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Pubbl. Lun, 2 Mar 2020

L´esercizio di funzioni sovrane tra danni ingiusti e violazione dei diritti fondamentali della persona

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Fabio Toto
AvvocatoUniversità degli Studi di Palermo


Per la tesi maggioritaria, la responsabilità dello Stato per la violazione delle funzioni sovrane sarebbe da qualificare come responsabilità extracontrattuale perché la violazione della posizione del singolo prescinde da uno specifico vincolo giuridicamente rilevante tra danneggiato e danneggiante.


Sommario: 1) Premessa. 2) Funzioni Sovrane. 3) Danni ingiusti. 4) Lesione dei diritti fondamentali della persona. 4.1) Lesione da parte dello Stato. 4.2) Lesione in ambito internazionale. 

Abstract Ita: Il contributo affronta il problema dei danni ingiusti cagionati nell’esercizio delle funzioni sovrane dello Stato, mettendo in luce alcuni esempi paradigmatici di violazione dei diritti fondamentali della persona. Una particolare attenzione è poi dedicata agli strumenti di tutela dall’ordinamento apprestati.

Abstract Eng: The paper carry out the problem of unjust damages caused in the exercise of the sovereign functions of the state, highlighting some paradigmatic examples of violation of fundamental human rights. Particular attention is paid to the legal protection tools provided, too. 

1. Premessa

Il presente contributo si propone l’obiettivo di individuare e focalizzare quali siano le funzioni sovrane che caratterizzano il moderno Stato di diritto.

Come noto, la nascita delle stesse risente della celebre teoria della separazione dei poteri di Montesquieu (1748), la quale mira all’obiettivo di assicurare la libertà ed i diritti ai cittadini.

Ciò nonostante, le funzioni sovrane talvolta finiscono per arrecare danni ingiusti.

L’indagine, pertanto, si concentrerà sull’individuazione della norma riferimento che punisce la violazione dei diritti garantiti dall’ordinamento giuridico ai cittadini.

Infine, ci si soffermerà sulla violazione dei diritti fondamentali delle persone da parte degli organi nazionali e sovranazionali.

2. Funzioni sovrane

Preliminare alla trattazione è l’individuazione di quali siano le funzioni che possano essere qualificate come sovrane nell’ambito di uno Stato. 

La norma più significativa in tal senso è l’art. 1, comma 2, Cost., secondo cui “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Questa norma permette di individuare i due capisaldi sui quali si fondano le funzioni sovrane. Da un lato, nello stabilire che la sovranità appartiene al popolo, la norma impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare esaurendosi. Dall’altro, la disposizione, nel condizionare l’esercizio nelle forme e ai limiti della Costituzione, indica che i poteri sovrani non possono che trovare fondamento e limiti nella stessa. 

Ne consegue che nel moderno Stato di diritto possono essere considerate sovrane solamente quelle funzioni che la Costituzione riconosce come tali. In tal senso, dunque, la Carta fondamentale si pone al contempo come fondamento e come limite delle funzioni dello Stato.

Inoltre, stabilire che la sovranità appartiene al popolo, sta anche a significare che essa è esercitata in funzione di questi, ovvero per garantire i diritti inviolabili che la Costituzione riconosce ai cittadini (art. 2 Cost.)[1].

Un’ulteriore norma che interseca il concetto di sovranità è l’art. 11 della Costituzione, il quale stabilisce  che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. La disposizione va collocata nell’ambito del perimetro della norma di riferimento in tema di sovranità - ovvero l’art. 1, comma, 1, Cost. - aggiungendo la circostanza che possano prevedersi ulteriori limitazioni alla sovranità statale deferendole ad organismi internazionali deputati ad assicurare la pace e la giustizia.

Inquadrato - a livello Costituzionale - il concetto di sovranità è opportuno individuare attraverso quali poteri viene esercitato tale concetto.

La Costituzione ha previsto espressamente tre tipi di funzioni sovrane: legislativa (artt. 70/82 Cost.), esecutiva (92/98 Cost.) e giurisdizionale (artt. 101/113 Cost.). Secondo l’opinione prevalente le tre funzioni sopra individuate si presenterebbero come necessarie per l’esistenza ed il funzionamento dello Stato, poiché l’ ipotetica eliminazione di una di esse porterebbe a negare questo ultimo.

