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Pubbl. Mar, 30 Apr 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Il terzo settore e il no profit

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Loredana La Pietra


L’estrema attualità della materia in considerazione della riforma attuata dalla legge delega n. 106 del 2016 e dai successivi numerosi decreti attuativi sino alla costituzione del Codice del Terzo Settore.


Sommario: - Premessa. 1. Inquadramento generale. L’estrema attualità degli enti no profit in considerazione della riforma attuata dalla legge delega n. 106 del 2016 e dai successivi numerosi decreti attuativi. 2. Gli enti no profit: definizione fornita dal Codice del Terzo settore, excursus storico, con particolare riferimento alla disciplina costituzionale 3. Analisi delle attività svolte dagli enti senza scopo di lucro aventi carattere generale. In particolare, le associazioni riconosciute e non. 3.1 Le fondazioni: da quelle civilistiche a quelle di origine bancaria. 4 Le categorie speciali degli enti senza scopo di lucro. In particolare, le organizzazioni di volontariato, le ONLUS e l’impresa sociale. - Conclusioni 

Premessa

Con l’industrializzazione e la globalizzazione si è avvertita maggiormente l’esigenza di mitigare i costi sociali e di far nascere forme di cooperazione e associazionismo mutualistico capaci di dar vita ad una vera e propria “economia sociale”.

La ratio è quella di consentire a gruppi sociali più svantaggiati di entrare nel mercato, fornendo servizi, finanziari o d’assistenza, che il mercato non consentiva loro di reperire a costi tutt’altro che contenuti.

L’idea originale di “èconomie sociale” consente, quindi, di ricomprendere tutte quelle iniziative economiche che si differenziano dal tradizionale modello di impresa e che hanno trovato sbocco nel periodo in cui i vari Paesi attraverso un operazione di revirement hanno  rivalutato, la funzione e la capacità delle politiche sociali.

All’inizio degli anni ’70 dello scorso secolo, infatti, alcuni settori dell’economia sociale hanno dato vita a nuove forme di collaborazione, con l’obiettivo di accreditarsi e legittimarsi dinnanzi all’opinione pubblica e alle autorità statali, quale settore economico autonomo e fondamentale per lo sviluppo del Paese.

Si delineano così quelli che verranno chiamati enti no profit e che si caratterizzano per: l’assenza dell’obiettivo di profitto, l’indipendenza dalle autorità pubbliche e la democraticità dei processi della gestione e di tipo decisionale.

Il concetto di “economia sociale” si è pian piano esteso, facendo così rientrare nel proprio ambito applicativo anche le attività imprenditoriali, sebbene sempre gestite con criteri solidaristici e democratici.

Questo particolare fenomeno si è poi definitivamente affermato con la crisi dell’intervento pubblico nei settori dell’assistenza e della previdenza che ha suscitato un generale senso di aggregazione che ha portato a quello che oggi definiamo Terzo settore, proprio perché si colloca come “terzo” rispetto agli altri due settori, quello pubblicistico e quello di contrattazione privata.

Trattasi di organismi senza scopi di lucro in grado di sovvertire la convinzione che in un’economia di mercato guidata dall’interventismo correttivo statale possa sopravvivere solo l’impresa commerciale; sono soggetti che competono con le imprese commerciali, avvalendosi di un’imprenditorialità volta alla solidarietà.

1. Inquadramento generale. L’estrema attualità degli enti no profit in considerazione della riforma attuata dalla legge delega n. 106 del 2016 e dai successivi numerosi decreti attuativi

La materia del Terzo settore e degli enti no profit è sempre stata caratterizzata da una legislazione frammentaria e disorganica, incapace di delineare in maniera chiara i confini esistenti tra ciascuna delle singole ipotesi di enti no profit.

A porre rimedio è recentemente intervenuto il cd. Codice del Terzo settore[1] (D. lgs. 3 luglio 2017, n. 117) che ha riorganizzato la complessa e variegata materia degli enti no profit, il cui obiettivo è sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che intendono concorrere, anche in forma associata, al perseguimento del bene comune e ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale[2].

Si tratta di una riforma epocale, che razionalizza l’intera normativa in materia e disciplina l’enorme famiglia di enti no profit che si compone delle più varie organizzazioni private: da quelle di volontariato alle associazioni di promozione sociale, dalle imprese sociali agli enti filantropici, dalle società di mutuo soccorso a ogni altra associazione o fondazione che persegua, senza trarne alcun lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.

La razionalizzazione organizzativa dell’immenso mondo del Terzo settore, da intendersi come la capacità di strutturare le proprie attività in modo da rendere “coerenti fini e mezzi per conseguirli”[3] è stata attuata, facendo una selezione in termini quantitativi degli enti no profit rientranti nell’ambito di applicazione del Codice del Terzo settore e, quindi, lodevoli di essere considerati tali nel nostro ordinamento.

In realtà, il decreto n. 117/2017 è solo uno dei tanti[4] che ha dato attuazione all’attività riformatrice già iniziata nel 2016 con la legge delega n. 106[5] che in quanto tale ha dettato i principi fondamentali da rispettare in materia.

In particolare, la legge n. 106: all’art. 3 ha dettato i criteri direttivi relativi alla nuova disciplina della personalità giuridica, con la conseguente riscrittura del Titolo II del libro primo del Codice civile e l’obiettivo di semplificare l’iter di riconoscimento della personalità giuridica degli enti del Terzo settore, nonché quello di disciplinare il principio di responsabilità limitata degli enti e degli amministratori; di assicurare il rispetto dei diritti degli associati e di applicare le norme in materia di società e di cooperative alle associazioni e fondazioni che esercitano stabilmente l’attività di impresa; e, infine, di disciplinare il procedimento per ottenere la trasformazione diretta e la fusione tra associazioni e fondazioni.

All’art. 4, ha dettato i principi direttivi inerenti il riordino e la revisione della disciplina del Terzo settore mediante la redazione di un vero e proprio Codice della materia e all’art. 5 ha fissato i criteri per il riordino e la revisione organica della disciplina vigente nell’ambito del volontariato, della promozione sociale e del mutuo soccorso.

La legge del 2016, inoltre, ha fornito una definizione precisa di Terzo settore che, ai sensi dell’art. 1, co. 1, è da intendersi come “il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”.

Altro enorme merito della normativa del 2016 è stato quello di creare il Consiglio Nazionale del Terzo settore che è un organismo di consultazione a livello nazionale degli enti collettivi senza scopo di lucro, la cui struttura e composizione vengono congegnate in modo tale da valorizzare le reti associative di secondo livello e da istituire un fondo, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, destinato alla realizzazione di attività di interesse generale promosse da organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e fondazioni, con una dotazione di 17,3 milioni di euro nel 2016 e di 20 milioni di euro a decorrere dal 2017.

Lodevole, sicuramente, è stata anche la creazione della fondazione di diritto privato “Italia Sociale”, avente finalità pubbliche, con il compito di sostenere, attrarre e organizzare iniziative filantropiche e strumenti innovativi di finanza sociale.

Infine, è stato previsto il cinque per mille, obiettivo perseguito dal D.lgs. del 3 luglio 2017, n. 111 che ha portato a compimento la riforma strutturale iniziata con la Legge di Bilancio 2015[6] e che ha attribuito risorse in misura stabile per 500 milioni l’anno[7].

La possibilità di accedere al cinque per mille e agli incentivi fiscali prestabiliti è rimessa alla preventiva iscrizione in un apposito Registro[8] gestito e aggiornato dalle Regioni e avente la funzione di superare la pluralità di registri esistenti precedentemente in materia.

L’elogio maggiore che può farsi alla riforma sotto questo punto di vista è stato quello di snellire i tempi di pagamento con la fissazione, nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) a cui il D.lgs. 111/2017 rimette il compito, tra le varie cose, di fissare le modalità di pagamento del 5 per mille e i termini entro cui i beneficiari debbano comunicare alle amministrazioni erogatrici i dati necessari per il pagamento delle somme assegnate, “al fine di consentirne l’erogazione entro il termine di chiusura del secondo esercizio finanziario successivo a quello di impegno”[9].

Sotto il profilo fiscale-finanziario si segnala: la semplificazione attuata con riferimento alla procedura per l’acquisizione della personalità giuridica; il riordino dei regimi contabili; la definizione di una serie di agevolazioni fiscali, non solo inerenti le imposte dirette, ma anche quelle indirette[10].

Inoltre, si prevedono ulteriori agevolazioni fiscali, realizzate per mezzo della detrazione dall’imposta o della deducibilità dal reddito, per i privati, enti o imprese che si rendano autori di liberalità agli enti appartenenti al Terzo settore.

Secondo molti esperti la riforma avrebbe sortito effetti positivi; in particolare, l’economista ed ex presidente dell’Agenzia delle O.N.L.U.S. Stefano Zamagni ha affermato che per mezzo della legge del 2016: “dopo 75 anni finalmente il nostro Paese si è dotato di una legge organica sul terzo settore; si tratta di un traguardo perché abbiamo superato la logica delle norme dedicate ai singoli comparti del no profit, ma soprattutto perché abbiamo vinto una battaglia di civiltà: da oggi per fare il ‘bene’ gli italiani non devono chiedere il permesso alle istituzioni e il diritto di associarsi è riconosciuto già sul piano legislativo”[11].

L’economista ha evidenziato come la riforma sia stata capace di superare la tendenza prima esistente da parte degli enti no profit di estraniarsi ed isolarsi rispetto alla realtà circostante, senza cercare l’integrazione; si è così venuta ad affermare una sorta di “biodiversità” che consente a tutti i soggetti del Terzo settore, enti no profit compresi, di essere complementari tra essi e di dimostrare “che si può operare sul mercato in modo diverso”[12].

Merito, inoltre, della riforma sarebbe stato quello di riconoscere la produttività del Terzo settore che viene visto come ambito capace di produrre utilità sociale e di valorizzare il volontariato che appare una sorta di “punta di diamante” dell’intero comparto.

Lodevole è anche l’introduzione di un nuovo concetto, quello di finanza sociale che, diversamente da quella speculativa, serve “a dare ali concrete ai soggetti del Terzo settore” che, per mezzo di nuovi strumenti finanziari introdotti, quali i social bonus[13] e i titoli di solidarietà[14], consente di realizzare in maniera fattiva gli interessi di sviluppo sociale perseguiti.

2. Gli enti no profit: definizione fornita dal Codice del Terzo settore, excursus storico, con particolare riferimento alla disciplina costituzionale

L’art. 4 del Codice del Terzo settore chiarisce che “Sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel Registro Unico Nazionale del Terzo settore”.

