• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Ven, 6 Set 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

La tutela multilivello dei diritti fondamentali nell´approccio dell´unione europea alla lotta contro il terrorismo

Modifica pagina

Lorenzo Mariani


Dalla giurisprudenza della CGUE emerge la tendenza a spostare la tutela dei diritti in una dimensione “multilivello” fatta di ordinamenti che comunicano tra di loro, spinti da una pulsione ad armonizzare e integrare i propri strumenti coerentemente con una evoluzione in senso ugualmente “multilivello” della lotta al terrorismo.


Abstract: the purpose of the following paper is to analyse the legal strategies employed by the European Union to  guarantee a balance between the necessary fight against global terrorism and the protection of fundamental rights. In particular, the jurisprudence of both the ECJ will be examined, with a focus on groundbreaking judgments such as Kadi I and II, and Mojahedin.
In doing so, the article will expose the “multi-level” approach designed by the European Union to guarantee a cooperative protection of fundamental rights across  national, European and international levels. 

Sommario: 1. Introduzione – 2. L’approccio dell’Unione Europea al terrorismo e alla contestuale tutela dei diritti – 3. L’evoluzione della giurisprudenza della CGUE in tema di lotta al terrorismo e tutela dei diritti fondamentali: lo storico caso delle pronunce Kadi – 4. La sentenza Mojahedin e il suo rapporto con le pronunce Kadi – 5. La pronuncia Digital Rights Ireland e l’invalidità della Direttiva 2006/24 CE sui dati di traffico web e telefonico – 6. Conclusioni.

1. Introduzione

In questo ciclo di articoli sulla tutela dei diritti fondamentali dinnanzi alla minaccia del terrorismo internazionale, si è avuto più volte modo di alludere al fatto che gli strumenti giuridici per la lotta al contemporaneo terrorismo “globalizzato” non sono esclusivamente adottati in sede nazionale ma hanno, al contrario, soprattutto una dimensione transnazionale: è infatti comune a tutti i Paesi la necessità di coordinarsi al fine di contrastare un fenomeno terroristico non più confinato al territorio del singolo Stato, ma esteso a più nazioni attraverso veri e propri network del terrore.[1]

Per questo, il tema della lotta al terrorismo interessa anche il processo di integrazione europea. Come si avrà ora modo di vedere, non mancano disposizioni di diritto positivo dell’UE e soprattutto giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che si occupano bilanciare le esigenze di prevenzione e repressione del terrorismo con il rispetto dei diritti costituzionali degli Stati membri.         

2. L’approccio dell’Unione Europea al terrorismo e alla contestuale tutela dei diritti

Prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 2009, il contrasto al terrorismo si inquadrava[2] nel Terzo Pilastro dell’Unione Europea, in quanto contenuto nell’art. 29 del TUE. Tuttavia, il terrorismo internazionale interessava (e interessa tutt’ora) anche la politica estera e di sicurezza comune, come dimostrato dagli interventi comunitari in tale settore dopo l’11 settembre 2001, per i quali furono adoperate, come base giuridica, norme contenute nel Secondo Pilastro e nel Terzo. 

L’allora art. 29 TUE disponeva come obiettivo per l’Unione Europea la garanzia ai cittadini di un elevato livello di libertà, sicurezza e giustizia. Tale obiettivo è perseguibile anche prevenendo e reprimendo la criminalità, organizzata o di altro tipo, in particolare il terrorismo, nonché attraverso la cooperazione in altri settori quali la tratta di esseri umani, reati contro i minori ecc.[3]     

Gli artt. 30 e 31 descrivevano dettagliatamente il modello di “azione comune” da sviluppare per la cooperazione di polizia e per quella giudiziaria in materia penale. Per quanto riguarda la cooperazione di polizia, oltre a quella operativa nella prevenzione dei crimini, era previsto un fitto scambio di informazioni e iniziative comuni in settori quali la formazione o la ricerca in campo criminologico, nonché l’istituzione della struttura Europol come principale strumento di tale collaborazione operativa, i cui strumenti sono garantiti dal Consiglio.  

La cooperazione in materia penale era invece perseguita attraverso la facilitazione del rapporto tra ministeri e autorità giudiziarie, delle procedure per l’estradizione, nonché delle iniziative per uniformare i sistemi normativi, al fine di evitare conflitti di giurisdizione e realizzare un’armonizzazione tra reato e sanzione.

Gli Stati membri si informavano e si consultavano regolarmente all’interno del Consiglio, che può emanare atti giuridici (posizioni comuni, decisioni-quadro, decisioni, convenzioni). Il Titolo IV non interferiva[4] però con la responsabilità degli Stati per il mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza interna. Va inoltre ricordato[5] che nel 2001 il Consiglio europeo approvò un piano d’azione contro il terrorismo internazionale, il quale prevedeva il rafforzamento della cooperazione giudiziaria e di polizia, di attuare e sviluppare accordi internazionali in materia, di porre fine al finanziamento del terrorismo, di rafforzare la sicurezza aerea e di coordinare maggiormente l’azione complessiva dell’UE anche nell’ambito della politica estera. Il piano è stato attuato negli anni successivi con l’adozione di alcune norme comunitarie.           
Il 27 dicembre 2001 il Consiglio dell’Unione adottò la Posizione comune 2001/931/PESC relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo.      
È bene ricordare che la Posizione comune PESC è uno strumento con cui le politiche degli Stati membri si conformano all’approccio determinato dall’Unione su un determinato tema, pertanto è degli Stati la scelta dei mezzi e dei tempi per raggiungere gli scopi previsti nell’atto. Si può dunque affermare[6] che la tempestività dell’intervento viene vanificata, nel caso dell’adozione di una posizione comune PESC, per via della mancata previsione sui tempi e i modi in cui lo stesso atto debba essere attuato dallo Stato.

Conformemente alla Risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU n. 1373, la Posizione comune in esame dispone il congelamento dei capitali di persone, gruppi ed entità coinvolti in atti terroristici e individuati in un elenco allegato alla posizione stessa, da redigere in base a informazioni precise o elementi del fascicolo di un’autorità competente che ha preso una decisione nei confronti di tali persone o entità.

Tale elenco non è definitivo, ma soggetto ad aggiornamenti quantomeno semestrali. Le disposizioni contenute nell’atto, si specifica, non contemplano il congelamento dei fondi di Osama Bin Laden e degli individui ed entità soggetti a quest’ultimo, che costituisce l’oggetto della Posizione comune 2001/154/PESC. In essa vediamo l’uso, come base giuridica, oltre che dell’articolo 15 TUE, anche dell’art. 34 TUE, ossia la norma in cui sono elencati gli strumenti a disposizione dell’Unione nel settore della cooperazione giudiziaria e di polizia: una norma del Terzo Pilastro adottata come base giuridica del Secondo. Ciò suggerisce il carattere interdisciplinare della lotta al terrorismo.[7]

Se ne deduce che non c’è rigidità nella nell’utilizzo di uno strumento giuridico, fintanto che la materia sia di competenza dell’Unione. Essa può scegliere uno o più strumenti che ritiene idonei a realizzare uno degli scopi istituzionali.

In osservanza della Risoluzione ONU 1373 (2001), fu adottata con le stesse basi giuridiche dei provvedimenti visti ora la Posizione comune 2001/930/PESC, riguardante la criminalizzazione e la repressione del finanziamento del terrorismo.

Nell’ambito del Trattato sulla Comunità Europea, fu invece adottato il Regolamento 2580/2001, relativo a misure restrittive specifiche contro determinate persone ed entità, al fine di combattere il terrorismo. Tale atto, in attuazione della posizione comune 2001/931/PESC (nonché della Risoluzione ONU n. 1373) e sulla base degli articoli 60, 301 e 308 TCE, stabilisce[8] il congelamento dei capitali e delle altre risorse economiche e finanziarie detenute dalle persone fisiche e giuridiche, gruppi o entità, indicati nell’art. 2, par. 3 del regolamento stesso, che è elaborato dal Consiglio in conformità delle disposizioni di cui all’art. 1 parr. 4, 5, 6 della Posizione comune 2001/931/PESC, alla quale pertanto viene fatto rinvio.

L’uso del Regolamento, in quanto fonte normativa di applicazione diretta all’interno degli Stati membri, consente di evitare le scarse efficacia e tempestività tipiche della Posizione comune, la quale necessita di un’azione positiva da parte degli Stati membri al fine di attuare i mezzi necessari al raggiungimento dello scopo che la posizione comune prevede. Come basi normative, sono stati utilizzati l’art. 130 in combinato disposto con gli artt. 308 e 60 TCE. In tal modo, la Comunità ha disciplinato materie al confine tra Secondo e Terzo Pilastro, per i quali i trattati hanno invece previsto strumenti di concentrazione a livello governativo e politico, invece di atti normativi, come i Regolamenti.

Con tale regolamento si è realizzato l’obiettivo di congelare i capitali di soggetti coinvolti in atti terroristici e criminalizzare il finanziamento al terrorismo in modo uniforme in tutti gli Stati membri, così da adempiere alla Risoluzione ONU 1373 (2001). In attuazione della Risoluzione, fu approvata anche la Posizione comune 2002/402/PESC, sul presupposto della la quale – sempre utilizzando come basi gli artt. 60, 301 e 308 TCE – il 27 maggio 2002 fu adottato il Regolamento CE 881/2002, relativo al congelamento dei fondi per i soggetti in elenco.[9]    

La preparazione e l’aggiornamento dei suddetti elenchi di nominativi è un’attività piuttosto delicata sul piano costituzionale, posta la scarsa tassatività della procedura di compilazione di tali liste e le scarse garanzie a disposizione degli interessati che si considerino ingiustamente colpiti da una misura che comporta la automatica paralisi del loro diritto di proprietà.  

3. L’evoluzione della giurisprudenza della CGUE in tema di lotta al terrorismo e tutela dei diritti fondamentali: lo storico caso delle pronunce Kadi

A tal riguardo, è degna di nota la vicenda del sig. Kadi, al centro di alcune pronunce della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Nella sentenza Kadi del 2008[10] sono infatti rinvenibili alcuni dei punti principali della problematica sull’incidenza che strumenti di contrasto al terrorismo esercitano sugli assetti della cooperazione internazionale ed europea, nonché sulla più generale tematica della ponderazione tra libertà e sicurezza.[11]       

Nella suddetta pronuncia, la Corte di Giustizia aveva affrontato tali questioni con riferimento al Regolamento CE n. 881/2002. In primo luogo, la Corte aveva riformato la sentenza del Tribunale di primo grado ritenendo che non potesse essere riconosciuta al Regolamento sul congelamento dei beni alcuna forma di immunità rispetto ad un controllo giurisdizionale, poiché il nesso di derivazione tra Risoluzione ONU e Regolamento in questione non impediva comunque all’Unione di godere di un margine di attuazione consistente nella garanzia dei diritti fondamentali dell’interessato, quantomeno sotto il profilo della partecipazione al procedimento di irrogazione della sanzione.[12] 

Va in tal contesto tenuto conto dello stretto legame riconosciuto dalla Corte di Giustizia tra il rispetto delle garanzie procedurali e la ragionevolezza della limitazione del diritto di proprietà imposta dalla misure del congelamento dei beni.

Un orientamento costante della Corte[13], coerente con le tradizioni costituzionali degli stati membri, individua il diritto di proprietà come tutt’altro che assoluto, ma al contrario necessitante di bilanciamento con interessi di carattere generale; ciò non senza un indispensabile scrutinio di ragionevolezza e di proporzionalità delle misure limitative rispetto alla realizzazione dell’obiettivo concorrente con la posizione del singolo.

Nel caso in esame, tale controllo afferisce proprio al tema delle garanzie procedurali: l’astratta proporzionalità della misura, derivante dal suo essere funzionale a garantire il contrasto del terrorismo, necessita di una verifica ulteriore alla luce dei caratteri del procedimento effettivamente seguito al fine dell’irrogazione della sanzione.

