LŽistituto dellŽautotutela amministrativa, con particolare riferimento allŽannullamento dŽufficio e alla revoca
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Cesare Valentino
Analisi delle linee generali dellŽistituto dellŽautotutela amministrativa: lŽinquadramento normativo, il profilo applicativo alla luce dellŽevoluzione legislativa e delle ricostruzioni di giurisprudenza e dottrina, i profili strutturali e funzionali dellŽautotutela decisoria.
Abstract
Con il presente elaborato si analizzeranno le linee generali dell’istituto dell’autotutela amministrativa, con particolare riferimento alle due figure dell’annullamento d’ufficio e della revoca. Una prima parte è dedicata all’inquadramento dell’istituto de quo, con riferimento alla problematica del fondamento giuridico dei provvedimenti amministrativi di secondo grado. Si ripercorrerà l’evoluzione legislativa dell’istituto de quo, anche alla luce delle diverse prospettazioni dottrinarie e giurisprudenziali, tendenti a perimetrarne il profilo applicativo, nell’ottica di un miglior contemperamento tra perseguimento del pubblico interesse da parte della Pa e interesse dei privati coinvolti a vario titolo nell’esercizio dell’azione amministrativa. La seconda parte è dedicata invece all’analisi delle due ipotesi normativamente previste di autotutela decisoria, ovvero l’annullamento d’ufficio e la revoca pubblicistica, di cui se ne metteranno in rilievo i profili strutturali e funzionali. Particolare attenzione è dedicata sia agli elementi che consentono di distinguere le due ipotesi, sia a quelli che permettono di cogliere profili di contiguità tra le stesse, come la natura discrezionale, che ha delle implicazioni notevoli in punto di motivazione e di disciplina procedimentale.
Sommario: 1. Inquadramento sistematico-normativo dell’autotutela amministrativa: ricostruzione storica e fondamento giuridico di tale potere; 2. Annullamento d’ufficio come ipotesi di autotutela decisoria normativamente prevista: linee generali, profili strutturali e funzionali. La distinzione con la convalida; 3. La revoca pubblicistica come seconda ipotesi di autotutela decisoria normativamente prevista: profili strutturali e funzionali, distinzione con l’annullamento d’ufficio. La revoca per sopravvenienza e la revoca jus poenitendi; 4. Il problematico rapporto tra autotutela e Scia.
1. Inquadramento sistematico-normativo dell’autotutela amministrativa: ricostruzione storica e fondamento giuridico di tale potere.
Principio generale del diritto è che nessuno possa farsi giustizia da sé. Il divieto, presidiato da specifiche norme penalistiche (art. 392 e 393 c.c.), costituisce applicazione del principio in base al quale nessuno può porre in essere atti unilaterali aventi efficacia sulla sfera giuridica di terzi, neppure se tali atti vengono posti in essere in funzione “ripristinatoria” di un proprio diritto. Tuttavia, l’elaborazione amministrativistica del secolo scorso ha ritenuto che tale principio non valesse per la Pa, considerando quest’ultima soggetto dotato di specifici privilegi. E’ stata conseguentemente elaborata la nozione di autotutela amministrativa, intesa come potere generale dell’amministrazione che non abbisogna di espressa previsione normativa. Ben presto però l’evoluzione della coscienza giuridica, associata ad una diversa considerazione dei rapporti cittadino/Pubblica amministrazione, ha imposto una rivalutazione di tale istituto, sul presupposto che sarebbe inammissibile una posizione di privilegio dell’amministrazione come soggetto in quanto tale.
In generale, con il termine “autotutela” si indica la possibilità per la Pa di incidere su un assetto di interessi realizzato tramite provvedimenti già adottati, intervenendo su questi ultimi attraverso provvedimenti ulteriori. Questi ultimi assumono la denominazione di provvedimenti di secondo grado, in quanto hanno ad oggetto precedenti atti amministrativi.
Circa il fondamento legale dei poteri di secondo grado, in una prima fase lo stesso è stato rinvenuto nel principio di autotutela decisoria della Pa: logico corollario di tale impostazione é che la cura dell’interesse pubblico richiede che all’amministrazione sia riconosciuto il potere di rivedere le proprie precedenti determinazioni. Tuttavia tale ricostruzione è stata criticata, rilevando che la Pa quando emana un provvedimento di secondo grado, nell’esercizio del potere di autotutela, non tutela sé stessa ma cura sempre un interesse pubblico[1].
Un secondo orientamento invece ha configurato i poteri di autotutela come espressione di quello stesso potere nel cui esercizio è stato emanato l’atto oggetto del provvedimento di secondo grado, e in quest’ottica ne rinviene il fondamento giuridico nella norma attributiva del potere di primo grado. Alla luce di tale prospettazione i poteri di secondo grado costituiscono ulteriore esercizio di un potere connotato normalmente dalla inesauribilità che ne consente il riesercizio, ricorrendone determinati presupposti[2].
Le due diverse ricostruzioni, che hanno avuto un rilievo pratico sino al 2005, stante l’assenza di una positivizzazione degli istituti riconducibili all’autotutela, avevano differenti implicazioni sotto il profilo della compatibilità tra i poteri di autotutela e il principio di legalità.
Nel giustificare la compatibilità con il principio di legalità, mentre il primo orientamento incontrava maggiori difficoltà, in quanto configurava un potere autonomo non collegato con il potere di primo grado disciplinato dalla legge in modo espresso, il secondo orientamento incontrava invece minori difficoltà, perché collegava tali provvedimenti al carattere dell’imperatività proprio anche dei poteri di primo grado espressamente disciplinati dalla legge.
La riforma del 2005, introducendo nell’ambito della l. 241/1990 una disciplina specifica dei provvedimenti di secondo grado, ha privato di rilevanza pratica il dibattito tra i due orientamenti, che continuano però ad avere rilievo teorico per quanto riguarda l’inquadramento sistematico degli istituti riconducibili all’autotutela[3].
Tuttavia occorre rilevare che la problematicità del fenomeno, e la diversità di opinioni dottrinarie e giurisprudenziali sul punto, è da sempre connessa alla necessità di assicurare un certo grado di protezione agli interessi dei privati che abbiano fatto affidamento sul provvedimento oggetto di riconsiderazione da parte dell’autorità[4].
Nel tempo, infatti, nonostante l’assenza di un fondamento normativo dei poteri di autotutela, la giurisprudenza amministrativa e la dottrina hanno individuato precisi limiti per l’esercizio degli stessi, in modo tale da evitare che tali poteri si atteggiassero alla stregua di una mera facoltà di ripensamento da parte della Pubblica Amministrazione. La ratio alla base dello sforzo ricostruttivo di dottrina e giurisprudenza era volto a sottrarre alla Pa procedente la possibilità dell’esercizio arbitrario del potere, in potenza amplissimo, di incidere autoritativamente sulla sfera giuridica dei privati.
