è posto l’obbligo […] di definire l’oggetto della delega e di indicarne i principi e criteri direttivi, senza lasciare libero il Governo delegato di effettuare qualsiasi scelta, ma anche senza doverne vincolare tutte le scelte concrete, restando invece affidate quest’ultime, nei limiti dei criteri direttivi, proprio al delegato››[213].

Dunque, sebbene la dottrina affermi che almeno nelle ipotesi in cui la materia che viene presa in considerazione è coperta da riserva di legge finalizzata a tutelare un valore da ritenere “supremo” (come quello tutelato dall’art. 25, comma 2, Cost.) è da ritenere contra constitutionem la prassi di rinviare per relationem alle direttive medesime quanto la determinazione dei principi e dei criteri direttivi, è proprio questa la prassi utilizzata oggi dal nostro Parlamento[214].

15. Le ipotesi più discusse di delega legislativa e gli atti affini o parzialmente assimilabili ai decreti legislativi

Dall’art. 77, comma 1, Cost. si evince che la delega legislativa rappresenta il solo esempio di normazione governativa assimilabile alla legislazione ordinaria del Parlamento. Corrispondentemente a questa disposizione si ricava che la Costituzione esclude che la forza e il valore di legge possano spettare a qualsiasi altra specie di atti del Governo, tanto provvedimentali quanto regolamentari.

In dottrina però si è spesso parlato di deleghe anomale in riferimento alla redazione di testi unici, ai c.d. regolamenti delegati (o regolamenti in delegificazione), alle deleghe di coordinamento e attuazione, alle deleghe anteriori alla Costituzione, ai decreti legislativi luogotenenziali, ai decreti di attuazione degli statuti speciali ed infine in riferimento ai poteri del Governo in caso di avvenuta dichiarazione dello stato di guerra.

I testi unici sono atti mirati a ristabilire unità e uniformità nella disciplina di un certo settore dell’ordinamento, raccogliendo e riformulando una massa di disposizioni relative a una determinata materia che si sono succedute nel tempo e che sono disperse tra una pluralità di fonti legislative di varia natura e di vario contenuto[215]. Il Governo, infatti, viene a volte delegato da una legge di base, a volte autorizzato o altrimenti incaricato alla compilazione di un determinato testo unico.

Tuttavia bisogna distinguere tra testi unici meramente compilativi e testi unici di coordinamento. Mentre i secondi hanno la finalità di coordinare una determinata materia, potendola anche innovare, i primi hanno invece lo scopo di coordinare la materia tuttavia senza poterla innovare[216].

Nel  caso dei testi unici di coordinamento si può parlare di delegazione legislativa anomala, poiché, se da un lato le relative leggi di delega, in modo particolare nel passato, non stabilivano i principi e i criteri direttivi, dall’altro i decreti del Governo assumevano comunque la forma di decreti legislativi dotati di forza di legge in quanto, altrimenti, i suddetti decreti non avrebbero avuto la capacità di abrogare quelle disposizioni legislative contrastanti con le esigenze di coordinamento e di armonizzazione del settore[217]. Tanto che la Corte costituzionale nella sent. n. 16 del 1957 ha affermato che la mancanza di principi e criteri direttivi nella legge di delega non rappresentava un ostacolo, in quanto risultava implicito che il Governo dovesse ricavarli adottando disposizioni conformi ai principi desumibili dalle stesse normative oggetto dell’opera di coordinamento, di armonizzazione e di integrazione.

Mentre nel caso dei testi unici meramente compilativi la Corte costituzionale ha affermato nelle sentt. nn. 54 del 1957 e 46 del 1969[218] che suddetti testi unici sono il frutto di una semplice potestà amministrativa, poiché si tratterebbe di atti che perseguono una funzione informativa ma incapaci di novare la fonte delle disposizioni legislative riprodotte, perché privi della forza e del valore delle leggi[219]. I testi unici compilativi sono stati dunque considerati come una semplice fonte di cognizione e come tali non vincolanti per i giudici, i quali avrebbero sempre il potere di disapplicare una disposizione in essi contenuta qualora la ritengano difforme dalla disposizione legislativa originaria che sarebbe dovuta essere riprodotta in modo preciso[220]. Per contro, secondo una parte della dottrina, anche questi testi sarebbero legislativi ed avrebbero dunque l’effetto di abrogare l’intera disciplina previgente in quel settore dell’ordinamento[221].

A questi due tipi di testi unici sopra analizzati si affiancano anche i testi unici c.d. misti che hanno ad oggetto il coordinamento non soltanto di disposizioni legislative ma anche di disposizioni regolamentari[222].

La scelta di fondere in un unico corpo disposizioni di rango diverso aveva suscitato numerose perplessità in dottrina, soprattutto per la problematica collocazione di tale atto nel sistema delle fonti e per le difficoltà di definirne l’efficacia[223].

È comunque pacifico in dottrina che non siano riconducibili ad alcuna forma di delegazione legislativa e rientrino, quindi,  nella categoria dei testi unici meramente compilativi[224].

Ancora più critica è la situazione dei codici di settore. La legge n. 229/2003 conferiva la Governo una delega per la realizzazione di codici destinati ad operare il riassetto normativo in determinate materie e settori[225], aprendosi in tal modo la stagione della codificazione che ha visto succedersi l’approvazione dei codici dell’amministrazione digitale, del consumo e delle assicurazioni private[226]. Tuttavia, a prescindere dell’obiettivo di riorganizzare le fonti di regolazione e di ridurre il loro numero, così da avere un quadro preciso delle regole che disciplinano un determinato settore, la nuova codificazione appare molto diversa dall’operazione che era stata avviata e conclusa con i testi unici misti poiché, i testi unici misti avevano lo scopo di creare una legislazione ibrida, mentre nel caso dei codici di settore, la delega che viene data al Governo è molto più ampia poiché consente all’Esecutivo non soltanto di apportare modifiche di coordinamento, ma anche di innovare la disciplina dei settori dell’ordinamento sui quali è chiamato ad intervenire[227]. Inoltre, i poteri che vengono affidati al Governo sono tanto più ampliati se si pensa che tali codici prevedono interventi di “manutenzione” continua nel breve periodo, affidando in tal modo al Governo la possibilità di poter intervenire in modo ripetuto attraverso decreti legislativi integrativi e correttivi[228]. È proprio in questo contesto che assume particolare rilevanza la consulenza del Consiglio di Stato, poiché l’art. 20, comma 3, lettera a) della legge n. 59 del 1997, così modificato dalla legge n. 229 del 2003, prevede l’obbligo del parere sugli schemi di decreti legislativi di codificazione, inserendosi su quanto previsto dall’art. 14 del r.d. n. 1054 del 1924 e dall’art. 17, comma 25, della legge n. 127 del 1997. In tal modo la consulenza del Consiglio di Stato va a costituire uno snodo fondamentale nel procedimento di formazione dei decreti legislativi di riassetto o codici[229]. ‹‹Tutto ciò si desume anche dall’ampio ricorso a pareri interlocutori, che permettono all’organo consultivo di intrecciare un fitto dialogo con l’esecutivo››[230].

Con la legge n. 246/2005[231] (legge di semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005) si è ulteriormente sviluppato il ricorso ai codici di settore e previsto un meccanismo di vero e proprio “disboscamento” della legislazione: il c.d. taglia-leggi[232].

Si tratta di una soluzione chiamata a realizzare una drastica riduzione della normazione legislativa, attraverso una clausola abrogativa generalizzata riguardante tutte le disposizioni statali entrate in vigore prima del 1° gennaio 1970. Nel complesso sistema delineato il ruolo che il legislatore ha inteso assegnare alla delega legislativa è essenzialmente quello di ‹‹mezzo deputato ad evitare il prodursi di una indiscriminata caducazione della disciplina suddetta […], ascrivendo al Governo il compito di adottare decreti legislativi aventi la funzione specifica di individuare le disposizioni legislative da sottrarre alla clausola››[233]. Insomma, la delega viene prescelta come ‹‹una sorta di cabina di regia della più vasta ed articolata operazione di “disboscamento” legislativo mai tentata prima nel nostro ordinamento››[234].

Lo scopo del taglia-leggi è duplice: da un lato, diminuire il numero delle norme esistenti, dall’altro, facilitare la conoscenza delle norme. A questo fine, è previsto anche un meccanismo di riordino, attraverso la redazione di testi normativi raggruppati per materia (in questo modo, infatti, una pluralità di leggi con lo stesso oggetto, confluiscono in un unico testo o codice).

Difatti, il comma dodicesimo dell’art. 14 l. n. 246, chiamava il Governo a provvedere, «entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, […ad individuare], le disposizioni legislative statali vigenti, evidenziando le incongruenze e le antinomie normative relative ai diversi settori legislativi, e trasmette[re] al Parlamento una relazione finale». E ciò, allo scopo «di procedere all’attività di riordino normativo prevista dalla legislazione vigente».

In sostanza, si chiedeva all’Esecutivo di effettuare un generale censimento della normazione primaria statale ancora vigente, su ci si sarebbe basata l’operazione di riassetto generalizzato della legislazione delineata nella stessa legge.

Il successivo comma quattordicesimo della suddetta legge, delega il Governo ad adottare, entro «ventiquattro mesi dalla scadenza del termine di cui al comma 12, con le modalità di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, [..] decreti legislativi che individuano le disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al 1º gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi, delle quali si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, nel rispetto dell’articolo 1, comma 2, espressamente a tutte le disposizioni legislative statali; inoltre è caratterizzata dal limite temporale delle disposizioni anteriori al 1° gennaio 1970».

Tuttavia, è nel comma sedicesimo dell’art. 14 della legge che risulta introdotto il vero e proprio strumento di riordino normativo, là ove si prescrive che, decorso il termine per l’attuazione della delega, «tutte le disposizioni legislative statali pubblicate anteriormente al 1º gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi» – qualora ovviamente non rientranti fra quelle indispensabili – «sono abrogate». Tale clausola è nota come clausola taglia-leggi.

Il quadro si chiude con la previsione, al comma diciottesimo, di una delega che abilita il Governo a adottare, nel termine di due anni dalla entrata in vigore dei decreti di attuazione della delega principale, nuovi decreti legislativi contenenti “disposizioni integrative o correttive”, nel rispetto di questi stessi principi e criteri di quest’ultima, nonché dietro un previo parere espresso da una Commissione parlamentare bicamerale costituita ad hoc dalla legge.

Come si evince dall’art. 14 della legge n. 246 del 2005, diverse sono deleghe legislative contenute all’interno del medesimo, si tratta: a) della delega salvifica delle disposizioni indispensabili (comma 14); b) della delega al riassetto della disciplina legislativa salvata (comma 15); c) della delega correttiva di quella sub a) (comma 18)[235].

Certo è che nel meccanismo c.d. taglia-leggi – come afferma la dottrina − si possono ritrovare delle criticità, riguardati sia i profili di legittimità costituzionale che i rapporti fra fonti del diritto[236].

Da un punto di vista, infatti, è chiaro che il taglia-leggi non sembra altro che estremizzare le caratteristiche proprie delle deleghe per la codificazione settoriale: risulta chiaro il suo intento di semplificazione, in linea con quanto avviene con la codificazione di settore. Tuttavia, si possono ravvisare delle problematiche rispetto all’art. 76 Cost., poiché ci si trova davanti ad una delega sprovvista di oggetto (inteso nel senso classico) o comunque davanti alla definizione di un obiettivo, di un fine di carattere generale, piuttosto che al conferimento della funzione normativa in un ambito determinato[237].

È stato infatti in tal senso affermato che ‹‹le incognite non riguardano soltanto la questione della sua […] perimetrazione, ma investono più direttamente il problema della definizione della sua natura (e funzione), […] in quanto, pur se circoscritto […], l’ambito della delega appare estremamente ampio ([…] oggettivamente imprecisato), dovendosi essa estendere a (quantomeno potenzialmente) riordinare tutta la legislazione statale anteriore al 1970, senza altra ulteriore delimitazione […] del proprio oggetto. Senonché, l’estrema latitudine di quest’ultimo pone un serio interrogativo circa la compatibilità con un intervento di riassetto normativo in senso pieno››[238]. È opportuno, infatti, sottolineare che la Corte costituzionale nella sentenza n. 170 del 2007 ha osservato che, in ipotesi di deleghe finalizzate al riassetto della normativa, l’intervento del legislatore delegato può spingersi alla «introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente soltanto se siano stabiliti principi e criteri direttivi volti a definire in tal senso l’oggetto della delega ed a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato».

Inoltre è stato osservato, in rapporto alla natura delle norme precedenti al 1970 e alla natura di intervento abrogativo della norma taglia-leggi, che o le norme vengono rimosse in quanto ritenute inattuali e cadute in desuetudine e  quindi l’abrogazione è inutile, in quanto interverrebbe su norme inefficaci, oppure l’abrogazione interviene in senso generalizzato, anche su norme pienamente efficaci al giorno d’oggi e quindi ‹‹l’operazione di “salvataggio” delle norme da lasciare in vigore assume ancora più rilevanza, caratterizzandosi […] come intervento di legislazione negativa››[239].

Tuttavia, la dottrina afferma che ‹‹ancor più fitte sono le nubi che si addensano sull’altra delega››[240] prevista dalla legge n. 246 del 2005 che si aggiunge a quella principale.  È stato, infatti, previsto che nel termine dei due anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 14, il Governo possa emanare, delle disposizioni integrative o correttive, nel rispetto degli stessi principi e criteri direttivi della delega principale.

Sul punto è stato sottolineato che ‹‹sia nell’eventualità di una correzione “per togliere”, che in quella “per aggiungere”, è evidente che il decreto legislativo correttivo sarebbe verosimilmente chiamato a spiegare vis normativa: nell’un caso, più che correggere il decreto originario, dovendo direttamente abrogare la disposizione legislativa sopravvissuta; nell’altro, dovendone ripristinare l’efficacia. Sia nell’uno, che nell’altro – se non nell’ipotesi assai difficile di un intervento correttivo che preceda la scadenza biennale per l’abrogazione generalizzata – il legislatore delegato in correzione si troverebbe ad operare ad abrogazione generalizzata già avvenuta, quindi ad effetto taglia-leggi già prodotto. Ma in tal modo, […], la delega correttiva-integrativa finirebbe per attribuire al legislatore delegato un quid pluris assolutamente sconosciuto allo stesso in sede di attuazione della delega principale, cioè l’esercizio sostantivo di potestà normativa che, nel prefigurato meccanismo di semplificazione, è appannaggio della legge e non dei decreti delegati. A questi ultimi, infatti, il comma 14 attribuisce esclusivamente la funzione di individuare le disposizioni da sottrarre all’effetto di abrogazione generalizzata che, però, non è imputato ai decreti, ma discende direttamente dal comma 16 dell’art. 14 della legge n. 246››[241].

Questi e moltissimi altri sono i problemi e le perplessità che ha suscitato la legge n. 246 del 2005[242], tuttavia − nonostante si presenti come  ‹‹uno strumento altamente problematico, molto più ricco di ombre che di luci›› e difficilmente compatibile col modello costituzionale della delega legislativa[243]− tale legge ha portato ad un’articolata operazione di “disboscamento” legislativo (mai tentata prima) di 3.370 atti legislativi, comprendente disposizioni di leggi sia anteriori che posteriori al 1970; di cui 2514 sono quelle anteriori.

Passiamo ora a analizzare la problematica dei c.d. regolamenti delegati (o di delegificazione), infatti, a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 400/88 è aumentato il numero di leggi che, oltre a conferire al Governo deleghe legislative, autorizzano l’Esecutivo all’adozione di regolamenti c.d. delegati. La delegificazione si caratterizza per il trasferimento da parte del legislatore di una materia o parte di materia ad una sede diversa da quella legislativa, quella della normazione di rango secondario.

Tali atti però hanno creato una serie di problemi soprattutto in riferimento alla delega legislativa in quanto, attraverso il loro utilizzo si è finito per aggirare i limiti e i divieti stabiliti a tal proposito dalle norme di grado costituzionale[244]. Infatti, nell’ambito delle deleghe normative, si è assistito ad una assimilazione contenutistica tra legge di delega e legge di delegificazione, tanto che non è agevole molte volte sostenere che i regolamenti c.d. delegati appartengano alla normazione secondaria a differenza dei decreti legislativi dotati di forza di legge[245].