In particolare, la Corte sottolineò come al ricorrente non fosse stata fornita “alcuna garanzia che gli consentisse di esporre le proprie ragioni alle autorità competenti […] in un contesto in cui la restrizione dei suoi diritti di proprietà deve essere ritenuta considerevole, data la portata generale e la durata effettiva delle misure restrittive a suo carico.[14]

Pertanto, l’applicazione delle sanzioni al sig. Kadi nelle circostanze della fattispecie” comporta una “restrizione ingiustificata” del diritto di proprietà.[15]Ne consegue che la partecipazione al procedimento di adozione ed esecuzione della misura limitativa del diritto rappresenta un nucleo minimo di tutela, il cui rispetto si riverbera sulla legittimità della violazione.[16]

Nella decisone in parola, infatti, viene stabilito che la valutazione dell’interesse pubblico alla sicurezza non possa essere condotta in modo unilaterale dall’autorità europea procedente, neanche invocando il suo vincolo alla risoluzione adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

La necessità di tutela di diritti fondamentali, coessenziale alla stessa identità costituzionale europea[17], impone di integrare con implicazioni di tipo cooperativo e sussidiario le valutazioni effettuate in sede internazionale: l’interessato deve essere posto in condizione di contestare in sede di contraddittorio le motivazioni addotte dall’autorità procedente, così da avere in primis, la possibilità  di precostituire strumenti di tutela in sede giurisdizionale, nonché di  incidere sulla portata della restrizione del diritto, financo di evitare del tutto tale restrizione.[18] 

Dunque la sentenza Kadi I ha dimostrato che le garanzie procedurali possono costituire mezzi per determinare il bilanciamento tra libertà e sicurezza[19] nonché fungere da criterio di valutazione della ragionevolezza della violazione posta in essere, così da incidere anche sull’aspetto sostanziale oltre che su quello formale e procedurale.[20]    

Un altro elemento fondamentale, nonché affine al rapporto tra garanzie procedurali e tutela sostanziale del diritto, sottolineato dalla sentenza in parola è il nesso tra garanzie procedurali ed effettività della tutela giurisdizionale. Quest’ultima è assunta dalla Corte proprio come elemento rilevante per la definizione di quell’identità costituzionale europea rappresentata appunto dall’istanza di protezione dei diritti fondamentali e comunque legata, in questo caso, proprio all’effettività della tutela giurisdizionale. La Corte aggiunge tale identità, con intento cooperativo, al livello di intervento internazionale costituito in particolare dal Consiglio di Sicurezza ONU. 

La Corte, infatti, rigetta la decisione del Tribunale di primo grado, il quale aveva ritenuto di limitare il controllo del Regolamento UE al rispetto dei principi di diritto internazionale cogente, così uniformando la fase europea di attuazione delle misure antiterrorismo al modello stabilito a livello internazionale; al contrario, essa “interpreta il sistema ‘multilivello’ di contrasto del terrorismo secondo canoni di equilibrio e cooperazione[21], ossia riconosce all’Unione un margine di autonomia nell’integrare l’adozione della misura restrittiva, così da assicurare un ragionevole livello di protezione dei diritti fondamentali attraverso  delle garanzie procedurali finalizzati a predisporre una effettiva tutela in sede giurisdizionale.

Nella decisione di primo grado[22], la possibilità di controllo (indiretto) sulle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza a fronte delle norme di diritto internazionale cogente era fondato proprio sulla mancanza di margini d’attuazione del Regolamento comunitario: pur escludendo la possibilità di un sindacato autonomo di validità (in tal caso il controllo sul Regolamento sarebbe corrisposto a un controllo sulla stessa Risoluzione ONU), il Tribunale non escludeva la possibilità di un sindacato incidentale alla luce dello jus cogens.

Infatti, alla luce dell’art. 58 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che commina la nullità dei trattati per violazione del diritto internazionale cogente, il giudice di prima istanza aveva rinvenuto l’esistenza di un “limite al principio dell’effetto vincolante delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza” poiché “esse devono rispettare le norme imperative fondamentali dello jus cogens”[23]. Pertanto: “il sindacato giurisdizionale incidentale esercitato dal Tribunale nell’ambito di un ricorso di annullamento di un atto di diritto comunitario adottato, senza esercizio di alcun margine discrezionale […] può dunque, in via del tutto eccezionale, estendersi alla verifica delle norme superiori del diritto internazionale appartenenti allo jus cogens […][24]

Al contrario, nella sentenza di secondo grado il recupero di una possibilità di sindacato autonomo del Regolamento è dovuto alla ridefinizione del parametro del giudizio, tramite la sostituzione alle norme di diritto internazionale cogente del parametro rappresentato dai diritti fondamentali riconosciuti e tutelati dall’ordinamento comunitario in base all’art. 6 TUE e alla consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia. Il percorso argomentativo seguito è “incentrato sul ripensamento del modello di relazioni tra ordinamento comunitario e ordinamento internazionale alla luce di un’esigenza di bilanciamento tra tutela dell’identità costituzionale europea e apertura dell’ordinamento comunitario alla relazione”.[25]  

La Corte, pertanto, parte dall’argomento per cui, in una comunità di diritto[26] caratterizzata da un compiuto sistema di rimedi giurisdizionali nei confronti degli atti adottati dalle istituzioni, la tutela dei diritti fondamentali (in quanto parte del nucleo di principi che descrivono l’identità costituzionale dell’ordinamento europeo) rappresenta una garanzia costituzionale anche nei confronti degli atti adottati in attuazione degli obblighi internazionali.

Ne consegue che “gli obblighi imposti da un accordo internazionale non possono avere l’effetto di compromettere i principi costituzionali del Trattato CE, tra i quali vi è il principio secondo cui tutti gli atti comunitari devono rispettare i diritti fondamentali, atteso che tale rispetto costituisce il presupposto della loro legittimità, che spetta alla Corte controllare nell’ambito del sistema completo dei mezzi di ricorso istituito dal Trattato stesso[27].        

Va però precisato[28]che solo con molta cautela è possibile tracciare un’analogia tra funzione dei principi fondamentali nella sentenza Kadi e i cosiddetti “controlimiti”, ovvero paragonare l’interpretazione e decisone della Corte alla giurisprudenza del Tribunale costituzionale tedesco nella sentenza Solange. Inoltre, afferma la dottrina in esame[29], non è possibile concordare con quanti hanno parlato di portata “separatista” e “oppositiva” della pronuncia della Corte.[30] Infatti, se nel contesto degli ordinamenti nazionali i “controlimiti” avevano svolto una funzione essenzialmente oppositiva, talvolta anche con sviluppi in senso cooperativo rispetto alle dinamiche di integrazione sovrannazionale, come nella decisione Sociéte Arcelor Atlantique et Lorraine (d’ora in avanti, Sociéte) dell’8 febbraio 2007, la trasposizione di un simile modello sul piano comunitario non può prescindere[31] dalla constatazione che il nucleo identitario presentato a livello comunitario come garanzia costituzionale dei diritti di fronte all’attuazione degli obblighi internazionali nasce a sua volta da un lungo processo di integrazione tra ordinamenti, che si arricchisce attraverso le interazioni tra i livelli costituzionali, concretizzate dal lavoro delle Corti.

Nel caso Sociéte, infatti, l’omonima compagnia siderurgica contestava davanti al giudice amministrativo francese la legittimità degli atti regolamentari (in particolare, l’art. 1 del Decreto 2004-832) di attuazione nel diritto francese della Direttiva 2003/87/CE, adottata dal Parlamento e dal Consiglio in attuazione del protocollo di Kyoto. La società in questione lamentava la violazione dei principi e diritti costituzionalmente rilevanti quali il diritto di proprietà, la libertà d’impresa e, soprattutto, il principio di uguaglianza.[32] 

Nella sua decisione, il Conseil d’État ha fatto propria la giurisprudenza del Conseil Constitutionnel, tenendo anche conto della sua stessa giurisprudenza. Dopo aver confermato l’interpretazione dell’art. 55 per cui il primato del diritto internazionale afferisca soltanto alle relazioni di questo con le fonti primarie del diritto interno (ossia leggi e regolamenti) e non riguardo alle disposizioni costituzionali, il Conseil d’État si aprì per la prima volta al riconoscimento della specificità del diritto comunitario di fronte a quello internazionale, in base all’articolo 88-1.[33] 

Nel dettaglio, il Conseil, riprendendo uno degli argomenti principali della dottrina Economie Numérique, riconobbe che per effetto del summenzionato articolo, la trasposizione di una Direttiva comunitaria nel diritto interno comporta una esigenza costituzionale che, pertanto, impone un particolare controllo di costituzionalità dei Regolamenti di trasposizione, quantomeno nel caso  (come quello in esame) in cui una Regolamento abbia sviluppato una disposizione precisa di una Direttiva.

Infatti, quando la trasposizione della Direttiva implica l’esercizio di un potere normativo discrezionale (eventualità che però non riguarda il caso in questione) il controllo di costituzionalità si eserciterà dopo aver verificato l’intensità del vincolo di derivazione tra normativa interna di sviluppo e la Direttiva, tenendo conto dell’approccio alla questione pregiudiziale da parte della Corte di Giustizia Europea.

Se dalla decisione di quest’ultima risulta che la disposizione interna sia essenziale allo svolgimento della Direttiva, il controllo di costituzionalità si eserciterà come se avesse ad oggetto disposizioni che applicano direttamente la Direttiva, sulla base del meccanismo tracciato dalla summenzionata Economie Numérique. In caso contrario, il controllo seguirà le forme ordinarie, senza pregiudizio sulla effettività del diritto comunitario, posto che le disposizioni interne non saranno un elemento essenziale dello svolgimento della Direttiva.[34] 

Nel caso Sociéte la necessità di un riconoscimento della specificità del diritto comunitario era stata affermata vigorosamente nelle conclusioni del Commissario del Governo, non solamente al fine di garantire una armonizzazione nella dottrina del Conseil d’État e del Consiglio costituzionale, ma anche e soprattutto per soddisfare l’esigenza di una maggiore articolazione delle relazioni tra ordinamento interno e comunitario. Tali relazioni evolvono e si perfezionano progressivamente anche attraverso il dispiegamento di una fitta trama di interazioni cooperative tra le giurisdizioni, in particolare tra quelle supreme.

Pertanto, di fronte a un movimento generale di cooperazione tra le giurisdizioni supreme nazionali e la Corte di Giustizia Europea, conclude il Commissario di Governo, sarebbe rischioso seguire una linea di piena autonomia.[35] La rilevanza costituzionale dell’obbligo di trasposizione delle Direttive comunitarie, derivante dal riconoscimento della specialità del diritto comunitario e coincidente almeno in parte con l’ambito di efficacia dell’art. 88-1[36], determina direttamente la particolarità delle forme del controllo di costituzionalità del Regolamento di svolgimento della Direttiva.[37] 

In sostanza[38], nella decisione del Conseil d’État sul caso Sociéte da una parte si conferma che il controllo di costituzionalità dell’atto regolamentale di trasposizione di una precisa disposizione di una Direttiva si traduce in un controllo di compatibilità tra la Direttiva in questione e la Costituzione, sempre qualora si verifichi la esistenza di una disposizione costituzionale che si opponga (nella materia disciplinata dall’atto normativo in giudizio) al processo di integrazione comunitaria e in particolare alla primazia della Direttiva.

D’altra parte, e a differenza di quanto sostenuto dalla dottrina costituzionale, la individuazione del controlimite si atteggia a risultato di un processo interpretativo complesso e focalizzato sul trasporto del blocco di costituzionalità francese verso l’ordinamento giuridico comunitario. Attraverso siffatta complessa operazione interpretativa, il Consiglio di Stato non solo attribuisce ai “controlimiti” una portata concreta, ma permette il descriversi di un percorso per la loro individualizzazione condizionato dalla consapevolezza di una profondità ottenuta tramite il processo di integrazione nel suo aspetto materiale, dimodoché, conclude la dottrina in esame, i “controlimiti” mutano da strumenti di difesa dell’ordine costituzionale interno in strumenti di apertura e canali di integrazione materiale.

Nel caso della sentenza Kadi, non sembra potersi parlare[39] di una chiusura “costituzionalistica” dell’ordinamento comunitario a forme di cooperazione tra ordinamenti. Né sarebbe da accogliere la posizione di chi ha ritenuto che i risultati a cui è pervenuta la Corte si sarebbero potuti ottenere tramite percorsi più aperti al diritto internazionale.[40]  

La sentenza Kadi, infatti, non delinea un modello in cui l’ordinamento comunitario si sostituisce a quello internazionale nel ruolo esclusivo di garante dei diritti fondamentali, a detrimento della qualità delle relazioni tra ordinamenti, ma al contrario contribuisce a chiarire le caratteristiche del legame tra approfondimento della protezione dei diritti e declinazione in senso cooperativo delle relazioni tra gli ordinamenti.

E proprio in questa dimensione cooperativa si inserisce, nel caso in esame, quella “fase europea” del procedimento di congelamento di capitali disciplinato dalla Risoluzione 1267/1999 che ha come perno il recupero della garanzia di alcuni diritti fondamentali costituiti dalla partecipazione al processo e dalla difesa, i quali appaiono essenziali all’effettività della tutela giurisdizionale: quest’ultima sembra essere proprio il fulcro di quel sistema di relazioni tra ordinamenti proposto dalla pronuncia in commento. Il diritto alla tutela giurisdizionale, infatti, per quanto difficilmente riconducibili all’interno dello jus cogens internazionale, costituisce un punto centrale nell’ordinamento comunitario, al punto che la sentenza di secondo grado lo fa configurare come quell’elemento di apporto “originale” dell’ordinamento europeo alla relazione con l’ordinamento internazionale (ossia quel “differenziale identitario” già menzionato).