Trattasi, quindi, di una categoria molto ampia nella quale è possibile ricondurre tutte le forme associative e di impresa che perseguono, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.

Sono soggetti privati dai quali restano escluse “le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, nonché gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati dai suddetti enti, ad esclusione dei soggetti operanti nel settore della protezione civile alla cui disciplina si provvede ai sensi dell’articolo 32, comma 4” (art. 1, co. 2, D.lgs. 117/2017).

Nulla viene detto, quindi, con riferimento alla categoria delle O.N.L.U.S. che resta una dizione legata esclusivamente alla qualifica fiscale del soggetto; qualifica, peraltro, destinata a scomparire in quanto abrogata dallo stesso Codice.

Tutti i soggetti individuati dal Codice, dunque, rientrano nel “Terzo” settore che si definisce tale perché costitutivo di una terza dimensione che si colloca dopo il Mercato che è caratterizzata dal perseguimento di un profitto e che prende il nome di “Secondo” settore e si colloca, soprattutto, successivamente allo Stato che costituisce il cd. “Primo” settore.

Ciascun ente deve svolgere, senza scopo di lucro, attività di interesse generale in una o più delle aree indicate dal Codice, senza con ciò pregiudicare l’eventuale svolgimento di differenti attività, alla condizione che queste siano secondarie o comunque strumentali rispetto alle attività di interesse generale e che siano oggetto di apposita previsione statutaria (art. 6, D.lgs. 117/2017).

Per essere enti del Terzo settore (ETS) è necessario risultare iscritti nel Registro Unico Nazionale, a cui si è già fatto cenno nel precedente paragrafo e che è istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (art. 11, D.lgs. 117/2017).

Trattasi di un registro pubblico, articolato su base regionale, accessibile a tutti gli interessati in forma telematica e articolato in sezioni, ciascuna delle quali è dedicata ad una diversa tipologia di ente rientrante nel Terzo settore: organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, enti filantropici, imprese e cooperative sociali, reti associative, società di mutuo soccorso ed una residuale dedicata agli “altri enti” del Terzo settore.

L’iscrizione avviene mediante il deposito di una serie di atti, documenti e dichiarazioni contenenti informazioni essenziali circa l’“identità” dell’ente.

Deve segnalarsi che la forma associativa non rappresenta una caratteristica imprescindibile nell’ambito del Terzo settore considerato che se da un lato, un particolare spazio è riservato a determinati soggetti associativi, quali le Organizzazioni di Volontariato, le Associazioni di Promozione Sociale e le Reti Associative; dall’altro, vi sono anche organizzazioni non di tipo associativo, come gli enti filantropici, le imprese sociali ed altri.

Ciascuna di queste strutture è stata toccata dalla riforma del 2016 e dai decreti attuativi del 2017 che sono intervenuti sulla scia di tutta una serie di questioni sorte in dottrina negli ultimi tre decenni.

Il notevole interesse dimostrato dal legislatore del 2016, unitamente alla terminologia inglese (no profit), potrebbe far pensare ad un fenomeno di recente emersione o comunque che trae le proprie origini nel sistema statunitense-anglosassone[15].

In realtà, esso è radicato nella nostra terra e appartiene alla più antica tradizione italiana.

Addirittura le origini del fenomeno collettivo-associativo-no profit sono individuabili nel periodo dell’Alto Medioevo quando numerosi enti, sia religiosi che laici, vengono costituiti al fine di assistenza e carità nei confronti delle persone bisognose.

Ciascuno di essi, possedendo cospicui patrimoni, sono in grado di erogare direttamente servizi e prodotti ed appartengono alle più svariate tipologie. In particolare, vi sono: monti di pietà, istituzioni finanziarie senza scopo di lucro, di origini tardo-medievali, sorte in Italia nella seconda metà del XV secolo su iniziativa di alcuni frati francescani, allo scopo di erogare prestiti di limitata entità (microcredito) a condizioni favorevoli rispetto a quelle di mercato; numerosi ospedali e tantissimi enti collettivi che svolgono importanti ruoli in ambito economico. A proposito si pensi alle società di mutuo soccorso, alle banche popolari, alle casse di risparmio e alle casse rurali.

La motivazione dell’incremento di tipologie e quantità di enti operanti nel mercato è da rinvenirsi nel mutamento dell’economia che da prettamente agraria inizia a divenire anche industriale.

Ben presto, però, si crea un clima di diffidenza nei confronti degli enti no profit che pian piano finiscono per accumulare patrimoni esorbitanti rispetto alle attività poste in essere e a immobilizzare in maniera infruttuosa grandi quantità di ricchezze[16].

Con l’avvento dell’illuminismo si segna un momento di rottura tra Stato ed enti senza scopo di lucro, nel senso che questi ultimi vengono fatti fuori dallo scenario sociale dell’epoca.

Nel periodo della Rivoluzione francese, infatti, i soggetti che rilevano sono due: lo Stato e l’individuo; alcun spazio residua per entità “intermedie” come gli enti no profit[17] che finiscono per ostacolare lo sviluppo economico e che appaiono inutili sotto il profilo sociale.

L’avvento dello Statuto albertino del 4 marzo del 1848 non cambia le cose perché seppur sancisce la libertà di riunione[18] (ma non anche quella di associazione) comunque non fornisce agli enti collettivi alcuna copertura costituzionale.

È proprio questa assenza a creare una situazione in cui il legislatore, non essendo vincolato dal suo “superiore” gerarchico (la Costituzione), inizia ad adottare numerosi provvedimenti sfavorevoli agli enti collettivi, soprattutto religiosi, in modo da limitarne i poteri economici[19].

La situazione di sfavore per gli enti in questione continua con l’entrata in vigore del Codice Pisanelli[20] che, prendendo come modello il Code Napoleon, impone come condizione necessaria il riconoscimento al fine del godimento dei diritti civili[21].

In particolare, l’art. 2 prevedendo: “I Comuni, le Province, gli istituti pubblici civili od ecclesiastici, ed in generale tutti i corpi morali legalmente riconosciuti, sono considerati come persone, e godono dei diritti civili secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”, finisce per porsi in aperto contrasto nei confronti dell’attività degli enti collettivi non svolgenti attività economica considerato che questi per poter godere dei diritti civili devono essere riconosciuti dallo Stato.

Questo non vuol dire che sotto il Codice del 1865 non esista la libertà di associazione, nonostante, infatti, lo Statuto albertino non la nominasse, la sua esistenza si dava per scontato. Le associazioni di fatto in quanto espressione di tale libertà potevano esistere, ma semplicemente non era riconosciuta loro alcuna capacità in termini giuridici[22].

In sostanza, si distingue tra diritto di associarsi e avere personalità giuridica, ritenendosi sussistente il primo quale diritto naturale dei cittadini e considerandosi il secondo quale concessione statale[23].

Lo Stato, quindi, incentra nelle sue mani il potere di decidere le sorti degli enti collettivi; il riconoscimento diventa uno strumento di controllo che consente all’apparato statale di sottoporre gli enti collettivi al potere esecutivo, deputato ad effettuare il riconoscimento[24].

Quest’ultimo, quindi, si pone come filtro all’accesso degli enti collettivi nell’apparato istituzionale italiano dell’epoca[25].

Ben presto, però, il penetrante controllo dell’atto di concessione porta alla conseguenza che “la concessione della personalità giuridica ad enti senza scopo di lucro ne comporta l’assorbimento nella sfera pubblica, determinando una sorta di indistinzione tra ‘ente morale’ ed ‘ente pubblico’”[26].

Ne deriva un’accelerata nell’ingresso dell’ente no profit all’interno delle istituzioni dell’epoca, prevedendosi una sostanziale equiparazione tra ente morale ed ente pubblico, imponendosi quindi che la realizzazione delle esigenze pubblicistiche passassero per lo Stato che finiva per essere garante e fautore del benessere collettivo[27].

L’assenza di riconoscimento caratterizzava i relativi enti per una certa precarietà e per una “fragile e incresciosa”[28] situazione per i loro beni che appartenevano agli associati in regime di comunione o agli amministratori in proprietà fiduciaria, con assenza di qualsiasi garanzia a livello patrimoniale.

In questo periodo si tenta di ricondurre alcuni enti di fatto, non qualificabili come soggetti di diritto perché non riconosciuti e carenti di una disciplina ad hoc, all’interno di altre figure in modo da prendere in prestito la disciplina da applicare.

Così le associazioni non riconosciute vengono senza successo ricondotte all’interno delle società civili che all’epoca si differenziavano da quelle commerciali in quanto solo le prime potevano porre in essere anche un’attività non economica finalizzata alla mera messa in comunione dei beni per fini di puro godimento.

Il motivo di tale “incorporazione” venne individuato nel fatto che nella nozione di lucro perseguito dalle società civili si faceva rientrare anche quello di ricreazione e svago ricollegato alle musiche, alle danze, alle letture e così via[29]. In realtà, però, tutta questa varietà di attività non è ricollegabile allo scopo che resta di lucro, quanto piuttosto all’oggetto sociale.

La differenza tra società civile e società commerciale, quindi, non è da individuarsi nell’assenza dello scopo di lucro con la conseguenza che fallisce il tentativo di far rientrare le associazioni non riconosciute all’interno delle società.

Nel medesimo fallimento si incorre con riferimento alle fondazioni che, laddove volte al perseguimento di scopi religiosi e caritatevoli, vengono inizialmente ricondotte all’interno delle opere pie al fine di rientrare in tutta una serie di disposizioni favorevoli per queste ultime previste.

Le opere pie, infatti, sono istituzioni di assistenza e/o beneficenza tipica di uno Stato che si incarica di “prestare assistenza ai poveri, tanto in stato di sanità quanto di malattia, di procurarne l’educazione, l’istruzione, l’avviamento a qualche professione, arte o mestiere, od in qualsiasi altro modo il miglioramento morale ed economico”[30] che godono solo inizialmente di un particolare trattamento di favore, considerato che poi le previsioni favorevoli sono venute meno.

Lo Stato, infatti, sopprime le corporazioni religiose e liquida l’asse ecclesiastico, in modo da ridimensionare il potere religioso, contestualmente mette mano alla disciplina delle opere pie, che nel frattempo è divenuto un ibrido a mezza via tra settore pubblico, privato ed ecclesiastico, trasformandole in Istituzioni Pubbliche di Beneficenza (IPAB)[31].

Così facendo attrae le stesse alla disciplina pubblicistica e soprattutto le assoggetta ad uno stringente controllo.