Le acquisizioni giurisprudenziali e dottrinarie sono state poi recepite dal legislatore mediante la l. n. 15/2005 (di modifica della l. 241/1990), dove vengono disciplinate le figure dell’annullamento d’ufficio e della revoca dei provvedimenti amministrativi. La codificazione nel Capo IV-bis della l. n. 241/1990 delle principali figure in cui si sostanzia il potere di autotutela ha segnato un importante punto di svolta nell’opera di definizione e limitazione di tale potere. Tale legge, oltre ad avere assicurato un fondamento positivo al potere di autotutela mediante la codificazione dei suindicati istituti -pur tacendo in ordine alla natura da riconoscersi al potere in parola- ha eliminato ogni dubbio circa la sua compatibilità con il principio di legalità. Alla riforma del 2005 deve riconoscersi inoltre il merito di aver ricondotto a sistema le figure dell’annullamento d’ufficio e della revoca, così come delineate in sede dottrinale e giurisprudenziale, valorizzando l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, attraverso l’espressa codificazione degli strumenti di tutela apprestati alle posizioni dei privati. In tale prospettiva vanno inquadrate la previsione di un indennizzo a favore degli interessati, nel caso in cui la revoca di un provvedimento sia per questi pregiudizievole, nonché la garanzia del contemperamento tra interessi contrapposti da effettuarsi entro un termine ragionevole, nel caso di annullamento d’ufficio.
Dall’introduzione del Capo IV-bis nel 2005, le norme in parola sono state oggetto di numerose e successive modifiche, volte a trasformare il potere di autotutela da strumento ordinario dell’azione amministrativa a strumento eccezionale, nell’ottica di un bilanciamento tra le esigenze di certezza e stabilità dei privati e il perseguimento del pubblico interesse.
Le recenti riforme legislative hanno prestato particolare attenzione al regime giuridico dell’autotutela, mirando ad un difficile contemperamento tra l’esigenza di assicurare il rispetto della legalità e della correttezza nell’agire amministrativo e dall’altro di garantire agli operatori e soprattutto agli investitori, la stabilità dei provvedimenti ampliativi della sfera giuridica individuale[5].
Nel richiamato orientamento di politica legislativa si inseriscono la l. 164/2014, di conversione del d.l. n. 133/2014 “decreto Sblocca-Italia” e la l. n. 124/2015.
Quest’ultima, nel tentativo di introdurre un nuovo modello dei rapporti tra Pa e amministrati, interviene stabilendo limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati.
2. Il potere di autotutela in generale. La distinzione tra autotutela esecutiva e decisoria e i provvedimenti amministrativi di secondo grado
Esaurito il preliminare inquadramento sistematico-normativo dell’autotutela amministrativa, si può passare alla trattazione delle sue linee generali.
In base ad un’impostazione dottrinaria ampiamente condivisa, l’esercizio del potere di autotutela può essere ricondotto a “quella parte dell’attività amministrativa con la quale la medesima Pa provvede a risolvere conflitti potenziali o attuali, insorgenti con altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti o alle sue pretese, senza il necessario intervento di un’autorità giurisdizionale”[6]. In altri termini, secondo tale prospettazione sussisterebbe il potere di autotutela in tutti i casi in cui alla Pa fosse demandato il compito di risolvere situazioni conflittuali, attuali o potenziali, insorgenti con i soggetti che venissero con essa in contatto.
Sotto il profilo soggettivo, trattasi di un potere attribuito esclusivamente agli enti pubblici, essendo gli stessi gli unici abilitati dall’ordinamento a poter intervenire, al ricorrere di determinati presupposti, su di un determinato assetto cristallizzatosi a seguito di un precedente esercizio della funzione amministrativa. Secondo tale impostazione l’esercizio del potere di autotutela costituisce l’esplicazione di un potere dello stesso segno di quello inizialmente esercitato attraverso l’adozione dell’atto che ne costituisce oggetto.
Occorre dar atto del particolare legame che unisce l’interesse pubblico al potere di autotutela: il primo infatti, oltre a determinare l’attribuzione di poteri e di funzioni amministrative, legittima e condiziona l’esercizio del secondo.
Inoltre, rappresentando l’esercizio del potere di autotutela funzione di amministrazione attiva, lo stesso sarà assoggettato ai principi che disciplinano l’attività amministrativa.
Ai fini dell’esercizio del suindicato potere occorre inoltre la necessaria sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto.
Si distingue solitamente tra un’autotutela esecutiva ed un’autotutela decisoria. La prima, consistente nel compimento di operazioni mediante l’esecuzione coattiva dei provvedimenti amministrativi ai sensi dell’art. 21-ter L. 241/1990, può essere intesa come potere di far eseguire coattivamente i provvedimenti amministrativi senza ricorso all’autorità giudiziaria. La stessa costituisce implicazione del carattere di esecutorietà del provvedimento amministrativo, vale a dire la capacità dell’atto amministrativo di imporsi unilateralmente esplicando efficacia diretta e immediata nella sfera giuridica dei destinatari. Tale carattere del provvedimento, previsto dall’art. 21-ter L. 241/1990, è sottoposto ad un rigido principio di tipicità. Ciò si riverbera sul concreto esercizio dell’autotutela esecutiva, per la quale occorre una norma specifica attributiva alla Pa del potere di agire in via diretta e immediata per l’attuazione coattiva dei propri interessi.
L’autotutela decisoria invece ha ad oggetto precedenti provvedimenti amministrativi e si sostanzia in un controllo mediante richiesta di riesame. Nello specifico alla Pa è consentito riesaminare i propri atti al fine di emendarli da vizi di legittimità o di merito[7].
In tale ottica, i provvedimenti amministrativi di secondo grado possono essere considerati espressione della potestà di autotutela decisoria: ai fini dell’esercizio della stessa occorre distinguere tra vizi di legittimità e vizi di merito, a seconda del tipo di vizio che può essere valutato e dedotto.
I primi possono dar luogo all’annullamento d’ufficio a norma dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990, ad eccezione delle ipotesi di illegittimità non invalidanti (le quali, normativamente previste dall’art. 21-octies l. 241/1990, non consentono l’annullamento d’ufficio[8]). I vizi di merito viceversa possono dar luogo soltanto a revoca a norma dell’art. 21-quinquies l. 241/1990.
In relazione al profilo funzionale, parte della dottrina distingue tra atti di riesame e atti di revisione[9]: i primi, che ricomprendono annullamento, convalida, conferma e ratifica, hanno ad oggetto il provvedimento per verificarne la validità; i secondi, che ricomprendono revoca, proroga e sospensione hanno ad oggetto il rapporto durevole che nasce da provvedimento o anche da accordo per verificarne la corrispondenza all’interesse pubblico.
La dottrina prevalente[10] qualifica i provvedimenti di secondo grado come atti di riesame e nell’ambito di essi distingue: i) provvedimenti ad esito eliminatorio, come annullamento d’ufficio e revoca; ii) provvedimenti ad esito confermativo, come convalida, ratifica, rettifica, sanatoria, conversione e conferma[11].
In caso di riesame con esito demolitorio, l’effetto è quello di rimuovere l’atto oggetto di autotutela attraverso gli istituti dell’annullamento d’ufficio e della revoca. In relazione al riesame con esito conservativo invece, l’effetto è quello di emendare l’atto dal vizio che lo inficia, consentendo alla stesso di produrre ulteriori effetti.
In quest’ultima ipotesi di riesame vengono in rilievo le figure della convalida, della ratifica e della sanatoria.
Sotto il profilo strutturale, i provvedimenti di secondo grado hanno tutte le caratteristiche dei provvedimenti amministrativi e sono preceduti da un procedimento amministrativo che è, in linea generale, soggetto al rispetto della l. n. 241/1990. In tale prospettiva la loro collocazione può essere sia quella dei provvedimenti, sia quella dei procedimenti, a seconda che si ponga l’accento o sulla decisione finale, o sulla fase di formazione.
Con riferimento alla fase dell’iniziativa si distingue solitamente tra: i) un’iniziativa autonoma (o autotutela spontanea), che sussiste laddove l’iniziativa all’esercizio del potere di autotutela promana dalla stessa Pa; ii) un’iniziativa eteronoma (o autotutela contenziosa), che sussiste laddove è il destinatario dell’atto a chiedere alla Pa l’esercizio del potere di autotutela.