La delegificazione è prevista oggi dall’art. 17, comma 2, della l. n. 400/1988 il quale prevede che nelle materie non coperte da riserva assoluta di legge la legge possa autorizzare il Governo ad adottare regolamenti in delegificazione, determinando previamente le norme generali regolatrici della materia e disponendo l’abrogazione delle norme vigenti con l’effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari (c.d. abrogazione differita)[246]. Riassumendo, la legittimità dei regolamenti in delegificazione in base alla legge n. 400/1988 è subordinata alla presenza dei seguenti requisiti: 1) l’assenza di riserva assoluta di legge; 2) l’autorizzazione legislativa all’esercizio della potestà regolamentare; 3) la determinazione nella legge di delegificazione delle norme generali regolatrici della materia e 4) la contestuale abrogazione delle norme vigenti con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari.

Queste norme di legge dunque, abilitano l’autorità governativa a regolare, modificare ed aggiornare una certa materia la cui disciplina è posta da una disposizione di grado primario e eventualmente anche superando quest’ultima[247].

Tuttavia nella prassi ci si è allontanati dal modello così delineato; in particolar modo si è assottigliata la differenza tra i principi e i criteri direttivi della delega legislativa e le norme generali regolatrici della materia da disciplinare con i regolamenti in delegificazione; inoltre, è addirittura progressivamente scomparsa l’abrogazione espressa da parte della legge di autorizzazione delle disposizioni legislative riguardati la materia da delegificare, risultando l’abrogazione direttamente imputata al regolamento[248].

Tanto che è stato affermato che ‹‹fin dove si riscontri che le stesse leggi di conferimento del potere regolamentare individuano con sufficiente  precisione le disposizioni legislative derogabili o modificabili all’atto dell’entrata in vigore dei regolamenti, nonché i presupposti della deroga o della modifica, gli effetti innovativi conseguenti si prestano bene a venir ricondotti alle leggi di base, ed in tal senso ritrovano la loro giustificazione. Al di là di questo, viceversa, il regolamento delegato non è più difendibile; e prima ancora è viziata la legge attributiva, sulla quale si può dunque concentrare il sindacato della Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 77, comma 1, Cost.››[249].

Certo è che ‹‹comunque si voglia ricostruire dommaticamente la fattispecie, certo è che la categoria dei regolamenti delegati è ammissibile e compatibile con il sistema solo a condizione di riconoscere a tali atti una posizione complessivamente e visibilmente inferiore a quella dei decreti legislativi››[250].

Che vi sia differenza fra i due tipi di atti è inoltre confermato dal fatto che il regolamento delegato presuppone la determinazione dei principi da parte di un atto con valore di legge (art. 17, comma 2, l. n. 400 del 1988) ma, questo non può, a differenza del decreto legislativo, considerarsi avente forza di legge né disciplinare materia coperta da riserva assoluta di legge (art. 17, comma 2, l. n. 400 del 1988); non può contribuire alla formazione di principi della materia o dell’ordinamento, né alla determinazione dell’interesse nazionale e neanche alla limitazione delle competenze regionali[251]. Inoltre, un’ultima e ulteriore conferma sulla differenziazione tra tali atti è ricavabile dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale si è finora rifiutata di estendere il sindacato di legittimità ai regolamenti delegati[252]; tanto che allo stato delle cose, il controllo sulla conformità dell’atto ai parametri stabiliti dalla legge spetta al giudice comune, infatti, il giudice ordinario potrà disapplicare il regolamento in violazione di legge, mentre il giudice amministrativo potrà direttamente annullarlo[253].

Passiamo a trattare delle deleghe di coordinamento e di attuazione, quale figura particolare di delegazione legislativa, poiché oltre ai normali limiti e criteri fissati dall’art. 76 Cost., tali deleghe presentano ulteriori limitazioni. È stato costantemente affermato, infatti, che i principi di tali deleghe devono essere desunti dalla legislazione preesistente, poiché è stato escluso che il Governo in sede di coordinamento e attuazione possa sopprimere o limitare diritti riconosciuti dalla normativa previgente[254]

Come chiarisce la stessa Corte costituzionale (sentt. nn. 16/1957, 24/1959, 34/1960, 28/1961, 243/1969), l’esigenza di una delega di coordinamento nasce soltanto qualora sia ravvisabile uno scoordinamento fra le norme generali e speciali; dunque non è sufficiente il semplice carattere derogatorio di una norma per giustificare il coordinamento, occorre appunto una disarmonia[255].

Mentre le deleghe di attuazione, come dice la stessa Corte costituzionale nella sent. n. 34/1960, consentono di innovare solo con precetti che accedono a norme della legislazione preesistente[256].

In definitiva quindi ‹‹i decreti di mero coordinamento ed attuazione sono vincolati a ben più che ai principi della legislazione in vigore ma anche a tutte quelle norme che non richiedono di essere coordinate e non abbisognano di essere attuate››[257].

In ultima analisi passiamo a trattare brevemente, quali figure parzialmente affini alla delegazione legislativa, delle deleghe anteriori alla Costituzione, dei decreti legislativi luogotenenziali e dei decreti di attuazione degli statuti speciali.

Partendo dalle deleghe anteriori alla Costituzione, la Corte costituzionale nel controllo dei rispettivi decreti legislativi ha ritenuto non applicabile l’art. 76 Cost., affermando che questi sono sindacabili alla stregua dei principi fondamentali dello Stato di diritto[258].

Così come non è possibile assimilare alla delega legislativa i decreti legislativi luogotenenziali e (dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III) i regi decreti legislativi, emanati in base al d.legisl.luog. 25 giugno 1944, n. 151 ed al d.legisl.luog. 16 marzo 1946, n. 98, non essendo stato esercitato in quella fattispecie un potere attribuito dal Parlamento e assunto dal Governo[259]. ‹‹Più realistico è dire che si tratta di atti con forza di legge legati ad una Costituzione provvisoria e traenti legittimazione dalla necessità come fonte autonoma di diritto››[260].

In ultima analisi, quanto ai decreti di attuazione degli statuti, bisogna constatare che questi sono decreti anomali, in quanto nel vigente ordinamento non sono previsti decreti legislativi adottati nell’esercizio di competenze statali permanenti, eccetto che in materia di attuazione degli statuti speciali[261]. Con tali decreti, infatti, afferma la stessa Corte costituzionale, viene esercitata una competenza legislativa permanente, non dovendosi ritenere perentori i termini talvolta previsti per la loro emanazione[262]; sostiene, inoltre, sempre la Corte che esercitano inoltre una competenza ‹‹riservata›› e dunque, nel loro ambito, prevalgono sulla legge ordinaria[263]. Ovviamente, tali decreti sono sindacabili dalla Corte costituzionale.

15.1. I poteri del Governo nella gestione dei conflitti armati

Come è noto l’art. 78 Cost. stabisce che ‹‹Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari››, mentre l’art. 87, comma 9, Cost. sancisce che il Presidente della Repubblica ‹‹ha il comando delle forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere››.

Dalle indicazioni costituzionali deriva dunque, in primo luogo, la legittimità di una guerra soltanto difensiva, come si evince dall’art. 11 Cost., in secondo luogo che la dichiarazione di guerra effettuata dal Capo dello Stato presuppone una previa deliberazione parlamentare, infine che il conferimento al Governo dei poteri “necessari” deve, a sua volta, essere preceduto dalla deliberazione dello stato di guerra internazionale e quindi esso non è effettuabile al di là di tale ipotesi[264].

Tuttavia, diversi sono stati anche gli interrogativi su quale sia l’organo competente a conferire al Governo i poteri necessari, se tale organo siano le Camere riunite, ovvero il Parlamento in seduta comune, ovvero le singole Camere chiamate a pronunciarsi in successione temporale. La maggior parte della dottrina si è espressa nel senso che, stante il disposto dell’art. 55, comma 2, Cost., il quale prevede che il Parlamento si riunisca in seduta comune nei soli casi stabiliti dalla Costituzione, si è ritenuto che il procedimento disciplinato dall’art. 78 Cost. debba ispirarsi a quello legislativo ordinario (anche se, con una maggiore velocità di tempi)[265].

Tuttavia, analizzando l’art. 78 Cost., bisogna sottolineare come tale articolo è stato interpretato dalla dottrina in due modi differenti. Secondo una prima tesi, il conferimento al Governo dei poteri necessari si configurerebbe come una delega legislativa, anche se anomala, poiché l’imprevedibilità delle esigenze belliche, esclude di per sé il rispetto dei limiti previsti dall’art. 76 Cost. e questo avverrebbe sia per l’ampiezza dell’oggetto, sia per la probabile accentuata genericità dei principi e dei criteri direttivi (difficilmente prefigurabili in astratto), sia ancora, per l’impossibilità di apporre un termine (che non può non coincidere con la fine delle operazioni militari) [266]. Secondo una seconda tesi, invece, la legge di conferimento dei poteri esercitabili dall’Esecutivo in tempo di guerra andrebbe ricostruita come un’autorizzazione all’esercizio di una potestà legislativa straordinaria, effettuabile mediante decreti-legge anomali, assoggettabili all’obbligo di conversione, ma svincolati dal rispetto del termine previsto dall’art. 77 della Costituzione[267]. Tuttavia, secondo un’altra tesi, sarebbe più opportuno intervenire mediante deliberazioni non legislative, magari attraverso il voto su mozioni o risoluzioni parlamentari che approvano le deliberazioni dell’Esecutivo in tema di difesa e sicurezza, in quanto queste consentano un maggior rispetto delle competenze parlamentari attribuite alle Camere dalla l. n. 25 del 1997 e del principio della riserva parlamentare di decisione[268].

La principale differenza tra le due prime tesi riguarda l’incisività ed i tempi di intervento del Parlamento: infatti, nel primo caso si definiscono preventivamente e in positivo i poteri esercitabili dal Governo mediante successivi decreti legislativi, sia pure in senso lato, data la non operatività dei limiti previsti dall’art. 76 Cost.; mentre  nel secondo caso appare molto generico sia il momento iniziale dell’autorizzazione (per l’indeterminatezza del termine) sia il momento successivo di controllo sui decreti-legge adottati dall’Esecutivo, quando si dovrà negare o approvare la conversione di questi ultimi[269].

La parte della dottrina che afferma l’utilizzo del il decreto-legge sostiene che la decretazione d’urgenza è l’unica fonte primaria a poter essere adottata in tempi molto ravvicinati e veloci; mentre se si ragionasse diversamente, vi sarebbe il rischio che ‹‹una volta preclusa la via della decretazione d’urgenza disciplinata dall’art. 77 Cost., si schiuda la strada […] del ricorso […] all’adozione di provvedimenti del tutto extra ordinem››[270]. In tal senso sembra essersi espressa la Corte costituzionale, trovandosi a giudicare sulla legittimità costituzionale di un decreto-legge (il d.l. n. 625/1979, convertito dalla legge n. 15/1980), varato al culmine del periodo dell’emergenza, che aumentava fortemente i termini di custodia cautelare: affermò in quell’occasione che il decreto-legge non poteva essere ritenuto incostituzionale, in quanto giustificato dalla ratio dell’emergenza che può legittimare “misure insolite” che tuttavia ‹‹perdono di legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo››[271].

Tuttavia, la maggior parte della dottrina opta per la tesi della qualificazione del potere che viene attribuito al Governo come una delega anomala, basando le proprie argomentazioni sul ruolo di maggiore incisività che verrebbe così attribuito al Parlamento in via preventiva e la maggiore libertà d’azione che ne deriverebbe al Governo dall’operare mediante decreti legislativi, piuttosto che mediante decreti-legge (poiché i primi sono atti definitivi, mentre i secondi sono atti provvisori)[272]

Di fatto rimane l’assenza di una decisione della Corte costituzionale sulla qualificazione dei poteri affidati al Governo in caso di deliberazione dello stato di guerra come decreti-legge o come decreti legislativi anomali, mancanza che evidentemente dipende dal fatto di non essersi mai verificata alcuna situazione di stato di guerra nell’Italia repubblicana.

È stato inoltre osservato che gli atti adottati dall’Esecutivo in tempo di guerra, siano essi qualificati come decreti legislativi o come decreti-legge anomali, oltre ad avere la normale forza di legge, possono anche derogare norme costituzionali senza ricorrere in modo necessario allo strumento della revisione costituzionale (come nel caso in cui fosse necessario sospendere taluni diritti di libertà garantiti dalla Costituzione)[273]. Tuttavia, parte della dottrina considera legittima l’adozione di una legge costituzionale ad hoc che sospenda temporaneamente alcune garanzie costituzionali, nonostante risulti evidente che i tempi richiesti dall’art. 138 Cost. sono difficilmente compatibili con l’adozione tempestiva di atti urgenti[274]. Mentre un’altra parte della dottrina per cercare di conciliare le esigenze di rapidità dell’adozione degli atti ritenuti necessari con quelle dell’art. 138 Cost. ha sostenuto l’ammissibilità del ricorso ai decreti-legge e la loro successiva conversione in legge costituzionale[275]. Tuttavia, a tale tesi è stato obiettato che un procedimento del genere risulterebbe del tutto extra ordinem, dato che, anche nell’ipotesi di approvazione della legge costituzionale di conversione senza il ricorso al referendum (ovvero con la maggioranza dei 2/3 dei componenti nella seconda deliberazione da parte di ciascuna Camera), questa interverrebbe necessariamente dopo i sessanta giorni di vigenza del decreto previsti dall’art. 77 Cost.[276].

Inoltre una parte della dottrina afferma la possibilità di estensione dell’art. 78 Cost. anche a situazioni di conflitto interno e internazionale diverse dalla guerra internazionale, sostenendo che tale disposizione sancisce comunque il primato del Parlamento quale unico organo abilitato a deliberare lo stato di emergenza e rilevando inoltre che l’art. 165 del c.p.m.g. afferma che ‹‹le disposizioni del presente titolo si applicano in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra››[277]; tuttavia, un’altra parte della dottrina esclude tale possibilità sulla base dei lavori preparatori dell’art. 78 Cost., affermando che questi sembrano riferirsi esclusivamente a uno stato di conflitto bellico, ma soprattutto sostenendo che il termine ‹‹guerra›› anche in altre parti della Costituzione sembra essere utilizzato soltanto con questa accezione (come nell’art. 11, comma 1, Cost. e nell’art. 87, comma 9, Cost.)[278].

Certo è che nell’ordinamento precostituzionale per fronteggiare le situazioni di necessità e urgenza erano utilizzati gli strumenti delle ordinanze[279].

Tra queste la più significativa era l’art. 2 del t.u. delle leggi di pubblica sicurezza del 1931, secondo il quale ‹‹il prefetto, nel caso di urgenza o grave necessità pubblica, ha la facoltà di adottare provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza››. Tale disposizione, dichiarata in un primo momento conforme alla Costituzione dalla Corte costituzionale nella sent. n. 8/1956, è stata successivamente dichiarata incostituzionale con la sent. n. 26/1961, sia pure soltanto nell’ipotesi in cui il potere di ordinanza sia esercitato in contrasto con la Costituzione o con le leggi emanate in materie coperte da riserva di legge, anche se relativa.

Con questi limiti (quindi senza che possano derogare alla Costituzione), le ordinanze di necessità sono rimaste nel nostro ordinamento. Esse sono provvedimenti amministrativi adottati per fronteggiare situazioni di grave pericolo(per la salute, per l’incolumità del cittadini, per l’ambiente). La caratteristica di questi atti, che hanno efficacia temporanea, è quella di poter derogare anche alle prescrizioni legislative vigenti, con il solo limite dei principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. La legittimità si tali atti è fatta risalire ad un’espressa manifestazione di volontà in tal senso del legislatore, ove si ritiene che esso possa autorizzare gli organi amministrativi, in casi di assoluta necessità, a derogare temporaneamente alle disposizioni dotate di forza di legge. Tale fenomeno è da molti assimilato alla delegificazione[280].

15.1.1. I rapporti intercorsi fra le Camere e il Governo nelle crisi internazionali del Golfo persico, Kosovo e Afghanistan

Per vedere effettivamente quale forma hanno assunto gli atti che sono stati adottati dall’Esecutivo, ci soffermeremo in questa sede sul modulo procedurale concretamente seguito dal Governo e dal Parlamento nelle missioni militari in Iraq (1990), Kosovo (1999) e Afghanistan (2001)[281].

Dall’analisi delle tre operazioni militari, emerge sia la mancata attuazione  della previsione dell’art. 78 Cost. che l’impossibilità di rintracciare un modello decisionale conforme a quanto è disposto dalla lett. a) del primo comma dell’art. 1 della legge n. 25 del 1997, la quale afferma che ‹‹[Il Ministro della difesa…] attua le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal Governo, sottoposte all’esame del Consiglio Supremo di difesa e approvate dal Parlamento››[282].