Questo è quanto accade non solo alle opere pie, ma in generale a tutte le organizzazioni private del fine ‘800 che vengono “soffocate da uno Stato che mirava a soddisfare in prima persona tutte le esigenze dei cittadini avviandosi verso il cd. welfare state. Lo Stato si avvaleva delle organizzazioni inventate dalla società civile quale strumento di intervento: così le società di mutuo soccorso vennero individuate per attuare una prima tutela previdenziale e le cooperative edilizie come principali soggetti nella politica della edilizia economica e popolare”[32].

Gli ostacoli che incontra il non profit durante la sua evoluzione non sono però finiti; le ideologie totalitarie del ‘900 sicuramente non favoriscono la vita delle organizzazioni non riconosciute.

Durante il regime fascista, infatti, l’esigenza di controllare qualsiasi ambito della vita sociale ed economica induce a vigilare su tutti i corpi intermedi di fatto nel frattempo creatisi.

Tra questi, più di tutti, quelli di tipo segreto o comunque massonico che incontrano la resistenza statale nell’obbligo di comunicare alle autorità di pubblica sicurezza l’atto costitutivo, i regolamenti interni, l’elenco dei nominativi dei soci e di quelli ricollegabili a determinare cariche sociali e tutte le notizie afferenti la loro organizzazione ed attività.

Il controllo è tanto stringente da potersi spingere sino allo scioglimento, per atto del Prefetto, degli enti ed istituti che con le loro attività si pongano in contrasto con l’ordine nazionale dello Stato.

Tutta questa situazione porta ad un assoggettamento assoluto degli enti collettivi al potere esecutivo con conseguente totale strumentalizzazione di ciascuno di essi allo Stato[33].

È proprio tale collegamento allo Stato che consente poi delle aperture in tema di disciplina degli enti collettivi: l’art. 1, l. 1310/1928[34], ad esempio, attribuisce a ciascuno di essi la capacità di acquistare, gestire e godere di beni, lasciti e donazioni, nonché di stare in giudizio e compiere tutti gli atti giuridici necessari ai fini del perseguimento dei loro obiettivi[35].

Deve però distinguersi tra enti riconosciuti e non perché solo i primi vengono presi in considerazione dallo Stato, potendo assumere determinate dimensioni e rilevanza; diversamente, quelli di fatto, sono di dimensioni talmente modeste da non necessitare neanche di essere controllati.

Accade, in sostanza, che si crea una netta contrapposizione tra enti riconosciuti ed enti di fatto, questi ultimi se di tipo morale non rientrano proprio nell’ambito applicativo del I Libro del Codice civile, essendo disciplinati da leggi speciali; tutti gli enti sorti dopo l’entrata in vigore del Codice devono essere riconosciuti perché lo Stato si arroga il diritto di selezionare gli enti, rendendo giuridicamente rilevanti solo quelli meritevoli di tutela[36] secondo l’ordinamento giuridico[37].

La stretta connessione Stato-enti e la strumentalizzazione di questi ultimi cessa con la caduta del fascismo e l’avvento della Costituzione[38] che, dando vita ad una democrazia pluralista, lascia ampio spazio agli enti collettivi, alla loro partecipazione alla vita del Paese e al loro essere funzionali alla realizzazione degli interessi dei singoli.

Come evidenziato da autorevole dottrina: “la rinascita dei gruppi intermedi rappresentava un passaggio essenziale per la realizzazione del disegno di società pluralista che era alla base della Costituzione Repubblicana e che si sarebbe caratterizzata per la assenza di una organizzazione unitaria e monopolistica in tutti i settori della vita civile”[39], ne deriva che “il mutamento politico ha portato al ribaltamento dei rapporti tra Stato e enti collettivi, che vengano visti non più come fenomeni da ignorare o combattere, ma da proteggere e sostenere, anche nell’ottica di una loro possibile collaborazione con i pubblici poteri”[40].

In particolare, la Carta costituzionale, all’art. 2 sancisce l’assetto pluralista della società contemporanea e delinea uno statuto generale della libertà di associarsi.

In tal senso si pensi all’art. 18, co. 1 Cost. che sancisce la libertà di associazione, affidandone i limiti alla sola legge penale; all’art. 19 Cost. inerente le associazioni religiose; all’art. 39 Cost. che disciplina quelle sindacali; e, infine, all’art. 49 Cost. che tratta dei partiti politici.

La garanzia della libertà di associazione si inquadra, dunque, nell’ampio risalto attribuito dalla Costituzione al principio pluralista e all’autonomia delle formazioni sociali; tutti aspetti che hanno trovato diretta attuazione per mezzo dell’art. 2 Cost.

L’ampiezza di quest’ultima norma ha indotto, però, taluno a rinvenire in ogni gruppo associativo una formazione sociale meritevole di tutela, ai sensi dell’art. 2 Cost.[41].

Può, invece, ritenersi che la disposizione costituzionale consenta comunque di distinguere tra enti leciti ed enti vietati in quanto non volti al perseguimento di interessi aventi una determinata dignità.

Nell’ottica costituzionale, addirittura, potrebbe ritenersi illegittimo il riconoscimento da parte del potere esecutivo in quanto costituente un limite all’autonomia privata associativa sancita dall’art. 18 Cost.[42].

Deve precisarsi che se con riferimento alle associazioni il referente è il predetto art. 2 Cost., in relazione alle fondazioni, sembra più giusto considerare quali fondamenti costituzionali: l’art. 9 Cost. che proclama l’assoluta libertà della cultura, in tutte le forme in cui si esprime e l’autonomia delle strutture che alla promozione della stessa o alla ricerca scientifica e tecnica si dedicano; gli artt. 32, 33 e 34 Cost. con riferimento ad altre attività diverse da quelle culturali di cui all’art. 9 Cost. Si pensi, alla scuola, alla educazione, all’assistenza.

Ancora, ulteriore riferimento costituzionale può rinvenirsi nell’art. 41 Cost. in tema di iniziativa economica di cui gli enti collettivi ne sono espressione.

Da quanto detto sino ad ora, quindi, emerge che l’importante cambiamento politico, attuatosi con l’avvento della Costituzione, ha ribaltato i rapporti Stato-enti collettivi che da fenomeni da ignorare o da contrastare, diventano rilevanti ai fini di una collaborazione con i pubblici poteri e che in tale ottica vengono protetti e tutelati.

Il legame con la politica è intensissimo, si pensi che i partiti politici e i sindacati assumono la veste di associazioni non riconosciute e proliferano altre tipologie di associazioni volte a soddisfare gli interessi di particolari categorie di cittadini (ad esempio, i consumatori).

Inizia una legislazione volta a sovvenzionare questi organismi, mediante finanziamenti pubblici (si pensi ai partiti politici) e a promuovere la loro integrazione all’interno della società[43].

Siamo, quindi, nel periodo del cd. Welfare State, intendendosi in tal senso: “il complesso di politiche messe in atto da uno Stato che interviene, in un’economia di mercato, per garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini, modificando il modo deliberato e regolamentato la distribuzione dei redditi generata dalle forze del mercato stesso. Il welfare comprende, pertanto, il complesso di politiche pubbliche dirette a migliorare le condizioni di vita dei cittadini”[44].

Lo “Stato di benessere” dura fin quando il potere statale ha la forza economica di sostenere tutti i vari apparati che lo contornano, di conseguenza, una volta verificatasi la crisi economica e l’esaurimento del danaro pubblico, l’intervento statale nel welfare finisce per scemare pian piano.

È proprio per sopperire a tale situazione di diminuzione delle forze pubbliche che si incrementano quelle private e si implementa l’attività degli enti collettivi senza scopo di lucro idonei a fornire servizi alla persona.

Siamo negli anni ’70 e tre sono le fasi che segnano l’evoluzione degli enti non profit: quella pioneristica che si caratterizza per un timido ingresso dell’iniziativa privata nel settore della produzione no profit che incontra svariati ostacoli di carattere giuridico quali la riserva statale in materia sociale e la diffidenza nei confronti di una gestione privata di ingenti patrimoni.

Nonostante l’enorme ritrosìa esistente in questa fase, comunque nascono numerosi enti finalizzati alla tutela dei soggetti deboli (anziani, tossicodipendenti, disabili, ecc…).

Con riferimento al loro operato si parla di “laboratorio” volto ad individuare il miglior modo per andare incontro alle nuove esigenze dei cittadini che non hanno trovato soddisfazione nelle politiche pubbliche fasciste[45].

La seconda fase è stata quella del riconoscimento della rilevanza del ruolo degli enti collettivi nelle dinamiche sociali.

A tal proposito rileva una pronuncia della Corte costituzionale del 1988 che sancisce l’illegittimità dell’art. 1 della legge Crispi[46] “nella parte in cui non prevede che le istituzioni operanti nel campo dell’assistenza possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora abbiano tutti i requisiti di un’istituzione privata”[47].

La Corte, quindi, si dimostra favorevole alla privatizzazione degli enti operanti nei settori dell’assistenza sociale, previdenziale e della cultura.

A riguardo, tenendo conto dei limiti alla libertà statutaria e dell’esistenza di svariati vincoli, si è parlato di privatizzazione sui generis[48], mettendo in evidenza con tale aggettivo l’ambiguità di questi enti che paiono a mezza via tra pubblico e privato.

È così, quindi, che nasce il cd. Terzo settore, ossia “quel settore intermedio tra pubblico e privato, nel quale confluiscono enti privati con spiccata caratterizzazione sociale e enti pubblici sulla via della privatizzazione, il cui sviluppo è stato poi promosso dal legislatore con la cd. stagione delle leggi per il Terzo settore”[49].

La fase del riconoscimento è segnata da una fitta legislazione che si protrae fino a quella successiva, detta del consolidamento proprio perché volta a consolidare l’acquisita importanza sociale degli enti collettivi.

Si pensi: alla legge sul volontariato[50] che ha introdotto una disciplina dettagliata del fenomeno, prevedendo diverse novità in materia di alienazioni, lasciti e donazioni, pur non delineando in maniera chiara la natura delle organizzazioni collettive; alla legge istitutiva delle cooperative sociali[51], intendendosi in tal senso non solo quelle volte alla realizzazione dell’interesse dei soci, ma anche quelle finalizzate a scopi altruistici sociali, sanitari ed educativi. Questa legge prevede delle convenzioni con gli enti pubblici volte a facilitare i rapporti di collaborazione con lo Stato[52].