Una questione dibattuta concerne l’eventuale sussistenza di un obbligo di attivarsi, in capo alla Pa, a fronte di un’istanza di autotutela contenziosa. Sul punto, la giurisprudenza amministrativa[12] ha statuito che non sussiste alcun obbligo giuridico per la P.a. di pronunziarsi su di un’istanza del privato volta ad ottenere l’esercizio dei poteri di riesame riguardo una situazione inoppugnabile, ovvero nell’ipotesi di un’estensione “ultra partes” del giudicato. Secondo i giudici amministrativi si tratterebbe di fattispecie espressione di un’amplissima discrezionalità, in quanto tali non coercibili dall’esterno, e che si pongono come deroga alla regola generale per cui, in presenza di una formale istanza del privato, l’Amministrazione è tenuta a concludere il procedimento anche se ritiene che la proposta domanda sia irricevibile, inammissibile o infondata, non potendo rimanere inerte, atteso che l’art. 2 l. 241/1990, nel testo novellato, le ha imposto di rispondere in ogni caso alle istanze dei privati.
3) Annullamento d’ufficio come ipotesi di autotutela decisoria normativamente prevista: linee generali, profili strutturali e funzionali. La distinzione con la convalida
Come anticipato, nell’ambito dell’autotutela decisoria l’annullamento d’ufficio e la revoca costituiscono due ipotesi di normativamente previste.
Preliminarmente occorre distinguere l’annullamento d’ufficio dall’annullamento “doveroso”, così definito in quanto deve essere pronunciato necessariamente nel caso in cui si accerti un vizio. Sono riconducibili a tale ipotesi l’annullamento del provvedimento illegittimo pronunciato: i) dal giudice amministrativo; ii) dalla stessa amministrazione in sede di esame dei ricorsi amministrativi (in particolare i ricorsi gerarchici); iii) dagli organi amministrativi preposti al controllo di legittimità di alcune categorie di provvedimenti. Viceversa, l’annullamento d’ufficio ha carattere discrezionale e costituisce una delle manifestazioni del potere di autotutela della Pa.
Quanto al soggetto competente in ordine all’annullamento d’ufficio, lo stesso può essere individuato: i) nello stesso organo che ha emanato l’atto (cosiddetto autoannullamento); ii) nell’organo al quale sia attribuito per legge (per esempio l’annullamento gerarchico). Una specie particolare di annullamento d’ufficio è quello attribuito al Consiglio dei ministri nei confronti di tutti gli atti degli apparati statali e locali[13]. Si tratta del cosiddetto annullamento straordinario del governo a “tutela dell’unità dell’ordinamento”, in particolare contro il rischio che gli enti locali assumano determinazioni aberranti. Proprio per la sua particolare delicatezza esso richiede l’acquisizione preventiva di un parere del Consiglio di Stato.
In relazione al rapporto tra illegittimità e annullamento, l’art. 21-nonies codifica la soluzione già raggiunta in precedenza dalla giurisprudenza, ribadendo che la sola illegittimità non è sufficiente a giustificare l’annullamento d’ufficio. Affinché l’amministrazione possa esercitare in modo legittimo il potere di annullamento d’ufficio devono sussistere infatti quattro presupposti esplicitati dall’art. 21-nonies l. n. 241/1990, al di fuori dei quali il provvedimento di annullamento d’ufficio sarebbe a sua volta illegittimo.
Il primo presupposto è che il provvedimento sia «illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies», e dunque sia affetto da un vizio di violazione di legge, di incompetenza o di eccesso di potere, ma non si deve ricadere in una delle ipotesi di vizi formali di cui al comma 2 dell’articolo in questione: infatti, il d.l. n. 133/2014, nel modificare l’art. 21-nonies, c. 1, l. 241/1990, ha stabilito che la possibilità di procedere all’annullamento d’ufficio resta esclusa nei casi di “illegittimità non invalidanti” di cui all’art. 21-octies comma 2 l. n. 241/1990. Prima della novella del 2014, una parte della dottrina riteneva che, in caso di illegittimità non invalidanti ai sensi dell’art. 21-octies, non fosse attivabile il potere di annullamento d’ufficio, in quanto le stesse non erano qualificabili come invalidità in senso proprio, ma come mere irregolarità[14]. Per tale motivo le medesime non erano ascrivibili all’ambito di applicazione dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990. Secondo altri Autori[15] invece, a fronte delle ipotesi di illegittimità non invalidanti era ben configurabile l’esercizio dell’annullamento d’ufficio, trattandosi pur sempre di atti amministrativi illegittimi, ancorché non annullabili in giudizio per una sostanziale carenza di interesse all’impugnativa.
Il secondo presupposto è che sussistano “ragioni di interesse pubblico”, rimesse alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, che rendano preferibile la rimozione dell’atto e dei suoi effetti piuttosto che la loro conservazione, pur in presenza di un’illegittimità accertata. Non è sufficiente un interesse astratto al ripristino della legalità violata, ma l’amministrazione deve porre a fondamento un interesse pubblico che deve essere presente al momento in cui è disposto l’annullamento d’ufficio. L’annullamento in autotutela pertanto, avendo la finalità di tutelare l’interesse pubblico, si distingue dall’annullamento giurisdizionale, il quale ha la finalità di tutelare situazioni giuridiche dei privati. L’annullamento d’ufficio è subordinato ad un’attenta ponderazione degli effetti che lo stesso può determinare sulle posizioni consolidate dei soggetti privati che su quell’atto hanno riposto un legittimo affidamento: lo stesso presuppone dunque il riscontro relativo alla sussistenza di un interesse pubblico in concreto prevalente sull’affidamento ingenerato nel privato. Ai fini dell’esercizio dell’autotutela, l’interesse pubblico non è posto su un piano di sostanziale equiordinazione con l’interesse del privato inizialmente avvantaggiato dal provvedimento oggetto di annullamento. L’art. 21-nonies infatti, attraverso l’uso della locuzione “tenendo conto”, richiama una mera valutazione dell’interesse del privato e non una vera e propria ponderazione tra i due tipi di interessi che sono e restano distinti.
In tale contesto si è posta la questione circa la sussistenza di un interesse pubblico in re ipsa all’annullamento nell’ipotesi di atto amministrativo illegittimo per contrasto con il diritto dell’Unione Europea. Occorre dunque appurare se il rispetto della legittimità europea costituisca o meno un interesse superiore, dotato di prevalenza su tutti gli altri, idoneo quindi a far sorgere un obbligo in capo alla Pa di provvedere all’annullamento in autotutela di provvedimenti contrari al diritto Ue.
In una prima fase[16] il giudice amministrativo, facendo leva sul principio di leale cooperazione di cui all’art. 4 par. 3 T.U.E. ha affermato che l’interesse pubblico al ritiro del provvedimento è da considerare in re ipsa e sempre prevalente su altri interessi privati.
In una seconda fase[17] (più recente) la giurisprudenza amministrativa ha in parte mutato il proprio orientamento e ha negato che, nelle ipotesi di violazione del diritto europeo, l’esercizio dell’autotutela demolitoria sia configurabile come obbligatoria. La stessa dunque, dopo aver sostenuto la doverosità dell’annullamento d’ufficio da parte della Pa nel caso di atto amministrativo contrastante con il diritto Ue, ha in seguito affermato la permanenza di una scelta discrezionale in capo alla stessa in ordine all’attivazione dei poteri di autotutela, valorizzando il richiamo normativo “agli interessi dei destinatari e controinteressati”.