Questa garanzia di patrimonio costituzionale europeo, fondamentale nella pronuncia della Corte, non va considerato strumento di mera autoaffermazione identitaria, ma va considerato contributo all’approfondimento della protezione dei diritti, nel quadro di una “corresponsabilità cooperativa” vitale a un sistema multilivello o “reticolare” e caratterizzante le sue dinamiche di sviluppo a partire da interazioni tra singoli piani o “nodi” ed “escludendo ogni possibilità di declinazione oppositiva o gerarchica delle relazioni tra di essi”[41].

In tal modo la Corte di Giustizia trascenderebbe[42]il modello disegnato dalla sentenza Solange nonché dalla pronuncia Bosphorus[43] della Corte EDU, la quale, mutando la precedente giurisprudenza della stessa  in tema di sindacabilità di violazioni della Convenzione poste in essere dagli Stati membri in attuazione di obblighi derivanti dalla loro appartenenza a organizzazioni internazionali a loro volta non facenti parte della CEDU[44], ha affermato che tali condotte tenute dagli Stati sono legittime fintanto che l’organizzazione che ne richiede l’esecuzione protegga i diritti fondamentali, sul piano tanto delle garanzie sostanziali quanto del meccanismo di controllo delle garanzie in questione, almeno a un livello equivalente rispetto a quello garantito dalla Carta. Per “equivalente”, la Corte intende “comparabile”, e ogni determinazione di equivalenza può comunque essere sottoposta a revisione alla luce di qualsiasi cambiamento rilevante nella protezione dei diritti fondamentali.[45]        

La  sentenza Kadi si avvicina piuttosto alla elaborazione della Corte Costituzionale Federale Tedesca in Banenmarktbeschluss: al giudizio prognostico sul grado di protezione dei diritti assicurato dall’ordinamento concorrente si sostituisce l’intento ottenere un innalzamento complessivo del livello di protezione ed effettività dei diritti attraverso la cooperazione.[46] In tal modo, il nucleo di principi tutelati dalla Corte nella sentenza di secondo grado (coerentemente con l’ambito di cooperazione già enunciato)  non solo si pone a fondamento della dimensione costituzionale europea, ma assume il ruolo di strumento di relazione con un contesto normativo, quello del diritto internazionale, presentante lacune sul versante delle garanzie procedimentali nella irrogazione delle sanzioni afflittive dei diritti fondamentali, palesate anche dal fatto che talvolta le Risoluzioni atte a disciplinare tali misure hanno previsto l’esigenza di garanzie procedimentali a tutela dei diritti, posta tuttavia come obiettivo degli Stati singoli.[47] 

Dunque questa corresponsabilità cooperativa “si invera proprio in vista delle fisiologiche lacune dell’ordinamento che fa capo all’ONU, nell’ottica di un processo di progressivo avvicinamento materiale tra gli ordinamenti”.[48] A ciò va aggiunto[49] che nonostante una lettura combinata della sentenza Kadi, della sentenza Bosphorus e della giurisprudenza delle Corti nazionali (la quale ha riconosciuto una progressiva integrazione materiale tra principi costituzionali supremi degli ordinamenti interni e principi costituzionali dell’ordinamento comunitario[50]) suggerisca l’emersione di un ruolo sempre più preponderante della Corte di giustizia, è da tenersi conto che - soprattutto per via del carattere aperto e incompiuto del processo di costituzionalizzazione dell’ordinamento comunitario – l’equilibrio del sistema resta inevitabilmente legato a dinamiche di tipo cooperativo.

D’altro canto sarebbe ormai palese la necessità di abbandonare schemi “gerarchici” basati sulla individuazione di una istanza sovraordinata rispetto alle altre o comunque in grado di dichiarare definitivamente la “volontà” del sistema, preferendovi piuttosto un approccio che tenga conto delle risorse di certezza e tutela che possono derivare anche dall’attività congiunta e confrontata delle Corti e dei giudici comuni, superando così la contrapposizione tra monismo e dualismo.[51] In questa dimensione cooperativa e aperta, l’attività interpretativa delle Corti svolge un decisivo ruolo di mediazione tra istanze non più riassumibili in una “rigida gerarchia di imperativi giuridici” ma inserite in una dialettica aperta, in “un dialogo tra più interlocutori in grado di argomentare liberamente le proprie conclusioni giuridiche[52].

Ai profili appena analizzati è collegata la tematica del ruolo occupato dalle Corti in situazioni di emergenza.[53]La centralità della tutela giurisdizionale effettiva confermerebbe la posizione di Ackerman[54] secondo cui l’azione delle Corti, nei momenti d’emergenza, funge da argine agli eventuali eccessi del Legislatore o dell’Esecutivo. Data la necessità di rispondere al fenomeno terrorista con misure immediate e rapide, tra cui appunto il congelamento dei beni attuato in modo da assicurare un effetto “sorpresa”, le Corti possono intervenire per evitare il verificarsi di sopravvalutazioni dell’istanza securitaria, derivante anche dal bisogno di assicurare la tenuta del consenso dei cittadini verso le istituzioni chiamate a proteggerli (per via della cosiddetta “funzione rassicurativa”[55]

Intervenendo le Corti in tempi più distesi, quando l’emergenza dovrebbe ormai essersi almeno parzialmente reintegrata nelle dinamiche del sistema democratico, esse sono in grado operare un bilanciamento tra “funzione rassicurativa” degli Stati e garanzia dei diritti, agendo quindi a tutela di quest’ultima istanza in correzione di uno squilibrio verso la prima.

Un ulteriore profilo di rilievo è rappresentato dal modo in cui la pronuncia in esame si relaziona con il tema della tutela dello specifico diritto di proprietà, al di là delle già viste considerazioni in ordine ai diritti di partecipazione e difesa al procedimento di irrogazione della sanzione.

La violazione del diritto di proprietà su cui la Corte venne chiamata a pronunciarsi era stata infatti posta in essere dal Consiglio con la misura del congelamento dei beni, in conseguenza del mancato rispetto dei diritti di difesa, con una chiara funzionalizzazione delle garanzie procedimentali a tutela del diritto di proprietà. Quest’ultimo, come è già stato accennato, viene considerato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia non come assoluto, ma inquadrabile nel contesto della sua funzione nella società: può pertanto subire restrizioni che, secondo quanto enunciato nella sentenza Kadi stessa, non possono considerarsi illegittime se praticate in modo adeguato e proporzionato in considerazione dell’importanza degli obiettivi perseguiti da un atto comunitario, i quali, “in linea di principio[56], giustificano “eventuali conseguenze negative, anche per gli operatori, ivi compresi  quelli che non hanno alcuna responsabilità riguardo  alla situazione che ha condotto all’adozione delle misure in questione, ma che si vedono pregiudicati, segnatamente, nei loro diritti di proprietà.”[57]      

La proporzionalità in astratto della misura è dedotta[58] dalla natura cautelare, dalla temporaneità (caratterizzata anche dall’obbligo di riesame) e dalla previsione di alcune ipotesi in cui il congelamento può essere sospeso su autorizzazione dell’autorità competente (notificata al comitato delle sanzioni istituito dalla risoluzione 1267/1999) quando le somme in questione siano necessarie per spese di base come l’acquisto di generi alimentari, pagamenti di affitti, medicinali, cure mediche, imposte o servizi pubblici e in generale qualsiasi altra spesa straordinaria.[59] 

L’astratta proporzionalità della misura, inoltre, richiede una ulteriore verifica alla luce dei caratteri del procedimento concretamente eseguito per l’applicazione della misura. Pertanto, poiché al ricorrente non era stata garantita alcuna garanzia che gli consentisse di esporre le proprie ragioni alle autorità competenti, tenuto conto della portata considerevole delle limitazioni ai suoi diritti, vista la portata generale e la durata effettiva delle misure restrittive a suo carico,[60]l’applicazione della sanzione al signor Kadi comporta una “restrizione ingiustificata”[61]del diritto di proprietà.

In tal modo, il sindacato sul rispetto delle garanzie procedimentali diviene strumento per l’articolazione del bilanciamento tra libertà e sicurezza anche sotto il profilo materiale, atteggiandosi il mancato rispetto delle garanzie procedimentali a criterio di deduzione della illegittimità delle sanzioni, ovviamente in seguito a una valutazione in concreto della loro proporzionalità[62]        

Riguardo al "concetto di “proporzionalità”, Mario Savino[63] ha sottolineato che essa viene intesa[64]come scomponibile in tre elementi: idoneità, necessarietà e adeguatezza. La Corte, però, nel decidere sul caso Kadi, non si sarebbe preoccupata né di sindacare la idoneità del mezzo rispetto allo scopo (cioè il contrasto al terrorismo), né la necessarietà (cioè la possibilità di ricorrere a misure ugualmente efficaci ma meno restrittive) né tantomeno l’adeguatezza (sul piano quantitativo) della restrizione a cui era stato sottoposto il ricorrente. Si tratta di una scelta che la dottrina in parola considera solo in parte comprensibile, in quanto per un giudice è oggettivamente difficile esprimere un giudizio prognostico sulla efficacia del provvedimento (idoneità) o una valutazione sull’esistenza di misure tecniche di contrasto al terrorismo altrettanto efficaci ma meno afflittive (necessarietà).

In particolare, non apparirebbe condivisibile la decisione della Corte di non contemplare un requisito di adeguatezza, soprattutto per via del fatto che nella maggior parte dei casi questa misura cautelare viene irrogata a soggetti che non sono stati né condannati né accusati di alcun reato. A tal proposito, la dottrina in esame riporta[65] le parole di Johannes Reich[66], secondo cui tali misure dovrebbero applicarsi per un periodo di tempo limitato che tenga conto del livello di complessità presente in una investigazione criminale, poiché un lasso di tempo così concepito legittimerebbe un inserimento in lista fondato su prove ottenute e valutate prima facie così da non rispettare necessariamente gli standard del procedimento penale. Senza contare che simile limite di tempo potrebbe incentivare future investigazioni e procedimenti penali in absentia qualora inevitabili.           

Proseguendo nella sua analisi della pronuncia, da un lato la dottrina in parola[67] sottolinea l’atteggiamento di deferenza dei giudici comunitari nel loro giudizio sulle restrizione al diritto di proprietà, considerandolo in grado persino di rendere evanescente il sindacato di proporzionalità; dall’altro asserisce che la stessa Corte si sia attribuita il potere di sindacare nel merito i motivi di sicurezza utilizzati per limitare le garanzie del ricorrente.      

Questo atteggiamento apparentemente contraddittorio sarebbe invece frutto di una scelta “coraggiosa ma prudente”, poiché la Corte avrebbe deciso di sostituirsi all’autorità politica nell’operazione di bilanciamento tra interesse collettivo alla sicurezza dei diritti individuali, dimostrandosi coraggiosa; ma poi si sarebbe impegnata ad esercitare un sindacato stringente solo sul piano “neutro” dei diritti procedurali, mostrandosi così prudente.

Inoltre, la stessa decisione della Corte di decretare la illegittimità della misura non sulla base di un difetto sostanziale di proporzionalità, ma di un difetto procedurale di contraddittorio confermerebbe che essa ha deciso di limitare l’hard look ai soli profili procedurali. In tal modo, la Corte avrebbe avuto successo nel compiere l’ardua operazione di ripristinare il rispetto della rule of law anche in un campo nel quale avevano sempre prevalso considerazioni basate su un’esigenza di sicurezza, rimanendo comunque nei limiti di una dimensione procedurale, value free, che non ne compromette la neutralità politica.  

Degna di nota[68] è anche l’attenzione del giudice comunitario, nella sentenza Kadi, per gli effetti della decisione di annullamento, che comporta una modulazione temporale degli effetti stessi. In particolare, per evitare che i ricorrenti si traggano profitto dalla decisione di annullamento assumendo provvedimenti per evitare una futura applicazione delle misure, la decisone dispone che debbano essere mantenuti gli effetti del regolamento nella parte in cui include i nomi dei ricorrenti nell’elenco, almeno per un breve periodo, che deve essere stabilito in modo da tener conto dell’incidenza delle misure restrittive sui diritti e sulle libertà dei ricorrenti, nonché da consentire al Consiglio di rimediare alle violazioni contestate.

4. La sentenza Mojahedin e il suo rapporto con le pronunce Kadi

Una seconda importante pronuncia sullo stesso tema della Kadi I è la People’s Mojahedin Organisation of Iran (d’ora in poi, Mojahedin).     