Dimostrazione dell’interesse statale nei confronti del no profit emerge anche dalla disciplina predisposta con riferimento alle fondazioni di teatri lirici[53] e a quelle che gestiscono e valorizzano i beni e le attività culturali[54], che comunque sono espressione di un favor legislatoris nei confronti degli enti collettivi non lucrativi. Per mezzo di esse, infatti, la Pubblica amministrazione tenta di coinvolgere i privati nel finanziamento di settori prima tenuti in vita dal solo danaro pubblico.

Ancora, merita segnalare la l. 460/1997[55] che ha introdotto una serie di agevolazioni fiscali per gli operatori del Terzo settore aventi determinate caratteristiche e la l. 383/2000[56] che ha introdotto le associazioni di promozione sociale che si differenziano dalle ONLUS, essendo la loro attività rivolta agli associati e dalle organizzazioni di volontariato per il fatto che vi è la possibilità di dare una remunerazione ai volontari che prestano la loro attività.

L’importanza crescente che via via hanno acquisito gli enti no profit, giunge sino ai giorni nostri dove, come detto nel precedente paragrafo, il legislatore del 2016 si è impegnato a creare una normativa razionalizzata ed ordinata volta alla predisposizione di un chiaro apparato normativo[57].

3. Analisi delle attività svolte dagli enti senza scopo di lucro aventi carattere generale. In particolare, le associazioni riconosciute e non

La necessità di sostenere a livello culturale e giuridico i non profit aventi finalità meramente sociali, si è posta pian piano nel nostro Paese, dove sempre di più si è affermata una partnership operativa fra Stato ed organizzazioni non profit.

Le ragioni che hanno spinto in questa direzione sono state molteplici: il dato oggettivo in base al quale il settore non profit offre servizi che meglio si adattano alle diverse scelte del cittadino/consumatore/utente; la necessità di favorire l’introduzione di meccanismi di competizione tra fornitori (pubblici e privati), in modo da migliorarne l’efficienza e l’efficacia; la possibilità di realizzare prodotti e fornire servizi “specializzati” nonché più economici rispetto a quelli messi a disposizione dal settore pubblico; la maggiore economicità, quindi, che deriva dall’uso del lavoro volontario, dai minori vincoli nella gestione della manodopera e da una maggiore motivazione dei lavoratori che si sentono coinvolti in prima persona.

La tendenza è sostanzialmente quella di “associarsi per risolvere i problemi”[58], ritenendosi “l’unione” più conveniente sotto diversi punti di vista.

In primis, il maggiore interesse che l’attività sociale suscita nei destinatari; poi, la capacità delle associazioni di attrarre donazioni; la facilità di attirare volontari e tanti altri aspetti che fanno sì che si giunga ad una semplicissima equazione: più spazio nell’area dei servizi collettivi alle organizzazioni non profit uguale minor spesa pubblica e miglior servizio per i cittadini[59].

Lo strumento privato diventa, quindi, un mezzo di massimizzazione dei costi, benefici e risultati.

Il Codice civile, utilizzando principi già in parte introdotti nel sistema giuridico dell’800, con riguardo agli enti di iniziativa privata che perseguono finalità pubbliche, ha stabilito essenzialmente i seguenti criteri: l’importanza dell’autorizzazione concessoria della personalità giuridica, che, sebbene mitigata dalle disposizioni del D.P.R. n. 361/2000[60], rimane comunque vigente; l’assoggettamento al controllo pubblico della maggioranza degli atti di autonomia e gestione degli enti riconosciuti, in specie delle fondazioni; la soggezione delle società commerciali ad un proprio regime, diverso da quello previsto per le associazioni e le fondazioni.

Volendo soffermarsi solo sulle associazioni deve dirsi che esse sono caratterizzate da “un insieme di soggetti che si raggruppano e si attivano per il perseguimento di uno scopo comune, decidendo di darsi delle regole che ogni associato dovrà, pena l’esclusione dal sodalizio, rispettare”[61].

Si tratta, pertanto, di enti basati su di un contratto plurilaterale a struttura aperta, ex artt. 1332 c.c. e 23, D.lgs. 117/2017 che prevede, quest’ultimo, la possibilità per ulteriori soggetti di aderire all’associazione, successivamente alla stipula, senza alterare il contenuto del negozio[62].

Il contratto di associazione, inoltre, ha natura consensuale e, materialmente, è rappresentato da due distinti documenti: l’atto costitutivo e lo statuto che, così come previsto dall’art. 21, D.lgs. 117/2017, devono avere un determinato contenuto.

L’origine contrattuale dell’associazione è ben espressa dalla giurisprudenza che da sempre non ha mai avuto dubbi nell’affermare che: “L’atto costitutivo e lo statuto di una persona giuridica hanno natura contrattuale e sono sottoposti alle norme generali sui contratti, salve le deroghe imposte dai particolari caratteri del contratto di associazione (o dell’atto di fondazione), con la conseguenza che essi vanno interpretati secondo le regole degli artt. 1362 ss. c.c.”[63].

Le associazioni sono disciplinate dagli artt. 14 ss. del Codice civile e dagli artt. 20-31 del Codice del Terzo settore e possono essere riconosciute o non riconosciute a seconda che si siano iscritte o meno in un apposito registro.

Quest’ultimo è quello delle persone giuridiche, se si leggono gli artt. 12 e 33 c.c., poi abrogati dal D.P.R. 361/2000 che all’art. 1 prevede “Salvo quanto previsto dagli artt. 7 e 9, le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato acquistano la personalità giuridica mediante il riconoscimento determinato dall’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, istituito presso le prefetture (…). Ai fini del riconoscimento è necessario che siano state soddisfatte le condizioni previste da norme di legge o di regolamento per la costituzione dell’ente, che lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo”; ed è il Registro Unico Nazionale, se si segue quanto stabilito dall’art. 22 del Codice del Terzo settore che, al primo comma, stabilisce “Le associazioni e le fondazioni del Terzo settore possono, in deroga al decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361, acquistare la personalità giuridica mediante l’iscrizione nel Registro Unico Nazionale del Terzo settore”.

Si consideri che in genere, al fine di valutare i rapporti tra la disciplina comune e quella speciale: “Per quanto non previsto dal presente Codice [quello del Terzo settore], agli enti del Terzo settore si applicano, in quanto compatibili, le norme del Codice civile e le relative disposizioni di attuazione”[64].

Nel caso specifico delle associazioni, però, non c’è bisogno di scomodare l’art. 3, co. 2, Codice del Terzo settore considerato che l’art. 22 prevede espressamente la deroga del D.P.R. 361/2000.

In generale, al di fuori dell’ambito associativo, in materia di riconoscimento per capire se sussiste o meno un’incompatibilità tra la normativa civilistica e quella speciale, deve guardarsi all’attività svolta perché: se non è di tipo commerciale, opera il primo comma dell’art. 11, Codice del Terzo settore che prevede la sola iscrizione nel Registro Unico Nazionale; se si tratta di enti che svolgono attività commerciali, allora vale il secondo comma della predetta norma che prevede: “Oltre che nel Registro Unico Nazionale del Terzo settore, gli enti del Terzo settore che esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese”.

Il riconoscimento o meno dell’associazione rileva soprattutto da un punto di vista della responsabilità per le obbligazioni assunte. È come se l’iscrizione nel Registro Unico, infatti, creasse una separazione patrimoniale volta a garantire che i terzi non facciano valere i loro diritti sul patrimonio associativo laddove siano creditori dei singoli associati e viceversa, i creditori dell’associazione non possano aggredire il patrimonio personale degli associati al fine di soddisfare le proprie ragioni.

Ne deriva che se le associazioni non sono dotate di personalità giuridica e, quindi, di autonomia patrimoniale perfetta, delle obbligazioni contratte in nome dell’associazione ne rispondono personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto della stessa (art. 38 c.c.).

A riguardo la Corte di Cassazione ha chiarito che la responsabilità personale e solidale di chi abbia agito in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta è inquadrabile tra le garanzie ex lege al pari della fideiussione, ritenendosi, quindi, applicabile l’art. 1957 c.c. e il termine di decadenza ivi stabilito “senza che tale assetto, comportando una sorta di avvalimento di una garanzia personale, menomi alcun diritto, determini un trattamento deteriore per eventuali terzi ovvero, attesa la durata semestrale (e, dunque, non meramente apparente) del termine decadenziale, leda il diritto di azione del creditore”[65].

Nell’associazione non riconosciuta, quindi, la responsabilità personale grava esclusivamente sui soggetti, che hanno agito in nome e per conto dell’associazione, considerata l’esigenza di tutela dei terzi che, nell’instaurazione del rapporto negoziale, abbiano fatto affidamento sulla solvibilità e sul patrimonio delle persone con cui hanno trattato.

Ne consegue che, ribadisce la Corte: “l’obbligazione, avente natura solidale, di colui che ha agito per essa è inquadrabile tra le garanzie ex lege assimilabile alla fideiussione, con conseguente applicazione dei principi contenuti negli artt. 1944 e 1951c.c.”.

L’art. 28 del Codice del Terzo settore invece, in tema di responsabilità prevede che: “Gli amministratori, i direttori, i componenti dell’organo di controllo e il soggetto incaricato della revisione legale dei conti rispondono nei confronti dell’ente, dei creditori sociali, del fondatore, degli associati e dei terzi, ai sensi degli articoli 2392, 2393, 2393 bis, 2394, 2394 bis, 2395, 2396 e 2407 del Codice civile e dell’articolo 15 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, in quanto compatibili”.

Le strutture associative, alla stregua delle altre organizzazioni non profit, sono libere iniziative private, amministrate da privati, indipendenti dal governo ovvero dai poteri pubblici e perseguono uno scopo socialmente rilevante, ritenuto meritevole da parte del legislatore e che: stando all’art. 2, D.lgs. 117/2017 deve mirare al “perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”[66]; stando, invece, all’art. 21, D.lgs. 117/2017 deve essere non di lucro e coincidente con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.

Proprio con riferimento allo scopo non lucrativo deve riportarsi una recentissima sentenza che, sebbene, riguardi delle peculiari associazioni che sono le ONLUS e di cui si parlerà più avanti[67] pone un principio generale che può valere per qualsiasi ente no profit.

In particolare, si fa riferimento ad un principio più volte utilizzato dalla Cassazione per eliminare qualsiasi dubbio di disciplina: quello dell’effettività e della prevalenza della sostanza sulla forma.