Sul versante sovranazionale, invece, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha sempre subordinato la legittimità degli atti di ritiro dei provvedimenti delle Istituzioni Ue alla ponderazione tra la tutela dell’interesse pubblico alla legalità e la tutela dell’affidamento ragionevolmente riposto dai beneficiari dei provvedimenti alla stabilità dell’azione amministrativa. Inoltre la stessa non impone che l’autorità amministrativa nazionale sia sempre obbligata a riesaminare – ai fini dell’autotutela – una decisione amministrativa che ha acquisito il carattere della definitività, e ciò in conformità al principio di certezza del diritto.
Vi è da rilevare però che alcune pronunce della Corte di Giustizia hanno avallato una diversa prospettiva rispetto a quella fin qui riportata. Emblematica a tal riguardo é la sentenza del 13 Gennaio 2004 C-453/00, Kuhne Heitz, in cui la Corte di Lussemburgo ha affermato il principio in base al quale, in caso di atto amministrativo illegittimo per violazione del diritto Ue, sussiste l’obbligo per l’autorità amministrativa nazionale di riesaminare tale atto anche laddove questo sia divenuto inoppugnabile ai sensi del diritto interno, a condizione che l’ordinamento nazionale conferisca tale potere.
In conclusione è necessario rilevare che da un lato il diritto eurounitario, in conformità al principio di certezza del diritto, non esige in via generale che un organo amministrativo sia obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che abbia acquisito carattere definitivo alla scadenza dei termini di impugnazione o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale (e ciò per evitare che atti amministrativi produttivi di effetti giuridici vengano rimessi in discussione sine die); dall’altro lato la Corte di Giustizia evidenzia che in taluni casi il citato principio può risultare limitato e in parte attenuato nei suoi effetti. Sotto tale aspetto viene in rilievo il principio di equivalenza delle tutele, a fronte delle posizioni giuridiche di matrice Ue rispetto a quelle di matrice interna. Se infatti, in applicazione di norme di diritto nazionale, l’amministrazione è tenuta a ritirare una propria decisione divenuta definitiva, la quale risulti manifestamente incompatibile con il diritto interno, identico obbligo deve sussistere nel caso di atto illegittimo per manifesta incompatibilità con il diritto europeo.
Il terzo presupposto si connette con il secondo: invero, l’annullamento d’ufficio richiede una ponderazione di tutti gli interessi in gioco da esplicitare nella motivazione. Devono essere valutati, specificamente, oltre all’interesse pubblico all’annullamento, da un lato, quello del destinatario del provvedimento, che per esempio ha ottenuto un provvedimento favorevole (come un’autorizzazione o una concessione) tale da ingenerare una situazione di affidamento; dall’altro quello degli eventuali controinteressati. L’annullamento d’ufficio dunque, comportando una valutazione comparativa tra interessi, ha natura di provvedimento discrezionale[18]. In relazione alla considerazione degli interessi dei privati però, occorre rilevare che la legge non sembra distinguere, ponendo controinteressati e destinatari sullo stesso piano. Tuttavia è evidente che particolare attenzione deve porsi agli interessi di coloro che hanno tratto vantaggio dal provvedimento, e che possono aver fatto affidamento sulla sua stabilità. Infatti, i titolari di interessi opposti al provvedimento hanno a propria disposizione, a tutela del proprio interesse, la sua diretta impugnazione, e se non ricorrono a tale possibilità non possono di certo contare su un ipotetico futuro annullamento d’ufficio a tutela dell’interesse pubblico.
Quanto al quarto presupposto, vi è da rilevare che la valutazione discrezionale deve tener conto del fattore temporale. L’annullamento può essere disposto infatti “entro un termine ragionevole”, principio espresso dalla giurisprudenza europea e previsto anche in altri ordinamenti.
La valorizzazione dell’elemento temporale entro cui poter agire in autotutela é avvenuta con la codificazione dell’istituto nel 2005, ma il riferimento ad un parametro tanto indeterminato ed elastico cui ancorare il legittimo esercizio dell’annullamento d’ufficio ha finito per rimettere al sindacato del g.a. l’onere di individuare, in relazione ai casi concreti, la congruità del termine tra l’adozione del provvedimento in autotutela e l’atto originario, in considerazione degli interessi coinvolti e del relativo consolidamento. Tale previsione è stata rivista dalla l. n. 124/2015, che è intervenuta nel senso di vincolare la possibilità di annullamento di un provvedimento da parte della P.a. al rispetto di un preciso termine decadenziale. L’art. 6 l. n. 124/2015, comma 1, lett. d) ha infatti introdotto un termine massimo di 18 mesi entro cui la P.a. può annullare d’ufficio un provvedimento di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici che si palesi affetto da vizi di legittimità. La ratio sottesa alla definizione di un limite temporale certo, definito e quantificato in 18 mesi, consente di circoscrivere il potere di autotutela della P.a., che pur rimanendo discrezionale nell’an, risulta vincolato nel quando, a tutto vantaggio dei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento. In tale prospettiva alla perdurante inerzia della P.a. si può ricollegare l’impossibilità di individuare la sussistenza di un concreto interesse pubblico alla rimozione dell’atto.
Il limite temporale dei 18 mesi però non opera in determinate ipotesi. Trattasi di ipotesi in cui il provvedimento che si intende annullare é stato emanato sulla base di rappresentazioni dei fatti, dichiarazioni sostitutive di certificazione e atti di notorietà falsi o mendaci, frutto di comportamenti illeciti del privato. In tali casi, essendo stato lo stesso beneficiario del provvedimento a cagionare, mediante una condotta dolosa l’adozione dell’atto viziato, nessuna tutela viene riconosciuta alla situazione giuridica vantaggiosa così illegittimamente ottenuta. In questi casi il potere di autotutela della P.a. torna a riespandersi oltre il confine temporale dei 18 mesi. Sul punto, di recente, è intervenuto il Consiglio di Stato[19], il quale ha statuito il principio secondo cui affinché vi possa essere annullamento in autotutela dopo i 18 mesi non è necessaria una condanna penale del privato che ha causato l’errore della P.a.: è sufficiente una falsa rappresentazione dei fatti dovuta allo stesso. Alla luce dei principi enucleati nella sentenza de qua, l’art. 21-nonies l. 241/1990 andrà interpretato nel senso che il superamento del rigido termine di 18 mesi è consentito: i) nel caso in cui la falsa attestazione, inerente i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante: in tale circostanza sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale, e quindi una sentenza passata in giudicato; ii) sia nel caso in cui l’erroneità dei suindicati presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) alla Pa, ed imputabile, per contro, esclusivamente alla parte, a titolo di dolo. Nel secondo caso però non sarà necessaria l’esistenza di una condanna penale passata in giudicato, e si dovrà far riferimento esclusivamente al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la correlazione confliggente tra gli opposti interessi in gioco.
In concreto, due sono le ipotesi che possono rilevare con riferimento all’elemento temporale: i) se è trascorso un lungo lasso di tempo dall’emanazione del provvedimento illegittimo, prevale l’interesse a mantenere inalterato lo status quo ante e a tutelare l’affidamento creato; ii) viceversa, se l’amministrazione rileva immediatamente l’illegittimità del provvedimento emanato, magari prima ancora che esso sia portato a esecuzione, essa può procedere all’annullamento d’ufficio senza dover valutare in modo approfondito interessi diversi dal mero ripristino della legalità.