Essa riguarda la legittimità della decisione 2008/583/CE del Consiglio, adottata ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 8 del Regolamento CE n. 2580/2001, attuativo della risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU 1878/2001 e successive modifiche, afferente al contrasto delle organizzazioni terroristiche, anche non legate ai gruppi indicati dalla risoluzione 1267/1999.[69]

Come la Kadi I, anche questa decisione segna “un momento di riemersione dell’istanza di tutela dei diritti fondamentali[70]in un ambito, quello della lotta al terrorismo oggetto, come abbiamo detto, delle competenze del Secondo e del Terzo Pilastro, nei quali la dimensione intergovernativa dell’intervento aveva determinato la prevalenza dell’istanza securitaria.[71]        

In Mojahedin, il Tribunale interviene successivamente a una serie di pronunce che avevano progressivamente esteso gli spazi di tutela dei soggetti colpiti dall’irrogazione della sanzione,[72]precisando, inoltre, l’esatta portata della cooperazione tra Stati Membri e Comunità europea nell’ambito dell’individuazione dei soggetti coinvolti, nonché determinando i confini della tutela (a livello comunitario) dei diritti fondamentali intaccati dalla misura di inclusione nella “black list” e dalla conseguente sanzione del congelamento dei beni. 

È necessario sottolineare[73] che le risoluzioni 1267/1999 e 1373/2001 disegnano due modelli diversi di cooperazione internazionale in materia di lotta al terrorismo: la prima non lascia alcun margine di discrezionalità agli Stati membri, poiché instituisce un procedimento di elaborazione delle liste puramente a livello internazionale e coadiuvato da apposite istituzioni volte proprio alla gestione del procedimento stesso; la seconda fissa una serie di obiettivi lasciando piena discrezionalità agli Stati sulle forme della loro attuazione, sempre nel rispetto dei principi e dei criteri enunciati nella medesima risoluzione.

In entrambi i casi, va notato che questi strumenti si inseriscono inevitabilmente in un’ottica più ampia e complessa di contrasto “multilivello” al terrorismo, frutto della sinergia tra poteri statali, Organizzazione delle Nazioni Unite e organizzazioni regionali come, appunto, l’Unione Europe che in forza dell’art. 48 c. 2 della Carta ONU possono portare all’attuazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale. 

Allo stesso contesto “multilivello” pertiene anche il complesso dei congegni di tutela dei diritti dagli eventuali abusi perpetrati nell’esperimento della lotta al terrorismo. Tra gli elementi di tale tutela rientra la giurisprudenza della Corte di Giustizia, di cui Mojahedin e Kadi I sono esempi, soprattutto nel loro comune esito:[74] un ripensamento dei modelli di relazione tra diritto statale, diritto comunitario e diritto internazionale; nonché un miglioramento degli strumenti di protezione dei diritti fondamentali attraverso meccanismi di cooperazione e dialogo tra ordinamenti e livelli di tutela, nell’ottica di un consolidamento di un patrimonio di contenuti e tecniche argomentative che continua ad evolversi pur tra le diverse sensibilità.[75]    

Il tema della leale cooperazione tra diversi livelli si rivolge, nella pronuncia Mojahedin, all’articolazione della garanzia dei diritti fondamentali tra ordinamento comunitario e ordinamenti degli Stati membri e deriva dagli stessi caratteri del procedimento di compilazione delle liste disciplinato dal Regolamento  n. 2580/2001, in attuazione della Risoluzione 1878/2001 e della Posizione comune 2001/931/PESC. Ai sensi dell’art. 2 del Regolamento, infatti, il Consiglio adotta all’unanimità la decisione di includere determinati soggetti nella lista sulla base dei parr. 4 e 5 della Posizione comune, i quali stabiliscono i presupposti che possano dare luogo alla decisione del Consiglio.

Nel dettaglio, i paragrafi sopra menzionati decretano che l’elenco sia redatto sulla base di informazioni precise o elementi del fascicolo da cui risulti che un’autorità competente abbia preso una decisione nei confronti delle persone, gruppi o entità interessati, nonché nel caso di apertura di indagini o azioni penali per atto terroristico consumato o tentato, la partecipazione ad esso o la sua agevolazione, sulla base di prove o indizi seri e credibili o a seguito di una condanna per tali fatti.

Per “autorità competente” si intende un’autorità giudiziaria o in caso in cui le autorità giudiziarie non abbiano competenza nel settore, un’equivalente autorità competente nel settore. Inoltre, Il Consiglio si adopera affinché negli elenchi siano presenti dettagli sufficienti a consentire l’effettiva identificazione delle persone fisiche e giuridiche, delle entità e degli organismi in modo da discolpare più agevolmente coloro che abbiano un nome identico o simile.[76]Si tratta, quindi, di un procedimento articolato su due livelli, una prima su ambito nazionale e una seconda in ambito comunitario che può culminare con l’inclusione nella lista e il congelamento dei capitali.

La decisione Mojahedin trae origine proprio dalla mancata cancellazione dell’organizzazione ricorrente dalla lista, successivamente al venir meno della decisione della autorità nazionale (la Proscribed Organisations Appeal Commissions del Regno Unito) che dapprincipio aveva giustificato l’inclusione. La decisione di mantenere il ricorrente nella lista era fondata su elementi nuovi, presentati al Consiglio da un altro Stato membro, la Francia, a seguito di indagini della procura antiterrorismo a Parigi.

La leale cooperazione tra i livelli riguardo alla tutela dei diritti si invera nell’obbligo da parte del Consiglio di motivare la decisione: i reciproci doveri di leale cooperazione comportano per il Consiglio “l’obbligo di rimettersi, per quanto possibile, alla valutazione dell’autorità nazionale competente[77], con la conseguenza che  qualora voglia discostarsene su di esso graverà l’onere della prova relativamente alla sussistenza di condizioni ulteriori rispetto a quelle ravvisate dall’autorità nazionale. Tale onere sarà particolarmente stringente qualora il Consiglio sia intenzionato a superare una valutazione nazionale, in virtù della quale sarebbe stato possibile espungere il nominativo dell’organizzazione, revocando così il congelamento dei beni.[78]

In particolare, il Tribunale stabilisce che “non è stato debitamente che la decisione impugnata sia stata adottata in conformità delle disposizioni di cui all’art. 1, n. 4 della posizione comune 2001/981 e all’art. 2, n. 3, del regolamento n. 2580/2001”.[79] Viene infatti contestato al Consiglio di aver insufficientemente motivato l’idoneità dei provvedimenti dell’autorità nazionale (ossia l’apertura di indagini preliminari da parte della procura antiterrorismo di Parigi ) a giustificare la conferma della misura di congelamento dei capitali, e dunque il superamento della valutazione effettuata dalla competente autorità del Regno Unito. Questo aspetto è strettamente legato alla questione della possibilità, da parte del Consiglio, di opporre al Tribunale (in sede di sindacato sulla motivazione) la riservatezza nei documenti trasmessi dall’autorità francese: un ulteriore profilo di interconnessione tra assetto cooperativo delle relazioni tra ordinamenti e bilanciamento tra necessità di tutela dei diritti e istanza securitaria.

Infatti, con ordinanza del 26 settembre 2008 il Tribunale aveva chiesto al Consiglio di esibire i documenti prodotti dalla Repubblica francese, sulla cui base il Consiglio aveva deciso che le prove a favore di un mantenimento della misura di congelamento dei beni superassero quelle a favore della cancellazione dell’organizzazione dall’elenco, fornite invece dal Regno Unito. A tale richiesta, il Consiglio aveva risposto di non poter consegnare i documenti in quanto classificati come riservati dalla Repubblica francese. In una successiva risposta all’Ordinanza, il Consiglio si era limitato a consegnare un sunto dei documenti trasmessigli dal Ministero degli esteri francese, omettendo però (su richiesta della Francia) quella parte costituente i punti fondamentali sul perché fosse necessario mantenere l’OMPI nella lista: ciò perché, a detta del Ministro degli Esteri francese, tali informazioni presentavano un aspetto di ordine pubblico d’interesse per la difesa nazionale ed erano perciò sottoposte a misure volte a limitarne la diffusione, a norma dell’art. 418-9 del codice penale francese.

Ciò portò il Tribunale a concludere che la decisione del Consiglio fosse illegittima perché fondata su documenti forniti da uno Stato il quale si era rifiutato di autorizzarne la comunicazione al giudice comunitario.[80]L’illegittimità deriva quindi da una insufficienza di motivazione, legata proprio al rifiuto di comunicazione dei documenti riservati, posto che tale mancata comunicazione pone il Tribunale in condizioni di non poter sindacare l’adeguatezza della motivazione relativamente al superamento della valutazione effettuata in sede nazionale, come richiesto dal principio di leale cooperazione. 

Si può quindi notare una decisa funzionalizzazione della leale cooperazione alla tutela giurisdizionale effettiva, dunque all’approfondimento della protezione dei diritti fondamentali in sede di adozione della misura di congelamento dei beni materiali. Tale controllo indipendente e imparziale sulla motivazione, così come indicato anche dalla sentenza in esame, costituisce l’unica garanzia procedurale che consenta di assicurare il giusto equilibrio tra esigenze di contrasto al terrorismo internazionale e tutela dei diritti fondamentali. Per di più, la leale cooperazione sembra estendersi non solo alla sufficienza della motivazione in relazione al superamento della valutazione effettuata in sede nazionale, ma anche all’obbligo positivo di collaborare con il giudice comunitario, non adempiuto per via del rifiuto irragionevole da parte del Consiglio, ingiustificato alla luce dell’andamento del procedimento di adozione della decisione.

Ne conseguirebbe che la leale cooperazione non si limiti solo al rapporto tra Consiglio e Stati membri, ma tocchi anche le relazioni con l’ordinamento comunitario complessivamente considerato: l’obbligo di motivazione non può essere eluso sulla base di esigenze securitarie, come la riservatezza per ragioni di ordine pubblico, qualora le informazioni siano state prodotte in ambito intergovernativo. La dichiarazione di sindacabilità delle decisioni del Consiglio sotto il profilo della loro relazione con i corrispondenti provvedimenti dell’autorità statale comporta il superamento della separazione tra fase nazionale comunitaria del procedimento di irrogazione della sanzione, comportando piuttosto un tentativo di integrazione tra di esse, nell’ottica di un loro svolgimento in una dimensione cooperativa che ha l’effetto di rafforzare i diritti fondamentali.[81]  
Va inoltre evidenziato che la caratterizzazione temporale delle garanzie relativamente all’istanza securitaria si traduce nell’introduzione dell’istituto (non previsto positivamente nel procedimento) della richiesta di riesame immediato.[82]

Le garanzie procedimentali dei diritti, pertanto, presentano una doppia funzione: da un lato, dato che precostituiscono adeguate possibilità di controllo giurisdizionale, costituiscono l’ultimo baluardo dell’istanza di tutela dei diritti fondamentali nel suo contrasto con le istanze securitarie; dall’altro si atteggiano a indici idonei per orientare correttamente il sindacato di proporzionalità delle restrizioni dei diritti stessi, così riflettendosi sulla stessa tutela materiale.[83]

Infatti[84], le tre sentenze Mojahedin condividono con la pronuncia Kadi l’effetto di integrare la disciplina positiva dei procedimenti, attuando quel principio fondamentale del diritto comunitario (enunciato anche dalla prima sentenza Mojahedin, al punto 91) secondo cui il rispetto dei diritti di difesa in qualsiasi procedimento promosso da una persona e che possa comportare l’adozione di un atto lesivo deve essere garantito in qualsiasi caso, anche in assenza di qualsiasi norma riguardante il procedimento in questione.

Tale principio impone che i destinatari di una sanzione siano messi in condizione di far conoscere il proprio punto di vista sugli elementi a loro carico su cui è basata la decisione di applicare la sanzione. Questa integrazione avviene, tuttavia, nel bilanciamento tra libertà e sicurezza, poiché come chiarito dalla sentenza Kadi al punto 344, in tali casi spetta al giudice comunitario attuare tecniche che consentano di conciliare le legittime istanze di sicurezza con la necessità di garantire al singolo adeguate possibilità di beneficiare delle regole procedurali. Ciò è particolarmente evidente nel temperamento dell’opponibilità di ragioni di riservatezza e sicurezza nazionale tramite il sindacato giurisdizionale sulle motivazioni dell’atto, sotto il profilo della loro ragionevolezza e fondatezza.       

In conclusione, nelle pronunce appena analizzate il giudice europeo sembra determinare un punto di incontro tra istanza securitaria e istanza di protezione dei diritti, mostrando che esse non si escludono a vicenda, ma che è al contrario possibile interconnetterle attraverso una efficace articolazione delle garanzie procedimentali. In questo quadro,[85] rileva in particolare il nuovo profilo dell’interazione tra tutela dei diritti e relazioni cooperative tra ordinamenti, costruita secondo paradigmi vicini a schemi sussidiari. Questa distribuzione delle due istanze già menzionate lungo una dimensione multi-livello contribuisce a depotenziare il rischio di violazioni dei diritti fondamentali, riacquisendone una tutela a livello più adeguato.