La Suprema Corte, infatti, ha chiarito che: “Non è sufficiente trincerarsi dietro l’elemento formale costituito dalla veste giuridica assunta dall’associazione, ma occorre avere riguardo all’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro, secondo il rigido modello imposto dal legislatore, con il D.lgs. n. 460 del 1997, ai soggetti che con l’uso dell'acronimo ONLUS intendono accedere al regime tributario di favore che trova la sua giustificazione nel reale perseguimento di finalità solidaristiche”[68].

È ormai qualche anno, infatti, che la giurisprudenza di legittimità sente l’esigenza di ribadire che non basta un’appartenenza astratta e un atto formale per aggiudicarsi l’accesso al regime di vantaggio destinato alle associazioni attive nel mondo del no profit.

Deve, infatti, chiarirsi che, come si evidenzierà nel secondo capitolo del presente elaborato, appartenere al no profit vuol dire usufruire di tutta una serie di agevolazioni fiscali e tributarie; motivo per cui molte organizzazioni cercano di apparire come no profit[69].

Con la sentenza del 6 novembre 2013, n. 24898, la sezione tributaria della Corte di Cassazione ha stabilito che: “non sfugge all’accertamento induttivo la finta associazione senza scopo di lucro che invece svolge regolare attività commerciale al suo interno. Infatti, gli enti di tipo associativo non godono dello status di ‘extrafiscalità’ che li esenta da ogni prelievo fiscale, potendo anche le organizzazioni no profit svolgere, di fatto, attività a carattere commerciale con proventi, dunque, tassabili”[70].

In tal senso è anche una precedente decisione della Corte che ha revocato le agevolazioni fiscali alle associazioni senza scopo di lucro che vendano sporadicamente servizi a terzi[71]. In sostanza, si è escluso che associazioni svolgenti, anche sporadicamente, attività commerciali usufruiscano delle agevolazioni previste per gli enti no profit.

Nella stessa direzione va la sentenza n. 8623 del 2012 che ha ribadito la necessità di verificare, in concreto, la natura non commerciale dell’attività esplicata dagli enti associativi, quale condizione preliminare per il riconoscimento delle relative agevolazioni fiscali, senza doversi badare esclusivamente agli aspetti formali e statutari[72].

Deve considerarsi, infatti, che il divieto di lucrare mediante l’esercizio delle attività associative non è incompatibile con lo svolgimento di attività commerciali; queste ultime, infatti, possono essere poste in essere purché il relativo ricavato venga reimpiegato per il perseguimento degli scopi associativi e non venga distribuito tra gli associati, che non possono trarre alcun utile economico dalla partecipazione all’associazione.

Quanto appena affermato non solo è un concetto ben saldo del diritto civile, ma viene anche ribadito dal Codice del Terzo settore che all’art. 4, elencando i vari enti appartenenti al Terzo settore, precisa che essi devono essere costituiti “per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi”[73].

Nello stesso senso depone anche l’art. 5, D.lgs. 117/2017 che elencando le varie attività che gli enti no profit, associazioni comprese, possono svolgere, fa desumere la natura non lucrativa dello scopo.

Ma la maggiore conferma si ricava dall’art. 8, D.lgs. 117/2017 che prevede ai commi 1 e 2 che: “Il patrimonio degli enti del Terzo settore, comprensivo di eventuali ricavi, rendite, proventi, entrate comunque denominate è utilizzato per lo svolgimento dell’attività statutaria ai fini dell’esclusivo perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Ai fini di cui al comma 1, è vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominate a fondatori, associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali, anche nel caso di recesso o di ogni altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo”.

Concludendo sugli enti associativi può dirsi che i principi generali della delega conferita al Governo nel 2016 sono stati attuati dall’analizzato D.lgs. del 2017 che ha rispettato le richieste inerenti i soggetti associativi di: riconoscere, favorire e garantire il più ampio esercizio del diritto di associazione e il valore delle formazioni sociali liberamente costituite ove si svolge la personalità dei singoli e revisionare la disciplina del Libro Primo del Codice Civile in materia di enti di carattere privato senza scopo di lucro, tra i quali figurano le associazioni.

3.1. Le fondazioni: da quelle civilistiche a quelle di origine bancaria

La disciplina sancita dal Codice del Terzo settore per le associazioni vale anche per le fondazioni considerato che il Titolo IV tratta nel suo complesso “Delle associazioni e delle fondazioni del Terzo settore”.

Si rinvia, pertanto, a quanto già detto nel precedente paragrafo con riferimento alla disciplina delle associazioni e delle fondazioni.

In tale sede si vogliono più che altro evidenziare le peculiarità delle fondazioni di origine civilistica e di quelle bancarie e le critiche che sono state mosse nei confronti di queste ultime a causa del loro tentativo di apparire quali enti no profit al fine di godere delle agevolazioni fiscali per essi previste.

Prima di addentrarsi in questo specifico argomento deve segnalarsi che le fondazioni sono enti che nascono dalla necessità di destinare un patrimonio ad uno scopo ben definito.

In particolare, la fondazione può essere costituita con atto pubblico o con testamento che può essere anche semplicemente olografo (artt. 14, 16 c.c.).

Nell’atto costitutivo della fondazione, sia esso con atto pubblico o con testamento, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza individuano due atti giuridici distinti[74], sebbene generalmente uniti nello stesso documento e funzionalmente collegati[75].

Questi atti sono: il negozio di fondazione, che è un negozio giuridico non patrimoniale unilaterale con il quale il fondatore manifesta la propria volontà di far venire ad esistenza l’ente; l’atto di dotazione, che è anch’esso un negozio giuridico patrimoniale unilaterale con il quale il fondatore attribuisce all’ente che si è venuto a creare il patrimonio necessario per la realizzazione del suo scopo[76].

All’atto costitutivo è normalmente allegato lo statuto della fondazione che regolamenta la vita della stessa e che tra le varie cose contiene le finalità istituzionali fissate dal fondatore, che non sono modificabili e che vincolano la destinazione del fondo patrimoniale.

Sono, però, possibili delle integrazioni o ampliamenti nel caso in cui lo scopo sociale appaia esiguo rispetto al patrimonio dell’ente o non corrisponda più alle necessità della realtà in cui la fondazione continua ad operare.

La differenza con le associazioni è fondamentalmente strutturale perché ciò che manca in questo caso è l’organo caratteristico delle associazioni: l’assemblea.

Nella fondazione, infatti, al massimo può essere previsto un consiglio di amministrazione deputato alla gestione del patrimonio.

Probabilmente proprio per l’assenza di un organo specificamente destinato al dovere di vigilanza, i controlli nelle fondazioni sono più serrati da parte delle autorità governative che ai sensi dell’articolo 25 c.c. hanno ampi poteri di consultazione, vigilanza e controllo.

Circa la distinzione esistente tra fondazioni di origine civilistica e di origine bancaria, a cui si è accennato all’inizio del presente paragrafo, deve dirsi che queste ultime hanno, diversamente dalle prime, una derivazione pubblicistica[77].

Si consideri, infatti, che le fondazioni di origine bancaria sono sorte a seguito del processo di trasformazione e privatizzazione di molte banche pubbliche, attivato dalla legge n. 218 del 1990, nota come “legge Amato”[78].

Alla fine degli anni Ottanta, tali banche (per lo più casse di risparmio e alcuni istituti di credito di diritto pubblico) operano nel settore del credito usufruendo dell’inusuale  struttura della fondazione (o dell’associazione) con il principale obiettivo di stimolare la propensione al risparmio delle classi medie e dei lavoratori, capace di consentire una gestione più serena anche in quei periodi di difficoltà economica che ciclicamente si ripropongono all’interno di ogni Paese.

Si tratta, quindi, di banche che si occupano della raccolta del risparmio e che al contempo vogliono apparire come volte alla realizzazione di fini filantropici, perseguendo finalità di tipo pubblico attraverso la distribuzione dei propri profitti in beneficienza.

A partire dal secondo dopoguerra, però, queste fondazioni incontrano sempre maggiori ostacoli a celare la loro natura essenzialmente creditizia dietro lo schermo filantropico.

Come ricordato da autorevole dottrina: “Le casse di risparmio si presentano come uno strano ibrido che ha poca ragione di esistere: banche pubbliche (ma con origini private) che agiscono come imprese e competono sui mercati (e dovrebbero puntare a una solida gestione economica), ma allo stesso tempo organizzazioni filantropiche che distribuiscono beneficienza”[79].

È chiaro che ben presto ci si rende contro che una tale situazione di commistione non può non essere puntualmente disciplinata e, infatti, nella prima metà degli anni Novanta, si susseguono una serie di provvedimenti volti a realizzare una netta separazione tra banche e fondazioni, onde creare autentiche fondazioni filantropiche[80].

Si sente, quindi, l’esigenza di chiarire in maniera netta l’incompatibilità tra fini di lucro e attività filantropiche.

Importante a tal fine è stato l’intervento della Corte Costituzionale che si è pronunciata nel 2003 con due sentenze[81] che hanno chiarito l’identità e il ruolo svolto dalle fondazioni di origine bancaria.

In particolare, la Consulta le ha definite delle “persone giuridiche private dotate di piena autonomia statutaria e gestionale” e collocate a pieno titolo “tra i soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali”.

La Corte ha affermato che l’evoluzione legislativa intervenuta dal 1990 in poi ha reciso quel “vincolo genetico e funzionale”, “vincolo che in origine legava l’ente pubblico conferente e la società bancaria” e ha trasformato la natura giuridica del primo in quella di persona giuridica privata senza fine di lucro, “della cui natura il controllo della società bancaria, o anche solo la partecipazione al suo capitale, non è più elemento caratterizzante”.

Così statuendo la Corte ha sancito definitivamente la natura privata delle fondazioni di origine bancaria, ribadendo la loro collocazione nell’ordinamento civile e, quindi, la competenza legislativa esclusiva statale.

Le parole della Corte Costituzionale che ha parlato di “soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali”, privati e autonomi, sono state poi riprese dal regolamento attuativo (il D.M. 18 maggio 2004, n. 150) della legge Tremonti che ha cercato di ricondurre i nuovi soggetti in situazioni più comode nei confronti del controllo politico.

Le fondazioni bancarie dal canto loro, cercano in tutti i modi di essere inglobate negli enti no profit di diritto civile che godono di innumerevoli agevolazioni fiscali[82].

Si tenga conto che stando a degli studi del 2015[83] le fondazioni bancarie sono 6.220 enti che muovono 41 miliardi e che si celano dietro attività filantropiche, ma poi, invece di finanziare progetti sociali, finiscono per gestirli direttamente[84].