In ogni caso, il trascorrere del termine non significa che il provvedimento illegittimo sia diventato legittimo, ma significa che esso non sarà più suscettibile di annullamento d’ufficio. In altri termini, il tempo in quanto tale non ha mai un effetto sanante: e per tale motivo si può ritenere fuorviante parlare di convalescenza del provvedimento per indicare che esso non può essere annullato d’ufficio a lunghissima distanza di tempo.
Quanto ai profili procedimentali, il potere di annullamento d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto delle regole generali della l. n. 241/1990 in tema di comunicazione di avvio del procedimento e di partecipazione dei soggetti interessati.
La natura discrezionale del potere di annullamento d’ufficio ne postula una adeguata motivazione[20], sia sotto il profilo dell’illegittimità che inficia l’atto, sia con riferimento alle ragioni di pubblico interesse che ne giustificano la rimozione.
L’annullamento d’ufficio, a differenza della revoca, non dà luogo ad indennizzo a favore del privato eventualmente pregiudicato.
Infine, con riguardo all’efficacia dell’annullamento d’ufficio, si può rilevare che gli effetti dello stesso di regola retroagiscono. Parte della dottrina fa rilevare però che la legge n. 241/1990 non contiene una norma espressa in tal senso, e si potrebbe dunque ritenere che l’amministrazione, proprio a seguito della valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati, possa modulare la decorrenza degli effetti, fino ad escludere la retroattività[21].
La trattazione dell’annullamento d’ufficio non può prescindere da una breve disamina della convalida, trattandosi di due istituti che hanno un elemento che li accomuna e un elemento che li contrappone. Sono certamente accomunati dal fatto di riferirsi necessariamente a provvedimenti illegittimi, mentre si contrappongono sotto il profilo della direzione dell’effetto: infatti, se con l’annullamento d’ufficio la P.a. pone nel nulla un provvedimento viziato, con la convalida la P.a. elimina il vizio, rendendo inattaccabile il provvedimento.
La convalida, definibile come provvedimento di secondo grado relativo ad atti illegittimi, è prevista all’art. 21-nonies l. n. 241/1990, che stabilisce al comma 2 che “è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di pubblico interesse ed entro un termine ragionevole”. La convalida si pone dunque come provvedimento diretto a rimuovere un vizio di legittimità che colpisce un precedente provvedimento[22]. I presupposti per poter ricorrere alla convalida sono: i) ragioni di interesse pubblico; ii) termine ragionevole. Il potere di convalida è espressione del principio generale della conservazione dei valori giuridici. A differenza di quanto avviene nei rapporti interprivati - nei quali la convalida del negozio costituisce una facoltà del soggetto leso al quale spetta l’azione di annullamento (art. 1444 cod. civ.) - la convalida del provvedimento amministrativo è operata dalla stessa amministrazione cui è imputabile il vizio rilevato.
Una delle questioni più problematiche ha riguardato l’individuazione dei vizi suscettibili di convalida. Sicuramente è suscettibile di convalida il vizio di incompetenza relativa, secondo l’espressa affermazione dell’art. 6 l. n. 249/1968. Essa si effettua mediante una determinazione in tal senso da parte dell’autorità competente.
Convalidabili sarebbero anche altri vizi procedimentali, come ad esempio il mancato rispetto dei termini di convocazione di un organo collegiale, mediante un atto assunto a seguito di convocazione nei termini. Non convalidabili sono i provvedimenti viziati nel contenuto o per la mancanza dei presupposti richiesti, i provvedimenti affetti da vizi quali lo sviamento di potere, irragionevolezza, difetto di proporzionalità, disparità di trattamento e travisamento dei fatti: in tutti questi casi, come rileva parte della dottrina, “il vizio si traduce in un contenuto illegittimo dell’atto, e non si vede quale provvedimento l’amministrazione potrebbe assumere per renderlo legittimo”[23].
Un secondo problema posto dalla convalida è se l’amministrazione possa procedere alla convalida dopo che il provvedimento da convalidare è già stato impugnato. Per la convalida del vizio di incompetenza tale possibilità era espressamente ammessa dalla legge (l. n. 249/1968), e da questo si deduceva che negli altri casi ciò non fosse possibile. L’art. 21-nonies nulla specifica in proposito, e da ciò la giurisprudenza ha talora dedotto che nessun limite esiste, e che la convalida in corso di giudizio sia sempre possibile[24].
Un terzo aspetto concerne la decorrenza dell’effetto sanante. La giurisprudenza è consolidata nella tradizionale affermazione secondo cui la convalida opera retroattivamente, cioè che dopo la convalida il provvedimento deve considerarsi come mai viziato. La questione è rilevante solo se l’atto sia stato o venga impugnato, in relazione al periodo in cui il vizio esisteva: secondo parte della dottrina, se per questo periodo vi fosse interesse all’annullamento, la retroattività della convalida sembrerebbe costituire violazione dell’art. 113 della Costituzione[25].
4) La revoca pubblicistica come seconda ipotesi di autotutela decisoria normativamente prevista: profili strutturali e funzionali, distinzione con l’annullamento d’ufficio. La revoca per sopravvenienza e la revoca jus poenitendi
Sempre nell’ambito dell’autotutela decisoria si colloca l’istituto della revoca pubblicistica, che costituisce atto con effetto non retroattivo, con ciò diversificandosi dall’annullamento d’ufficio che, come detto, ha efficacia retroattiva.
La revoca viene spesso collegata a ragioni di interesse pubblico, cioè relative al merito del provvedimento, e in questi termini la prevede l’art. 21-quinquies della l. n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005). L’adozione del provvedimento di revoca infatti presuppone non un vizio di legittimità ma il sopraggiungere di motivi di pubblico interesse, la modifica della situazione di fatto rilevante ovvero una nuova e diversa valutazione dell’opportunità dell’atto stesso.
Il potere di revoca, che ha carattere discrezionale, è giustificato dall’esigenza di garantire nel tempo la conformità all’interesse pubblico dell’assetto giuridico derivante da un provvedimento amministrativo. Quindi attraverso la revoca l’autorità amministrativa competente, con una decisione unilaterale elimina, ma solo per il futuro, un provvedimento i cui effetti sono considerati inopportuni, perché non più adeguati alla cura dell’interesse pubblico che esso mirava a soddisfare.
La revoca prescinde dall’esistenza di un vizio di legittimità dell’atto, e secondo parte della dottrina[26], in quanto strumento finalizzato a garantire l’adeguatezza costante della scelta amministrativa con l’interesse pubblico in concreto perseguito, costituisce esplicazione del principio di “efficacia”, indicato dalla l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo (art. 1) tra i principi generali cui deve informarsi l’azione amministrativa.
Sotto il profilo funzionale, come anticipato, la revoca incide sull’efficacia del provvedimento[27], rendendolo inidoneo, ex nunc, a produrre ulteriori effetti in contrasto con l’interesse pubblico.
Nel diritto amministrativo, come anticipato, il potere di revoca è considerato come una manifestazione del potere di autotutela della pubblica amministrazione ed è riconosciuto da sempre dalla giurisprudenza[28]. In particolare, è generalmente ammessa la possibilità per la P.a. di riesaminare i propri atti e revocarli, al contrario di quanto avviene nel diritto civile, il quale richiede una espressa pattuizione o una disposizione normativa per consentire di incidere unilateralmente su un precedente atto[29].
Anche in tema di revoca diverse sono state le modifiche normative apportate, al fine precipuo di riconoscere maggiore stabilità e certezza alle situazioni giuridiche scaturenti in capo ai privati.