Quanto alle modalità delle relazioni intercorrenti fra il Governo e le Camere in queste operazioni, è stato utilizzato lo strumento della comunicazione alle Commissioni difesa e affari esteri riunite di Camera e Senato, circa l’informazione costante dell’evolversi delle operazioni da parte del Governo, mentre sono state convocate le Camere soltanto in occasione degli snodi più critici o comunque dei passaggi più rilevanti delle crisi[283].

Bisogna sottolineare, proprio a fronte del dibattito dottrinale sulla qualificazione dei poteri dell’Esecutivo come decreti legislativi o decreti-legge, che gli interventi avvenuti in queste tre missioni militari si sono conclusi in realtà con semplici deliberazioni di indirizzo politico, cioè con un voto su mozioni o risoluzioni presentate[284].

Inoltre in nessuna delle tre vicende il Parlamento ha dato il proprio consenso alla missione attraverso la conversione dei decreti-legge presentati dal Governo. Mentre la partecipazione italiana alle missioni militari, sia nel Golfo persico che nel conflitto in Afghanistan, è stata sottoposta al previo vaglio delle Camere, che hanno espresso il proprio consenso mediante l’approvazione di proposte di risoluzione a conclusione del dibattito parlamentare sulle comunicazione del Governo, nel caso, invece, dell’operazione militare del Kosovo, si è registrato un assenso parlamentare intervenuto solo a missione già iniziata e con diversi mesi di ritardo rispetto alla decisione italiana di aderire all’emanazione del c.d. ordine di attivazione da parte della NATO nei confronti della Serbia[285].

Insomma, quel che sembra prevalere, anche dopo l’entrata in vigore della l. n. 25 del 1997, è l’idea di un coinvolgimento parlamentare inteso solo come assenso all’indirizzo complessivo dell’azione di Governo nella gestione delle crisi internazionale[286]; riducendo dunque a pura dottrina tutte le precedenti teorie analizzate sulla qualificazione dei poteri (come decretazione d’urgenza o delegazione legislativa) dell’Esecutivo esercitati in caso di conflitti armati.

Ad ogni modo, attraverso l’autorizzazione all’impiego delle forze armate nei conflitti militari mediante l’approvazione di atti di indirizzo politico, si attua un processo decisionale ‹‹perlomeno […] più rapido, ugualmente trasparente e conoscibile e sicuramente [con] minori rigidità procedurali rispetto al più definito procedimento legislativo››[287].

L’interrogativo che ci si è posti è se la legge imporrebbe veramente qualcosa in più rispetto a una deliberazione non legislativa; certo è che vi sarebbe un controllo del Presidente della Repubblica anche nel caso di un’autorizzazione parlamentare in forma non legislativa, visto che l’art. 1 della l. n. 25 del 1997 prevede che le deliberazioni del Governo in tema di difesa e sicurezza da approvarsi da parte della Camere vengano sottoposte all’esame del Consiglio supremo di difesa, organo la cui presidenza spetta secondo quanto disposto dalla Costituzione proprio al Capo dello Stato.

16. Analisi grafica singola e incrociata della produzione della legge ordinaria, dei decreti legislativi e dei decreti-legge dalla XII alla XVII Legislatura e cenni alla XVIII Legislatura

In questo paragrafo si propone un’analisi grafica sia singola che incrociata sull’utilizzo degli strumenti normativi[288]. In particolar modo sono stati confrontati i dati della produzione delle leggi ordinarie, dei decreti legislativi e dei decreti-legge; a tal fine sono stati utilizzati i dati a partire dalla XII Legislatura fino ad arrivare alla XVII Legislatura[289].

Tale analisi ha il preciso fine di andare a verificare effettivamente e in quale misura oggi si possa parlare di abuso della delegazione legislativa, in quale Legislatura si sia registrato un maggiore uso di tali strumenti “equiparati” alla legge ordinaria e se realmente ed entro quali limiti oggi possiamo affermare che il Parlamento abbia lasciato la scena di legislatore primario dello Stato e abbia affidato tale ruolo al Governo.

Possiamo dividere tale analisi in due parti: in un primo momento si è proceduto a un’analisi sia singola che incrociata fra l’utilizzo della legge ordinaria, del decreto legislativo e del decreto-legge, mentre successivamente, riflettendo sui dati ricavati si è depurato il dato relativo all’utilizzo della legge ordinaria dalla normativa frutto di un’iniziativa legislativa vincolata. I risultati ricavati da questo secondo studio hanno completamente capovolto i risultati a cui, in primo momento, si era giunti.

Prima di procedere a tale analisi, è opportuno precisare che, volendo effettuare un’indagine che tendesse il più possibile alla completezza, i dati che vengono di seguito riportati non comprendono la produzione normativa che è stata “trascinata” da una Legislatura all’altra.

Di seguito vengono riportati in tabella i dati relativi alla produzione della legge ordinaria (tale dato comprende sia la legge avente iniziativa legislativa vincolata che quella avente iniziativa legislativa non vincolata), dei decreti legislativi e dei decreti-legge dalla XII alla XVII Legislatura[290].

 

Totale

Leggi

ordinarie

Media mensile

Totale

Decreti legislativi

Media mensile

Totale

Decreti-legge

Media mensile

XII Legisl.

295

11,8

52

2,8

183

7,3

XIII Legisl.

906

15,1

378

6,3

204

3,4

XIV Legisl.

686

11,6

236

4

216

3,6

XV Legisl.

112

4,6

114

4,7

48

2

XVI Legisl.

391

6,6

230

3,8

115

1,9

XVII Legisl.

339

6,1

211

3,8

100

1,8

Di seguito vengono riportati in tabella i dati relativi alla produzione della legge ordinaria a iniziativa legislativa non vincolata, dei decreti legislativi e dei decreti-legge dalla XII alla XVII Legislatura.

 

Totale

Leggi ordinarie a iniziativa legislativa

non vincolata

Media mensile

Totale

Decreti legislativi

Media mensile

Totale

Decreti-legge

Media mensile

XII Legisl.

50

2

52

2,8

183

7,3

XIII Legisl.

409

6,8

378

6,3

204

3,4

XIV Legisl.

221

3,7

236

4

216

3,6

XV Legisl.

28

1,1

114

4,7

48

2

XVI Legisl.

113

1,9

230

3,8

115

1,9

XVII Legisl.

86

1,5

211

3,8

100

1,8

Per quanto riguarda analisi singola dei vari strumenti normativi, come risulta evidente dale rappresentazioni tabulari sopra realizzate, si evince che la produzione della legge ordinaria, del decreto legislativo e del decreto-legge non hanno tendenzialmente mai registrato un andamento omogeneo, subendo nelle varie Legislature una diversa modulazione di produzione. Tuttavia, una peculiarità che si ritiene opportuno segnalare è che a partire dalla XVI Legislatura i dati relativi alla produzione dei vari strumenti normativi sembrano registrare una tendenziale stabilizzazione.

Passando ora ad effettuare un’analisi incrociata di questi strumenti normativi, si evince che: da un lato la produzione della legge ordinaria (considerando sia quella a iniziativa legislativa vincolata che quella non vincolata), nelle Legislature analizzate, è stata sempre tendenzialmente superiore rispetto a quella dei decreti legislativi e dei decreti-legge, arrivando solo nella XV Legislatura ad eguagliare quella dei decreti legislativi[291] mentre, dall’altro invece per quanto riguarda l’incidenza della produzione dei decreti legislativi rispetto a quella dei decreti-legge, si è sempre verificata la prevalenza dei primi rispetto ai secondi, ad eccezione della XII Legislatura ove si è verifico il fenomeno opposto e della XIV Legislatura ove tali atti si sono tendenzialmente eguagliati[292].

Tuttavia, volendo svolgere un’indagine che tendesse il più possibile alla completezza, ci si è domandato quanto effettivamente la produzione della legge ordinaria fosse frutto di una  “volontà” normativa del Parlamento e non di un semplice “dovere legislativo”. Tentando di dare delle risposte a tale interrogativo, il dato relativi alla produzione della legge ordinaria è stato “depurato” da quello frutto di un’iniziativa legislativa vincolata e così facendo gli esiti a cui in un primo momento si era giunti si sono completamente capovolti.

Da tale analisi, infatti, si evince che la produzione dei decreti-legge non è più inferiore – come analizzato in precedenza – rispetto a quella della legge ordinaria, ma “depurando” tale dato dalla normativa vincolata, la produzione dei decreti-legge in tre Legislature (la XIV, la XVI e la XVII) eguaglia quella della legge ordinaria non vincolata, mentre nella XV Legislatura la supera quasi del doppio e nella XII Legislatura la supera del triplo.

Per quanto riguarda i decreti legislativi invece, come si evince dai grafici sopra realizzati, la produzione della legge ordinaria (depurata dalla normativa vincolata) e quella dei decreti legislativi è stata tendenzialmente uguale fine alla XIV Legislatura, mentre dalla XV Legislatura in poi la produzione dei decreti legislativi ha sempre superato quella della legge ordinaria non vincolata, infatti, nella XV Legislatura la produzione dei decreti legislativi è circa quattro volte superiore rispetto a quella della legge ordinaria, nella XVI è circa il doppio, mentre nella XVII Legislatura è di quasi tre volte superiore.

Si può affermare dunque che il punto di rottura del rapporto tra legge ordinaria non vincolata e decreti legislativi si è registrato nella XV Legislatura. Tale Legislatura, infatti, è stata indubbiamente atipica, in quanto i rapporti tra maggioranza e opposizione hanno reso problematico l’utilizzo del procedimento legislativo ordinario ed hanno indotto il Governo a massimizzare l’uso degli strumenti normativi la cui adozione è soggetta ad una semplice “autorizzazione” parlamentare. Così, i decreti legislativi e i regolamenti di delegificazione hanno rappresentato da soli quasi il 60% dell’intera produzione normativa, a fronte di un ridotto numero di leggi e un limitato ricorso alla decretazione d’urgenza; con una produzione normativa in tale Legislatura affidata per il 33,52% ai decreti legislativi, per il 32,94% alla legge ordinaria, per il 19,41% ai regolamenti di delegificazione e per il 14,12% ai decreti-legge.

Inoltre, in riferimento alla XVIII Legislatura − pur con tutte le precauzioni del caso, visto i pochissimi mesi intercorsi dall’inizio della stessa − è opportuno segnalare che: se da un lato la produzione del decreto legislativo è solo di poco superiore rispetto a quella della legge ordinaria (considerando sia quella avente iniziativa legislativa vincolata che non vincolata), dall’altro se “depuriamo” il dato della legge ordinaria da quella avente iniziativa vincolata, la produzione del decreto legislativo supera di quindici volte quella della legge ordinaria[293]. Se consideriamo invece, la produzione del decreto legislativo rispetto a quella dei decreti-legge, la prima supera la seconda quasi del triplo[294].

A conclusione di tale analisi, oggi si può senza dubbio affermare che il Governo è diventato il principale artefice della produzione normativa e che il decreto legislativo è stato eletto a strumento normativo privilegiato.

17.  La delegazione legislativa in prospettiva comparata

Analizzando l’istituto della delegazione legislativa, si è riscontrata la generale tendenza nei Paesi dell’area occidentale e non solo a una espansione dei poteri normativi dell’Esecutivo a scapito di quelli del Legislativo.

Tali mutamenti di politica legislativa hanno avuto origine a partire dalla fine dell’Ottocento, poiché da una concezione dello Stato di diritto, basato su principi di divisione dei poteri, supremazia della legge, astrattezza e generalità dell’atto legislativo si è passati a una concezione di Stato amministratore dei singoli casi.

Il tramonto dello Stato di tipo liberale, dovuto anche dal passaggio da uno Stato borghese a uno Stato pluriclasse, si è accompagnato a un progressivo e crescente ricorso alla delegazione legislativa, quale atto primario per il soddisfacimento di diverse esigenze.

Il crescente utilizzo di quest’ultimo strumento normativo è riscontrabile non soltanto nell’esperienza italiana, francese e tedesca, ma anche nel Regno Unito. Proprio nel Regno Unito, infatti, a partire dal diciannovesimo secolo, la delegated legislation ha subito una graduale espansione a seguito delle riforme economiche e sociali (fin dal Poor Law Amendment Act del 1834 che investiva i Poor Law Commissioners di poteri normativi per l’amministrazione dei poveri). Attualmente sempre più spesso accade che il Parlamento deleghi l’esercizio del potere legislativo, al punto che il numero dei provvedimenti legislativi è di gran lunga superiore rispetto a quello delle leggi[295].  Persino, il sistema statunitense, tradizionalmente legato alla teoria della non delegation e basato su una rigida concezione del principio della separazione dei poteri e sulla clausola del due process of law, conosce a partire dagli anni Trenta del Novecento l’affermarsi di atti normativi non adottati dal Congresso federale[296]. Si assiste anche qui a un progressivo mutamento e trasferimento dei poteri dall’organo legislativo a quello governativo.

Certo è che la frequente delega delle grandi riforme dal Parlamento al Governo è anche l’esito della trasformazione delle forme di governo in gran parte dei Paesi occidentali verso sistemi di tipo maggioritario, in cui il Governo diventa il vero protagonista dell’indirizzo politico[297].

La delega legislativa è prevista oggi in molte Costituzioni dei Paesi europei (come nella Costituzione finlandese, greca e portoghese), in altri casi è regolata con legge del Parlamento (come avviene nel Regno Unito con lo Statutory Instruments Act del 1946 e in Irlanda ove alla previsione costituzionale si affianca lo Statutory Istruments Act del 1947) o si è imposta nella prassi come è accaduto negli Stati Uniti.

In Francia l’art. 38 della Costituzione dispone che il Governo per dare attuazione al proprio programma politico può richiedere al Parlamento l’autorizzazione ad emanare dei provvedimenti, che sono normalmente di dominio della legge, in forma di ordinanze e entro un determinato periodo di tempo. Le ordinanze deliberate in Consiglio dei ministri sentito il Consiglio di Stato sono firmate dal Presidente della Repubblica ed entrano in vigore al momento della loro pubblicazione; esse, tuttavia, sono sottoposte ad eventuale decadenza, che si può verificare qualora il progetto di legge non sia presentato al Parlamento prima della data fissata dalla legge di abilitazione che ne ha autorizzato l’adozione[298]. Anche l’ordinamento tedesco richiede l’approvazione da parte del Bundesrat, tuttavia, ciò avviene salva diversa disposizione del legislatore federale e nelle sole ipotesi previste dalla Costituzione[299]. Nelle materie in cui è prevista l’approvazione da parte del Bundesrat, quest’ultimo può anche inviare al Governo federale proposte per l’emanazione di decreti legislativi.

Più vicina alla disciplina italiana sembra la normativa dettata dalla Costituzione spagnola del 1972, infatti, gli artt. da 82 a 85 Cost. sp. stabiliscono la possibilità per le Cortes Generales di delegare al Governo la possibilità di dettare norme con rango di legge, che hanno la denominazione di decretos legislativos.

Per quanto riguarda l’esercizio della delega da parte del Governo, inoltre, anche in altri Paesi, analogamente a quanto avviene in Italia, esso a sembra limitato dalle Costituzioni. In particolare, l’ordinamento spagnolo sottopone la delega legislativa a vincoli stringenti. Infatti, essa deve riferirsi a materie determinate e rimane in ogni caso esclusa la possibilità che possa aversi il conferimento della delega per le leggi organiche[300]; al Governo è poi fatto divieto di subdelegazione. In merito ai poteri dell’Esecutivo, può notarsi che la Costituzione spagnola, in realtà, affida al Governo un potere maggiormente incisivo rispetto a quanto accade in Italia: si pensi al disposto dell’art. 84 Cost. sp., che riconosce al Governo il potere di opporsi ad una proposta di legge o di un emendamento contrario ad una delega legislativa in vigore.

Certo è che anche che anche l’art. 80 della Legge Fondamentale del 1949 stabilisce che il Governo federale tedesco o un ministro federale possono essere delegati per legge a emanare Rechtsverordnunger (un’ordinanza normativa, l’equivalente del nostro decreto legislativo) che deve indicare il proprio fondamento giuridico; ed è la stessa Costituzione tedesca ad esige che la legge di delega determini il contenuto, lo scopo e la misura della delega concessa.