Al contempo, essa non pregiudica l’attività condotta a livello di singoli ordinamenti statali al fine di garantire una protezione di quegli stessi diritti nelle corde della singola percezione di ciascuno di essi. Inoltre, dalle sentenze appena analizzate possiamo dedurre che la portata sistematica del diritto alla tutela giurisdizionale costituisce il nucleo stesso del contributo del sistema comunitario ai processi di cooperazione multilivello in materia di lotta al terrorismo, condizionando così l’inquadramento dell’istanza securitaria all’interno del livello comunitario in questione.

Si potrebbe per tanto affermare che, nelle decisioni Kadi e Mojahedin, il legame tra cooperazione tra ordinamenti giuridici e approfondimento della tutela dei diritti sia imperniato proprio sul ruolo fondamentale della tutela giurisdizionale effettiva, alla quale sono funzionali le stesse garanzie procedimentali. Ne consegue, l’ottenimento di un riequilibrio nel bilanciamento tra la già menzionata “funzione rassicurativa” degli Stati, obbligati a reagire prontamente e in modo energico a un attentato terroristico per dimostrare ai propri cittadini terrorizzati che la falla alla effettiva sovranità è stata solo momentanea[86], e la esigenza di garanzia dei diritti nell’ottica di un recupero (nel lungo periodo) di strumenti finalizzati ad articolare politiche di più ampio respiro e soprattutto in grado di garantire che il principio di libertà conservi la propria capacità di orientamento nei confronti di misure di tipo emergenziale, affrontando così quella “dilatazione” del concetto di sicurezza che, interagendo con la lotta al terrorismo internazionale, impone di pensare non solo in termini di reazione contro concrete e attuali situazioni di pericolo, ma anche e soprattutto “in termini di governo complessivi di situazioni di rischio”: insomma obbliga a “disancorare il problema della sicurezza e la soluzione delle corrispondenti situazioni di crisi dall’applicazione di criteri lineari e deterministici di causalità ed a muoversi all’interno di scenari complessi”.[87]

In altre parole[88], la dottrina in esame conclude che se nel breve periodo l’emergenza giustifica restrizioni dei diritti fondamentali, nel lungo periodo il modello dello Stato di prevenzione va integrato attraverso il reperimento di strumenti tramite i quali si possano rimuovere le cause profonde del terrorismo che mostrino “forme mature di cooperazione” allo sviluppo all’esterno. Di fronte al rischio di un indefinito protrarsi dell’emergenza (la quale è permanente propri perché preventiva[89]) nonché all’inerzia del legislatore, è la giurisprudenza a doversi far carico del riequilibrio tra sicurezza e libertà. 

La Sentenza Kadi I del 2008 ha inaugurato un filone di giurisprudenza[90] caratterizzata dalla sua incisione sul rapporto tra libertà, sicurezza e gestione dell’emergenza lungo una direttrice quantomeno triplice: in primis, ridisegna criticamente gli assetti della cooperazione internazionale nell’ambito della lotta al terrorismo; in secondo luogo, addiviene a un bilanciamento tra libertà e sicurezza tramite lo strumento del giudizio di proporzionalità e ragionevolezza; infine, individua quel momento della tutela giurisdizionale effettiva la sede più idonea per un riequilibrio in senso democratico della gestione dell’emergenza. Si tratta di tre dimensioni profondamente legate tra loro, se non interdipendenti. È possibile individuare, inoltre, almeno tre linee di tendenza, in parte contrastanti, lungo le quali si è sviluppato l’orientamento giurisprudenziale in esame.

Infatti, accanto a un primo gruppo di sentenze, che si limitano ad “applicare” il precedente Kadi[91]a fattispecie simili, non sono mancate sentenze volte a estendere la portata sostanziale dei diritti.      

Un esempio di sentenza del primo gruppo può essere la pronuncia Omar Mohammed Othman c. Consiglio e Commissione, dell’11 giugno 2009, che riguarda un individuo colpito dalla stessa misura vista nei casi ora analizzati.[92] Nel dettaglio, la Corte dispone l’annullamento del Regolamento CE del Consiglio 27 maggio 2002, n. 881, che imponeva specifiche misure restrittive nei confronti di persone ed entità associate a Osama bin Laden, ad al Qaida e ai Talebani, nella parte in cui riguarda il signor Omar Mohammed Othman. 

In considerazione delle modalità con cui erano state prese le misure per lui afflittive, il signor Othman impugnò il Regolamento davanti al Tribunale, lamentando tra l’altro una violazione dei suoi diritti garantiti dall’articolo 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, nonché dei principi generali si proporzionalità e sussidiarietà. Come già visto nel caso Kadi, anche in questa occasione il ricorrente lamentava di non essere in grado di esercitare alcun mezzo di ricorso contro le misure che lo avevano afflitto, assunte a seguito di una decisione essenzialmente politica del Consiglio di sicurezza, adottate in violazione delle regole sull’amministrazione della prova o dell’equità, con metodi stragiudiziali.[93]          

In primo grado, il Tribunale aveva rigettato il ricorso sostenendo che la Comunità Europea fosse competente a imporre il congelamento di capitali privati e che tali misure, purché richieste dal Consiglio di Sicurezza ONU, sfuggono in gran parte al controllo giurisdizionale. Infatti, il Tribunale aveva ritenuto che il controllo sulla legittimità delle misure avrebbe potuto essere svolto adoperando come parametro soltanto le norme di diritto internazionale rientranti nello jus cogens, concludendone che le limitazioni ai diritti nel caso in esame non fossero lesive dei diritti fondamentali della persona umana riconosciuti a livello universale.

A tal riguardo, il Tribunale non attribuì alcuna importanza al fatto che tale Regolamento portasse a una menomazione dei diritti o comunque dei principi fondamentali tutelati dall’ordinamento comunitario, in ragione di una interpretazione che la dottrina in esame definisce “discutibilissima[94] e che può essere così riassunta: 1) aderendo alle Nazioni Unite, gli Stati avrebbero accettato - sul piano del diritto internazionale - la prevalenza degli obblighi derivanti dalla relativa Carta rispetto a ogni obbligo pattizio e interno; 2) la delega delle funzioni statali alle Corti europee non avrebbe messo in discussione la prevalenza degli obblighi ONU, che sarebbe invece insito nei trattati costitutivi; 3) pertanto, la Corte violerebbe questo principio se decidesse di privare, anche solo parzialmente, di efficacia le Risoluzioni del consiglio di sicurezza alle quali si è voluto (o dovuto) dare attuazione a livello comunitario. Poiché di per sé la Comunità europea non è inserita, se non marginalmente, nell’ordinamento della Nazioni Unite, tale divieto non deriverebbe da obblighi internazionali comunitari, ma da una sorta di “comunitarizzazione” degli obblighi internazionali dei singoli Stati membri.

La dottrina in parola rinviene il principale punto debole di questo ragionamento nella circostanza che la prevalenza assoluta e incondizionata degli obblighi derivanti dall’ordinamento delle Nazioni Unite si giustificava sulla base del diritto internazionale. Mentre, dal punto di vista dei diritti interni (in particolare nel caso italiano) si potevano palesemente sollevare delle forti obiezioni, basate sulla pacifica prevalenza dei supremi diritti e principi costituzionali sui vincoli internazionali. La Corte di Giustizia, con la sentenza 3 settembre 2008, ha avuto modo di sconfessare questa ricostruzione, per un verso garantendo ai ricorrenti la piena tutela di diritti e principi costituzionali fondamentali per l’ordinamento europeo; per l’altro su un piano più generale fornendo una ricostruzione dei rapporti tra ordinamento internazionale e ordinamento comunitario, nonché una implicita (se non anche esplicita) definizione dei suoi tratti essenziali, sostanzialmente opposta rispetto al “semplicistico e inaccettabile modello proposto dal Tribunale [95].

Possiamo rintracciare[96] una visione della Corte favorevole a identificare la Comunità europea come una comunità di diritto, nel senso che né i suoi Stati membri né le sue istituzioni possono considerarsi sottratti al controllo di conformità dei loro atti alla “costituzione fondamentale”, rappresentata allora dal Trattato CE.  In aggiunta, la Corte dichiara che un accordo internazionale non può pregiudicare il sistema di competenze determinato dai Trattati e che l’autonomia dell’ordinamento giuridico comunitario, di cui la Corte di giustizia assicura il rispetto esclusivo in forza della competenza esclusiva di cui è investita. Inoltre, ribadisce che i diritti fondamentali sono parte dei principi generali di diritto di cui la Corte garantisce il rispetto, e che il rispetto dei diritti in questione costituisce condizione di legittimità degli atti comunitari, ciò implicando che nella Comunità non siano ammissibili misure contrarie a essi.

Pertanto, gli obblighi internazionali non possono avere l’effetto di compromettere i principi costituzionali del Trattato CE, tra i quali vi è il principio secondo cui tutti gli atti comunitari devono rispettare i diritti fondamentali. Di conseguenza, la Corte annullava il Regolamento impugnato nella parte che concerneva i ricorrenti, mantenendone provvisoriamente gli effetti per un tempo di non più di tre mesi, così da lasciare agli organi competenti il tempo di adottare (ove necessario) nuovi provvedimenti, stavolta nl rispetto dei principi e dei diritti “costituzionali” propri anche dell’ordinamento comunitario.[97]        

Il Tribunale richiamò a più riprese la sentenza Kadi I, relativamente alla necessità di garantire tutele partecipative e giurisdizionali al soggetto colpito dalla misura. E indicò inoltre un dettaglio interessante, evidenziato dalla dottrina in esame:[98] non poteva infatti essere accolta la richiesta, sollevata dal Consiglio e dagli intervenienti, di conservare l’efficacia del regolamento per un breve periodo secondo quanto contemplato dall’art. 231 CE. Infatti, il rischio rilevato nella sentenza Kadi (punto 373), nel caso in specie non sarebbe stato sufficientemente elevato, in considerazione della rilevante incidenza delle misure restrittive sui diritti e le libertà interessati dal caso Othman, da poter giustificare la conservazione dell’efficacia di tale regolamento per un periodo superiore a quello previsto dall’art. 60 dello Statuto della Corte.[99]          

Per quanto riguarda il secondo gruppo di sentenze, particolarmente interessante[100], anche per le implicazioni relative al rapporto tra istanza di sicurezza e di tutela dei diritti, è la decisone The Queen[101], resa su rinvio pregiudiziale della House of Lords. L’oggetto del rinvio riguardava la possibilità di assoggettare al congelamento imposto in sede comunitaria anche le entrate derivanti dalle prestazioni di tipo assistenziale o previdenziale: infatti, l’autorità inglese aveva assoggettato a un complesso sistema di autorizzazioni le prestazioni erogate a favore delle mogli dei soggetti colpiti dalla misura di congelamento dei beni.

La Corte dichiara la contrarietà della prassi adottata dall’autorità inglese alla corretta interpretazione del conferente diritto dell’Unione[102], valorizzando così la destinazione delle prestazioni necessarie per soddisfare bisogni essenziali della famiglia[103]: ne consegue la loro inidoneità a essere convertite in capitali, risorse economiche, beni o servizi da mettere a disposizione di organizzazioni terroristiche, poiché oltretutto l’ammontare delle prestazioni in questione è fissato “a un livello tale da coprire esclusivamente le necessità strettamente vitali delle persone interessate qualora il beneficiario delle prestazioni conviva con il destinatario della misura restrittiva”.[104]

Sembra pertanto possibile intravedere[105] nell’interpretazione della Corte, non solo una applicazione del principio enucleato dalla sentenza Kadi I, al fine di assicurare il bilanciamento tra sicurezza e protezione dei diritti, ma anche una sfumatura ulteriore: l’obiettivo delle misure restrittive (cioè il contrasto al terrorismo) non può legittimare un generale clima di sospetto che porti a presumere che ogni prestazione di tipo economico, perfino se a favore dei familiari del destinatario della misura, costituisca un finanziamento ad attività e organizzazioni terroristiche. Occorre invece rivolgersi alla concretezza delle condizioni di vita, così da adeguarvi la portata delle misure restrittive.

Accanto a questi due gruppi di sentenze si inserisce un ulteriore filone che ha tentato di approfondire la portata delle garanzie procedurali, estendendola al controllo della motivazione dei provvedimenti di congelamento dei beni. Si consideri, in particolare, la sentenza del Tribunale di primo grado del 30 settembre 2010, riguardante la causa T-85/09, cosiddetta Kadi II, relativa alla stessa fattispecie che aveva dato luogo alla Kadi I nel 2008.

Nel dettaglio,[106] la Commissione aveva ottemperato alla decisione del 2008 notificando al signor Kadi le motivazioni della sua originaria iscrizione all’elenco dei “sospettati”, acquisite dal rappresentante francese presso le Nazioni Unite. Ricevute e valutate le osservazioni, con le quali Kadi forniva elementi di fatto in gradi di indebolire le motivazioni che il Comitato delle sanzioni aveva posto alla base della sua iscrizione nell’elenco, la Commissione adottava il Regolamento 1190 del 28 novembre 2008, in modifica del Regolamento (CE) 881/2002, ristabilendo l’irrogazione della misura di congelamento, tenuto conto dell’iter procedimentale seguito, con particolare enfasi sull’avvenuta instaurazione del contraddittorio con l’interessato. (parr. 49-ss, 57).