L’art. 21-quinquies l. n. 241/1990 pone una disciplina generale della revoca precisandone meglio i presupposti e gli effetti. L’articolo è stato introdotto dalla l. n. 15/2005 ed è stato poi integrato dai commi 1-bis e 1-ter sulla quantificazione dell’indennizzo.
Tale norma, al comma 1, distingue due fattispecie: i) la revoca per sopravvenienza ; ii) la revoca jus poenitendi.
Sono riconducibili alla revoca per sopravvenienza le due ipotesi tipizzate dalla disposizione e cioè anzitutto la revoca per «sopravvenuti motivi di pubblico interesse», che interviene allorché l’amministrazione operi una rivalutazione dell’assetto degli interessi alla luce di fattori ed esigenze sopravvenute, cioè non presenti al momento in cui l’atto era stato emanato[30].
Alla revoca per sopravvenienza è riconducibile anche quella per «mutamento della situazione di fatto», ipotesi peraltro sovrapponibile all’altra. Infatti, l’esigenza di rivalutare l’interesse pubblico dipende spesso da mutamenti della situazione di fatto, quali, per esempio, l’emersione di nuove tecnologie[31], un incremento demografico, una modifica della situazione di mercato, ecc.
La revoca jus poenitendi riguarda l’ipotesi di «nuova valutazione dell’interesse pubblico originario», che si ha nei casi in cui l’amministrazione si rende conto di aver compiuto una ponderazione errata degli interessi nel momento in cui ha emanato il provvedimento. Si tratta di un’ipotesi controversa, che legifica quasi un “diritto all’arbitrio o al capriccio”, in contrasto con il principio del legittimo affidamento, e di dubbia compatibilità con il diritto europeo. Nel 2014 l’art. 21-quinquies l. n. 241/1990 è stato modificato nel senso di vietare questo tipo di revoca in relazione ai provvedimenti di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici e ciò al fine di attribuire maggiore stabilità e certezza al rapporto giuridico amministrativo.
Quanto al regime giuridico, l’art. 21-quinques pone sullo stesso piano le tre ipotesi, sancendo: i) quanto all’efficacia, che la revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti; ii) sul piano del rapporto con il destinatario del provvedimento revocato, che se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo; iii) sul versante processuale, poi, le controversie in materie di determinazione e corresponsione dell’indennizzo dovuto in caso di revoca del provvedimento amministrativo sono affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Sotto il profilo soggettivo, la revoca può essere disposta dallo stesso organo che ha emanato l’atto ovvero da altro organo previsto dalla legge[32].
Con riferimento al profilo formale, secondo la Corte Costituzionale la revoca può essere legittimamente disposta oltre che con atto amministrativo anche con legge, e ciò sulla scia del proprio orientamento favorevole alla legittimità delle leggi provvedimento[33]. Con legge n. 40/2007 sono state revocate alcune concessioni rilasciate dall’Ente ferrovie dello Stato alla Tav Spa per la realizzazione di linea dell’alta velocità ferroviaria.
Come anticipato, sotto il profilo degli effetti la revoca, a differenza dell’annullamento d’ufficio, che ha efficacia retroattiva (ex tunc), determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti (ex nunc).
La revoca ha tipicamente per oggetto provvedimenti “a efficacia durevole”, come per esempio le concessioni di servizi pubblici. Ma il comma 1-bis, nel disciplinare l’indennizzo, fa riferimento anche ad atti aventi efficacia istantanea[34] nei casi in cui incidano su rapporti negoziali. Si può rilevare che rispetto agli atti amministrativi i cui effetti si sono già esauriti in quanto istantanei, non è agevole comprendere in che modo la revoca possa inibire la produzione di ulteriori effetti durevoli, posto che un atto ad efficacia istantanea è ontologicamente inidoneo a produrre effetti durevoli nel tempo. Una possibile interpretazione, in grado di rendere conforme al sistema l’art. 21-quinquies, è quella di ritenere che il legislatore, nell’introdurre il comma 1-bis (dell’art. 21-quinquies), ha inteso riferirsi agli atti “potenzialmente istantanei”, che però non hanno ancora prodotto alcun effetto perché sospesi o ad efficacia condizionata.
Peraltro si ritiene generalmente che siano irrevocabili i provvedimenti che hanno già prodotto gli effetti o siano stati interamente eseguiti. Del pari, non sono suscettibili di revoca gli atti vincolati (per i quali non si può porre, per definizione, un problema di valutazione dell’interesse pubblico) e più in generale le certificazioni e le valutazioni tecniche.
Sotto il profilo temporale, il legislatore del 2005 tace sul momento entro il quale può essere adottato un provvedimento di revoca. Trova pertanto conferma il consolidato orientamento giurisprudenziale che considera il potere di revoca esercitabile in ogni tempo, con il solo limite dell’attualità dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio del potere stesso. Occorre cioè che il precedente assetto di interessi che la revoca è finalizzata a rimuovere risulti inopportuno, non più adeguato alla cura dell’interesse pubblico in concreto perseguito, proprio nello specifico momento in cui si procede alla revoca[35].
Mentre per l’annullamento d’ufficio la tutela dell’affidamento passa attraverso la previsione di un limite temporale, nel caso della revoca la tutela della posizione degli interessati risulta garantita da un obbligo di indennizzo a carico dell’amministrazione. L’art. 21-quinquies infatti prevede un obbligo generalizzato di indennizzo nei casi in cui la revoca “comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati”. Questa previsione può costituire un limite all’esercizio indiscriminato di questo potere perché non fa gravare interamente sui soggetti privati le conseguenze economiche di un provvedimento emanato in modo legittimo e che ha creato un affidamento. Secondo la giurisprudenza amministrativa[36] la disposizione di cui all’art. 21-quinques, introducendo la previsione di un indennizzo per il pregiudizio che l’interessato abbia a subire per effetto della revoca, si inserisce nel sistema delle garanzie dei cittadini nei riguardi dell’azione amministrativa, configurandosi indubbiamente come “norma di principio”.
Prima dell’introduzione di tale norma nel 2005, l’indennizzo era previsto dalla legge solo per rare fattispecie. Per esempio, il r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578 in materia di servizi pubblici locali già imponeva l’obbligo di corrispondere un equo indennizzo e dettava alcuni criteri per la quantificazione (art. 24) in caso di revoca della concessione.
I criteri di commisurazione del quantum indennitario sono positivamente previsti dall’art. 21-quinquies, comma 1-bis, l. n. 241/1990. In base a tale disposizione l’indennizzo deve essere rapportato al solo danno emergente (perdita subita), con esclusione quindi del lucro cessante (mancato guadagno). Nonostante la lettera della norma faccia espresso riferimento esclusivamente agli atti di revoca incidenti su rapporti negoziali, deve ritenersi che anche nelle altre ipotesi, quelle cioè incidenti sulla generalità dei rapporti amministrativi, l’indennizzo vada parametrato unicamente al danno emergente con esclusione del lucro cessante.
Logicamente incompatibile con la domanda di indennizzo di cui all’art. 21 quinquies, la quale presuppone una revoca legittima, è la domanda di risarcimento del danno patito in conseguenza dell’atto di revoca, atteso che una siffatta pretesa postula in via necessaria il carattere dell’antigiuridicità (e quindi l’illegittimità della revoca)[37].