Un altro profilo particolarmente interessante da evidenziare è il diverso trattamento giuridico degli atti adottati dall’esecutivo a seguito della delega legislativa. Infatti, mentre nel sistema italiano il decreto legislativo adottato dal Governo su delega del Parlamento è per espressa disposizione costituzionale un atto con forza di legge sottoposto al sindacato della Corte costituzionale, in altri ordinamenti gli atti adottati dall’esecutivo dietro delega o autorizzazione parlamentare, presentano piuttosto forza e valore assimilabili a quelli degli atti amministrativi. In particolare, in alcuni casi, finché non intervenga la ratifica parlamentare gli atti adottati dall’Esecutivo dietro delega parlamentare sono sottoponibili al sindacato proprio degli atti amministrativi. È il caso dell’ordinamento tedesco in cui è ammesso il sindacato diffuso sulle ordinanze normative, ove il giudice potrà dichiararle nulle qualora ravvisi un contrasto con la legge di autorizzazione, mentre il medesimo giudice dovrà investire il Tribunale costituzionale della questione di legittimità costituzionale qualora ravvisi profili di incostituzionalità nella legge delega[301].

Anche in Francia accade qualcosa di molto simile, infatti, l’art. 38 Cost. fr., in realtà, non chiarisce la natura giuridica dell’atto ordonnance, vale a dire se è qualificabile come un atto legislativo ovvero come un atto regolamentare[302]. Tuttavia, una volta depositato il progetto di legge di ratifica, se l’ordinanza viene ratificata dal Parlamento essa acquista valore di legge[303], se invece l’ordinanza non viene ratificata dal Parlamento essa conserva il valore di regolamento; inoltre, le misure prese attraverso le ordinanze sono sindacabili dal giudice amministrativo, ove tale eventualità è del tutto assente nel sistema italiano poiché il decreto legislativo ha sempre valore di legge e è sempre e solo sindacabile dalla Corte costituzionale.

In altri paesi, invece, gli atti adottati dall’Esecutivo nell’esercizio della delega sono considerati amministrativi qualora eccedano i limiti posti dalla delega stessa. È il caso dell’ordinamento spagnolo, ove l’art 161 Cost. sp. afferma che le diposizioni normative con forza di legge sono sottoposte al controllo di costituzionalità del Tribunal Constitucional; tuttavia, l’art. 1, Ley 29 del 1988 de la Jurisdicción Contencioso-Administrativa affida ai Tribunali amministrativi i procedimenti relativi ai decreti legislativi affetti da eccesso di delega[304].

Infine, anche nel Regno Unito gli atti governativi adottati dall’Esecutivo su delega sono considerati atti normativi secondari (subordinate legislation) e in quanto tali, risultano esenti dal controllo giurisdizionale riservata agli atti del Parlamento; in particolare, attraverso la substantive ultra vires, il controllo giurisdizionale verte sulla verifica dell’eventualità che la legislazione delegata si sia posta ‹‹outside the powers of the enabling legislation››; inoltre, la legislazione subordinata è sottoposta ai controlli riservati all’azione amministrativa sotto i profili della verifica dello scopo e della ragionevolezza che delimitano l’esercizio del potere discrezionale[305].

Come si vede, anche in altri Paesi, oltre all’Italia, si è da un lato avvertita la necessità di attribuire ad altri soggetti diversi dal legislatore la capacità di normazione ma dall’altro l’esigenza di limitare nel modo più efficace possibile tale potere delegato. 


Note e riferimenti bibliografici

[1] LOCKE J., Trattato sul governo, III ed., Roma, Editori Riuniti, 1997, cit., 103 ss.

[2]È possibile trovare testimonianza di questa visione direttamente nei testi delle prime Costituzioni settecentesche. Fra questi spicca l’art. 46 della Costituzione francese del 1795, che proibiva in ogni caso all’Assemblea di delegare le sue funzioni costituzionalmente stabilite; ma un tale divieto emergeva, sia pure con minore evidenza, dalla Costituzione francese del 1791 che delegava esclusivamente al corpo legislativo la potestà di proporre e decretare le leggi o dalla stessa Costituzione nordamericana che riservava al Congresso la totalità dei poteri legislativi esercitabili in sede centrale. Al contrario vi è stata un’affermazione dell’istituto della Germania di Weimar, pur in presenza di un testo costituzionale che non lo contemplava, ma prevedeva solo il potere regolamentare in materia amministrativa. Nondimeno, seppur nel silenzio delle Carte costituzionali, l’opinione prevalente negli ordinamenti dotati di Costituzioni scritte è nel senso che il Parlamento non abbia la facoltà di delegare la funzione legislativa, là dove manchi una puntuale previsione costituzionale della delega legislativa. Perciò, si intende che negli Stati Uniti, malgrado il testo costituzionale non consideri esplicitamente il problema, interpreti e giudici della Corte suprema siano pressoché concordi nell’escludere la delega in sede di legislazione, per ammetterla unicamente a un livello amministrativo di “quasi-legislatio”. Anche nell’ordinamento italiano della fase statutaria, fu sempre minoritaria la tesi secondo cui gli organi costituzionali fossero legittimati a disporre delle loro competenze, delegandole in qualsiasi misura o direzione che non sia preclusa da esplicite norme di Costituzione o di legge. In tal senso l’art. 6 dello Statuto albertino vietava al Re di decretare in deroga alle leggi formali. Tuttavia i poteri legislativi del Governo si affermarono in maniera sempre più stabile e vennero utilizzati con crescente frequenza. Fino a quando non intervenne la legge n. 100 del 1926 ed in particolare l’art. 3 della suddetta legge che stabilì l’obbligo per il Governo di rispettare i limiti della delegazione. Per un approfondimento in tal senso si rimanda a RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, in BIFULCO R.-CELOTTO A.-OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Torino, Utet, 2006, 1486; PALADIN L., Art. 76, in BRANCA G. (a cura di), Commentario della Costituzione, vol. II, Bologna-Roma, Zanichelli, 1986, 1 s. e CERRI A., Delega legislativa, in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1993,  2.

[3] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1485.

[4] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1485.

[5] In particolare ci si chiedeva se ad essere trasferito era il potere legislativo o soltanto il suo esercizio e se la titolarità del potere legislativo è dunque trasferita, sia pure soltanto in via temporanea, al Governo oppure resta, comunque, in capo al Parlamento. Prevalse l’opinione che intendeva la delega come trasferimento temporaneo dell’esercizio della potestà legislativa e come tale revocabile in qualsiasi momento dal Parlamento, privilegiando quindi lo schema tipico della delegazione, quale istituto giuridico per mezzo del quale taluno investe altri dell’esercizio di una propria attribuzione o funzione, piuttosto che quello dell’alienazione temporanea del potere. Tuttavia l’Assemblea costituente non scioglierà del tutto il nodo, lasciando lo spazio ad una terza ricostruzione, quella del potere delegato come potere legislativo nuovo e giuridicamente distinto rispetto a quello del delegante, esercitato dal delegato in nome proprio e non in veste di procuratore, ma pur sempre potere derivato e precario, che ha radice in quello che compete al delegante e che quindi non può eccederne i limiti. Per un approfondimento in tal senso si rimanda a RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, 1486 s. e RUOTOLO M., Delega legislativa, in CASSESE S. (a cura di), Diz. di diritto pubblico, vol. III, Milano, Giuffrè, 2006, 1761.

[6] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 2.

[7] In questi termini RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1486 s.

[8] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1487.

[9] Così PALADIN L., Art. 76, cit., 3  s.

[10] Cfr. Corte cotituzionale sent. n. 32 del 1961.

[11]Volgendo, infatti, lo sguardo agli ordinamenti nei quali la delega legislativa non viene prevista dalle Carte costituzionali, così come nella III Repubblica francese o negli Stati Uniti, l’idea del monopolio legislativo delle Assemblee parlamentari o del Congresso è stata molte volte contraddetta dalle funzioni normative che sono state affidate al potere esecutivo e, per evitare l’affermarsi di consuetudini incostituzionali, gli operatori giuridici hanno escogitato finzioni e espedienti per salvaguardare il riparto delle competenze, ad esempio qualificando come amministrative e regolamentari le diposizioni che rinnovavano il sistema legislativo; così PALADIN L., Art. 76, cit., 3  s.

[12] Cfr. MODUGNO F., Le fonti del diritto, in MODUGNO F. (a cura di), Diritto pubblico, II ed., Torino, Giappichelli, 2015, cit., 125.

[13] Cfr. ancora MODUGNO F., op. ult. cit., 125.

[14] In tal senso MODUGNO F., op. ult. cit., 137.

[15] Così MODUGNO F., op. ult. cit., 137.

[16] In tal senso RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1487.

[17] Cfr. RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S, Art. 76, cit., 1487.

[18] Per tale orientamento CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, II ed., Torino, Giappichelli, cit., 272.

[19] Cfr. CICCONETTI S.M., op. ult. cit., 272.

[20] Questo ultimo dato è riportato in riferimento alla legge ordinaria “depurata” da quella avente sede legislativa vincolata. Per un’analisi approfondita sul punto si rimanda al cap. I, par.16.

[21] In tal senso CERRI A., Delega legislativa, in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1993, cit., 3.

[22] Così CERRI A., Delega legislativa, in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1993, 3. Si può invero dare conto anche di dottrine più risalenti che qualificavano tale potere delegato come semplice attribuzione, vedendo l’art. 76 Cost. come una deroga dei principi delle fonti e come un irrigidimento del sistema costituzionale o che lo qualificavano come conferimento, vedendo in tale potere quei caratteri di precarietà, che non comportava necessariamente l’esaurirsi uno actu di tale potere; in realtà tale potere potrebbe essere qualificato come ‹‹attribuzione›› o, meglio, come ‹‹attivazione di competenza››: si veda, ancora, CERRI A., op. ult. cit., 4.

[23] Così PALADIN L., Art. 76, in BRANCA G. (a cura di), Commentario della Costituzione, vol. II, Bologna-Roma, Zanichelli, 1986, 8.

[24] Per tale orientamento MORTATI C., Istituzioni di diritto pubblico, X ed., Padova, Cedam, 1991, 764; CRISAFULLI V., Lezioni di diritto costituzionale. L’ordinamento costituzionale italiano. Le fonti normative, vol. I, II ed., Padova, Cedam, 1993, 78.

[25] Per tale orientamento MODUGNO, Invalidità della legge. Teoria dell’atto legislativo e oggetto del giudizio costituzionale, vol. II, Milano, Giuffrè, 1970, 72 ss; CERVATI A.A., Legge di delegazione e legge delegata, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIII, Varese, Giuffrè, 1973, 7 ss.

[26] Per tale orientamento, CERRI A., Delega legislativa, 3; CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, II ed., Torino, Giappichelli, 2007, 275; PALADIN L., Le fonti del diritto italiano, Bologna, Il Mulino, 1996, 205 ss.

[27] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 275.

[28] La sintesi di queste caratteristiche e il testo riportato tra le virgolette si devono a PALADIN L., Art. 76, cit., 9.

[29] In questi termini FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, cit., 1.

[30] In tal senso PALADIN L., Art. 76, 24.

[31] Cfr. Corte costituzionale sent. n. 39 del 1959, nello stesso senso Corte cost. sentt. nn. 34 del 1960, 83 del 1974 e ordinanza 22 giugno 1957 delle Sezioni unite della Cassazione.

[32] Per il primo orientamento si  rimanda CHELI, Deliberazione, emanazione, pubblicazione ed esercizio della funzione legislativa delegata entro il termine della delega, in Giur. cost., 1959, cit., 1012 ss; per il secondo orientamento BALLADORE-PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, Giuffrè, 1965, cit., 276; per il terzo  orientamento ESPOSITO, Invalidità della pubblicazione di leggi delegate, in Giur. cost., 1959, cit., 694 s.

[33] Così PALADIN L., Art. 76, cit., 24.

[34] Così  PALADIN L., op. ult. cit., 24.

[35] In questi termini RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1489.

[36] In tale senso è utile introdurre la distinzione tra pareri facoltativi, obbligatori e vincolanti. Il significato di tali termini, infatti, non è del tutto coincidente con quello che tradizionalmente ad essi viene attribuito nel diritto pubblico, laddove per parere facoltativo si intende il parere che un soggetto può liberamente richiedere ad un altro soggetto; per parere obbligatorio il parere di un soggetto che una norma giuridica impone ad un altro soggetto di acquisire ma non necessariamente di rispettare; per parere vincolante il parere che un soggetto deve acquisire ed al quale deve uniformarsi, salva la possibilità di rinunciare ad adottare l’atto di sua competenza.

Nel diritto parlamentare soltanto il concetto di parere obbligatorio è identico a quello sopra illustrato, infatti, sono obbligatori tutti quei pareri che il Presidente dell’Assemblea è tenuto a prevedere, sulla base di una norma del regolamento, all’atto dell’assegnazione di un progetto di legge alla Commissione competente nel merito e che quest’ultima deve acquisire. Mentre il concetto di parere facoltativo coincide quando il parere è richiesto dalla commissione di merito ad altra commissione, non coincide quando la previsione del parere è stabilita dal Presidente in base ad una propria valutazione discrezionale poiché in questo caso il parere  non è richiesto dal soggetto competente nel merito (la commissione) ma da un soggetto terzo (il Presidente). Anche per quanto riguarda i parere vincolanti vi sono delle differenze. ‹‹Premesso che di pareri vincolanti non può parlarsi nei confronti dei progetti di legge assegnati in sede referente, poiché qualsiasi parere può essere superato da una decisione dell’Assemblea, le commissioni in sede legislativa o redigente sono tenute ad uniformarsi al parere ma, qualora se ne vogliano dissociare, le conseguenze possono essere varie: la commissione può semplicemente rinunciare al seguito della discussione con conseguente “insabbiamento” del progetto di legge; se, invece, la commissione intende procedere comunque nella discussione, disattendendo il parere contrario, il progetto è automaticamente rimesso all’Assemblea ed il procedimento legislativo si trasforma da speciale in ordinario con conseguente mutamento dell’assegnazione del progetto alla commissione non più in sede legislativa o redigente bensì in sede referente››. Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 201 s.

[37] In tal senso CERRI A., Delega legislativa, in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1993, 11.

[38] Così RUOTOLO M., Delega legislativa, cit., 1764.

[39] In questi termini RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1489.

[40] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1489.

[41] Per un approfondimento in tal senso CARNEVALE P., Il caso delle leggi contenenti clausole di ‹‹sola abrogazione espressa›› nella più recente prassi legislativa. Per  un tentativo di rimeditazione organica anche alla luce della problematica degli auto vincoli legislativi, in MODUGNO F. (a cura di), Le trasformazioni della funzione legislativa, vol. I, Milano, Giuffrè, 3 ss.

[42] In tal senso RUOTOLO M., Delega legislativa, cit., 1764.

[43]Per un approfondimento in tal senso CARNEVALE P., Codificazione legislativa e formazione secondaria nel nuovo modello di semplificazione delineato dalla legge n. 229 del 2003 (legge di semplificazione per il 2001), in Dir. soc., 2005.

[44] Così PALADIN L., Art. 76, 26.

[45] Così  PALADIN L., op. ult. cit., 26.

[46] In questi termini PALADIN L., op. ult. cit., 27.

[47] Per il primo orientamento LAVAGNA C., Istituzioni di diritto pubblico, Torino, Utet, 1993, cit., 312 e la sent. della Corte costituzionale n. 3 del 1957;  mentre per il secondo orientamento CERVATI A.A., Delega legislativa, Milano, Giuffrè, 1972, cit., 32, 45 ss., 68 ss. e la sent. della Corte costituzionale n. 75 del 1957.

[48] Per la prima tesi CICCONETTI S.M., I limiti ‹‹ulteriori›› della delegazione legislativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, cit., 574 ss; mentre nel senso opposto MODUGNO, L’invalidità della legge, cit., 95 e la sent. della Corte costituzionale n. 38 del 1964.

[49] In tal senso CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 281.

[50] Per tale orientamento GUARINO G., Il Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, cit., 961 ss.

[51] In tal senso si rimanda a LUCIANI M., L’emendazione presidenziale dei decreti-legge. (Spunti a partire dal caso E.), in www.astrid.eu, 2009, cit., 2.

[52] Così CARNEVALE P., Emanare, promulgare e rifiutare. In margine alla vicenda Englaro, in www.astrid.eu, 2009, cit., 5.

[53] Così CARNEVALE P., op. ult. cit., 5.

[54] Per tale orientamento GUARINO G., Il Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, cit., 961.

[55] Per tale orientamento CERRI A., Delega legislativa, 11.

[56] Così CARNEVALE P., Emanare, promulgare e rifiutare. In margine alla vicenda Englaro, in www.astrid.eu, 2009, cit., 3.