Il 26 febbraio 2009, Kadi proponeva ricorso di annullamento verso il Regolamento in questione, contestando l’assenza di un livello di controllo giurisdizionale appropriato (parr. 82-ss), con specifico riguardo al profilo del controllo sulla valutazione delle prove a suo discarico da lui presentate in sede di contraddittorio procedimentale, e più in generale, all’intensità del controllo sulla motivazione della misura di congelamento. In poche parole, il signor Kadi sosteneva che al Tribunale dovesse essere data la possibilità di effettuare un controllo completo ed effettivo della correttezza materiale dei fatti, delle prove e delle informazioni su cui si era basata la decisione di inserimento del ricorrente nella lista, allo scopo di decidere se esistessero motivi ragionevoli e prove sufficienti ai fini della decisione e se sussista o meno un errore di valutazione[107]    

Se da una parte il ricorrente invocava la piena applicazione dei principi della sentenza Kadi I, dunque un controllo “approfondito, rigoroso” e “in linea di principio completo[108] del procedimento motivazionale condotto dalle istituzioni dell’Unione; dall’altro il  Consiglio, la Commissione e i governi intervenienti davano una interpretazione diversa della sentenza Kadi I, affermando che il livello di controllo in essa previsto non può comprendere un sindacato penetrante sulle motivazioni del provvedimento, ma deve invece limitarsi a una verifica del rispetto delle garanzie di partecipazione al procedimento. Ragione di questa estensione del controllo più contenuta sarebbe proprio la rilevanza, nel caso in esame, dell’obbligo delle istituzioni UE di attenersi alle motivazioni addotte dalle Nazioni Unite al momento dell’inserimento dell’interessato nella lista dei sospettati.

In particolare,[109] la Commissione sosteneva fosse necessario distinguere tra il livello di controllo assicurato nelle fattispecie riconducibili (come nel caso in esame) alla Risoluzione ONU n. 1267/99 (dunque alla Posizione comune 2002/402 PESC e al Regolamento 881/2002 e successive modifiche) e le diverse fattispecie riconducibili alla Risoluzione ONU 1373/2001 (dunque Posizione comune 2001/931 PESC e Regolamento 2580/01 e successive modifiche). Con riferimento alle misure adottate sulla base di questi ultimi atti, il “controllo completo” si giustificherebbe sulla base dell’ampio margine di cooperazione riconosciuto agli Stati membri e all’UE.       

A tal riguardo, il Tribunale di primo grado nelle tre decisioni Mojahedin aveva collegato la possibilità di un controllo più profondo delle motivazioni alle diverse caratteristiche del procedimento di irrogazione della misura del congelamento dei beni, fondato sulla cooperazione tra istituzioni europee e nazionali dalla quale deriva l’obbligo per le prime di attenersi alle valutazioni delle seconde, salvo l’onere di provare le ragioni della decisione di distaccarsi da esse. Il controllo della Corte e del Tribunale ha come oggetto proprio questo onere della prova posto a carico delle istituzioni europee: esso può appunto spingersi fino alla verifica degli elementi di prova e di informazione, senza per questo sostituire le proprie valutazioni a quelle delle istituzioni competenti.

Al contrario, quando siano in questione misure adottate ai sensi del Reg. 881/02, la minore estensione del margine di attuazione (derivante dal rispetto dovuto alle valutazioni già effettuate in sede di comitato per le sanzioni dell’ONU) comporterebbe una minore estensione del controllo sulla motivazione. Secondo questa interpretazione della sentenza Kadi I, il rispetto dei diritti fondamentali imporrebbe solo il rispetto delle garanzie procedurali.

Secondo la Commissione e i governi intervenienti, il Tribunale sarebbe chiamato per la prima volta a stabilire “il livello di controllo adeguato” garantendo comunque una “particolare attenzione al contesto internazionale in cui è stato adottato il regolamento impugnato”.[110]Si poneva quindi il problema di determinare l’intensità del controllo sui provvedimenti di congelamento dei beni , mantenendo un equilibrio nel bilanciamento tra libertà e sicurezza, a sua volta strettamente legato al profilo delle relazioni tra ordinamento UE e ordinamento internazionale.[111]

Il Tribunale ritenne che un’interpretazione della sentenza Kadi I a favore di una separazione del controllo sul rispetto delle garanzie procedurali dal controllo sulla motivazione del provvedimento avrebbe avuto l’effetto di “attuare non un controllo giurisdizionale effettivo del tipo di quello richiesto dalla Corte nella stessa sentenza Kadi, bensì una parvenza di controllo”.[112] Ciò avrebbe portato al ritorno del precedente orientamento del Tribunale riguardo la prima sentenza Kadi del 2005, favorevole all’immunità giurisdizionale del Regolamento.

Al contrario, la sentenza Kadi I della Corte attribuisce rilevanza centrale all’istanza di protezione dei diritti fondamentali dell’interessato, “quale portato specifico dell’identità costituzionale europea nella gestione della relazione (cooperativa) con l’ordinamento internazionale[113] obbliga il Tribunale a garantire, in questo caso, un controllo “in linea di principio completo” della legittimità del Regolamento impugnato, al quale non spetta alcuna forma di immunità giurisdizionale per il fatto di mirare ad attuare Risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza.

Sembra inoltre[114]possibile riconoscere, nelle argomentazioni del Tribunale, una debole apertura al livello di protezione dei diritti assicurato in sede internazionale. Infatti, si afferma che l’obbligo di garantire un controllo “completo” sui provvedimenti sanzionatori dovrà essere effettuato quantomeno finché le procedure di riesame attuate dal Comitato per le sanzioni non offrano manifestamente garanzie di tutela giurisdizionale effettiva. È stato infatti osservato[115] che sembrerebbe potersi individuare un modello di gestione delle relazioni tra ordinamenti e livelli di protezione analogo a quello stabilito dalla giurisprudenza Solange del Tribunale costituzionale tedesco nonché dalla sentenza Bosphorus della Corte EDU.

Tale analogia deve però essere inquadrata in un contesto cooperativo. L’affermazione in chiave “identitaria” del livello europeo di protezione dei diritti non deve essere interpretata come una chiusura, ma come un fattore di integrazione dei livelli di tutela, nonché come strumento volto a determinare percorsi di approfondimento della protezione dei diritti.

In tal modo, la sentenza Kadi I è interpretata in modo da estendere il controllo del giudice comunitario sulla motivazione, garantendo così un’effettiva tutela. Al giudice comunitario è infatti domandato di “attuare, nell’ambito del controllo giurisdizionale da esso esercitato, tecniche che consentano di conciliare, per un verso, le legittime occupazioni di sicurezza quanto alla natura e alle fonti di informazione prese in considerazione […] e, per altro verso, la necessità di concedere in maniera adeguata al singolo di beneficiare delle regole procedurali.”[116]

Tali tecniche non potranno limitarsi a un sindacato sulla fondatezza “apparente” dell’atto impugnato, ma dovranno riguardare “gli elementi probatori e di informazione su cui si basano le valutazioni svolte nell’atto stesso”.[117] Nella sua decisione, il Tribunale fece anche riferimento alle già esaminate sentenze Mojahedin nonché alla premessa della Kadi I secondo cui non può riconoscersi alcuna immunità giurisdizionale agli atti adottati al fine di dare attuazione alle Risoluzioni del Consiglio di sicurezza in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.    

A ciò si aggiunge che secondo il giudice comunitario il controllo giurisdizionale completo e rigoroso delle misure di congelamento dei capitali è giustificato dal fatto che tali misure incidono in maniera sensibile e duratura sui diritti fondamentali degli interessati, vista la durata ormai decennale dell’impiego di tali misure.[118]           

Il Tribunale per questo motivo procedendo al sindacato nel merito dell’impugnazione, concluse per l’illegittimità del Regolamento.
Centrale, nell’argomentazione del Tribunale è il riferimento al precedente A. e altri c. Regno Unito della Corte europea dei diritti dell’uomo (19 febbraio 2009, ric. n. 3455/05) riguardante il legame tra diritto alla tutela giurisdizionale effettiva e possibilità di contestare le allegazioni a proprio carico, specie con riferimento alle fattispecie nelle quali si invochi il segreto in considerazione di esigenze securitarie.

In applicazione dei principi enunciati dalla Corte EDU, il Tribunale addivenne alla conclusione che al signor Kadi fosse stata negata la possibilità di contestare utilmente le allegazioni a suo carico, dato che gli era stata inviata soltanto una sintesi dei motivi addotti dal Comitato per le sanzioni dell’ONU. L’assenza di una esposizione dettagliata dei motivi era d’ostacolo persino al Tribunale stesso, il quale non poteva esercitare un sindacato effettivo sulla legittimità del provvedimento.[119]

Ma nel ribattere all’argomento del Consiglio secondo cui sarebbe stato assicurato un livello di protezione comparabile a quello delle sentenze Mojahedin, il Tribunale integra le proprie precedenti affermazioni sulla diversa natura dei procedimenti, precisando che, nel caso della procedura ex Regolamento 881/2002, relativa al caso in esame, l’assenza di qualsiasi mezzo di tutela giurisdizionale effettiva a livello internazionale impone un severo controllo in sede europea su eventuali violazioni dei diritti fondamentali.

La dottrina[120]definisce “molto severe” queste affermazioni, poiché sembrano vanificare gli sforzi presenti nei passaggi argomentativi appena esposti, diretti a cercare un equilibrio tra tutela dei diritti, rispetto degli obblighi internazionali contratti dagli Stati membri in sede ONU ed esigenze dovute al contrasto al terrorismo.

Il tema della compatibilità di questo modello di controllo definito dal Tribunale è inoltre alla base dei ricorsi proposti il 13 e il 16 dicembre 2010  con i quali il Consiglio, la Commissione e il governo del Regno Unito hanno impugnato la sentenza del tribunale dinanzi alla Corte di Giustizia.[121]  

Il 19 marzo 2013 l’Avvocato Generale ha presentato le proprie conclusioni: l’impugnazione era infondata, pertanto era da rigettare il ricorso originario avverso il Reg. 881/02. Inoltre, pur non essendo da accogliere l’ipotesi di un ritorno al modello di immunità giurisdizionale del Regolamento, come conseguenza della sua natura di strumento di attuazione delle misure restrittive stabilite a livello internazionale, nelle conclusioni viene contestata la posizione del Tribunale relativamente all’intensità del controllo assicurato, dunque un invito a un adeguamento dell’intensità del controllo all’esigenza di rispettare gli obblighi assunti dagli Stati membri.

In particolare, viene criticata l’assimilazione operata dal Tribunale del modello di controllo previsto in Kadi a quello desumibile dalle sentenze Mojahedin. Peraltro, tale profilo rappresenta un elemento di debolezza[122]dell’iter argomentativo del Tribunale, dovuta soprattutto alle differenze tra i due procedimenti di adozione delle misure restrittive.

Si dimostra di fondamentale importanza il profilo dell’adeguamento dell’intensità del controllo all’esigenza di rispetto degli obblighi internazionali assunti dagli Stati membri in sede ONU. Dalla considerazione che compito delle Nazioni Unite è “mantenere la pace e la sicurezza nazionali” deriverebbe l’impossibilità per i giudici comunitari di imporre la loro valutazione sulla fondatezza delle misure restrittive decise a livello internazionale: un controllo approfondito, afferma l’Avvocato Generale, avrebbe infatti l’effetto di sottrarre al Consiglio di sicurezza una sua competenza esclusiva, cioè la definizione di cosa costituisca una minaccia per la pace e la sicurezza internazionali e le misure necessarie per affrontare tale minaccia.

Pertanto, il controllo esercitato in seno all’Unione deve essere proporzionato al limitato margine di discrezionalità delle istituzioni dell’Unione, le quali non possono considerarsi organi di appello o di riesame di tali decisioni (para. 71). In questa alternativa tra rispetto degli obblighi internazionali e protezione dei diritti, l’Avvocato Generale afferma che la soluzione sia sviluppare la cooperazione tra Unione e Nazioni Unite nel settore in questione.

Inoltre, tale soluzione sarebbe in linea con alcune disposizioni del diritto primario dell’Unione, ricordate dallo stesso Avvocato Generale, le quali indicano la Carta delle Nazioni unite come punto di riferimento nella gestione della politica estera dell’Unione. Sarebbe dunque necessario un approccio improntato alla “fiducia” e non alla “diffidenza” tra le istituzioni internazionali, regionali e statali, dato che i valori che ispirano la lotta al terrorismo sono comuni a entrambe le organizzazioni (para. 77).