A conferma di quanto esposto, si osserva che gli elementi fondanti uno Stato sono: il popolo, il territorio e la sovranità. Ed invero, non sarebbe qualificabile come uno Stato una comunità che manchi di tali elementi essenziali.

3. Danni ingiusti

Inquadrate a livello costituzionale le funzioni sovrane, ci si chiede se l’esercizio delle stesse possa provocare danni ingiusti.

Sul punto, manca una norma specifica, per tale motivo si è ipotizzato di applicare l’art. 2043 c.c. a tali funzioni[2].

La soluzione, tuttavia, presenta talune problematiche. La prima è che la norma civilistica è tradizionalmente riferita ai rapporti privatistici, ivi compresi quelli in cui fosse presente una parte pubblica che operi con gli strumenti del diritto comune. La seconda origina dalla contraddizione tra esercizio di funzioni sovrane ed illecito.

In particolare, ci si chiedeva come fosse possibile che l’esercizio di un potere pubblico (come tale deputato a garantire diritti costituzionalmente riconosciuti) possa qualificarsi come fatto illecito.

La prima questione è stata risolta in base alla circostanza che una volta demolito il potere, esso si qualifica in un fatto. La seconda delle questioni, invece, ha avuto soluzioni variegate nel tempo. L’opinione più risalente, riteneva che un potere pubblicistico non potesse mai essere fonte di fatti illeciti, poiché per questo ultimo era prevista una presunzione assoluta di legittimità grazie all’espresso riconoscimento costituzionale. Per la tesi più risalente, dunque, i poteri dello Stato non potevano essere sindacati dai privati. La problematica è stata oggetto di un’evoluzione che ha portato a rivedere i rapporti tra Stato e cittadini, ed infatti, oggi si ritiene che non esistano più poteri assoluti e come tali insindacabili. La base di questo ripensamento deriva dal fatto che i poteri dello Stato sono limitati dalla Costituzione ed esercitati per tutelare e garantire i diritti dei cittadini, dunque, nel caso in cui vengano violate tali prerogative è ben possibile che questi ultimi siano vittime di fatti illeciti ad opera dello Stato.

Ammessa la possibilità che lo Stato nell’esercizio delle sue funzioni possa cagionare danni ai cittadini, resta ora da verificare in che modo è possibile configurare ed eventualmente a che titolo addebitare detta responsabilità.

La tesi tradizionale - maggioritaria - prende le mosse dall’art. 2043 c.c., il quale sancisce che “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. La norma scolpisce il precetto cardine della responsabilità civile, in forza del quale la realizzazione di un fatto illecito fa nascere un rapporto giuridico obbligatorio tra l’autore del fatto ed il soggetto che subisce le conseguenze dannose. Come detto, ogni potere, incontra i limiti stabiliti dalla norma attributiva, pertanto, si tratta a questo punto di calare la funzione sovrana all’interno della struttura dell’illecito civile. Come si nota, la norma ruota intorno al concetto di ingiustizia del danno. Ed infatti, nell’art. 2043 c.c. la parola danno è richiamata due volte, ma con differenti significati. Nella prima accezione, “danno ingiusto” sta ad indicare l’evento di danno conseguente al fatto lesivo, il quale deve presentare l’idoneità a ledere posizioni giuridiche soggettive ritenute meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (danno cosiddetto contra ius) e deve essere altresì contrastante con l’ordinamento stesso (danno non iure datum). L’evento poi deve essere causato dalla condotta dolosa o colposa del soggetto agente ed il relativo giudizio andrà effettuato applicando gli artt. 40 e 41 c.p. previsti in materia di causalità di fatto (accertato in questo caso applicando la regola civilistica del “più probabile che non” e non quella penalistica “dell’oltre ogni ragionevole dubbio” ex art. 533, comma 1, c.p.p.)[3]. Nella seconda accezione, invece, si osserva che l’espressione “danno da risarcire” è privo del requisito dell’ingiustizia perché da esso si trasfigurano le conseguenze discendenti dalla lesione della posizione del danneggiato. Queste conseguenze (perdita e mancato guadagno) vanno individuate in base allo statuto della causalità giuridica di cui all’art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c. rubricato “valutazione dei danni” in materia di fatti illeciti. In definitiva, per la tesi maggioritaria la responsabilità dello Stato per la violazione delle funzioni sovrane sarebbe da qualificare come responsabilità extracontrattuale perché la violazione della posizione del singolo prescinde da uno specifico vincolo giuridicamente rilevante tra danneggiato e danneggiate.