Si parla a tal proposito di “filantropia strategica”[85] proprio per indicare il tentativo di celarsi dietro schermi organizzativi non realistici, ma piuttosto finalizzati ad attuare una strategia.

Deve dirsi che l’argomento ha destato particolare interesse nella giurisprudenza che in un primo momento ha accolto la tesi delle fondazioni bancarie, riconoscendo il beneficio della riduzione alla metà dell’aliquota Irpeg, disposta all’epoca dall’art. 6, D.P.R. 601/1973, articolo 6, che parla di enti dotati di personalità giuridica con finalità di interesse pubblico e di utilità sociale, che si limitano ad amministrare le partecipazioni derivanti dal conferimento della propria azienda bancaria a una società per azioni e a destinare i relativi dividendi agli scopi statutari senza fini lucrativi[86].

In sostanza, si ritiene che le fondazioni bancarie perseguono finalità di interesse pubblico e di utilità sociale e che l’amministrazione della partecipazione nella società conferitaria dell’azienda bancaria non costituisce attività commerciale[87].

Ne deriva, quindi, che gli enti di gestione delle partecipazioni hanno natura di fondazioni a tutti gli effetti, sono dotati di personalità giuridica, perseguono finalità di interesse pubblico e di utilità sociale e si limitano, in conformità al proprio statuto, ad amministrare le partecipazioni derivanti dal conferimento della azienda bancaria.

Deve attendersi il 2009 per superare definitivamente tale impostazione. La Corte Suprema, infatti, ha chiarito che: “l’originario modello legislativo degli enti conferenti era orientato verso una missione che aveva ad oggetto essenzialmente e prevalentemente lo sviluppo dell’attività dell’impresa bancaria e che le attività sociali, in ipotesi fiscalmente meritevoli, avevano rilevanza marginale, non inquadrabili nei paradigmi delle norme eccezionali agevolative”[88]. In tali casi, continua la Corte, spetta alla fondazione “la prova della ‘qualità’ e ‘quantità’ delle attività che avrebbero dovuto fare da traino agli sconti fiscali”.

Ancora, per dirlo con le parole delle Sezioni Unite: “sul piano processuale questa inconciliabilità si risolve in una presunzione legale di svolgimento di attività bancaria”[89].

Concludendo, quindi, la Cassazione ha chiarito che le fondazioni bancarie, in particolare quelle nate dalla riforma Amato del 1990, non possono godere di sconti fiscali. Questo in quanto non sono equiparabili agli enti del mondo non profit; piuttosto devono essere considerate a tutti gli effetti come ”banche”, se è vero che nell’ordinamento italiano esiste “una presunzione di esercizio dell’attività di impresa bancaria in capo a coloro che in ragione della entità della partecipazione al capitale sociale sono in grado di influire sull’attività dell’ente creditizio”

4. Le categorie speciali degli enti senza scopo di lucro. In particolare, le organizzazioni di volontariato, le ONLUS e l’impresa sociale

Al di là delle categorie generali di enti no profit, il D.lgs. 117/2017 prevede anche tutta una serie di categorie speciali che si connotano per determinate peculiarità.

In particolare, l’art. 32, D.lgs. 117/2017 definisce le organizzazioni di volontariato come enti “costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, da un numero non inferiore a sette persone fisiche o a tre organizzazioni di volontariato, per lo svolgimento prevalentemente in favore di terzi di una o più attività di cui all’articolo 5, avvalendosi in modo prevalente delle prestazioni dei volontari associati” e ne individua le caratteristiche specifiche: la forma associativa, l’irrilevanza del possesso della personalità giuridica, l’essere costituite da un numero di associati non inferiore a nove volontari sette persone fisiche o a tre cinque organizzazioni di volontariato, le finalità (lo svolgimento di una o più attività di cui all’articolo 5, con esclusione di quelle di commercio equo e solidale e di agricoltura sociale, riservate ad enti aventi natura di impresa), i destinatari (i terzi in via prevalente) e le modalità di svolgimento dell’attività (attraverso l’apporto prevalente dei volontari associati).

Al secondo comma il legislatore chiarisce che possono entrare nella compagine associativa anche enti del Terzo settore o senza scopo di lucro diversi dalle organizzazioni di volontariato, purché il loro numero non superi il trenta 50% del numero delle organizzazioni di volontariato associate.

La disposizione è finalizzata a dare al pubblico l’esatta consapevolezza del tipo di ente con cui ci si relaziona e impedire, invece, comportamenti scorretti da parte di entità che non possiedono la caratteristica di organizzazioni di volontariato e che vogliano usufruire dei benefici per esse previsti.

L’ultimo comma dell’art. 32, D.lgs. 117/2017 fa salve, per le organizzazioni di volontariato che operano nel settore della protezione civile, le disposizioni specifiche che regolano la materia, in ragione della peculiarità della stessa, anche alla luce dell’attuazione della legge 16 marzo 2017, n. 30, recante la delega al Governo per il riordino delle disposizioni legislative in materia di protezione civile.

Prima della vigente disciplina, fondamentale appariva la legge quadro sul volontariato[90] che ha avuto il grande merito di fornire un riconoscimento giuridico ad un fenomeno che, sebbene estremamente diffuso nel territorio italiano, necessitava di una spinta ulteriore al fine di intraprendere la strada del miglioramento nella struttura e nella qualità dei servizi offerti.

Il nomen iuris di questi enti mette ancora più in evidenza la natura gratuita di queste organizzazioni che essendo di “volontariato”, non possono mai dar vita ad uno scopo lucro.

Sul punto è tornata recentemente la Corte di Cassazione che ha affermato che le somme erogate da un’organizzazione di volontariato ai propri volontari possono essere riqualificate come compensi in assenza della dimostrazione che si sia trattato di rimborsi spese[91].

Circa l’Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (ONLUS) più che essere un autonomo soggetto di diritto è una “posizione fiscale”, cioè una “configurazione soggettiva che riconosce e premia fiscalmente l’utilità sociale, in senso solidaristico, quale fattore di accentuazione del merito di operare senza scopi di lucro”[92].

La loro prima disciplina è rinvenibile nel D.lgs. n. 460 del 4 dicembre 1997 che ha riordinato la normativa fiscale sugli enti non commerciali ed ha istituito la nuova figura delle ONLUS[93].

L’obiettivo è quello di favorire lo sviluppo di settori produttivi avanzati nel campo della cultura, dello sport e della solidarietà sociale e di creare nuove opportunità di lavoro.

“Le ONLUS costituiscono un’autonoma e distinta categoria di enti rilevante ai soli fini fiscali, destinataria solo di uno specifico regime tributario di favore in materia di imposte sui redditi, d’imposta sul valore aggiunto, di altre imposte indirette nonché di ulteriori specifici tributi”[94].

Non sono, quindi, nuovi soggetti che si aggiungono a quelli già esistenti, ma sono un “contenitore” fiscale nel quale entrano o possono entrare vari soggetti giuridici in possesso dei requisiti previsti dalla legge.

La Corte di Cassazione, nel 2012, ha confermato l’attribuzione alle ONLUS di agevolazioni, laddove ricorra almeno una condizione di svantaggio di cui all’art. 10, D.lgs. 460/97 e nonostante siano stati previsti dei corrispettivi per le attività svolte[95].

Per quanto riguarda, invece, quella particolare categoria di ente no profit denominata “impresa sociale”, ad essa la legge del 2016 ha destinato uno specifico decreto attuativo: il D.lgs. 3 luglio 2017, n. 112 che si intitola, infatti, “Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’articolo 2, comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 106” e che mira a dare a questa forma di ente non profit concreti sostegni e agevolazioni fiscali[96].

L’impresa sociale è a tutti gli effetti un ente del Terzo Settore e si iscrive nel Registro Unico in un’apposita sezione.

Per la prima volta nel 2017, con il D.lgs. n. 112, anche le cooperative sociali assumono automaticamente, per legge, la qualifica di imprese sociali, pur continuando ad essere regolate dalla legge n. 381 del 1991[97].

Ai sensi dell’art. 1, D.lgs. 112/2017 sono imprese sociali quegli enti che “esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione  responsabili e trasparenti  e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività”.

La riforma conferma la possibilità di assumere la qualifica di impresa sociale anche da parte di enti costituiti in forma associativa o di fondazione; diversamente, non possono essere imprese sociali le Pubbliche amministrazioni che possono entrarvi a farne parte solo a condizione che non esercitino alcun controllo in termini di direzione o coordinamento.

Ugualmente esclusa dall’ambito dell’impresa sociale è l’organizzazione di volontariato, ostando a tal fine la necessaria preponderanza della presenza dei volontari al suo interno.

Deve specificarsi che in realtà, l’impresa sociale può usufruire di volontari, ma solo in misura inferiore al numero dei dipendenti.

L’impresa sociale esercita stabilmente attività d’impresa di interesse generale per perseguire finalità civiche solidaristiche e di utilità sociale. Tali attività sono elencate dal decreto attraverso un’ampia gamma di settori all’interno dei quali l’impresa sociale deve realizzare almeno il 70% dei propri ricavi.

Qualora invece l’impresa impieghi in modo significativo nell’attività produttiva lavoratori svantaggiati o disabili (almeno il 30%) essa potrà operare in qualsiasi settore economico.

L’impresa sociale si costituisce con atto pubblico e deve utilizzare nella denominazione l’indicazione “impresa sociale”; deve, inoltre, essere munita di uno statuto che deve contemplare forme di consultazione e di partecipazione dei lavoratori e degli utenti, rendendoli capaci di influire sulle decisioni dell’impresa stessa sia per ciò che riguarda la qualità dei beni e dei servizi prodotti sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro.

Nonostante le peculiarità che riguardano l’attività delle imprese sociali, la riforma conferma la possibilità per questi enti di godere di agevolazioni fiscali.

In particolare, viene stabilito che gli utili dell’impresa sociale non siano sottoposti a tassazione purché vengano destinati allo svolgimento dell’attività d’impresa o ad incremento del patrimonio sociale[98].

Inoltre, per le nuove imprese sociali, è prevista la detassazione fino al 30% delle somme investite fino ad 1 milione di euro (1,8 milioni di euro se l’investitore è persona giuridica), purché l’investimento nel capitale dell’impresa sociale sia mantenuto per almeno 3 anni.

Non sono soggetti a tassazione nell’impresa sociale neppure gli utili destinati ad aumento gratuito del capitale sociale sottoscritto e versato dai soci entro i limiti dei valori Istat, trattandosi di conferimenti effettuati per adeguare all’inflazione il valore delle azioni o quote di capitale sottoscritte dai soci stessi.