Se pertanto non è pensabile[123]un automatico obbligo di adeguamento delle istituzioni europee alle decisioni del Consiglio di sicurezza rispetto al tema delle misure restrittive per chi è sospettato di terrorismo, è comunque necessario che il giudice dell’UE eviti di sostituire le proprie valutazioni di merito a quelle effettuate in sede internazionale. L’Avvocato Generale rinviene uno strumento di facilitazione di tale equilibrio nei “miglioramenti” della procedura di riesame nell’ambito del Comitato per le sanzioni, che giustificherebbe una vera e propria “presunzione di fondatezza” (para. 88) a favore delle decisioni adottate in tale sede, comunque superabile attraverso una rigorosa applicazione delle garanzie procedurali nella fase di attuazione delle misure a livello dell’Unione, seppur limitatamente ad “eventuali errori manifesti di valutazione”, escludendo così l’ambito della fondatezza della motivazione. (parr. 89 e 90).        

Le argomentazioni dell’Avvocato Generale attribuirebbero così[124]una ulteriore funzione alle garanzie processuali, oltre a quella - già enucleata dalla pronuncia Kadi Idi articolare il controllo sulla proporzionalità della misura restrittiva. Esse infatti consentirebbero l’instaurazione di una dimensione cooperativa delle relazioni tra ordinamenti, anche attraverso la pretesa di un controllo sostanziale tra livelli di protezione, per quanto limitato nell’oggetto (come abbiamo visto dalle parole dell’Avvocato Generale). In particolare, le conclusioni or ora analizzate lascerebbero intendere che la possibilità di un controllo in sede regionale può contribuire ad accrescere la sensibilità e l’attenzione per la tutela dei diritti da parte del Comitato per le sanzioni. (para. 88).

Va notato[125], inoltre, che l’istanza di riequilibrio in senso democratico dell’azione UE nell’ambito della lotta al terrorismo, assieme a quella di bilanciamento tra libertà e sicurezza, non è sconosciuta al diritto dell’Unione. Si tenga conto, in particolare, degli artt. 75 e 215 TFUE. Il primo, inserito nel Titolo V del TFUE (Spazio di libertà, sicurezza e giustizia) prevede che, qualora necessario nell’ambito degli obiettivi dello Spazio in questione (art. 67 TFUE), l’azione di prevenzione e contrasto del terrorismo possa venir attuata anche tramite misure amministrative che affliggano movimenti di capitali e pagamenti.

Tali sono il congelamento dei capitali, dei beni finanziari o dei proventi economici appartenenti o posseduti o detenuti da persone fisiche o giuridiche nonché da gruppi o entità statali. Suddette misure vengono adottate da Parlamento e Consiglio tramite il ricorso alla procedura legislativa ordinaria, la quale prevede che entrambe le istituzioni agiscano in condizione di parità. 

In particolare, l’ultimo comma della disposizione stabilisce che gli atti adottati in base all’art. 75 TFUE debbano contenere “le necessarie disposizioni sulle garanzie giuridiche”, nel rispetto del disposto generale dell’art. 67, secondo cui lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia è realizzato prima di tutto nel rispetto dei diritti fondamentali. Leggermente diversa è, invece, la previsione di cui all’art. 215 TFUE: essa ha infatti ad oggetto l’adozione di misure restrittive a seguito di una decisione adottata dal Consiglio nell’ambito delle azioni di “Politica estera e di sicurezza comune” (Capo II Titolo V del TUE), con la quale si sia stabilita l’interruzione o la riduzione (totale o parziale) delle relazioni economiche e finanziarie con uno o più Paesi terzi.

In tal caso, se resta ferma la previsione secondo cui gli atti che irrogano le misure restrittive “contengono le necessarie disposizioni sulle garanzie giuridiche”, viene significativamente ridotto il ruolo del Parlamento europeo. Al posto della procedura legislativa, è previsto un semplice obbligo di informazione del Parlamento da parte del Consiglio. Le misure adottate in ambito di politica estera e di sicurezza comune e incidenti sulle relazioni commerciali con stati terzi sono così sottratte al pieno controllo democratico del Parlamento e affidate, piuttosto, all’unanime decisione del Consiglio.[126]

Di tale questione si è occupata la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione CdG Parlamento c. Consiglio, 19 luglio 2012, in c. C-130/10. In essa la Corte era chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione, da parte del Parlamento europeo, del Regolamento CE n. 1286/2009, recante misure attuative del Regolamento CE 881/02.

Il Parlamento lamentava l’illegittimità del Regolamento sotto il profilo dell’inadeguata individuazione della base giuridica: il Consiglio avrebbe infatti adottato come base giuridica l’articolo 215 TFUE, anziché il 75 dello stesso Trattato, così da esautorare il Parlamento dalla partecipazione alla procedura di adozione del Regolamento impugnato. Quest’ultimo, seppur adottato in base alla posizione comune PESC 2002/402, non presenterebbe alcun significativo legame con gli obiettivi indicati nell’articolo 215.

Infatti, l’articolo in questione farebbe riferimento alla riduzione o all’interruzione delle relazioni con uno o più Paesi, mentre la Posizione comune su cui si basa il Regolamento impugnato ha ad oggetto delle misure restrittive nei confronti di Osama bin Laden nonché di membri di Al Qaida, Talebani e altri individui, gruppi, imprese ed entità ad essi associati, senza alcun riferimento a Paesi terzi. Ancora, il Parlamento argomenta che adottare misure che incidano direttamente sui diritti fondamentali delle singole persone e dei gruppi tramite procedure che escludano il Parlamento sarebbe in contrasto con il diritto dell’Unione.[127]   

Per giunta, tale possibilità si porrebbe in contrasto con l’ispirazione del Trattato di Lisbona, che al contrario dovrebbe riflettere la volontà degli Stati membri di rafforzare il carattere democratico dell’Unione e prevedrebbe, attraverso l’art. 75 TFUE, una risposta all’urgente necessità di prevedere un controllo parlamentare nella procedura di adozione delle misure antiterrorismo. In tal modo, ricondurre il Regolamento in questione all’art. 215 TFUE finirebbe per vanificare la portata dell’art. 75 TFUE.[128]Il Consiglio, da parte sua[129], valorizza il legame del Regolamento impugnato con una Posizione comune adottata nell’ambito della PESC (indipendentemente dalle finalità della suddetta Posizione comune), affermando che l’art. 75 si riferisce alla gestione della minaccia terroristica interna, mentre quella esterna è disciplinata dall’art. 215 TFUE.     

La Corte ha rigettato il ricorso del Parlamento, basandosi su due ordini di argomentazioni: in primis, ha richiamato la corrispondenza testuale tra gli art. 60 e 301 TCE (che assieme all’art. 308 del medesimo Trattato integravano la base giuridica del Regolamento 881/02, di cui il Reg. 1286/09 è immediata attuazione) e l’art. 275 TFUE[130], in modo da privilegiare l’ancoraggio dell’atto impugnato in una decisione comune PESC.

Inoltre, per quanto riguarda le prerogative del Parlamento, la Corte ha concluso che di per sé il maggior coinvolgimento di quest’ultimo non è ragione sufficiente a guidare la scelta della base giuridica di un atto dell’Unione: la base normativa di un atto delle essere individuata considerando la funzione e lo scopo di esso, pertanto, pur essendo un maggior coinvolgimento del Parlamento il riflesso di un fondamentale principio di democrazia secondo il quale i popoli partecipano all’esercizio del potere attraverso un’assemblea rappresentativa, la garanzia di tale principio non si estende al settore della Politica Estera e di Sicurezza Comune, nel quale resta preponderante il modello intergovernativo.

Secondo la Corte, neanche l’incisività delle misure in parola sui diritti fondamentali dei singoli sarebbe sufficiente a radicare la competenza del Parlamento, poiché l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali, ai sensi dell’art. 51 para. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, si estende a tutte le istituzioni e agli organi dell’UE e allo stesso tempo, per via del precedente stabilito dalla sentenza Kadi I, è assicurato il controllo della Corte di giustizia sul rispetto dei diritti fondamentali del destinatario delle misure restrittive.[131]  

In conclusione, è stato notato[132]che questa sentenza conferma il nesso problematico tra istanza securitaria, paradigma intergovernativo e declinazione rigida delle relazioni tra ordinamenti. In tal modo, è proprio il ruolo del Consiglio a uscire rafforzato dalla specificazione della necessità di attuare gli obblighi internazionali (nel nostro caso, le Risoluzioni ONU), limitando al minimo il margine di discrezionalità dell’Unione. A ciò si aggiunge che tra Consiglio e Parlamento, è il primo a mostrare una maggiore sensibilità per la prevalenza dell’istanza securitaria.

5. La pronuncia Digital Rights Ireland e l’invalidità della Direttiva 2006/24 CE sui dati di traffico web e telefonico      

Altra pronuncia della Corte di Giustizia degna di nota è la Digital Rights Ireland del 2014.[133]Con essa, la Corte ha dichiarato l’invalidità della Direttiva 2006/24 CE, che obbligava i fornitori alla conservazione dei dati di traffico.

Nel dettaglio[134], essa ha imposto a tutti gli operatori Telco e I.S.P. l’obbligo di conservare ogni dato di traffico e di ubicazione geografica (numero di telefono, indirizzo IP, chiamate in entrata e in uscita, e-mail inviate e ricevute ecc.), ma non anche il contenuto delle comunicazioni. La conservazione dei dati (art. 4) è funzionale alla loro trasmissione solo “alle autorità nazionali competenti, in casi specifici e conformemente alle normative nazionali”.

L’obbligo rappresenta una deroga al precedente divieto di conservazione e si giustifica in ragione dello scopo della Direttiva: armonizzare le normative nazionali per rendere disponibili i dati necessari agli “indagine, accertamento e repressione dei reati gravi”.[135]     
Il legislatore interno ha il compito di definire una serie di questioni: cosa si intenda per reato grave, quale debba essere la durata della conservazione dei dati (che può variare dai 6 mesi ai 2 anni) e quali le misure tecniche e organizzative di sicurezza nella conservazione dei dati.     

La pronuncia della Corte sulla Direttiva in esame si è basata sul parametro degli articoli 7 (“rispetto della vita privata”) e 8 (“protezione dei dati di carattere personale”) della carta di Nizza.  
In sintesi, la Corte, pur riconoscendo che l’incrocio dei dati potrebbe rivelare il profilo personale del soggetto osservato[136], esclude che venga intaccato il contenuto essenziale del diritto alla riservatezza perché l’obbligo di conservazione non si estende al contenuto delle comunicazioni.    

Interrogandosi poi se l’ingerenza nei diritti imposta dalla Direttiva rispondesse effettivamente a requisiti di carattere generale e fosse strettamente necessaria nel rispetto del principio di proporzionalità, la Corte nota che la lotta al terrorismo, per quanto interesse generale fondamentale, non può considerarsi di per sé elemento sufficiente a giustificare che una misura di conservazione, come quella istituita dalla Direttiva in parola, sia considerata necessaria ai fini della suddetta lotta. In altre parole, la necessità di tale misura non è automatica, in presenza di una grave lesione dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta.[137]

Pertanto la Corte censura la Direttiva perché essa introduce un sistema di sorveglianza di massa, senza limiti di oggetto (nessuna distinzione dei dati per tipologie, confusione tra dati personali e sensibili), verso qualsiasi persona, su qualsiasi mezzo di comunicazione elettronica, senza un collegamento diretto o indiretto col reato perseguito.[138]  

Ancora, la Corte censura l’assenza di un sistema che disciplini l’accesso ai dati richiesti alle autorità, magari giudiziaria o amministrativa indipendente. Similmente, viene denunciata dalla Corte la mancanza di adeguate garanzie procedurali: la Direttiva infatti non precisa a quale autorità debbano essere trasmessi i dati, se si polizia o di intelligence, né definisce i limiti per un uso ulteriore rispetto allo stretto necessario per raggiungere l’obiettivo.[139]  

Nel caso in esame, la Corte non ha sospeso gli effetti della sentenza: avrebbe potuto farlo applicando in analogia a una pronuncia pregiudiziale di invalidità ex art. 267 TFUE quanto previsto dall’art. 264 TFUE per il caso di annullamento di un atto illegittimo.[140]Ha preferito invece lasciare che la sentenza esplicasse immediatamente i suoi effetti, tenuto conto della gravità delle intrusioni nelle libertà fondamentali e con la speranza di un rapido intervento dei legislatore europeo.[141]  

Si è così creato un vuoto nel diritto dell’Unione, che deve essere colmato da una nuova normativa concernente il trattamento dei dati personali con finalità di prevenzione per i reati gravi, ad es. Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016. 

Pertanto, le legislazioni nazionali attuative della direttiva annullata sono da considerarsi contrarie al diritto UE: il giudice nazionale, al quale è rimesso il compito di garantire piena efficacia alla tutela giuridica che il diritto dell’Unione attribuisce ai cittadini, è tenuto a disapplicare tali norme. Laddove avesse dei dubbi, dovrebbe effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE.