Tuttavia, in merito alla questione concernente la natura giuridica della responsabilità dello Stato, si segnala anche l’esistenza di una tesi minoritaria secondo cui la violazione delle funzioni sovrane da parte dello Stato vada qualificata come responsabilità contrattuale (ex art. 1218 c.c.)[4]. A sostegno di questa tesi si richiama la circostanza che la condotta illecita si fonda sull’inadempimento da parte dello Stato agli obblighi comunitari ed internazionali e con i cittadini nel caso di illeciti nazionali. Ed invero, per quanto concerne la violazione del diritto comunitario, si è evidenziato che lo Stato è inadempiente agli obblighi assunti (ex artt. 11 e 117 Cost.) nei confronti dell’Unione Europea. La questione si era posta con particolare riferimento al cosiddetto illecito del Legislatore per mancata o tardiva attuazione di direttive comunitarie. Per quanto invece concerne la violazione del diritto nazionale, è necessario distinguere a seconda della funzione esercitata. Per quanto riguarda la funzione giurisdizionale non può ravvisarsi alcun obbligo pregresso tra cittadini ed organo giudicante. Lo stesso è da dirsi per quanto concerne la funzione legislativa, in quanto la stessa, essendo generale ed astratta ed avendo come destinatari soggetti non determinati (tranne il caso delle leggi provvedimento), si traduce nell’impossibilità di potere configurare tale attività una prestazione ex art. 1174 c.c.  Per quanto, infine, riguarda la funzione amministrativa, si osserva che la tesi della responsabilità contrattuale è stata ipotizzata considerando l’esistenza di un rapporto tra privato e p.a. nascente dell’apertura del procedimento amministrativo; la cui violazione da luogo ad inadempimento ex art. 1218 c.c. in virtù della teoria del contatto sociale qualificato.

La questione della natura giuridica della responsabilità è stata poi risolta dal legislatore con l’art. 4, comma 43, della legge n. 183/2011 che ha sposato la tesi della natura extracontrattuale della responsabilità dello Stato. In sintesi, è possibile affermare che la tesi contrattuale della responsabilità dello Stato è minoritaria e non ha avuto seguito, pertanto, qualsiasi tipo di azione sovrana può essere fonte esclusivamente di responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.

4. Lesione dei diritti fondamentali della persona

Propedeutico al prosiLesione dei diritti fondamentali della personaeguo della trattazione si rende necessario un breve inquadramento sui diritti fondamentali della persona.

Con tale espressione si intendono quei diritti riconosciuti all’individuo semplicemente in base alla sua appartenenza al genere umano. In particolare, ci si riferisce a quel nocciolo duro di diritti che ogni essere umano possiede e che si presentano come inalienabili ed incomprimibili[5].

Tra i tradizionali diritti fondamentali dell'essere umano si possono annoverare ad esempio: l’integrità fisica (ex artt. 5 c.c. e 32 Cost.), il nome (ex artt. 6 c.c. e 22 Cost.), l’immagine (ex artt. 10 c.c., 96 e 97 L. 633/41), l’onore (ex art. 594 c.p.), la reputazione (ex art. 595 c.p.), il diritto morale d'autore (L. 633/41), l’identità personale  (ex art. 2 Cost.), la riservatezza (ex art. 2 Cost. e T.U. sulla privacy), etc.

La pregnanza di tali diritti è stata riconosciuta, dopo la seconda guerra mondiale, in diversi atti legislativi.

Si richiamano al riguardo: la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Carte dei diritti fondamentali dell’unione europea.