[57] Tale comunicato del Presidente Napolitano viene riportato da CARNEVALE P., op. ult. cit., 3 s.

[58] Così CARNEVALE P., op. ult. cit., 4.

[59] Così CARNEVALE P., Emanare, promulgare e rifiutare. In margine alla vicenda Englaro, in www.astrid.eu, 2009, cit., 4.

[60]Così CARNEVALE P., op. ult. cit.,  4.

[61]Così CARNEVALE P., op. ult. cit.,  4.

[62] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 117 ss.

[63] Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, cit., 150.

[64] Così FRONTONI E., op. ult. cit., 150. Per un ampio approfondimento sul punto si rimanda a CARNEVALE P., Emanare, promulgare e rifiutare. In margine alla vicenda Englaro, in www.astrid.eu, 2009.

[65] In questi termini LUCIANI M., L’emendazione presidenziale dei decreti-legge. (Spunti a partire dal caso E.), in www.astrid.eu, 2009, cit., 4

[66] Così CHELI E., Deliberazione, emanazione, pubblicazione ed esercizio della funzione legislativa delegata entro il termine della delega, in Giur. cost., 1959, cit., 1016.

[67] Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, cit., 151.

[68] Uno spunto di riflessione, infatti, ci è offerto dal comunicato del Presidente della Repubblica Napolitano del 4 febbraio 2011, che ha ritenuto “irricevibile” il testo del decreto che era stato approvato dal Governo, senza rispettare l’iter procedimentale  della legge di delega, in particolare in questo caso il Governo non aveva rispettato l’art. 2, comma 4, della legge n. 42 del 2009, adottando il decreto subito dopo il parere negativo della Commissione bicamerale senza rendere le comunicazioni alle Camere e attendere il decorso di trenta giorni per l’adozione in via definitiva. Solo a seguito del “rinvio” del Presidente della Repubblica il Governo ha reso comunicazioni alle Camere e trascorsi trenta giorni, ha approvato definitivamente il testo del decreto. L’art. 2, infatti, della sopra citata legge prevede che nel caso in cui il Governo non intende conformarsi ai pareri parlamentari deve ritrasmettere i testi alle Camere con le eventuali modifiche e le sue osservazioni e rendere comunicazioni davanti a ciascuna Camera, decorsi poi trenta giorni dalla nuova trasmissione, i decreti possono essere comunque adottati in via definitiva dal Governo. Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, 151 e s.

[69] Per un approfondimento sul punto si rimanda a CARNEVALE P., Emanare, promulgare e rifiutare. In margine alla vicenda Englaro, in www.astrid.eu, 2009 e a LUCIANI M., L’emendazione presidenziale dei decreti-legge. (Spunti a partire dal caso E.), in www.astrid.eu, 2009.

[70] Tre sono state essenzialmente le censure evidenziate dal Capo dello Stato: la prima si basa sul carattere inappropriato della «soluzione» del «ricorso al decreto legge» per intervenire in tema di «diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti», la cui natura richiederebbe «un rinnovato impegno del Parlamento ad adottare con legge ordinaria una disciplina organica»; ad essa si aggiunge il rilievo circa l’evidente contrasto del decreto con «il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato [che] non consente di disattendere la soluzione che per esso [il caso di specie] è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente»; per ultimo, il Presidente lamenta la carenza dei presupposti del decreto, posto che, «rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso».

La dottrina sul punto sottolinea che, né la prima censura di illegittimità, né la seconda sarebbero in realtà in grado di sorreggere una decisione di definitivo rifiuto di emanazione, stante la loro estraneità alla sfera delle ragioni di incostituzionalità incidenti sulla qualificazione dell’atto o idonee a far scattare la responsabilità penale del Presidente. Neppure la terza sarebbe dotata di tale forza, poiché anche se è vero che il vizio di carenza dei presupposti potrebbe in astratto pure supportare una decisione del genere, nondimeno, nel caso specifico, la dichiarata necessità di salvare la vita ad Eluana Englaro dalla morte certa che, di lì a qualche giorno (come poi è stato), sarebbe intervenuta in applicazione delle decisioni giudiziarie, sembrava effettivamente integrare gli estremi del caso straordinario di necessità ed urgenza o, quantomeno, escludere che vi fosse un caso di evidente mancanza. Così CARNEVALE P., Emanare, promulgare e rifiutare. In margine alla vicenda Englaro, in www.astrid.eu, 2009, cit., 8.

[71] In questi termini CARNEVALE P., op. ult. cit., 4. Lo stesso, in riferimento al caso di specie sottolinea che ‹‹il caso straordinario di necessità ed urgenza che dichiaratamente aveva sollecitato il decreto-legge non si atteggiava nella specie solamente a motivo giustificativo dell’adozione, bensì pure a fattispecie applicativa del provvedimento››, dato l’assenza di altre situazioni assimilabili (quantomeno con certezza). ‹‹Insomma, presupposto e oggetto del decreto avrebbero finito nella sostanza per coincidere››. Viene infatti evidenziato che se il decreto-legge, una volta entrato in vigore, non avesse potuto applicarsi proprio al caso che ne aveva originato l’adozione, il Presidente della Repubblica si sarebbe trovato dinanzi ad un decreto-legge privo, al medesimo tempo, dei presupposti di necessità ed urgenza e dell’oggetto o, meglio, privo dei primi perché espropriato del secondo. Di talché, il rifiuto di emanazione sarebbe stato ben solidamente fondato. Laddove, invece, esso fosse stato applicabile a quella specifica fattispecie concreta, l’eventuale emanazione avrebbe dato vita ad un decreto legittimato, sì, dall’esistenza del caso di necessità ed urgenza, ma destinato a provvedere a quel medesimo caso (quantomeno con certezza, solo a quello). In pratica, ‹‹si sarebbe stati in presenza di una necessità ed urgenza, in sé, però, direttamente inficiata da illegittimità costituzionale: giustificazione ed, al contempo, causa prima dell’incostituzionalità del decreto-legge. […] Se l’assenza evidente di necessità ed urgenza può costituire motivo per rifiutare l’emanazione del decreto-legge, la evidente illegittimità di quella medesima situazione di necessità ed urgenza non credo sia da meno››.

 

[72] Così MODUGNO F., Le fonti del diritto, in MODUGNO F. (a cura di), Diritto pubblico, II ed., Torino, Giappichelli, 2015, cit., 139.

[73] È opportuno sottolineare che mentre inizialmente la Corte costituzionale (sent. n. 3/1957) aveva sposato l’idea che la legge delega e i decreti delegati costituissero fasi di un’unica sequenza procedimentale (come delineato anche da CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale. L’ordinamento costituzionale italiano. Le fonti normative, vol. I, II ed., Padova, Cedam, 1993, 83 ss.). Tuttavia, lo stesso giudice delle leggi ha da tempo superato il principio dell’unicità procedimentale fra i due atti, infatti, a partire dalla sent. n. 224/1990, la Corte riconosce che ‹‹sotto il profilo formale […] la legge delega è il prodotto di una legiferazione ordinaria a sé stante e in sé compiuta e, pertanto, non è legata ai decreti legislativi da un vincolo strutturale che possa indurla a collocarla, rispetto a questi ultimi, entro una medesima e unitaria fattispecie procedimentale››.

[74] Cfr. Corte cost., sentt. nn. 41 del 1975  e 265 del 1996.

[75] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 276.

[76] In tal senso CICCONETTI S.M., op. ult. cit., 276.

[77] Così CICCONETTI S.M., op. ult. cit., 273.

[78]Così CRISAFULLI V., Lezioni di diritto costituzionale. L’ordinamento costituzionale italiano. Le fonti normative, vol. I, II ed., Padova, Cedam, 1993, cit., 101; SORRENTINO, Le fonti del diritto, Genova, Cedam, 1999, cit., 86 ss.

[79] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, 274; CERRI A., Delega legislativa, 10.

[80] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 275.

[81] Così PALADIN L., Art. 76., cit., 22.

[82] Per tale orientamento CERVATI A.A., Delega legislativa, Milano, Giuffrè, 1972,  cit., 117, nota 10 e LAVAGNA C., Istituzioni di diritto pubblico, 324.

[83] In tal senso CERVATI A.A., Legge di delegazione e legge delegata, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIII, Varese, Giuffrè, 1973, cit., 954.

[84] Così MODUGNO, Invalidità della legge. Teoria dell’atto legislativo e oggetto del giudizio costituzionale, vol. II, Milano, Giuffrè, 1970, 69.

[85] Si tratterà ampiamente delle deleghe integrative e correttive nel cap. I, par. 5.1.1.

[86] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 12.

[87] La prima denominazione si deve a DE FIORES, Trasformazioni della delega legislativa e crisi delle categorie normative, Padova, Cedam, 2001, cit. 167 ss; la seconda a SORRENTINO, Le fonti del diritto, cit., 70;  l’ultima a CELOTTO A.-FRONTONI E., Legge di delega e decreto legislativo, in Enc. dir., agg. VI, Milano, Giuffrè, 2002, cit., 706.

[88] Tali caratteristiche si devono a MAZZARELLA M., La decretazione correttiva e integrativa, ROSSI E. (a cura di), Le trasformazioni della delega legislativa, Padova, Cedam, 2009, cit. 372 ss. Lo stesso sottolinea che l’assenza dell’ultimo requisito non determina la non appartenenza dei decreti alla categoria dei correttivi ed integrativi, ma fonda una distinzione interna, infatti ‹‹ad apparire nevralgica è la fase intercorrente fra l’emanazione dei decreti principali e l’emanazione dei decreti correttivi: se in essa si colloca la decisione parlamentare di conferire una delega in origine non assegnata (ovvero anche di prorogare, et similia, una delega correttiva già conferita), saremo in presenza di decreti che potremmo qui chiamare correttivi “successivi”; viceversa, qualora nella fase intermedia si collochi la decisione governativa, di intervenire sui decreti principali, decisione autonoma benché preceduta da opportuna istruttoria, i decreti di nuova emanazione potranno assumere la denominazione di correttivi “perfetti”››; in tal senso sempre MAZZARELLA M., op. ult. cit., 372 ss.

[89] In questo senso FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, 29 s.

[90] Per tale orientamento LIGNOLA E. La delegazione legislativa, Milano, Giuffrè, 1956, cit. 67.

[91] Per tale orientamento PALADIN L., Le fonti del diritto italiano, cit., 219 ss.; CERRI A., Delega legislativa, cit., 8.

[92] Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, cit., 37,  nota 120.

[93] Per tale orientamento PALADIN L., Le fonti del diritto italiano, cit., 204.

[94] Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, cit., 43.

[95] Così FRONTONI E., op. ult. cit., 39.

[96] Così FRONTONI E., op. ult. cit., 32.

[97] Così FRONTONI E., op. ult. cit., 32.

[98] In questi termini FRONTONI E., op. ult. cit., 33.

[99] Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Generale 6 giugno del 2007, n. 1750 e il parere n. 3838 reso sul c.d. terzo correttivo al Codice dell’ambiente, il d.lgs. 152 del 2006.

[100] Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Generale 6 giugno 2007, n. 1750.

[101] Così RUOTOLO M., I limiti della legislazione delegata integrativa e correttiva, in Aa. Vv., La delega legislativa. Atti del seminario svoltosi a Roma Palazzo della Consulta, 2008, Milano, 2009, cit., 73 ss.

[102] Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, cit., 130 s.

[103] Così FRONTONI E., op. ult. cit., 130.

[104] In questi termini SICLARI M., Il Parlamento nel procedimento legislativo delegato, in Giur. cost., 1985, cit., 819 s.

[105] In tal senso FREDIANI E., La progressiva “torsione” di un modello tra deleghe “tecniche”, deleghe “in bianco” e conferimento di poteri normativi alle autorità amministrative indipendenti, in ROSSI E. (a cura di), Le trasformazioni della delega legislativa, Padova, Cedam, 2009,  cit.,335.

[106] In tal senso v. FREDIANI E., op. ult. cit., 336,  nota 22.

[107] Così STAIANO S., Decisione politica ed elasticità del modello nella delega legislativa, Napoli, Liguori Editore, 1990, cit.,42.

[108] Così FREDIANI E.,La progressiva “torsione” di un modello tra deleghe “tecniche”, deleghe “in bianco” e conferimento di poteri normativi alle autorità amministrative indipendenti, cit.,  338.

[109] Cfr. Corte costituzionale sentt. nn. 456/1998, 415/2000, 96/2001, 308/2002, 248/2004 e 228/2205.

[110] Così HABERMAS J., Fatti e norme, Napoli, Editori Laterza, 1996, cit., 511 ss.

[111] In tal senso MALFATTI E., Rapporti tra deleghe legislative e delegificazioni, Torino, Giappichelli, 1996, 35 ss.

[112] In tal senso CELOTTO A.-FRONTONI E., Legge di delega e decreto legislativo, in Enc. dir., agg. VI, Milano, Giuffrè, 697-719, dove viene sottolineato come la ripetuta mancata distinzione tra principi e criteri direttivi si sia nello stesso tempo accompagnata al sempre più ampio ricorso a ‹‹delegazioni più o meno in bianco o comunque con principi e criteri desumibili per relationem, come avviene nelle deleghe per il recepimento delle direttive comunitarie, derivando da questa premessa logica che si finisce paradossalmente per legittimare che siano le direttive stesse a fissare i principi e i criteri direttivi››.

[113] Così FREDIANI E., La progressiva “torsione” di un modello tra deleghe “tecniche”, deleghe “in bianco” e conferimento di poteri normativi alle autorità amministrative indipendenti,cit., 343.

[114] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 278.

[115] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 6; CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 278; la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile l’intervento degli atti con forza di legge, in quanto atti equiparati alle leggi formali, in materie coperte da riserva di legge ( cfr. sentt. nn. 77 del 1965, 126 del 1969, 39 del 1971, 184 e 243 del 1974, 173 del 1987, 29 del 1995, 329 del 1996).

[116] In tal senso si rimanda a FERRI, Sulla delegazione legislativa, in Studi per Rossi, Milano, Giuffrè, 1952,187.

[117] Cfr. Corte cost. sentt. nn. 77 del 1967, 126 del 1969 e 39 del 1971.

[118] Così PALADIN L., Art. 76, cit., 12.

[119] Per tale orientamento CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit.,278; PALADIN L., Le fonti del diritto italiano, cit., 208, il quale aggiunge, come argomento accessorio, che l’art. 14 della L. n. 400 del 1988 vieta ai soli decreti-legge e non anche ai decreti legislativi di disciplinare le materie di cui all’art. 72, ultimo comma, Cost.

[120] Tale orientamento si attribuisce a PALADIN L., Art. 76, in BRANCA G. (a cura di), Commentario della Costituzione, vol. II, Bologna-Roma, Zanichelli, 1986, cit., 11 s.

[121] Per tale orientamento CERRI A., Delega legislativa, cit., 5; MORTATI C., Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976 , cit., 770 s.

[122] Corte costituzionale sent. n. 60/1957; in tal senso RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, in BIFULCO R.-CELOTTO A.-OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, II, Torino, Utet, 2006, cit., 1488; RUOTOLO M., Delega legislativa, in CASSESE S. (a cura di), Diz. di diritto pubblico, III vol., Milano, Giuffrè, 2006, cit., 1762.

[123] In tal senso CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 278 s.

[124] Per tale orientamento CERRI A., Delega legislativa, cit., 5.

[125] In tal senso CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 279.

[126] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 5.

[127] Così RUOTOLO M., Delega legislativa, cit., 1766.

[128] Così RUOTOLO M., op. ult. cit.,1766.                                       

[129] Così SERGES, Norme sulla normazione limiti all’interpretazione autentica. Brevi riflessioni a margine del recente “Statuto dei diritti del contribuente”, in MODUGNO (a cura di), Trasformazioni della funzione legislativa, II, Milano, 2000, cit., 279 ss.

[130] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 280. Tale questione riguarda la complessa problematica degli autovincoli legislativi, cioè in quale misura e con quale grado di vincolatività una fonte può prescrivere limiti nei confronti di fonti successive aventi il suo stesso grado gerarchico. In un sistema giuridico come quello italiano, nel quale troviamo la Costituzione che in parte disciplina direttamente il procedimento di formazione delle leggi e in parte rimette l’esecuzione e l’integrazione al regolamento parlamentare, si deve escludere, in via generale, che altre fonti possano disciplinare il procedimento legislativo.