In Italia, il decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7 non ha recepito le censure della Corte e le sue indicazioni: ha infatti esteso la durata della conservazione dei dati fino al 30 giugno 2017[142], mentre in precedenza l’obbligo di conservazione dei dati del traffico telefonico era fissato in 24 mesi e 12 per quello di internet.

6. Conclusioni

È dunque chiaro che la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea in tema di tutela dei diritti fondamentali e lotta al terrorismo sia in evoluzione verso un concetto di salvaguardia dei diritti che non si pone in opposizione con le disposizioni del diritto internazionale e interno dei singoli Paesi ma, al contrario, è finalizzato ad un coordinamento tra il livello europeo, quello internazionale e quello domestico.

Gli organi giurisdizionali dell’Unione Europea, come mostrato da pronunce quali la Kadi I, la Kadi II e la Mojahedin, rivendicano prerogative di verifica sulla idoneità e proporzionalità delle misure restrittive di origine nazionale e internazionale non certo per un mero fine “antagonistico” rispetto a tali fonti, ma per assicurare il rispetto dei diritti umani secondo una cultura comune alle nazioni dell’Unione e alla Comunità Internazionale.

In tal modo, la giurisprudenza comunitaria contribuisce a una integrazione del diritto a livello europeo nonché (visto il carattere globale del terrorismo moderno) a una tutela dei diritti fondamentali unificata tra il livello locale, quello europeo e quello internazionale.        

Note e riferimenti bibliografici

[1] L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte prima) e (parte seconda), entrambi in Riv. Cammino Dirit. 1, 2019.

[2] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e Costituzioni democratiche, 2006, Il Mulino, Bologna, pp. 88-89.

[3] P. Bonetti, op. cit., p. 89.

[4] P. Bonetti, op. cit., pp. 89-90.

[5] P. Bonetti, op. cit., p. 90.

[6] P. Bonetti, op. cit., pag. 91.

[7] Ibid.

[8] P. Bonetti, op. cit., pag. 92.

[9] P. Bonetti, op. cit., p. 93.

[10] Corte di Giustizia CE, 3 settembre 2008, Kadi e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio, in cc. C-402/05 P e 415/05.

[11] A. Schillaci, Diritti fondamentali e lotta al terrorismo internazionale nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: l’eredità del caso Kadi, in Costituzioni e Sicurezza dello Stato, Maggioli, Ravenna, 2013, p.1101.

[12] A. Schillaci, op. cit., p. 1102.

[13] Caso Nold, sent. 14 maggio 1974, in c. 4/73; Liselotte Hauer c Land Rheinland Pfalz, in c. 44/79; Schräder c. Hauptzallamt Gronau, in c. 265/87; Commissione c. Germania, causa 62/90.

[14] Kadi e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio, punto 369.

[15] Ibid., punto 370.

[16] A. Schillaci, op. cit., p. 1103.

[17] Kadi e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio, parr. 281, 282.

[18] A. Schillaci, op. cit., p. 1105.

[19] F. Salerno, Il rispetto delle garanzie processuali nell’attuazione delle misure del Consiglio di sicurezza contro il terrorismo internazionale, in Rivista di Diritto Internazionale Privato e Processuale, n. 1, 2010, pp. 5-ss.

[20] V. nota 17.

[21] A. Schillaci, op. cit., pagg. 1105, 1106.

[22] A. Schillaci, Tutela dei diritti e cooperazione tra ordinamenti in due recenti pronunce del giudice comunitario, in Giurisprudenza Costituzionale, fascicolo 2, 2009, p. 1259.

[23] Kadi c. Consiglio e Commissione, punto 230.

[24] Ibid., punto 231.

[25] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1260.

[26] Kadi c. Consiglio e Commissione, punto 281.

[27] Ibid., punto 285.

[28] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., pp. 1261-1263.

[29] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1261.

[30] E. Cannizzaro, Sugli effetti delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza nell’ordinamento comunitario: la sentenza della Corte di giustizia nel caso Kadi, in Rivista di diritto internazionale, 2008, p. 1078.

[31] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, p. 1262.

[32] A. Schillaci, Caminos de la integración material: la “comunitarización” de los “contralímites” en la decisión “Sociéte Arcelor Atlantique et Lorraine” del “Conseil d’État”, in Revista de Derecho Consitucional Europeo, n. 8/2007, para. 2., consultabile sul sito dell'Università di Granada.

[33] A. Schillaci, Caminos…, cit., para. 4.

[34] A. Schillaci, Caminos…, cit., nota 28.

[35] Conseil d’État, Assemblée, 8 febbraio 2007, Sociéte Arcelor Atlantique et Lorraine et autres, conclusioni del Commissario di Governo, in Revue Française de Droit Administratif, 2007, p. 390.

[36] Rev. Fr. Dr. Admin., 2007, pag. 392.

[37] V. nota 34.

[38] A. Schillaci, Caminos…, cit., Resumen nel paragrafo Valoración de la decisión y conclusiones.

[39] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., pp. 1262-1263.

[40] A. Gattini, Joined Cases C–402/05 P & 415/05 P, Yassin Abdullah Kadi, Al Barakaat International Foundation v. Council and Commission, judgment of the Grand Chamber of 3 September 2008, (commento a), in Common Market Law Review, n. 1, 2009, pp. 214-218.

[41] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., pp. 1263-1264.

[42] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1264.

[43] Sentenza 30 giugno 2005, su ricorso 45036/98.

[44] Ad es. Matthews c. Regno Unito (18 febbraio 1999); Dangeville c. Francia (16 marzo 2002); Cabinet Diot c. Francia (22 luglio 2003).

[45] Sentenza Bosphorus, 30 giugno 2005, punto 155.

[46] V. nota 42.

[47] Risoluzione 1617/2005 punto 5; Risoluzione 1822/2008 punto 12.

[48] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, p. 1265., corsivo dell’autore.

[49] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, pp. 1265-1266.

[50] Ad es. Decl. 1/2004 del Tribunale costituzionale spagnolo, parte II par. 8, consultabile su www.tribunalconstitucional.es.

[51] P. Ridola, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e le “tradizioni costituzionali comuni” degli Stati membri, in Le riforme costituzionali e la partecipazione dell’Italia all’Unione europea, a cura di S. P. Panunzio ed E. Sciso, Milano, 2002, pp. 83-ss.

[52] A. A. Cervati, Integrazione europea e valori costituzionali comuni, in A. A. Cervati, Per uno studio comparativo del diritto internazionale, Torino, Giappichelli, 2009, pp. 233-ss, 234.

[53] A. Schillaci, Diritti fondamentali..., p. 1106.

[54] B. Ackerman, The Emergency Constitution, in Yale Law Journal, 2003-2004, p. 24.

[55] L. Mariani, Il rapporto tra terrorismo e stato di emergenza, in Riv. Cammino Dirit., 2, 2019

[56] Sentenza Kadi I, punto 866.

[57] Ibid., punto 861.

[58] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1272.

[59] Art. 2-bis Regolamento n. 881/2002, come modificato dal Regolamento n. 561/2003, adottato in esecuzione della Risoluzione 1452/2002.

[60] Sentenza Kadi I, punto 369.

[61] Ibid., punto 370.

[62] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1272.

[63] M. Savino, Libertà e sicurezza nella lotta al terrorismo: quale bilanciamento?, in Giornale di diritto amministrativo, n. 10, 2008, pp. 11-ss.

[64] A. Sandulli, Proporzionalità, in Dizionario di Diritto Pubblico, a cura di Sabino Cassese, vol. V, Milano pp. 4643-ss.

[65] M. Savino, op. cit., pag. 12 nota 15.

[66] J. Reich, Due Process and Sanctions Targeted Against Individuals Pursuant to U.N. Resolution 1267 (1999), in Yale Journal of International Law, 2008, vol. 33, p. 511.

[67] M. Savino, op, cit., p. 12.

[68] A. Schillaci, op. cit., p. 1274.

[69] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, p. 1256.

[70] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1257.

[71] A. Di Martino, Principio di territorialità e protezione dei diritti fondamentali nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in Legalità costituzionale e mandato d’arresto europeo, Napoli, Jovene, 2007, pp. 69-ss, 72-ss, 75.

[72] TPI, II sez., 12 dicembre 2006, Organisation des Mojahedines du peuple d’Iran c. Consiglio, in c. T-228/02; TPI, VII sez., 28 ottobre 2008, People’s Mojahedin Organisation of Iran c. Consiglio, in c. T-256/07.

[73] V. nota 67.

[74] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., pp. 1258-1259. 

[75] S. P. Panunzio, I Diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli, Jovene, 2006, pp. 1-ss.

[76] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., pp. 1266-1267, nota 88.

[77] Sentenza Mojahedin, punti 124, 133 e 52-53.

[78] A Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., pp. 1266-1267.

[79] Decisione Mojahedin, punto 56.

[80] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1268.

[81] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1269.

[82] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1275.

[83] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1271.

[84] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1274.

[85] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., p. 1276.

[86] B. Ackerman, The Emergency Constitution, cit., p. 24.

[87] P. Ridola, Diritti fondamentali. Un’introduzione, 2006, Giappichelli, p. 143.

[88] A. Schillaci, Tutela dei diritti…, cit., pp. 1276-1277.

[89] G. Bascherini, L’emergenza e i diritti. Un’ipotesi di lettura, in Rivista di Diritto Costituzionale, 2003, p. 50.

[90] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., p. 1110.

[91] Ad. es. CdG, 3 dicembre 2009, Hassan e Ayadi, in c. C-399/06 P e 403/06 P; TPI 11 giugno 2009, Othman, in c. T-318/01.

[92] V. Sciarabba, Misure antiterrorismo e diritti fondamentali: c’è un giudice a Lussemburgo, ora che due (intervenuta la Corte, il Tribunale si adegua), in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, n. 4/2009 p. 1571.

[93] V. Sciarabba, op. cit., pp. 1574-1575.

[94] V. Sciarabba, op. cit., p. 1572.

[95] V. nota 93.

[96] V. Sciarabba, op. cit., p. 1573.

[97] V. nota 95.

[98] V. Sciarabba, op. cit., p. 1576.

[99] V. Sciarabba, op. cit., p. 1577.

[100] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., pp. 1110-111.

[101] Cdg, 29 aprile 2010, The Queen, su istanza di M. e altri, c. Mer Majesty’s Treasury, in c. C-340/08.

[102] Regolamento CE n. 881/2002 e successive modifiche e integrazioni.

[103] The Queen, para. 59.

[104] Ibid., para. 61.

[105] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., p. 111.

[106] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., p. 112.

[107] Kadi II, para. 154.

[108] Kadi I, parr. 281, 327.

[109] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., pp. 1112-1113.

[110] Kadi II, para. 91.

[111] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., p. 1113.

[112] Kadi II, para. 123.

[113] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., p. 1114.

[114] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., pp. 1114-1115.

[115] J. M. Cortés Martín, Sanciones antiterroristas: el Tribunal general despeja las dudas sobre la intensidad del control jurisdiccional y marca ciertas distancias con el fallo del tjue en el asunto Kadi, in Revista de Derecho Comunitario Europeo, 38, 2011, pp. 257-258.

[116] Kadi II, para. 134.

[117] Ibid., para. 135.

[118] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., p. 1115.

[119] Kadi II, parr. 177-ss, 183.

[120] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., p. 1116.

[121] Cause riunite C-584/10, C-593/10 e C-595/10.

[122] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., p. 1117.

[123] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., pp. 1117-1118.

[124] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., p. 118.

[125] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., pp. 1107-ss.

[126] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, op cit., p. 1108.

[127] Parlamento c. Consiglio, 19 luglio 2012, para 29-ss, 34.

[128] Ibid., para. 34.

[129] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, op. cit., p. 1109.

[130] Parlamento c. Consiglio, 19 luglio 2012, parr. 51-ss.

[131] Ibid., para. 84.

[132] A. Schillaci, Diritti fondamentali…, cit., pp. 1110-1111

[133] Corte di giustizia (Grande Sezione), sentenza 8 aprile 2014, Digital Rights Ireland Ltd c. Ireland, C.293/12 e C-594/12.

[134] G. De Minico, Costituzione, Emergenza e Terrorismo, Jovene, 2016, p. 220.

[135] Direttiva 2006/24, art. 1

[136] Digital Rights Ireland, parr. 61-62.

[137] Ibid., parr. 52-55.

[138] G. De Minico, p. 222.

[139] Digital Rights Ireland, parr. 60-62.

[140] L. Daniele, Diritto dell’Unione Europea. V ediz., Giuffrè, Milano, 2014, parte V para. 11.

[141] G. De Minico, op. cit., p. 223.

[142] D.l. 7/2015, art 4 bis.