La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, rappresenta il primo atto con il quale la comunità internazionale riconosce i diritti che spettano universalmente a ciascuna persona.  Accanto ai diritti civili e politici, nei 30 articoli che la compongono trovano spazio anche i diritti economici e sociali.  Essa svolge un ruolo fondamentale nel sistema di protezione dei diritti umani, sia perché assurge a ineludibile punto di riferimento per tutti gli accordi internazionali elaborati successivamente, sia perché diviene motivo di ispirazione delle norme statali, anche di rango costituzionale.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, invece, si divide in tre Titoli: Diritti e libertà (artt. 2/18), Corte europea dei diritti dell'uomo (artt. 19/51), Disposizioni varie (artt. 52/59).  Nel tempo, vari Protocolli hanno ampliato in misura significativa la sua portata, includendo diritti inizialmente non previsti. I diritti riconosciuti dalla Convenzione sono essenzialmente “libertà negative”, ovvero diritti che mirano a garantire agli individui principalmente una tutela nei confronti dello Stato, il quale ha verso i singoli un obbligo di astensione o di non impedimento.  È il caso, per esempio, del diritto alla vita, del diritto alla libertà e alla sicurezza, del diritto a un equo processo, ma anche della libertà di pensiero, di coscienza e di religione e della libertà di espressione. Questi diritti sono assistiti da un sistema di controllo giurisdizionale ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu). La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, infine, si divide in 6 parti, articolate secondo le categorie dei diritti fondamentali: dignità (artt. 1/5); libertà (artt. 6/19); uguaglianza (artt. 20/26); solidarietà (artt. 27/38); cittadinanza (artt. 39/46); giustizia (artt. 47/50). Accanto alle tradizionali libertà negative, vengono apprestate tutele dirette per le “libertà positive”, ovvero quei diritti che presuppongano un’azione da parte dello Stato e che si configurino come libertà nello Stato. Essa, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009, ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati (fonte primario del diritto unionale).

Da quanto premesso consegue che I diritti umani rappresentano un limite all’autorità degli Stati.

4.1 Lesione da parte dello Stato

Il problema della lesione dei diritti fondamentali risente delle diverse funzioni (legislative, giurisdizionali, esecutive) esercitate e del diritto (nazionale, comunitario, internazionale) violato.

Nel caso in cui la funzione legislativa sia stata esercitata dallo Stato non rispettando tali diritti fondamentali, bisogna distinguere se il riconoscimento di questi sia avvenuto ad opera della Costituzione o del diritto comunitario.

Nel primo caso, è possibile ipotizzare due tipologie di violazioni: mediate ed immediate[6].

In generale, la legge, presentandosi come generale ed astratta difficilmente può ledere posizioni individuali. Tuttavia, è possibile ipotizzare una violazione mediata quando la lesione di tali diritti sia riconducibile all’atto concretamente adottato in applicazione della legge. In questo caso occorre che il soggetto leso deve aggredire le legittimità di quest’ultima per il tramite del giudizio di costituzionalità (ex artt. 134/137 Cost.). Qualora la norma dichiarata incostituzionale sia fondante il potere, la giurisdizione per ottenere il risarcimento del danno spetterà al g.o. poiché viene meno la giustificazione del potere stesso, viceversa, se la norma regoli il suo svolgimento, il soggetto si rivolgerà al g.a. per ottenere l’annullamento del provvedimento (ex art. 21 octies legge 241/1990) ed il risarcimento.

Nel caso di violazione immediate, invece, è possibile applicabile direttamente l’art. 2043 c.c. nelle ipotesi di leggi provvedimento, le quali presentano la caratteristica di ledere posizioni giuridiche individuali. Si tratta di quelle leggi che, recependo atti amministrativi, regolano direttamente situazioni concrete. Anche in questo caso, il soggetto leso, per ottenere il risarcimento del danno, ha l’onere di promuovere, all’interno di tale giudizio, anche quello di costituzionalità per far dichiarare illegittimo l’atto.

Qualora la compressione di un diritto fondamentale sia conseguenza della lesione del diritto comunitario, è necessario distinguere la tipologia di atto comunitario violato[7].

Con riferimento alle direttive self executing, posto che esse hanno efficacia anche se non recepite, si ritiene che la mancata, incompleta trasposizione non possa configurare una responsabilità in capo allo Stato, dal momento che l’inadempimento dell’obbligo di attuazione della direttiva non preclude l’azionabilità del diritto da essa nascente. Ne discende che in tal caso non è possibile ipotizzare un evento di danno.