L’indennizzo, che come detto è limitato al danno emergente, è suscettibile inoltre di un’ulteriore riduzione anzitutto in relazione alla “conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto oggetto di revoca all’interesse pubblico”. Si può rilevare che la disposizione de qua pare di dubbia opportunità in quanto presuppone che sia onere anche del soggetto privato operare una valutazione dell’interesse pubblico che invece, nella dinamica del rapporto giuridico amministrativo, spetta esclusivamente alla pubblica amministrazione. Una riduzione è stabilita inoltre nel caso di “concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico”. Anche tale disposizione non è immune da rilievi critici, perché non si vede per quale ragione il comportamento di soggetti terzi possa incidere sulle vicende di un rapporto giuridico amministrativo del quale non sono parte.
Trattandosi di un atto avente natura discrezionale la revoca richiede una motivazione[38].
Sotto il profilo procedimentale, si tratta di un procedimento di secondo grado che si apre con la comunicazione di avvio e che è aperto alla partecipazione dei soggetti interessati.
Occorre dar atto che la revoca disciplinata dall’art. 21-quinquies va distinta dalla cosiddetta revoca sanzionatoria (o anche decadenza) e dal mero ritiro.
La prima può essere disposta dall’amministrazione nel caso in cui il privato, destinatario di un provvedimento amministrativo favorevole, (autorizzazione, concessione, ecc.) non rispetti le condizioni e i limiti in esso previsti, oppure non intraprenda l’attività oggetto del provvedimento entro il termine previsto[39]. Usualmente nelle concessioni-contratto la convenzione definisce le tipologie di violazioni che possono dar origine alla revoca sanzionatoria che in taluni casi costituisce addirittura un atto vincolato.
Il mero ritiro ha per oggetto atti amministrativi che non sono ancora efficaci. Può avvenire per ragioni di legittimità o anche di merito e non necessita di una valutazione specifica dell’interesse pubblico e degli interessi dei destinatari del provvedimento, e ciò proprio perché non ha ancora inciso in modo diretto su situazioni giuridiche soggettive di soggetti terzi. In questo senso il mero ritiro è assimilabile alla revoca del testamento o della proposta contrattuale in ambito privatistico.
5. Il problematico rapporto tra autotutela e Scia
Un’ultima questione riguarda i rapporti e i possibili punti di interferenza tra autotutela e Scia. Sul versante sistematico-normativo, tenuto conto di quanto dispone l’art. 19 c. 6 ter, occorre rilevare innanzitutto la natura non provvedimentale della Scia. In tale materia dunque, non venendo in rilievo alcun provvedimento, il richiamo agli istituti riconducibili all’autotutela risulterebbe inadeguato, in quanto quest’ultima ha per oggetto un provvedimento. Si profila dunque una netta distinzione tra la Scia e i provvedimenti in senso proprio, i soli che possono essere incisi da un provvedimento di secondo grado. Tranne a non voler considerare come una “autorizzazione implicita di natura provvedimentale” il mancato esercizio dei poteri inibitori da parte della P.a. nel termine previsto dalla legge (60 giorni, ridotti a 30 in caso di s.c.i.a. in materia edilizia), e rispetto alla quale l’amministrazione può esercitare i previsti poteri di annullamento e di revoca. Ma come rileva parte della dottrina[40], in tal modo verrebbe meno ogni diversità tra S.c.i.a. e silenzio assenso. Impostazione infatti superata dal Consiglio di Stato[41], secondo cui il richiamo ai poteri di revoca e di annullamento d’ufficio non consente all’amministrazione di adottare veri e propri provvedimenti di secondo grado, ma di esercitare i poteri di inibizione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti, nell’osservanza dei presupposti sostanziali e procedimentali previsti da tali disposizioni, così come adesso pare confermare la nuova formulazione dei commi 3 e 4 dell’art. 19 l. n. 241/1990, ad opera dell’art. 6 l. n. 124/2015.
Sul punto occorre tener conto delle modifiche apportate al testo di tale ultima disposizione (art. 19 l. n. 241/1990): il testo anteriore alle modifiche della l. n. 124/2015 faceva salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli art. 21-quinquies e 21-nonies; quello vigente, a seguito delle modifiche sopra richiamate stabilisce invece che “decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti (repressivi e inibitori alla prosecuzione dell’attività) l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti (repressivi e inibitori) in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies”. Quindi si può ritenere che la novella del 2015 ha chiarito che non si tratta di autotutela, ostandovi la natura non provvedimentale della Scia, quanto dell’attivazione di poteri di inibizione e di repressione di un’attività sotto ogni altro aspetto liberalizzata.
L’attivazione di tali poteri richiede condizioni analoghe a quelle dell’art. 21-nonies: i) previa valutazione del pubblico interesse; ii) attivazione entro un termine ragionevole. Ma tale richiamo non deve indurre a ritenere applicabili in tali ipotesi le categorie proprie dell’autotutela.
Più problematico è il coordinamento tra la Scia e l’art. 21-nonies comma 2-bis l. n. 241/1990, il quale dispone che all’amministrazione è consentito annullare, anche dopo la scadenza del termine di 18 mesi di cui al medesimo art. 21-nonies, “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
Alla luce del richiamo che l’art 19 l. n. 241/1990 opera alle condizioni previste dall’art. 21-nonies della medesima legge, dovrebbe ritenersi che la P.a. possa adottare sine die provvedimenti inibitori e repressivi dell’attività privata in corso di svolgimento laddove questa sia stata intrapresa per effetto di condotte costituenti reato, sulla base di false dichiarazioni o attestazioni poste a corredo della Scia. Tuttavia tale conclusione sembra non conforme alla lettera della legge, in quanto l’art. 21-nonies, c. 2-bis della l. n. 241/1990 fa espresso riferimento ai provvedimenti amministrativi e come si è visto la Scia non è ascrivibile all’ambito provvedimentale.
Note e riferimenti bibliografici
[1] G. Corso, "L’efficacia del provvedimento amministrativo", Milano, 1969, pag. 206 e ss.
[2] Come rileva M. Immordino, "I provvedimenti di secondo grado", in F.G. Scoca, Manuale di diritto amministrativo, pag. 339, nota 14: “si è così parlato di riesercizio o di ulteriore esercizio”
[3] Come rileva M. Immordino, op.ult. citata: “la codificazione, con la legge n. 15/2005, di alcuni tra i più problematici provvedimenti di secondo grado, e segnatamente della revoca, della convalida e dell’annullamento d’ufficio, ha risolto il problema del loro fondamento giuridico, e di conseguenza il problema della loro compatibilità con il principio di legalità”.
[4] Ad esempio, chi abbia ottenuto una concessione, deve poter confidare nel fatto che potrà beneficiarne per il tempo stabilito, affinché possa programmare la propria attività e i propri investimenti sul medio e lungo periodo.
[5] Il legislatore ha rivisto la disciplina dell’autotutela sugli atti amministrativi incidenti sull’esercizio delle attività economiche, tenendo in maggiore considerazione la tutela dell’affidamento ingenerato dal conseguimento di un titolo abilitativo.
[6] F. Benvenuti, voce Autotutela (dir. Amm.), in "Enc. Dir.", vol. V, Milano 1959, pag. 540-544
[7] Una questione problematica concerne la riconduzione del potere di sospensione al generale potere di autotutela decisoria. Preliminarmente occorre ricondurre lo stesso alla previsione di cui al comma 2 dell’art. 21-quater L. 241/1990 secondo cui: “l’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni, e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge..”. La giurisprudenza sul punto ha chiarito che il potere di sospensione dell’efficacia o esecuzione del provvedimento amministrativo rientra nel più generale potere di autotutela decisoria, trovando di regola esplicazione nelle more dell’esercizio dei poteri di annullamento e di revoca. In tal senso Tar Abruzzo, Sez. I, sent. n. 915/2008. Parte della dottrina (M. D’Alberti, Lezioni di diritto amministrativo, Terza edizione, pag. 317) qualifica la sospensione come provvedimento amministrativo di secondo grado. Con riferimento alle linee generali dell’istituto, vi é da rilevare che il termine della sospensione è indicato nell’atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze (art. 21-quater, c. 2, l. n. 241/1990). La l. n. 124/2015 ha aggiunto una limitazione: la sospensione non può essere disposta o perdurare oltre i termini per l’esercizio del potere di annullamento di cui all’art. 21-nonies, cioè 18 mesi ove si tratti di provvedimenti autorizzatori o di attribuzione di vantaggi economici.