Tuttavia nell’ipotesi di vincoli procedimentali posti da una legge ordinaria nei confronti di decreti legge e decreti legislativi, poiché il loro procedimento di formazione non è disciplinato dalla Costituzione (ad eccezione dell’artt. 76 e 77 Cost. secondo cui devono essere emanati dal Governo e dell’art. 87 Cost. che prescrive la loro emanazione da parte del Presidente della Repubblica), né la sua disciplina è riservata dalla Costituzione ad altra fonte diversa dalla legge, i vincoli procedimentali prescritti da una fonte nei confronti di fonti successive aventi il suo stesso grado gerarchico hanno carattere cogente. Mentre per quanto riguarda le disposizioni legislative che pongono vincoli sostanziali a successive leggi o atti aventi forza di legge possono essere considerate come ‹‹dotate di valore cogente in quanto si riesca ad accertare che la loro violazione costituisca allo stesso tempo violazione indiretta di una norma o di un principio ricavabile dalla Costituzione; diversamente, il suddetto valore cogente deve negarsi››. Così CICCONETTI S.M., op. ult. cit., 61 ss.

[131] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 5.

[132] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 291 (specificando che si richiamava questo principio soprattutto prima dell’entrata in vigore della Costituzione).

[133] Così LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 314 ss.

[134] Per tale orientamento CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 291 e CERRI A., Delega legislativa, cit., 10.

[135] Per questa ricostruzione CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano,cit., 292; in tal senso CICCONETTI S.M., op. ult. cit., 293, nota 123 afferma che ‹‹la Corte costituzionale, pur non essendosi mai pronunciata sulla legittimità della subdelegazione, ha compiuto alcune affermazioni al riguardo dalle quali sembra potersi dedurre in via residuale la probabile illegittimità della subdelegazione legislativa e l’ammissibilità della subdelegazione regolamentare›› (sentt. nn. 103 del 1957, 79 del 1966, 106 del 1967, 139 del 1976, 54 del 1957, 66 del 1965).

[136] In tal senso CERRI, Delega legislativa, cit., 10, con il quale concorda CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 292.

[137] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 10 e CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 293.

[138] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 6.

[139] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1491 e RUOTOLO M., Delega legislativa, in CASSESE S. (a cura di), Diz. di diritto pubblico, III vol., Milano, Giuffrè, 2006, cit., 1765.

[140] In questi termini CERRI A., Delega legislativa, cit., 6.

[141] Cfr. Corte cost. sent. n. 212 del 2003.

[142] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1492 e RUOTOLO M., Delega legislativa, cit., 1766.

[143] Cfr. CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 282 e RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76,cit., 1491; Corte cost. sent. n. 30 del 1961.

[144] In tal senso CERRI A., Delega legislativa, cit., 7 cita le sentt. della Corte cost. nn. 173 del 1981; 3, 37 e 60 del 1957; 42 del 1958; 106 del 1962; 14 del 1967; 56 del 1971; 179 del 1976; 200 del 1987; 414 del 1988; 348 del 1989; 250 del 1991; 114 del 1993.

[145] In tal senso CERRI A., Delega legislativa, cit., 6.

[146] In questi termini PALADIN L., Art. 76, cit., 13.

[147] Cfr. Corte costituzionale sentt. nn. 163 del 1963 e 13 del 1967.

[148] In questi termini PALADIN L., Art. 76, cit., 15.

[149] In tal senso CERRI A., Delega legislativa, cit., 7.

[150] Così CERRI A., op. ult. cit., 7 ss.

[151] Così PALADIN L., Art. 76, cit., 16.

[152] Così PALADIN L., Decreto legislativo, in Nss. D.I., V, Torino, Utet, 1960, cit., 298.

[153] Tale intervento è riportato da CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 286,  nota 92.

[154] L’interrogativo circa l’organo competente riflette un passato dibattito in cui alcuni studiosi hanno cercato di distinguere i possibili vizi delle leggi delegate per contrasto con le leggi deleganti. Ancora oggi parte della dottrina prospetta tale contrapposizione fra eccessi e difetti di delega, ma non viene più fatto riferimento alla competenza o meno della Corte, in quanto nella prassi non si è mai verificato che la Corte costituzionale si è dichiarata incompetente a sindacare il rispetto del termine o la pertinenza di una legge delegata all’oggetto della delegazione. Oggi infatti, tale distinzione si rivela inutile in quanto priva di qualunque implicazione concreta. In tal senso PALADIN L., Art. 76, in BRANCA G. (a cura di), Commentario della Costituzione, vol. II, Bologna-Roma, Zanichelli, 1986, cit., 29 ss.

[155] Per una differenziazione tra i pareri facoltativi, obbligatori e vincolanti, si rimanda alla nota 36.

[156] Così PALADIN L., Le fonti del diritto italiano, cit., 217.

[157] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 9.

[158] Per questo orientamento FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, 24 ss. e CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, 289 s.

[159] Inoltre, rispetto ai pareri vincolanti, la libertà del Governo in ordine alla scelta finale se adottare o meno l’atto è ‹‹più formale che sostanziale dal momento che essa risulterà politicamente condizionata da un eventuale papere totalmente contrario al contenuto dello schema del decreto legislativo››. Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 289 s. che riprende quanto affermato da ESPOSITO, in Giur. cost., 1956, cit., 190, nota 1.

[160] Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, cit., 27.

[161] In tal senso SICLARI M., Il Parlamento nel procedimento legislativo delegato, cit., 827.

[162] Per un approfondimento sugli autovincoli legislativi CARNEVALE P., Il caso delle leggi contenenti clausole di ‹‹sola abrogazione espressa›› nella più recente prassi legislativa. Per  un tentativo di rimeditazione organica anche alla luce della problematica degli auto vincoli legislativi, in MODUGNO F. (a cura di), Le trasformazioni della funzione legislativa, vol. I, Milano, Giuffrè, 1999,  3 ss.

[163]Così LUPO N., La formazione parlamentare delle leggi di delega, in www.osservatoriosullefonti.it, 2002, 30.

[164] Così LUPO N.,  op. ult. cit., 30, nota 54.

[165] In questi termini LUPO N., op. ult. cit., 31. Di questa incisività del limite finanziario posto dalla legge di delega nei confronti del decreto legislativo, ne è un chiaro esempio la L. n. 208 del 1999 e le modifiche dei Regolamenti della Camera e del Senato che hanno dedicato particolare attenzione agli effetti finanziari dei decreti legislativi. Infatti, con la L. n. 208 del 1999 è stato esteso agli schemi di decreti legislativi l’obbligo della relazione tecnico-finanziaria, originariamente riferito ai solo disegni di legge e agli emendamenti del Governo;  inoltre si è valorizzato il limite finanziario, agevolando l’esercizio della funzione di controllo del Parlamento verso il Governo, attraverso il coinvolgimento delle Commissioni bilancio nella fase del procedimento di formazione dei decreti legislativi suscettibili di originare effetti finanziati (art. 96-ter Reg. Camera).

[166] Così GUARNIER T., Legge di delega e questione di fiducia. Appunti su una convivenza sospetta, in www.dirittoesocieta.org, n. 1/2015, 68.

[167] In tal senso il Regolamento della Camera con l’art. 116 disposto che ‹‹la questione di fiducia non possa essere posta su proposte di inchiesta parlamentari, modificazioni del Regolamento e relative interpretazioni o richiami, autorizzazioni a procedere e verifica delle elezioni, nomine, fatti personali, sanzioni disciplinari ed in generale su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno della Camera e su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto››; mentre l’art. 161, comma 4 del Regolamento del Senato afferma che il Governo non possa porre la questione ‹‹sulle proposte di modificazione del Regolamento ed in generale su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno del Senato››; e infine l’art. 2, comma 2, della L. n. 400 del 1988 dispone che ‹‹il Consiglio dei ministri esprime l’assenso all’iniziativa del Presidente del Consiglio dei ministri di porre la questione di fiducia dinanzi alle Camere››

[168] Così FERRAJOLI C.F., L’abuso della questione di fiducia. Una proposta di razionalizzazione, in Diritto pubblico, 2008, cit., 591.

[169] Così GUARNIER T., Legge di delega e questione di fiducia. Appunti su una convivenza sospetta, in www.dirittoesocieta.org, n. 1/2015, cit., 77.

[170] In questi termini LUPO N., La formazione parlamentare delle leggi di delega, cit., 39.

[171] Per un approfondimento un tal senso GUARNIER T., Legge di delega e questione di fiducia. Appunti su una convivenza sospetta, 51 s.

[172] In tal caso la discussione al Senato ha risentito della volontà Presidente del Consiglio di porre la questione di fiducia su un maxi-emendamento presentato direttamente in Aula e interamente sostitutivo del precedente testo. Questo ha impedito ai parlamentari sia di conoscere in anticipo il testo su cui avrebbero dovuto votare e sia di pronunciarsi su ogni aspetto della riforma legislativa. Così POLESE M., La delega legislativa nella crisi economica e le trasformazioni della forma di Governo, cit., 17.

[173] Così GUARNIER T., Legge di delega e questione di fiducia. Appunti su una convivenza sospetta, cit., 88 s.

[174]  Così GUARNIER T., op. ult. cit., 85.

[175] Così LUPO N., La formazione parlamentare delle leggi di delega, cit., 38.

[176] In questi termini FERRAJOLI C.F., L’abuso della questione di fiducia, cit., 590. 

[177] Così GUARNIER T., Legge di delega e questione di fiducia. Appunti su una convivenza sospetta, cit., 87.

[178] In questi termini GUARNIER T., op. ult. cit., 86.

[179] Cfr. LUPO N., La formazione parlamentare delle leggi di delega, cit., 39 s.

[180] Così POLESE M., La delega legislativa nella crisi economica e le trasformazioni della forma di Governo, cit., 18, nota 130.

[181] Così POLESE M., op. ult. cit.,18.

[182] Sul punto POLESE M., op. ul. cit.., 22.

[183] Con la sent. n. 171 del 2007, è stata colpita una disposizione tesa a “sistemare” un problema di ineleggibilità del sindaco di Messina in un decreto relativo alla materia della finanza degli enti locali, sulla base dell’assunto che ‹‹la norma censurata si connota, pertanto, per la sua evidente estraneità rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita››. Nella sent. n. 128 del 2008 invece, la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 18, commi 2 e 3, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria) e dell’art. 2, commi 105 e 106, dello stesso decreto-legge n. 262 del 2006, nel testo sostituito, in sede di conversione, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286 , nella parte in cui hanno disposto l’esproprio del teatro Petruzzelli in favore del Comune di Bari. Qui la Corte effettua un vero e proprio scrutinio sulla sussistenza dei presupposti costituzionali rispetto alla norma impugnata, utilizzando i classici elementi sintomatici di verifica (il preambolo del decreto, la relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione, il dibattito parlamentare sulla conversione). Per concludere che la introduzione di una norma nella conversione di un decreto-legge ‹‹non può essere sostenuta da apodittica enunciazione della sussistenza dei richiamati presupposti, né può esaurirsi nella eventuale constatazione della ragionevolezza della disciplina››. Sul punto tuttavia la dottrina sottolinea che ‹‹la Corte in tal modo incentra la propria motivazione sulla carenza dei presupposti, lasciando sullo sfondo il fatto che si trattasse di una norma intrusa››; così CELOTTO A., Uso e abuso della conversione in legge, in www.federalismi.it, 2014, cit. 3..

[184] Con riferimento al caso di specie, il decreto-legge n. 272 del 2005 recava un novero eterogeneo di disposizioni, relative alla sicurezza e al finanziamento delle allora imminenti Olimpiadi invernali di Torino, all’amministrazione dell’Interno e al recupero di tossicodipendenti recidivi. Inoltre, in sede di conversione del decreto-legge, furono introdotti un insieme di articoli aggiuntivi, riscriventi il testo unico sugli stupefacenti (d.P.R. n. 309 del 1990) e il trattamento sanzionatorio dei reati in esso previsti. Giungendo la questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale, il giudice delle leggi ha accolto la questione ‹‹per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto-legge e quelle impugnate, introdotte nella legge di conversione››.

[185] I ricorrenti ritengono che il primo profilo di contrasto è legato alla natura-funzione della legge di conversione, da cui discenderebbe l’impossibilità di approvare una delega legislativa nello stesso procedimento attraverso cui le Camere “chiudono” il processo di normazione d’urgenza avviato dal Governo. Gli stessi ritengono, infatti, tale passaggio ulteriore una sorta di inammissibile “manipolazione” dell’istituto, tale da alterarne i caratteri. Non a caso descrivono la disposizione impugnata come una ‹‹norma intrusa rispetto all’oggetto del decreto-legge convertito››, proprio perché veicolata attraverso una legge parlamentare che non avrebbe nel suo ruolo naturale il compito di attivare un procedimento di delegazione legislativa. La critica muove perciò dalla addotta lesione della procedura che la Costituzione individua per l’emanazione di una legge di delega.

 

[186] Cfr. Corte cost. sent. n. 237/2013, punto 9.2. del Considerato in diritto.

[187] ‹‹In definitiva, l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge››; cfr. Corte cost. sent. n. 22 del 2012, punto 4.2. del Considerato in diritto.

[188] LUPO N., La formazione parlamentare delle leggi di delega, cit., 42.

[189] RAGIONE D-RAGIONE S., Provvedimenti collegati alla manovra finanziaria e delegazione legislativa, in ROSSI E. (a cura di),  Le trasformazioni della delega legislativa,  Padova, Cedam, 2009,  cit., 315. In tal senso infatti le risoluzioni parlamentari sul documento di programmazione economico-finanziaria 1994-1996 stabilirono la necessità di un unico provvedimento collegato, che doveva concorrere direttamente alla realizzazione degli obiettivi della manovra.

[190] Così RAGIONE D-RAGIONE S., Provvedimenti collegati alla manovra finanziaria e delegazione legislativa,  cit., 317 s.

[191] In tal senso è stato obiettato  che tale soluzione avrebbe suscitato dubbi di legittimità costituzionale. Infatti, la parte della dottrina che ha sostenuto la tesi dell’illegittimità costituzionale di una legge di delega avente ad oggetto la determinazione dei principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente, nega la possibilità di distinguere i principi di cui all’art. 76 Cost. dai principi all’art. 117, comma 3, della Costituzione. Affermando che ne deriverebbe o la violazione della disposizione costituzionale che riserva al Parlamento la determinazione dei principi e criteri direttivi, nel caso in cui i principi fondamentali fossero determinati dal legislatore delegato, o invece, sarebbe violata la seconda disposizione, nel caso in cui i principi fondamentali fossero definiti nel rispetto dell’art. 76 Cost. Così MASALA P., Delegazione legislativa e attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, in ROSSI E. (a cura di), Le trasformazioni della delega legislativa,  Padova, Cedam, 2009, cit., 190 ss. Tuttavia, la Corte costituzionale nella sent. n. 359 del 1993  afferma  ‹‹la natura diversa ed il diverso grado di generalità›› che in concreto i principi della legislazione concorrente possono assumere rispetto ai principi contenuti nella legge di delegazione. Infatti, la Corte costituzionale ha più volte ammesso che la determinazione dei principi fondamentali può costituire oggetto di delega, ciò è avvenuto sia nella sent. 280 del 2004, la quale ha ribadito quanto sostenuto nella sent. 359 del 1993, sia nelle sentt. nn. 50 del 2005 e 205 del 2005, nelle quali è stato sottolineato che il rapporto fra le due diverse nozioni di principi non può essere stabilito in astratto una volta per tutte e che ‹‹la lesione delle competenze regionali non  deriva dall’uso, di per sé, della delega, ma dall’avere il legislatore delegante formulato principi e criteri direttivi che tali non sono, per concretizzarsi in norme di dettaglio, sia dall’aver il legislatore delegato esorbitato dall’oggetto della delega, non limitandosi a determinare i principi fondamentali››.

[192] In tal senso presentavano ricorso la Provincia autonoma di Bolzano, la Regione autonoma della Sardegna e la Regione autonoma della Valle d’Aosta, sostenendo la tesi dell’illegittimità di una delega avente ad oggetto la determinazione di nuovi principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente. In tale sentenza la Corte nega che la delega prevista dall’art. 1, comma 4, L. n. 131 del 2003 abbia ad oggetto la determinazione di nuovi principi fondamentali, affermando inoltre (richiamando le sentt. nn. 359 del 1993 e 303 del 2003) che ‹‹in determinate circostanze, l’enunciazione di principi fondamentali relative a singole materie di competenza concorrente può costituire oggetto di un atto legislativo delegato senza ledere attribuzioni regionali››. Nei ricorsi si lamentava inoltre la violazione di legge formale d’Assemblea stabilita dall’art. 11, comma 2, L. cost. n. 3 del 2001 per i progetti di legge di legge riguardanti le materie di potestà legislativa concorrente e anche la violazione dell’art. 117, comma 3, Cost. in combinato disposto con l’art. 10 L. cost. n. 3 del 2001 e con le norme contenute negli Statuti speciali delle Regioni ricorrenti; tuttavia la Corte non analizza tali profili in modo specifico, affrontando solo quello principale riferito alla lamentata incongruità e contraddittorietà della delega rispetto all’art. 76 Cost.