Analoghe considerazioni valgono per gli altri atti di matrice comunitaria che producono effetti diretti nell’ordinamento, ovvero: regolamenti e decisioni.

Un discorso diverso va fatto, invece, con riguardo alle direttive non self executing.

Ed infatti, nel caso di mancata attuazione o di trasposizione infedele di una direttiva che riconosce diritti ai soggetti, l’atteggiamento inerte dello Stato legislatore è fonte di responsabilità per la violazione degli artt. 4, par. 3 TUE, e 288 TFUE. In questo caso è possibile riconoscere un rapporto causale, produttivo di danno ex art. 2043 c.c., tra la condotta del legislatore ed il danno dei cittadini.

Per quanto concerne l’esercizio di funzioni giurisdizionali, va rilevato che, data la sua attitudine di comprimere taluni diritti fondamentali della persona, questo si presta ad essere inquadrato nell’alveo di quelle funzioni sovrane in grado di generare eventi di danno. La ragione di ciò deriva dal fatto che proprio il potere giudiziario, a differenza di quello legislativo, è idoneo a ledere direttamente la sfera giudica dei soggetti che con esso entrano in rapporto. Si osserva come la funzione giurisdizionale, meglio di altre, si caratterizzi per la spiccata attitudine a ledere diritti della persona garantiti sia a livello costituzionale che a livello sovranazionale. 

L’importanza di tale funzione è risultata particolarmente avvertita, tanto che il legislatore ha regolamentato una serie di ipotesi in cui è ravvisabile l’illecito dello Stato per la violazione dell’esercizio di funzioni giurisdizionali. La principale fattispecie di illecito si rinviene nella legge n. 17 del 1988 (rubricata “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”), con la quale sono state poste le condizioni in virtù delle quali il privato può ottenere il risarcimento del danno cagionato nell’esercizio di tali funzioni. La norma nella sua precedente versione, era strutturata sulla falsariga dell’art. 2043 c.c. Ed infatti, per la configurabilità di tale responsabilità, si richiedeva: la condotta del magistrato (ad esclusione dell’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove), l’evento di danno, nesso di causalità, elemento soggettivo e danno risarcibile. Tale legge, è stata oggetto di censura ad opera della Corte di Giustizia in virtù del fatto che, la limitazione di responsabilità relativa all’attività di interpretazione delle norme e di valutazione del fatto e delle prove, costituirebbe inadempimento dei principi comunitari.

La ragione di tali censure deriva dal fatto che l’interpretazione delle norme di diritto rappresenta essa stessa l’essenza dell’attività giurisdizionale.

Per tale motivo, il legislatore è di recente intervento con la legge n. 18 del 2015 che ha modificato in più punti la legge del 1988. Le principali novità introdotte sono che affinché sorga la responsabilità si richiede: una violazione manifesta della legge nonché del diritto comunitario, il travisamento del fatto o delle prove, l’affermazione di un fatto smentito dagli atti del procedimento, l’emissione di un provvedimento cautelare fuori dai casi consentiti.

Un’altra ipotesi in cui è configurabile la responsabilità dello Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale va individuata nella violazione del diritto alla ragionevole durata del processo (ex art. 6 CEDU). A dare esecuzione a tale obbligo è intervenuta la legge n. 89 del 2001, la quale ha stabilito che il soggetto che ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della CEDU ha diritto ad ottenere un’equa riparazione. Anche in questo caso affinché sorga la responsabilità dello Stato è necessario individuare: la condotta, l’evento di danno (rappresentato dalla lesione del diritto alla ragionevole durata del processo), il nesso di causalità tra condotta ed evento ed il danno risarcibile.

Un’ulteriore ipotesi di responsabilità dello Stato per l’esercizio illegittimo delle funzioni giurisdizionali si rinviene all’art. 314 c.p.p., il quale prevede il diritto ad un’equa riparazione nei casi in cui il soggetto sia ingiustamente detenuto[8].