[8] L’art. 21 c. 2 l. n. 241/1990 prevede la dequotazione dei vizi formali, che viene in rilievo allorquando vi è la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, che vengono per l’appunto “dequotati” a vizi che non determinano annullabilità, al ricorrere di due condizioni: i) il provvedimento deve avere natura vincolata; ii) il contenuto del provvedimento non poteva essere diverso da quello in concreto adottato. In tal caso il provvedimento non può essere annullato né dal G.A. né dalla P.a. in sede di autotutela.
[9] Ex multis M.S. Giannini, Diritto amministrativo, pag. 989; E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, (a cura di F. Fracchia), Milano 2016, pag. 572 e ss.
[10] Tra cui M. Immordino, op. ult. cit., pag. 340
[11] E’ configurabile un provvedimento di conferma laddove la Pa, all’esito di un procedimento di riesame aperto su sollecitazione di un privato o anche d’ufficio, perviene, in seguito all’istruttoria, alla conclusione che il provvedimento, nonostante i dubbi iniziali, non è affetto da alcun vizio.
In sede giurisprudenziale, si distingue tra conferma, che costituisce un provvedimento amministrativo autonomo dal contenuto identico rispetto a quello oggetto del riesame, e atto meramente confermativo. Con quest’ultimo l’amministrazione si limita a comunicare al privato che chiede il riesame che non vi sono motivi per riaprire il procedimento e procedere a una nuova valutazione. L’atto meramente confermativo non può essere considerato dunque come un nuovo provvedimento suscettibile di essere impugnato. La differenza tra le due figure risiede dunque nella circostanza in base alla quale solo la conferma, costituendo un provvedimento amministrativo autonomo, risulta essere autonomamente impugnabile.
Per quanto concerne la conversione, trattasi di una figura che si ritiene applicabile, sulla falsariga del modello civilistico, anche in assenza di una disposizione espressa, ai provvedimenti affetti da nullità e da annullabilità.
[12] Ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 4351/2017; Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 2748/2012; Cons. Stato, Sez. III, sent. n. 3827/2016
[13] Previsto agli art. 2, comma 3, lett. p), l. n. 400/1988 e art. 138 d.lgs. n. 267/2000
[14] C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, pag. 991
[15] F.G. Scoca, Esistenza, validità ed efficacia, pag. 174; S. Tarullo, Il riesercizio del potere amministrativo nella legge n. 15/2005, pag. 256. Sul fronte giurisprundenziale si segnala Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 6194/2006
[16] Cons. Stato, sent. n. 918/1998
[17] Cons. Stato, sent. n. 4263/2008
[18] In questi termini Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 3910/2016. Un’implicazione della natura discrezionale dell’annullamento d’ufficio, è, come anticipato, che l’amministrazione non è tenuta a prendere in esame e a dar seguito a segnalazioni ed esposti da parte di soggetti privati che denunciano l’illegittimità di un atto amministrativo.
[19] Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 3940/2018
[20] Stesso discorso va fatto in relazione alla revoca, che presenta il medesimo carattere discrezionale dell’annullamento d’ufficio
[21] In questi termini M. D’Alberti, "Lezioni di diritto amministrativo", Terza edizione, pag. 317
[22] Si ricorre all’espressione ratifica nelle ipotesi in cui la convalida riguardi il vizio di incompetenza. Peraltro, si ritiene comunemente che la ratifica si riferisca alle ipotesi nelle quali all’interno di un’amministrazione pubblica un organo può, in base alla legge, esercitare in caso d’urgenza una competenza attribuita in via ordinaria a un altro organo, che poi è chiamato a far proprio l’atto emanato. Si tratterebbe dunque di un fenomeno che non attiene alla patologia del provvedimento. La ratifica si concreta nell’adozione di un provvedimento nuovo e autonomo tramite il quale viene espunto il vizio di incompetenza relativa da parte della Pa competente in astratto. Si parla talora anche di sanatoria (ma si tratta di una figura controversa) nei casi in cui l’atto è emanato in carenza di un presupposto e quest’ultimo si materializza in un momento successivo, oppure nei casi in cui un atto della sequenza procedimentale viene posto in essere dopo il provvedimento conclusivo (ad esempio una proposta o un accertamento tecnico intervenuti successivamente all’emanazione dell’atto). La sanatoria viene in rilievo dunque laddove l’atto viziato, in origine privo dei requisiti di legittimità, venga munito di tali requisiti ex post.
[23] G. Falcon, "Lezioni di diritto amministrativo", 4° edizione, pag. 196
[24] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. n. 5538/2011
[25] In questi termini G. Falcon, op. da ult. cit., pag. 197
[26] M. Immordino, op. ult. citata, pag. 351
[27] L’efficacia, quale carattere del provvedimento amministrativo, può essere intesa come astratta idoneità dello stesso a produrre effetti giuridici.
[28] Tra i casi più risalenti può essere ricordato quello delle concessioni di illuminazione a gas rilasciate a livello comunale, revocate in seguito alla possibilità di impiego di lampade elettriche.
[29] Il diritto privato infatti non ammette, di regola, uno jus poenitendi relativo ad atti che abbiano già prodotto effetti nella sfera giuridica di terzi e ciò in relazione al principio della stabilità e della certezza dei rapporti giuridici. Un caso eccezionale è quello della revoca della donazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli (art. 800 cod. civ.). Diversa è invece la revoca del testamento, che si riferisce a un atto che non ha ancora prodotto effetti nella sfera degli eredi (artt. 679 ss. cod. civ.), oppure quella della proposta contrattuale che è ammessa fin tanto che il contratto non è concluso (art. 1328, comma 2, cod. civ.).
[30] Un esempio può essere la destinazione di un tratto di spiaggia o di uno spazio acqueo non più a balneazione o a coltivazione di mitili sulla base di una concessione demaniale, ma a riserva naturale.
[31] Come nel caso già ricordato della revoca della concessione di illuminazione a gas
[32] Nell’equilibrio dei poteri spettanti al ministro e ai dirigenti il d.lgs. n. 165/2001 esclude espressamente che il primo possa revocare gli atti emanati dai secondi, mentre prevede, come già visto, che possa annullarli d’ufficio (art. 14, comma 3).
[33] Corte Cost., sent. n. 346/1991
[34] Ai sensi dell’art. 21-quinques comma 1-bis “ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dall’amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico”.
[35] Cons. Stato, Sez. IV, sent. n. 5630/2001
[36] TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, sent. n. 1775/2007
[37] Nella medesima prospettiva si colloca TAR Sicilia, Sez. II, sent. n. 1775/2007
[38] Medesimi rilievi sono stati svolti con riferimento all’annullamento d’ufficio
[39] Come nel caso dell’autorizzazione commerciale o del permesso a costruire
[40] M. Immordino, op. ult. citata, pag. 337
[41] Cons. Stato, Sez. V, sent. 3461/2015.