[193] Cfr. Corte cost. sent. n. 280 del 2004.

[194] Così MASALA P., Delegazione legislativa e attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, cit., 190.

[195] In questi termini MASALA P., op. ult. cit., 192.

[196] Così MASALA P., op. ult. cit., 192. Questa tabella può restituire un’immagine sintetica di quanto descritto:

 

 

Parere Conferenza Stato-Regioni (preliminare)

Parere Commissioni questioni regionali (preliminare)

Parere Conferenza Stato-Regioni (definitivo)

Parere Commissione questioni regionali (definitivo)

Professioni

Proposte di modifica (linee guida)

Favorevole con osservazioni

Negativo, salvo accoglimento richiesta emendativa

Favorevole con osservazioni (invito a modificare)

Banche a carattere regionale

 

Negativo

Favorevole con osservazioni

Favorevole con osservazioni

Favorevole con osservazione

Armonizzazione dei bilanci pubblici

Negativo

Favorevole con osservazioni

Negativo, salvo accoglimento richieste di modifica

Favorevole con osservazioni

 

[197] Così MASALA P., op. ult. cit., 194.

[198] Per approfondimenti,  si rimanda a  MASALA P., op. ult. cit., 196 ss.

[199] Così STRADELLA E., Le deleghe legislative per finalità: il caso delle deleghe contenute nelle leggi comunitarie. Analisi delle deleghe comunitarie nella XIV e XV Legislatura, ROSSI E. (a cura di), Le trasformazioni della delega legislativa,  Padova, Cedam, 2009, cit., 144.

[200] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, in BIFULCO R.-CELOTTO A.-OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Torino, Utet, 2006, cit., 1500. La c.d. legge La Pergola è stata preceduta dalla c.d. legge Fabbri, n.183/1987, che consolida l’ampio utilizzo della delega legislativa, ma limitandone il conferimento all’attuazione delle direttive già emanate e prevedendo un termine generale di 12 mesi per l’attuazione e l’introduzione di principi e criteri direttivi differenziati per materia.

[201] Così STRADELLA E., Le deleghe legislative per finalità: il caso delle deleghe contenute nelle leggi comunitarie. Analisi delle deleghe comunitarie nella XIV e XV Legislatura, cit., 151. In particolar modo la legge n. 11/2005 dispone che lo Stato, le Regioni e le Province autonome nelle materie di propria competenza legislativa danno tempestiva attuazione alle direttive comunitarie. A tal proposito è disposto che la legge comunitaria annuale deve recare, in riferimento alla delegazione legislativa,  disposizioni per assicurare l’applicazione degli atti del Consiglio o della Commissione europea, anche mediante il conferimento al Governo di delega legislativa e disposizioni che, nelle materie di competenza legislativa delle Regioni e delle Province autonome ‹‹conferiscono delega al Governo per l’emanazione di decreti legislativi recanti sanzioni penali per la violazione delle disposizioni comunitarie recepite dalle regioni e dalle province autonome››.

Inoltre, rispetto al nostro tema, di particolare rilevanza sono le disposizioni contenute nell’art. 10, comma 4 e 5 della legge c.d. Buttiglione, poiché viene disposto che, i decreti legislativi che attuano le normative comunitarie e i decreti legislativi recanti testi unici per il riordino e l’armonizzazione di normative di settore devono essere adottati nel rispetto dei principi e criteri direttivi generali previsti dalla legge comunitaria annuale di riferimento anche se la delega è contenuta in leggi diverse.

[202] Così BONOMI A., Le leggi comunitarie e la delineazione dei principi e dei criteri direttivi per rinvio alle direttive comunitarie nelle materie coperte da riserva di legge (aspetti problematici), in ROSSI E. (a cura di), Le trasformazioni della delega legislativa,  Padova, Cedam, 2009, cit., 294.

[203] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1500.

[204]Così LUPO N., La formazione parlamentare delle leggi di delega, in www.osservatoriosullefonti.it, 2002, cit., 25.

[205] Così BONOMI A., Le leggi comunitarie e la delineazione dei principi e dei criteri direttivi per rinvio alle direttive comunitarie nelle materie coperte da riserva di legge (aspetti problematici), cit., 295.

[206] In questi termini BONOMI A., op. ult. cit., 295.

[207] Cfr. Corte costituzionale sentt. nn. 156 del 1987, 354 del 1998 e 212 del 1999.

[208] Così BONOMI A., Le leggi comunitarie e la delineazione dei principi e dei criteri direttivi, cit., 297.

[209] In questi termini BONOMI A., op. ult. cit., 297.

[210] Cfr. Corte costituzionale sent. 282 del 1990. In tal caso, infatti, l’indicazione dei principi e dei criteri direttivi nella legge di delega a cui il Governo deve attenersi devono essere stringenti; poiché il precetto della riserva di legge ha una funzione di garanzia dei diritti fondamentali (vale a dire che le limitazioni di tali diritti non possono essere disposte se non dal Parlamento) e di garanzia delle minoranze parlamentari (le quali devono poter partecipare alla formazione della norma che incide sulla materia riservata), ecco perché la discrezionalità del legislatore delegato deve essere in questo caso circoscritta con ancora maggiore rigore. Così BONOMI A., Le leggi comunitarie e la delineazione dei principi e dei criteri direttivi per rinvio alle direttive comunitarie nelle materie coperte da riserva di legge (aspetti problematici), cit., 297.

[211] Così BONOMI A., op. ult. cit., 300.

[212] Così HONORATI C., La comunitarizzazione della tutela penale e il principio di legalità nell’ordinamento comunitario, in RUGA RIVA C. (a cura di), Ordinamento penale e fonti non statali. L’impatto dei vincoli internazionali, degli obblighi comunitari e delle leggi regionali sul legislatore e sul giudice penale, Milano, 2007, cit., 184.

[213] Cfr. Corte cost. ord. n. 134 del 2003.

[214] Così BONOMI A., Le leggi comunitarie e la delineazione dei principi e dei criteri direttivi, cit., 305.

[215] Così PALADIN L., Art. 76, cit., 34.

[216] La differenza, infatti, tra le due fattispecie risiede proprio nella possibilità, consentita ai testi unici di coordinamento di raccogliere, armonizzare tra loro le disposizioni in una determinata materia, eliminando quelle già abrogate ma anche abrogando quelle incompatibili con la suddetta armonizzazione, oppure aggiungendo norme nuove purché finalizzate all’integrazione e al coordinamento delle norme vigenti. Mentre, per quanto riguarda i testi unici meramente compilativi, pur perseguendo il medesimo scopo di ristabilire la maggiore unità possibile tra le disposizioni vigenti in una determinata materia, tale finalità si deve realizzare senza apportare modificazioni sostanziali alle vigenti disposizioni di legge. Tuttavia, la classificazione dei testi unici nei due diversi tipi considerati non è agevole nella prassi, poiché talvolta è previsto un criterio formale, vale a dire: per qualificare i testi unici di coordinamento viene utilizzato il termine “delega” e l’espressa qualificazione del decreto del Governo come decreto legislativo; mentre viene utilizzato il termine “autorizzazione” per qualificare i testi unici meramente compilativi. Talvolta invece, indipendentemente dalla formula lessicale utilizzata, un testo unico è considerato di coordinamento semplicemente per l’ampiezza della delega conferita oppure qualora sussista un valido conferimento di potere da parte del legislatore. Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, II ed., Torino, Giappichelli, 2007, 294 s.

[217] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 294; PALADIN L., Art. 76, cit., 35.

[218] Tuttavia la Corte costituzionale talvolta in presenza di testi unici compilativi non ha dichiarato inammissibili le relative questioni di legittimità costituzionale, ma non ha esitato a dichiarare illegittime taluni dispositivi (come è avvenuto nelle sent. n. 47 del 1970).

[219] Così PALADIN L., Art. 76, cit., 35. Anche se una dottrina meno recente riteneva che l’atto di adozione di un testo unico meramente compilativo dovesse essere anch’esso qualificato come atto avente forza di legge, per il fatto di avere come suo oggetto disposizioni legislative e perché comunque si poneva come novazione della fonte delle disposizione; così CERVATI A.A., Delega legislativa, Milano, Giuffrè, 1972, cit., 143, nota 6.

[220] Così CICCONETTI. S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 295.

[221]È stato infatti osservato che se non si trattasse di una delega legislativa, l’incarico di compilare un testo unico sarebbe superfluo, dal momento che l’atto governativo si ridurrebbe al livello di una qualunque raccolta privata e inoltre non troverebbe nemmeno una spiegazione il fatto che testi del genere vengano pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, dal momento che non avrebbe senso (oltre al fatto di non essere prevista in nessuna disposizione costituzionale) la ripubblicazione di leggi già in vigore. Così PALADIN L., Art. 76, cit., 35 s.

[222] La legittimità costituzionale dei testi unici misti è stata affermata dal Consiglio di Stato nell’Adunanza generale del 29 marzo 2001, n. 4. Ove il Consiglio di Stato, prendendo le mosse dalla legge 50 del 1999, ha affermato che le disposizioni sui testi unici di natura mista in essa contenute costituiscono una deroga all’art. 14 della legge n. 400 del 1988. Questo risulta possibile in quanto quest’ultima legge ha rango di legge ordinaria e questo ne permetterebbe la deroga da parte di leggi successive. Inoltre a sostegno dell’ammissibilità e della legittimità dei c.d. testi unici  misti il Consiglio di Stato ha fatto riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 354 del 1998, ove la Corte ha ritenuto legittime le fonti che comprendono disposizioni di grado diverso. Dunque questo consentirebbe al Governo di adottare un decreto contenete norme legislative e regolamentari. Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, cit., 120 s.

[223] Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, cit., 119.

[224] Per tale orientamento PALADIN L., Le fonti del diritto italiano, cit., 223; CERRI A., Delega legislativa, cit., 13; CICCONETTI. S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 296.

[225] L’iter parlamentare della legge del 2003 è stato particolarmente complesso. Questa legge è stata, infatti, oggetto di rinvio da parte del Presidente della Repubblica ex art. 74 Cost. per questioni legate alla copertura finanziaria. In totale, prima dell’approvazione definitiva, sono stati necessari cinque passaggi parlamentari (tre precedenti al rinvio e cinque successivi)[225]. Tuttavia soffermandoci sulle disposizioni di delega, queste sono in totale dieci (artt. da 2 a 11), nessuna della quali è giunta ad approvazione nel testo contenuto nell’originario disegno di legge (i primi quattro articoli menzionati erano previsti nell’atto di iniziativa governativa, mentre gli altri sono stati introdotti in via emendativa). Eppure, se si va a guardare quale parte delle deleghe sia poi effettivamente stata seguita dall’emanazione di decreti legislativi, l’attuazione delle stesse deleghe è stata solamente parziale, infatti, solo in quattro ambiti materiali su dieci è intervenuto il legislatore delegato, mentre per le altre sei deleghe sono decaduti i termini. Così PICCIRILLI G., Le deleghe legislative contenute nelle leggi annuali di semplificazione. Analisi delle leggi di semplificazione 2001 e 2005, in ROSSI E. (a cura di), Le trasformazioni della delega legislativa, cit., 169 s. Questa tabella può costituire un’immagine sintetica di quanto descritto, relativamente alla L. 29 luglio 2003, n. 229:

 

Art.

Materia

Seguito

2

Produzione normativa, di semplificazione e di qualità della regolazione

--

3

Sicurezza del lavoro

--

4

Assicurazioni

D.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private).

5

Incentivi alle attività produttive

--

6

Prodotti alimentari

--

7

Tutela dei consumatori

D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo).

8

Metrologia legale

--

9

Internazionalizzazione delle imprese

--

10

Società dell’informazione

D.lgs. 28 febbraio 2005, n. 42 (Istituzione del sistema pubblico di connettività e della rete internazionale della pubblica amministrazione, a norma dell’art. 10, della legge 29 luglio 2003, n. 229); d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale).

11

Corpo nazionale dei vigili del fuoco

D.lgs. 8 marzo 2006, n. 139 (Riassetto delle disposizioni relative alle funzioni ed ai compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, a norma dell’art. 11 della legge 29 luglio 2003, n. 229).

 

[226] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, 1498.

[227] Così FRONTONI E., Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, cit., 122 s. Ove viene sottolineato che tali codici di settore appaiono lontani dall’idea storica di codificazione, avvicinandosi molto di più a un’opera di decodificazione.

[228] Così FRONTONI E., op. ult. cit., 122.

[229] In questi termini FRONTONI E., op. ult. cit., 122.

[230] In questi termini FRONTONI E., op. ult. cit., 124. Cfr. Consiglio di Stato, sez. cons. atti normativi 31 gennaio 2005, n. 1196; ove con questo parere interlocutorio la sezione sospende l’espressione del parere in attesa che l’Esecutivo acquisisca il parere della Conferenza Stato Regioni, considerato particolarmente importante soprattutto in materia di potestà concorrente.

[231]La legge di semplificazione 2005 ha avuto un iter parlamentare maggiormente lineare rispetto a quella del 2003, infatti, sono stati solo tre i passaggi parlamentari e, inoltre tutte le disposizioni di delega risultavano già definite al termine della prima lettura presso il Senato. In totale gli articoli contenenti deleghe sono sei e più della metà hanno avuto seguito da parte del Governo (artt. 3, 4, 5, 6, 7 e 14), a cui si sono aggiunti altri due articoli contenti la possibilità di adottare decreti legislativi correttivi e integrativi (artt. 17 e 18).

[232]Per un approfondimento sul caso del meccanismo del c.d. tagli-leggi e per le varie problematiche e interrogativi da esso suscitati si rimanda a CARNEVALE P., La legge di delega come strumento per la semplificazione normativa e la qualità della normazione: il caso del meccanismo del c.d. “taglia-leggi”, in www.federalismi.it, n. 12/2009.

[233] Così CARNEVALE P., op. ult. cit., 4.

[234] Così CARNEVALE P., op. ult. cit., 4.

[235] Sul punto la dottrina – in riferimento alle prime due deleghe − sostiene che ‹‹innanzitutto, è necessario capire se si tratti di due deleghe differenti o non piuttosto di un’unica delega legislativa, ancorché internamente articolata. A spingere nel primo senso è, sia il dato della previsione in due disposizioni formalmente distinte, sia il fatto che nella seconda – vale a dire nel comma 15 dell’art. 14 – si faccia riferimento a principi e criteri direttivi completamente diversi da quelli indicati nel comma precedente››; così CARNEVALE P., La legge di delega come strumento per la semplificazione normativa e la qualità della normazione: il caso del meccanismo del c.d. “taglia-leggi”, in www.federalismi.it, n. 12/2009, cit., 8, aderisce allo stesso orientamento anche il Consiglio di Stato  nel parere n. 2024 del 2007.

[236] Per un approfondimento sul punto si rimanda a CARNEVALE P., La legge di delega come strumento per la semplificazione normativa e la qualità della normazione: il caso del meccanismo del c.d. “taglia-leggi”, in www.federalismi.it, n. 12/2009.

[237] Così PICCIRILLI G., Le deleghe legislative contenute nelle leggi annuali di semplificazione. Analisi delle leggi di semplificazione 2001 e 2005, cit.,  177.

[237] PICCIRILLI G., op. ult. cit.,177.

[238] Così CARNEVALE P., La legge di delega come strumento per la semplificazione normativa e la qualità della normazione: il caso del meccanismo del c.d. “taglia-leggi”, cit., 11. Il quale sul sottolinea  i problemi di compatibilità costituzionale, cioè a dire di conformità alla previsione dell’art. 76 della Costituzione sub specie di rispetto dei requisiti necessari della delegazione legislativa. Viene sottolineato, infatti, che sia quella di riassetto che quella salvifica «si presenta come una delega assolutamente priva di una sia pur minima ed anche allusiva delimitazione di oggetto, materia, ambito, riguardando potenzialmente tutta la legislazione prodotta sino al dies ad quem del 1° gennaio 1970 vigente in ogni settore dell’ordinamento, a fronte della richiesta costituzionale di un “oggetto definito” che, per quanta elasticità si possa usare, sarebbe chiaramente elusa»; così CARNEVALE P., op. ult. cit., 19 s.