Anche l’esercizio della funzione esecutiva da parte dello Stato, lesiva di diritti fondamentali, è causa di responsabilità per questo ultimo. Come è noto, la funzione esecutiva si bipartisce: responsabilità nell’esercizio delle funzioni di governo e responsabilità della p.a. Questa distinzione trova conferma negli artt. 95 e 97 Cost., con ciò lasciando intendere che tra i due non vi sia un rapporto di identità, ma di differenza e coordinamento. La caratteristica principale degli atti di governo è che gli stessi, in ossequio alla teoria degli atti politici, non sono sindacabili dal potere giurisdizionale perché finalizzati alla direzione della suprema cosa pubblica[9]. La conferma di tale preclusione si rinviene nell’art. 7, comma 1, c.p.a. che prevede la non impugnabilità di atti e provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico. Nonostante essi non siano sindacabili dal g.a., questi sono sempre sottoposti al rispetto dei principi costituzionali, comunitari ed al rispetto delle norme sovranazionali.

Per quanto concerna invece l’attività amministrativa in senso stretto, si osserva come gli atti amministrativi sono ontologicamente idonei a ledere gli interessi del singolo, giacché, a differenza degli atti legislativi, hanno portata specifica e contenuto concreto, ed inoltre la tutela delle posizioni giuridiche del singolo dinnanzi al potere esecutivo trova diretto fondamento nella subordinazione di tale potere alla legge. La responsabilità della P.A. per i suoi atti è, inoltre, oggetto di espressa garanzia costituzionale ex art. 28 e 113 Cost.

Per quanto riguarda la responsabilità della P.A. per violazione del diritto comunitario, la questione non muta rispetto alle ipotesi di violazione del diritto nazionale inquadrabili nel modello di cui all’art. 2043 c.c. con l’unica differenza che il parametro violato è rappresentato dalle fonti comunitarie.  Le situazioni astrattamente configurabili sono due: la prima è quella relativa ad atti amministrativi previsti da norme di legge nazionale contrarie al diritto comunitario; la seconda è quella relativa ad atti amministrativi direttamente attuativi di obblighi comunitari ma assunti concretamente in violazione dei medesimi.

4.2 Lesione in ambito internazionale

Innanzitutto si osserva che il diritto internazionale può essere definito come quella branca del diritto che disciplina la vita della comunità internazionale e che ha per destinatari gli Stati. Come anticipato, la questione si rivela particolarmente significativa poiché a seguito della limitazione di sovranità che le norme internazionali comportano (ex artt. 10 e 117 Cost.), è ben possibile che i poteri dello Stato che le violino, cagionino un danno agli individui. La tematica assume una particolare importanza da quando è stata riconosciuta ai singoli la soggettività internazionale, emergendo numerosi settori, di diritto consuetudinario e pattizio, in cui i medesimi sono direttamente tutelati dalle norme internazionali, che pongono agli Stati obblighi di trattamento nei confronti dei cittadini stranieri.

In relazione alla responsabilità nei confronti dei cittadini stranieri si pone il problema dell’immunità dello Stato dalla giurisdizione civile, sia estera (allorquando lo Stato viene convenuto nel foro di residenza dello straniero) che domestica (allorquando lo Stato viene convenuto nel foro interno).

Discorso diverso, invece, va fatto quando la norma pattizia sia presa in considerazione quale parametro di liceità della condotta tenuta dallo Stato nei confronti dei propri cittadini.

La responsabilità dello Stato nei confronti dei cittadini stranieri è riscontrabile in tutti quei casi in cui lo straniero lamenti una lesione dei diritti fondamentali riconosciuti dalle norme di diritto internazionale, generale o particolare.

Tradizionalmente, si opponeva, all’azionabilità delle pretese risarcitorie da parte degli stranieri nei confronti dello Stato autore dell’illecito, la teoria dell’immunità della giurisdizione dello stesso[10]. In virtù di questa teoria - chiamata dell’immunità ristretta - si impedisce che lo Stato possa essere convenuto dinanzi ad una giurisdizione civile per atti realizzati nell’esercizio dei propri poteri, sia se compiuti all’estero, sia se commessi sul proprio territorio. In ordine a tale questione è da segnalare un orientamento della Suprema Corte di Cassazione che aveva individuato una serie di norme inderogabili (appunto i diritti fondamentali della persona) che si collocano al vertice dell’ordinamento internazionale prevalendo su qualsiasi altra norma. Proprio l’importanza di tali diritti fondamentali, ha condotto la Corte di Cassazione  a ritenere che con riferimento agli stessi non opererebbe l’immunità giurisdizionale.