Con la riforma, infine, viene data la possibilità alle imprese sociali di accedere alla raccolta di fondi tramite portali telematici.

Si segnala che a marzo 2018 è stato approvato dal Consiglio dei Ministri lo Schema del decreto legislativo[99], recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112 e recante la revisione della disciplina in materia di impresa sociale, ai sensi dell’articolo 1, co.7, della legge 6 giugno 2016, n.106.

Gli interventi correttivi e integrativi previsti dal decreto riguardano essenzialmente: l’utilizzazione dei lavoratori molto svantaggiati e dei volontari, l’adeguamento degli statuti delle imprese sociali e, infine, le misure fiscali e di sostegno economico.

Conclusioni

Da quanto detto, il settore del no profit pone quali risorse primarie i valori del volontariato e della solidarietà sociale. Il decreto legislativo n. 460/1997 è stato il punto d’arrivo di un cammino che è durato anni e che si è contraddistinto per accesi dibattiti e tentativi falliti di dare una sistemazione normativa al Terzo settore.  Sono diverse le ragioni del rapido sviluppo dell’area del no profit e ciascuna ha un rilievo fondamentale. Sicuramente tra tutte quella che più ha inciso è stato il “fallimento” dell’inserimento dello Stato nei mercati e la sua incapacità a soddisfare le esigenze collettive. Si è così pian piano cercato di dar vita ad un’economia “civile” intesa come terza modalità di produzione di beni e servizi, paritaria all’economia pubblica e a quella privata. Le dimensioni del fenomeno hanno raggiunto ben presto dimensioni tali da imporre interventi normativi ad ampio raggio e in tutti i settori. Si è dunque giunti alla riforma attuata dalla legge delega n. 106 del 2016 e dai successivi numerosi decreti attuativi che hanno previsto agevolazioni ed una disciplina speciale di favore oltre che il Codice del Terzo settore.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Si fa riferimento al D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (“Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106”), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, n. 179 del 2 agosto 2017. Con tale decreto si è data attuazione alla legge 6 giugno 2016, n. 106 (“Delega al Governo per la riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”).

[2] Sulla riforma si veda, Tonina A., La riforma del Terzo settore. Il nuovo assetto del non profit, Milano, 2017.

[3] Così, Zamaro N., La riforma del terzo settore alla prova del nove, in Confini online, le regole del no profit, 28 giugno 2017, reperibile sul sito internet https://www.confinionline.it/it/principale/Informazione/news.aspx?prog=63711.

[4] Il decreto legislativo delegato 117/2017 è solo uno dei tanti decreti attuativi della legge delega 106/2016. Ulteriori decreti, infatti, che sono stati emanati sono: D.lgs. 3 luglio 2017, n. 111 (“Disciplina dell'istituto del cinque per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche a norma dell'articolo 9, comma 1, lettere c) e d), della legge 6 giugno 2016, n. 106”); D.lgs. 3 luglio 2017, n. 112 (“Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell'articolo 2, comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 106”); D.lgs. 6 marzo 2017, n. 40 (“Istituzione e disciplina del servizio civile universale, a norma dell'articolo 8 della legge 6 giugno 2016, n. 106”).

[5] Si fa riferimento alla legge 6 giugno 2016, n. 106, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, n. 141 del 18 giugno 2016 che prevede l’emanazione di una serie di decreti volti a provvedere: alla revisione della disciplina del titolo II del libro primo del Codice civile in materia di associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato senza scopo di lucro, riconosciute come persone giuridiche o non riconosciute; al riordino e alla revisione organica della disciplina speciale e delle altre disposizioni vigenti relative agli enti del Terzo settore di cui al comma 1, compresa la disciplina tributaria applicabile a tali enti, mediante la redazione di un apposito codice del Terzo settore, secondo i principi e i criteri direttivi di cui all’articolo 20, commi 3 e 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni; alla revisione della disciplina in materia di impresa sociale; alla revisione della disciplina in materia di servizio civile nazionale.

[6] Si fa riferimento alla legge 28 dicembre 2015, n. 209 (“Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2016 e bilancio pluriennale per il triennio 2016-2018”).

[7] Per dovere di completezza si ricorda che la riforma ha toccato anche l’impresa sociale, ampliandone i campi di attività (commercio equo, alloggio sociale, nuovo credito, agricoltura sociale e tanto altro.) e rendendo possibile la distribuzione degli utili e incentivi all’investimento di capitale per le nuove imprese sociali. In particolare, si è stabilito che il 30% dell’investimento fatto può essere fiscalmente deducibile o detraibile analogamente a quanto già accade per le startup innovative tecnologiche.

[8] Il cd. Registro Unico del Terzo settore.

[9] Queste le parole di Luigi Bobba, politico italiano che il 28 febbraio 2014 è stato nominato Sottosegretario di Stato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel Governo di Matteo Renzi.

[10] Zizzo G., La fiscalità nel Terzo settore, Milano, 2011.

[11] Così, Zamagni S. durante la conferenza live streaming tenutasi a Roma il 12 luglio 2017. Si allega il relativo link https://www.youtube.com/watch?time_continue=20&v=n_J2zSZO0to.

[12] Zamagni S. durante la conferenza live streaming tenutasi a Roma il 12 luglio 2017.

[13] In particolare, il 28 novembre 2017 è stato firmato il protocollo d’intesa tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC), l’Agenzia del Demanio e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI) per consentire la destinazione agli enti non profit di beni immobili pubblici inutilizzati e di beni mobili e immobili confiscati alla criminalità organizzata, da utilizzare esclusivamente per lo svolgimento delle attività di interesse generale. Inoltre, l’art. 81, Codice del Terzo settore prevede il riconoscimento di un credito d’imposta per le persone fisiche e le persone giuridiche che effettuano erogazioni liberali in denaro in favore degli enti del Terzo settore che, sulla base di uno specifico progetto di recupero presentato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, risultano assegnatari degli immobili.

[14] I titoli di solidarietà vengono disciplinati dall’art. 77, D.lgs. 117/2017 e sono “titoli obbligazionari a tasso fisso non convertibile” che hanno la finalità di finanziare le organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale.

[15] Capecchi M., Evoluzione del terzo settore e disciplina civilistica. Dagli enti non lucrativi alla “impresa sociale”, Padova, 2005, p. 7.

[16] Il riferimento è soprattutto al patrimonio immobiliare che in una società come quella dell’epoca, prevalentemente ancora agraria, poteva essere coltivato e quindi fatto fruttare. Tra l’altro, molteplici sono in questo periodo i provvedimenti avverso la cd. manomorta, cioè l’accumulo di patrimoni eccessivi rispetto alle finalità perseguite dagli enti. Si pensi, ad esempio alla legge Le Chapelier (14 giugno 1791) che eliminava corporazioni, società benefiche ed educative, organizzazioni di lavoratori e tanto altro.

[17] Rescigno P., Le società intermedie, in Persone e Comunità, 1966, p. 29.

[18] Art. 32, St. alb.

[19] Galgano F:, Persone giuridiche, in Comm. del cod. civ., diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1969, p. 125.

[20] Regio Decreto 25 giugno, 1865, n. 2358.

[21] De Giorgi M.V., Fondamenti di diritto degli enti “non profit”, Padova, 1997, p. 1 ricorda che il Codice civile del 1865 ricorreva all’espressione “corpo morale” per indicare gli enti non societari.

[22] De Giorgi M.V., Fondamenti di diritto degli enti “non profit”, cit., p. 4.

[23] Ibidem.

[24] In sostanza, così come previsto dall’art. 25, l. 3 agosto 1862, n. 753 per le opere pie, il Governo, dopo essersi consultato con il Consiglio di Stato e aver svolto un controllo ad un tempo di legalità e di merito sulle attività che l’ente si proponeva di realizzare, concedeva il riconoscimento. Si veda, Bressan L:, La disciplina delle Opere pie nella legge 3 agosto 1862, n. 753, in AA.VV., L’autonomia delle IPAB, Rimini, 1996, pp. 21 ss.

[25] Galgano F:, Persone giuridiche, cit., p. 128.

[26] Rossi G., Gli enti pubblici, Bologna, 1991, p. 34.

[27] Vittadini G., Introduzione, in Vittadini G. (a cura di), Il non profit dimezzato, Milano, 1997.

[28] Basile M., Le persone giuridiche, in Trattato di diritto privato, a cura di Judica G. e Zatti P., Milano, 2003, p. 7.

[29] Questo è quanto ricorda Fusaro A.N., L’associazione non riconosciuta: modelli normativi ed esperienze atipiche, Padova, 1991, p. 14.

[30] Così vengono definite le opere pie nella legge 17 luglio 1890, n. 6972.

[31] La trasformazione avviene mediante la legge 17 luglio 1890, n. 6972.

[32] Capecchi M., Evoluzione del terzo settore, cit., p. 17.

[33] Capecchi M., Evoluzione del terzo settore, cit., p. 18.

[34] Legge 14 Giugno 1928, n. 1310.

[35] Si segnala che, intanto, con la firma dei Patti Lateranensi, anche gli enti religiosi riacquistano tutta una serie di privilegi.

[36] Si ricorda che la meritevolezza degli interessi perseguiti è uno strumento che lo Stato ha più volte utilizzato, in diversi campi e in diversi tempi (tanto all’epoca del fascismo quanto attualmente nel vigente Codice civile), per controllare i vari fenomeni economico-sociali. Si pensi alla meritevolezza di cui all’attuale art. 1322 c.c. che è un residuo storico dell’epoca fascista e che ha la funzione di controllare e filtrare l’autonomia contrattuale riconosciuta ai privati che possono creare nuovi tipi contrattuali, differenti da quelli previsti ex lege. Si pensi, ancora all’art. 2645 ter c.c. che richiama la meritevolezza degli interessi con riferimento agli atti di destinazione.

[37] Basile M., Le persone giuridiche, cit., p. 18.

[38] Galgano F:, Persone giuridiche, cit. p. 132.

[39] Così Capecchi M., Evoluzione del terzo settore, cit., p. 23. Ancora, Rescigno P., Ascesa e declino della società pluralista, in Persone e Comunità, Bologna, 1966, p. 8: “Il disegno politico costituzionale sembra obbedire all’esigenza di colmare il vuoto apertosi tra l’individuo e lo Stato all’inizio dell’età moderna, e di riempirlo attraverso la rivalutazione dei gruppi che possiedano e sviluppino un rapporto virtualmente indispensabile all’ordine economico e politico”.