[239] In questi termini PICCIRILLI G., Le deleghe legislative contenute nelle leggi annuali di semplificazione. Analisi delle leggi di semplificazione 2001 e 2005, cit.,177 s.

[240] Così CARNEVALE P., La legge di delega come strumento per la semplificazione normativa e la qualità della normazione: il caso del meccanismo del c.d. “taglia-leggi”, cit.,  8.

[241]Così CARNEVALE P., op. ult. cit., 17 s. Lo stesso inoltre sottolinea che ‹‹laddove la si ritenga utilizzabile al fine di consentire l’eliminazione di prescrizioni legislative dagli elenchi delle disposizioni salvate contenuti nei decreti legislativi attuativi della delega di cui al comma 14, in quanto successivamente ritenute non indispensabili, si pone un’evidente questione di compatibilità con quest’ultima delega››. ‹‹Dato il fatto che la correzione dovrà esercitarsi nel rispetto degli stessi principi e criteri direttivi della delega principale, ci si deve domandare come ciò sia possibile, stante il fatto che essi risultano formulati con riguardo ad un’operazione di individuazione di disposizioni da mantenere in vita. Com’è possibile, infatti, che i medesimi principi possano informare l’azione del legislatore delegato, sia se finalizzata a salvare disposti normativi ritenuti, in prima battuta, sia ove rivolta a determinare l’effetto opposto; vale a dire l’eliminazione di disposizioni? Come si fa a pensare ad un canovaccio unico per orientare, al medesimo tempo, percorsi così divaricati, anzi teleologicamente contrapposti?››. ‹‹Delle due l’una: se si ammette tale duplice supporto, allora ineludibilmente sitestimonia dell’assoluta inconsistenza dei principi e criteri fissati dal legislatore delegato, perché “buoni ad ogni uso”. Se, invece, lo si esclude, allora si nega in radice la possibilità di una correzione “in linea” con la delega principale››.

Non minori perplessità, secondo la stessa dottrina,  suscita la considerazione dell’ipotesi inversa, nella quale la correzione sia tesa a recuperare ‹‹disposizioni trascurate dai decreti legislativi salvifici, eppure meritevoli di sopravvivere al big bang dell’abrogazione generalizzata prevista dal comma 16. Il fatto è che, stante l’automatismo della clausola taglia-leggi, c’è il rischio molto concreto che quando interverrà la correzione, le disposizioni da recuperare all’ordinamento siano già state abrogate. Come sarebbe possibile allora al legislatore delegato effettuare la modifica in senso integrativo degli elenchi di disposizioni da mantenere in vigore, contenuti nei decreti legislativi di prima attuazione, posto che il primo dei principi della delega principale recita: «esclusione delle disposizioni oggetto di abrogazione tacita o implicita»? E, poi, […], c’è da chiedersi se un simile ripristino di efficacia delle disposizioni legislativa contenute in leggi anteriori al 1970 – prima in vigore, poi abrogate dalla clausola taglia-leggi e, infine, richiamate in vita – generando un problematico effetto di intermittenza di vigenza, possa considerarsi coerentemente inquadrabile in quella logica di razionalizzazione dell’ordinamento, da un lato, e di chiarificazione, a fini di certezza, dall’altro, cui l’intera operazione posta in essere dal legislatore del 2005 vorrebbe ispirarsi››; così CARNEVALE P., op. ult. cit., 15 ss.

[242] Per un approfondimento in tale senso si rimanda a CARNEVALE P., La legge di delega come strumento per la semplificazione normativa e la qualità della normazione: il caso del meccanismo del c.d. “taglia-leggi”, in www.federalismi.it, n. 12/2009.

[243] Così CARNEVALE P., op.ult. cit., 26.

[244] Così CERRI A., Delega legislativa, 14.

[245] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, cit., 1496.

[246] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., op. ult. cit., 1496.

[247] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 14.

[248] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, 1496.

[249] In tal senso PALADIN L, Art. 76, cit., 41.

[250] In tal senso CERRI A., Delega legislativa., cit., 14.

[251] Così CERRI A., Delega legislativa, 14; cfr. Corte costituzionale sentt. nn. 100/1980, 832/1988, 370/1992.

[252] Cfr. Corte costituzionale sentt. nn. 34/1960, 111/1967.

[253] Così MODUGNO F., Le fonti del diritto, in MODUGNO F. (a cura di), Diritto pubblico, II ed., Torino, Giappichelli, 2015, 190.

[254] Così CERRI A., Delega legislativa,cit., 13.

[255] Così CERRI A., op. ult. cit., 13.

[256] Così CERRI A., op. ult. cit., 13.

[257] In questi termini CERRI A., op. ult. cit., 13.

[258] Cfr. Corte costituzionale sentt. nn. 37/1957, 42/1958, 38/1959, 47/1962, 2/1966, 164/1973.

[259] Così CERRI A., Delega legislativa, cit., 14.

[260] In questi termini CERRI A., op. ult. cit., 14; come confermano le sentenze della Corte costituzionale nn. 46/1960, 85/1962, 95/1964; 104/1969.

[261] Così CERRI A., op. ult. cit., 14. Anche se bisogna sottolineare che per parte della dottrina, quanto ai decreti legislativi di attuazione degli statuti speciali, ritiene che non si può parlare in senso proprio né di decreto-legge né di decreto legislativo, ma di una competenza specifica del Governo per l’adozione di norme di attuazione degli statuti delle Regioni ad autonomia speciale, attribuita all’Esecutivo da disposizioni di rango costituzionale (quali gli statuti speciali); così MODUGNO F., Le fonti del diritto, in MODUGNO F. (a cura di), Diritto pubblico, II ed., Torino, Giappichelli, 2015, 154.

[262] Cfr. Corte costituzionale sentt. nn. 212/1984; 160/1985.

[263] Cfr. Corte costituzionale sentt. nn. 180/1980, 151/1972; 237/1983.

[264] Così SORRENTINO F., Le fonti del diritto italiano, Verona, Cedam, 2009, cit., 232 s.

[265] Così CARETTI P., I diritti fondamentali, III ed., Torino, Giappichelli, 2011, cit., 108 s.

[266] Per tale orientamento GIARDINA A., Art. 78, in BRANCA G. (a cura di), Commentario della Costituzione, vol. II, Bologna, Zanichelli, 1979, 109, CERRI A., Delega legislativa, in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1993, 14 e CARETTI P., I diritti fondamentali, 109.

[267] Così FERRARI G., Guerra (stato di), in Enc. dir., vol. XIX, Milano, Giuffrè, 1970, cit., 109.

[268] Così CARNEVALE P., La Costituzione va alla guerra?,  Napoli, Editoriale Scientifica, 2013, cit., 36.

[269] Così CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, cit., 297.

[270] Così PACE A., Problematica delle libertà costituzionali, I ed., Padova, Cedam,1992, cit., 157.

[271] Cfr. Corte costituzionale sent. n. 15/1982.

[272] Così GIARDINA A., Art. 78, 109; CERRI A., Delega legislativa, 14 , CICCONETTI S.M., Le fonti del diritto italiano, 297e CARETTI P., I diritti fondamentali, 109.

[273] Del resto è la stessa Costituzione a prevedere per il tempo di guerra l’automatica o possibile operatività di norme che derogano ad alcune delle norme costituzionali vigenti: è il caso dell’art. 27, comma 4, Cost., che ammette la pena di morte nei casi previsti dalle leggi militari di guerra (peraltro, la legge n. 589/1994 ha eliminato espressamente questa pena da tutte le disposizioni del codice penale militare di guerra che la prevedevano); dell’art. 60, comma 2, Cost. che consente la proroga della durata di ciascuna Camera; dell’art. 103, comma 3, che stabilisce l’estensione della giurisdizione dei tribunali militari in tempo di guerra, non più limitata, come in tempo di pace, alla cognizione dei reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate; dell’art. 111, comma 2, che consente la deroga all’impugnabilità in Cassazione delle sentenze dei tribunali militari; così CARETTI P., I diritti fondamentali, cit.,108.

[274] Per tale orientamento CARETTI P., I diritti fondamentali, cit., 112.

[275] Per tale orientamento SORRENTINO F., Le fonti del diritto italiano, 232 ss.

[276] Così CARETTI P., I diritti fondamentali, cit., 112.

[277] Per un’ampia trattazione della tematica si rimanda a CARNEVALE P., La Costituzione va alla guerra?,  Napoli, Editoriale Scientifica, 2013, 69 ss.

[278] Così CARETTI P., I diritti fondamentali, cit., 111.

[279] Così CARETTI P., op. ult. cit., 112.

[280] Così CARETTI P., op. ult. cit., 113.

[281] In particolar modo il riferimento è alla missione Operazione locusta (poi Desert Storm) (iniziata il 25 settembre 1990) per ristabilire lo status prima dell’invasione irachena del Kuwait; alla missione Allied Force (iniziata il 24 marzo del 1999) per il ristabilimento della pace nel Kosovo ed infine, alla missione Enduring freedom (iniziata il 18 novembre 2001) di sostegno alle operazioni militari degli Stati Uniti in Afghanistan conseguenti agli attentati dell’11 settembre 2001. Per un analisi approfondita della tematica CARNEVALE P., La Costituzione va alla guerra?,  Napoli, Editoriale Scientifica, 2013.

[282] In questi termini CARNEVALE P., La Costituzione va alla guerra?, cit., 45.

[283] Così CARNEVALE P., La Costituzione va alla guerra?, cit., 45 s.

[284] Così CARNEVALE P., op. ult. cit., 46. Anche se va pure rilevato che il dispositivo dei predetti atti di indirizzo reca di solito una formula generica di approvazione congiunta delle comunicazioni rese e delle azioni intraprese dall’Esecutivo, senza che si faccia esplicito riferimento a individuate deliberazioni del Consiglio dei ministri o emerga il previo esame del Consiglio supremo di difesa, così come richiesto dalla l. 25 del 1997, ove è previsto un consenso parlamentare su deliberazioni del Consiglio dei ministri, cioè su specifiche decisioni prese dal Governo; così CARNEVALE P., op. ult. cit., 47 s.

[285] Così CARNEVALE P., op. ult. cit., 45 ss.

[286] Così CARNEVALE P., op. ult. cit., 51.

[287] In questi termini CARNEVALE P., op. ult. cit., 285.

[288] Ai fini di tale analisi sono stati utilizzati OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 1998 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, 2002, 19-52; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 1999 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, 2002, 23-41; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2000 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, 2002, 45-60; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2001 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, 2002. 23-48; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2002 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, 2003, 139-178; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2003 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, 2004, 163-202; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2004 e 2005 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, 2005, 293-331; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2006 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, tomo II, 2007, 263-304; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2007 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, 2007, 311-355; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2008 sullo stato della legislazione,in www.camera.it, tomo II, 2008, 343-387; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2009 sullo stato della legislazione, in  www.camera.it, tomo II, 2009, 255-290; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2010 sullo stato della legislazione,in www.camera.it, tomo II, 2010; 295-333; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2011 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, tomo II, 2011, 307-343; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2012 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, vol. II, tomo II, 2012, 375-429; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2013 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, vol. II, tomo II, 2014, 435-499; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2014 sullo stato della legislazione, in www.camera.it, vol. II, tomo II, 2015, 427-454; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE, Rapporto 2015 e 2016 sullo stato della legislazione,in www.camera.it, vol. II, 2017, 333-365; OSSERVATORIO SULLA LEGISLAZIONE-APPUNTI DEL COMITATO PER LA LEGISLAZIONE, La produzione normativa nella XVII legislatura n. 13-aggiornamento al 20 ottobre 2017, in www.camera.it, 2017, 1-10; www.governo.it.

[289] Al fine di esaminare con più precisione tali dati, bisogna evidenziare che non tutte le Legislature hanno avuto la stessa durata, infatti, la XII Legislatura (comprendente i Governi Berlusconi I e Dini) ha avuto inizio il 15 aprile 1994 e fine l’8 maggio 1996; la XIII Legislatura (comprendente i Governi Prodi I, D’Alema I, D’Alema II e Amato II) ha avuto inizio il 9 maggio 1996 e fine il 29 maggio 2001; la XIV Legislatura (comprendente i Governi Berlusconi I e II) ha avuto inizio il 30 maggio 2001 e fine il 27 aprile 2006; la XV Legislatura (comprendente il Governo Prodi II) ha avuto inizio il 28 aprile 2006 e fine il 28 aprile 2008; la XVI Legislatura (comprendente i Governi Berlusconi IV e Monti) ha avuto inizio il 29 aprile 2008 e fine il 14 marzo 2013; La XVII Legislatura (comprendente i Governi Letta, Renzi e Gentiloni) ha avuto inizio il 15 marzo 2013 e fine il 22 marzo 2018.

[290] Sul punto è opportuno segnalare che in riferimento alla XVII Legislatura la produzione di tali strumenti normativi e le relative medie si riferiscono al periodo che va dall’inizio di tale Legislatura fino al 20 ottobre 2017, poiché non sono ancora stati resi disponibili i dati definitivi. Per quanto riguarda le medie mensili di produzione di ciascun atto, tali dati sono arrotondati alla prima cifra decimale.

[291] In particolare nella XII Legislatura la produzione della legge ordinaria supera di circa sei volte quella dei decreti legislativi e è poco meno del doppio di quella dei decreti-legge; nella XIII Legislatura la legge ordinaria è poco meno del doppio di quella dei decreti legislativi, mentre è più di quattro volte superiore rispetto a quella dei decreti-legge; nella XIV Legislatura la produzione della legge ordinaria è quasi il triplo di quella dei decreti legislativi e dei decreti-legge; nella XV Legislatura la produzione della legge ordinaria è tendenzialmente uguale a quella dei decreti legislativi, mentre è circa il doppio di quella dei decreti-legge; nella XVI Legislatura la produzione della legge ordinaria è quasi il doppio rispetto alla produzione dei decreti legislativi e è più del triplo di quella dei decreti-legge; nella XVII Legislatura la legge ordinaria è circa il doppio di quella dei decreti legislativi, mentre è più del triplo rispetto a quella dei decreti-legge.

[292]In particolare nella XII Legislatura la produzione dei decreti-legge ha superato più dl triplo quella dei decreti legislativi; nella XIII Legislatura la produzione dei decreti legislativi è quasi il doppio di quella dei decreti-legge; nella XIV Legislatura la produzione dei decreti-legislativi e dei decreti-legge sono tendenzialmente uguali; nella XV, XVI e XVII Legislatura la produzione dei decreti legislativi è circa il doppio rispetto a quella dei decreti-legge.

[293] I dati sono stati ricavati da www.governo.it. Al momento in cui si scrive, infatti, la produzione dei decreti legislativi è pari a 16, quella della legge ordinaria è pari a 12 (“depurando” tale dato da quello avente iniziativa legislativa vincolata, si ricava che solo una legge ha avuto iniziativa legislativa non vincolata) e quella dei decreti-legge è pari a 6.

[294] I dati sono stati ricavati da www.governo.it.

[295] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., Art. 76, in BIFULCO R.-CELOTTO A.-OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Torino, Utet, 2006, 1501.

[296] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., op. ult. cit., 1502.

[297] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., op. ult. cit., 1502.

[298] RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., op. ult. cit., 1502 s.

[299] In particolar modo, l’approvazione è richiesta dalla Costituzione per le ordinanze normative del Governo federale relative ai principi generali e alle tariffe per l’utilizzazione dei servizi postali, delle telecomunicazioni e delle linee ferroviarie della Federazione, per quelle relative alla costruzione e all’esercizio delle ferrovie.

[300] Vale a dire di leggi relative alla regolamentazione dei diritti fondamentali e delle libertà pubbliche,  quelle che approvano gli statuti delle Autonomie e il regime elettorale, nonché le altre previsioni della Costituzione, come prevede (l’art. 81 Cost. sp.).

[301] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., op. ult. cit., 1504.

[302] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., op. ult. cit., 1502.

[303] Tuttavia la dottrina tende a considerarle atti legislativi anche sul rilievo che esse, dopo la scadenza del termine fissato dal Parlamento, non possono essere modificate se non per legge; così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., op. ult. cit.,1502.

[304] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., op. ult. cit., 1504.

[305] Così RUOTOLO M.-SPUNTARELLI S., op. ult. cit., 1505.

 

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