In questo contesto, lo Stato italiano ha aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004, emanando la legge n. 5 del 2013.

Tale legge suggella il riconoscimento positivo del principio dell’immunità ristretta, ed infatti, l’estensione dell’immunità dalla giurisdizione civile per gli Stati stranieri si ricava dal combinato disposto degli artt. 5 e 10 e ss. 

L’art. 5 stabilisce che “uno Stato beneficia, per se stesso e per i suoi beni,  dell’immunità giurisdizionale davanti ai tribunali di un altro  Stato,  secondo  le disposizioni della presente Convenzione”.

Gli artt. 10 e ss. contengono, invece, l’elenco dei rapporti giuridici esclusi dall’immunità: operazioni commerciali, contratti di lavoro, proprietà e possesso di beni, danni a persone o cose, proprietà intellettuale e industriale, partecipazioni a società, esercizio di navi per scopi commerciali. 

La disciplina, pertanto, costituisce chiara attuazione della teoria dell’immunità ristretta e non contiene alcuna deroga per i casi di violazione dello ius cogens internazionale.

Stando così le cose, la tutela dei diritti umani lesi da crimini internazionali dello Stato è ipotizzabile solo davanti ai giudici del foro, rispetto ai quali non è invocabile l’immunità dello Stato dinanzi ad altre giurisdizioni.

Sulla questione, è però intervenuta la Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato incostituzionale l’art. 3 della legge 14 gennaio 2013, n. 5. Ad avviso della stessa, in un contesto istituzionale contraddistinto dalla centralità dei diritti dell’uomo, la circostanza che per la tutela dei diritti fondamentali delle vittime sia preclusa, si pone contrasto con tali diritti perché non sarebbe possibile accordare loro ristoro. Ne consegue che la parte della norma sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati confliggente con i predetti principi fondamentali non è entrata nell’ordinamento italiano e non vi spiega, quindi, alcun effetto[11].

Un discorso diverso, va fatto nel caso di responsabilità dello Stato nei confronti dei cittadini, in questo caso, un limite all’applicazione dell’art. 2043 c.c. potrebbe essere la teoria dell’atto politico (che predica l’insindacabilità giurisdizionale degli atti posti in essere dal Governo nell’esercizio della funzione di direzione suprema della cosa pubblica), piuttosto che quella dell’immunità ristretta. 

In tal caso, la responsabilità dello Stato sussiste ogni qualvolta sia riscontrabile una condotta esplicazione della sua sovranità posta in essere in violazione di norme di diritto internazionale, sia consuetudinario che pattizio.  

In entrambe le ipotesi, infatti, la fonte internazionale, una volta nazionalizzata, entra a far parte dell’ordinamento interno si pone come obbligatoria per tutti gli organi dello Stato, acquistando un valore superiore a quella delle leggi ordinarie.

 Un’ipotesi di illecito si verificherà allorquando la norma crei diritti per i singoli, come è il caso delle norme della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo.

La tutela offerta dal sistema convenzionale non si limita alla riparazione in forma specifica essendo possibile quella risarcitoria (ex art. 41 CEDU).

Note e riferimenti bibliografici

[1] R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto Pubblico, Giappichelli, Torino,  2019, p. 6 e ss.
[2] F. BELLOMO, Nuovo Sistema di diritto amministrativo, Diritto e Scienza s.r.l., Bari, Vol. 3, p. 129.
[3] Cass. Sez. Unite, 11 Gennaio 2008, n. 581
[4] F. BELLOMO, Nuovo Sistema di diritto amministrativo, Cit., 136.
[5] R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto Pubblico, Giappichelli, Cit., 429 e ss.
[6] F. BELLOMO, Nuovo Sistema di diritto amministrativo, Cit., 143.
[7] R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto Pubblico, Giappichelli, Cit., 381 e ss.
[8] R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto Pubblico, Giappichelli, Cit., 454.
[9] F. BLANDO, Fine dell’atto politico?, Nuove Autonomie, N. 1/2015.
[10] R. NIGRO, Le immunità giurisdizionali dello Stato e dei suoi organi e l’evoluzione della sovranità nel diritto internazionale, Cedam, Padova, p. 15 e ss.
[11] Corte Cost., 22 ottobre 2014, n. 238.