[40] Rossi G., Le formazioni sociali nella Costituzione italiana, Padova, 1989.

[41] De Giorgi M.V., Fondamenti di diritto degli enti “non profit”, cit., p. 4.

[42] De Giorgi M.V., Fondamenti di diritto degli enti “non profit”, cit., p. 5.

[43] Volendone citare solo alcune, si pensi alla legge 30 luglio 1998, n. 281 (“Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”); alla legge 8 giugno 1990, n. 142 (“Ordinamento delle autonomie locali”); alla legge 7 agosto 1990, n. 241 (“Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”).

[44] Voce “Welfare State”, in Enc. giur., Roma, 1991

[45] Capecchi M., Evoluzione del terzo settore e disciplina civilistica, cit., p. 27.

[46] R.D. 17 luglio 1890, n. 6972 (cd. legge Crispi dal nome del Ministro guardasigilli).

[47] Si fa riferimento a Corte cost., 7 aprile 1988, n. 936, in Giur. It., 1990, I, 1, p. 266.

[48] Così, Basile M., Le persone giuridiche, cit., p. 36.

[49] Capecchi M., Evoluzione del terzo settore e disciplina civilistica, cit., p. 30.

[50] Legge 11 agosto 1991, n. 266 (“Legge-quadro sul volontariato”) in G.U. n.196 del 22 agosto 1991.

[51] Legge 8 novembre 1991, n. 381 (“Disciplina delle cooperative sociali”) in G.U. 3 dicembre 1991, n. 283.

[52] In particolare, l’art. 5, co. 1, l. 381/1991 stabilisce: “Gli enti pubblici possono, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della Pubblica amministrazione, stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono le attività  i cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi, purchè finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate di cui all’articolo 4, comma 1”.

[53] D. lgs. 29 giugno 1996, n. 1120.

[54] D.M. 27 novembre 2001, n. 491.

[55] Legge 4 dicembre 1997, n. 460.

[56] Legge 7 dicembre 2000, n. 383.

[57] Il riferimento è alla legge delega 106/2016 e ai numerosi decreti attuativi.

[58] Marzano M., Urbinati N., La società orizzontale: liberi senza padri, Bologna, 2016 parlano così con riferimento ai partiti politici, ma il concetto può estendersi a qualsiasi ente collettivo.

[59] Barbetta G.P., Senza scopo di lucro: dimensioni economiche, legislazione e politiche del settore non profit in Italia, Bologna, 1996, p. 10.

[60] In particolare, si fa riferimento all’art. 1, commi 3 e 4 del D.P.R. 361/2000 che prevede: “Ai fini del riconoscimento è necessario che siano state soddisfatte le condizioni previste da norme di legge o di regolamento per la costituzione dell’ente, che lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo. La consistenza del patrimonio deve essere dimostrata da idonea documentazione allegata alla domanda”.

[61] Colombo F., Sciumè P., Zazzeron D., Onlus - Enti non commerciali e organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Regime fiscale, contabilità e bilancio, in Il Sole 24 Ore, Milano, 2001, pp. 5-7.

[62] In particolare, l’art. 23, D.lgs. 117/2017 prevede: “Se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente, in un’associazione, riconosciuta o non riconosciuta, del Terzo settore l’ammissione di un nuovo associato è fatta con deliberazione dell’organo di amministrazione su domanda dell’interessato. La deliberazione è comunicata all’interessato ed annotata nel libro degli associati. Se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente, l’organo competente ai sensi del comma 1 deve entro sessanta giorni motivare la deliberazione di rigetto della domanda di ammissione e comunicarla agli interessati. Se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente, chi ha proposto la domanda può entro sessanta giorni dalla comunicazione della deliberazione di rigetto chiedere che sull’istanza si pronunci, l’assemblea o un altro organo eletto dalla medesima, che deliberano sulle domande non accolte, se non appositamente convocati, in occasione della loro successiva convocazione. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche alle fondazioni del Terzo settore il cui statuto preveda la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato, in quanto compatibili ed ove non derogate dallo statuto”.

[63] Queste le parole di Cass. civ., sez. II, 13 gennaio 1976, n. 89.

[64] In tal senso, l’art. 3, co. 2, Codice del Terzo settore.

[65] Cass. civ., sez. I, 17 giugno 2015, n. 12508.

[66] Anche l’art. 5, D.lgs. 117/2017 è in tal senso.

[67] Infra, cap. I, par. 4.

[68] Cass. civ., sez. tributaria, 19 aprile 2017, n. 9832.

[69] A riguardo, Cass. civ., sez. V, 12 agosto 2015, n. 16726 ha ribadito gli obblighi che le organizzazioni non profit devono assolvere per poter usufruire delle agevolazioni fiscali previste dalle normative vigenti: tenere le scritture contabili obbligatorie, tenere i libri sociali, effettuare il rendiconto annuale e i rendiconti specifici sulle raccolte fondi effettuate.

[70] Cass. civ., sez. tributaria, 6 novembre 2013, n. 24898.

[71] Cass. civ., ord., 26 ottobre 2010, n. 21875.

[72] Cass. civ., sez. V, 30 maggio 2012, n. 8623.

[73] Art. 4, D.lgs. 117/2017: “Sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”.

[74] Lipari N., Caggia F., Diritto civile, I, Milano, 2009, pp. 417 ss.

[75] Ne deriva che la nullità afferente un atto si riverbera inevitabilmente sull’altro.

[76] Lipari N., Caggia F., Diritto civile, cit., p. 417.

[77] Sull’argomento si veda Santuari A., Le ONLUS, profili civili, amministrativi e fiscali, Padova, 2007, pp. 120 ss.

[78] Legge 30 luglio 1990, n. 218, in G.U. n. 182 del 6 agosto 1990.

[79] Barbetta G.P., Maggio F., Non profit, Bologna, 2002, p. 50.

[80] Importante in tal senso è il D.lgs. 17 maggio 1999, n. 153, cosiddetta legge Ciampi, con il quale il legislatore persegue una serie di obiettivi: allontana definitivamente le fondazioni dal settore pubblico, riconoscendone la natura giuridica privata una volta che gli statuti si siano adeguati ai dettati di legge; stabilisce che le fondazioni possano perseguire esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico, attribuendo loro una missione precisa e allontanandole definitivamente dalla natura di holding di partecipazione; prevede che le fondazioni siano governate da distinti organi di indirizzo, di amministrazione e di controllo, composti non solo da rappresentanti degli enti locali o dei soci fondatori (come era nella gran parte degli istituti precedenti), ma anche da personalità che possano contribuire al perseguimento dei fini istituzionali; impedisce alle fondazioni di possedere partecipazioni di controllo di imprese che non siano strumentali al perseguimento delle finalità statutarie; stabilisce criteri di diversificazione del patrimonio e della salvaguardia del suo valore; infine, obbliga le fondazioni a dismettere le partecipazioni nelle banche conferite entro un periodo di sei anni.

[81] Corte cost., 29 settembre 2003, nn. 300 e 301.

[82] A riguardo la Corte di Giustizia con la sentenza del 17 giugno 1997 C-70/95 (Sodemare) ha ritenuto che le fondazioni bancarie potessero rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 107 TFUE in materia di aiuti di Stato proprio in quanto riconducibili alle fondazioni civilistiche.

[83] Reperibili sul sito https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/27/fondazioni-non-bancarie-6-220-enti-che-muovono-41-miliardi-concorrenza-con-le-associazioni-di-volontariato/1889333/.

[84] Si veda a proposito Cerbioni F., Boesso G., La governance delle fondazioni: leader al servizio della filantropia, Milano, 2016; e

[85] Cerbioni F., Boesso G., Governance e filantropia strategica nelle Fondazioni: la via italiana tra determinismo e solidarismo, XI Colloquio Scientifico sull’impresa sociale, Firenze, 26-27 maggio 2017, reperibile sul sito http://irisnetwork.it/wp-content/uploads/2017/05/boesso-cerbioni.pdf.

[86] Cass. civ., sez. tributaria, 9 maggio 2002, n. 6607.

[87] Conclusione poi confermata dall’art. 12, co. 2, D.lgs. 17 maggio 1999, n.153.

[88] Cass. civ., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 1576.

[89] In definitiva, conclude la Corte, “con la riforma Amato gli enti conferenti anziché gestire direttamente l’azienda bancaria, mediante un modello organizzativo di tipo pubblicistico, come era avvenuto per il passato, hanno continuato a svolgere tale attività utilizzando un nuovo modello organizzativo privatistico (quello della spa), mantenendo saldamente nelle proprie mani le leve di comando. La proprietà dell’azienda è rimasta nelle stesse mani. Gli enti conferenti, a fronte del conferimento dell’azienda di proprietà, hanno ottenuto azioni rappresentative (in tutto o in quota ampiamente maggioritaria) del medesimo titolo di proprietà: una semplice cartolarizzazione, che non spostava gli assetti della governance”.

[90] Legge 11 agosto 1991, n. 266.

[91] Cass. civ., sez. VI, ord., 23 novembre 2015, n. 23890.

[92] Questa la definizione fornita da Pettinato S., La riforma del non profit: un progetto ambizioso ma non facile, Rimini, 1997, p. 71.

[93] Sull’argomento si veda Proto A.M., Onlus ed enti non commerciali, in Rass. trib., 1997.

[94] Propersi A., Rossi G., Gli enti non profit. Associazioni, Fondazioni, Comitati, ONLUS, Imprese sociali, IPAB, Organizzazioni di volontariato, Cooperative sociali, Circoli aziendali, Società di mutuo soccorso, Organizzazioni non governative, Associazioni sportive dilettantistiche, Associazioni di promozione sociale, Trust, Scritture contabili e bilanci, Raccolta fondi, Aspetti tributari, Milano, 2010, p.115.

[95] Cass. civ., ord., 17 aprile 2012, n. 9688.

[96] Per trattare l’argomento si è utilizzato Pagamaci B., La riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale, Padova, 2017.

[97] Legge 8 novembre 1991, n. 381 (“Disciplina delle cooperative sociali”).

[98] In particolare, Cass. civ., ordinanza 3 novembre 2017, n. 26233 chiarisce: “In tema d determinazione del reddito d’impresa, non è sufficiente, ai fini della deduzione dei costi che l’attività svolta rientri tra quelle previste nello statuto sociale, circostanza che ha un valore meramente indiziario circa la sua inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, incombendo sul contribuente l’onere di dimostrare che un’operazione, apparentemente isolata e non diretta al mercato, sia inserita in una specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore”.

[99] Schema del 21 marzo 2018.