Pubbl. Lun, 29 Ott 2018
L´obbligo di motivazione e la motivazione postuma: il delicato rapporto con il principio del raggiungimento dello scopo
Modifica paginaL´obiettivo principale dell´obbligo di motivazione è quello di rafforzare il diritto di difesa del destinatario di un provvedimento amministrativo, consentendogli di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che hanno portato la PA alla sua adozione, anche al fine di poterne verificare la correttezza.
Sommario: 1. Il principio di trasparenza e le sue molteplici declinazioni; 2. Un’esplicitazione del principio di trasparenza: l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi; 3. Eccezioni all’obbligo di motivazione; 4. Intensità e contenuto della motivazione; 5. La natura della violazione dell’obbligo di motivazione; 6. La motivazione postuma; 7. La possibile conciliazione tra l’art. 21 octies c2, l. n. 241/90, e l’istituto della motivazione postuma; 8. Rilievi conclusivi.
1. Il principio di trasparenza e le sue molteplici declinazioni
Il principio di trasparenza trova il suo principale referente normativo nell’art. 97 Cost., ponendosi come corollario dei principi di buon andamento ed imparzialità.
A livello di normativa primaria, invece, il principio in esame viene espressamente codificato all’art. 1, comma 1 della l. n. 241/90 (come modificato dalla l. n. 15/2005), che delinea i canoni direttivi dell’azione amministrativa.
Il principio di trasparenza ha democraticizzato l’agere amministrativo contribuendo a riscrivere il rapporto che lega l’amministrazione e i cittadini, mediante l’introduzione di diversi strumenti posti a garanzia sia dello Stato che degli amministrati.
In primis si segnala come la valorizzazione del principio in esame abbia portato alla codificazione di una diversi strumenti normativi volti a prevenire i possibili fenomeni corruttivi che potrebbero inficiare il corretto operare della PA, attraverso una serie di misure atte a monitorare alcuni delicatissimi settori, quale, ad esempio, quello degli appalti (come testimonia la riscrittura del Codice dei contratti pubblici tramite il d.lgs n. 50/2016 che ha potenziato ed innovato i poteri dell’ ANAC al fine di arginare i tentativi di infiltrazione mafiosa in tale settore).
Un’amministrazione trasparente, inoltre, è un’amministrazione il cui operato sia accessibile, visibile e comprensibile così da garantire la “conoscibilità esterna” dell’agere amministrativo (si pensi alla normativa sul diritto di accesso prevista dal d.lgs n. 33/2013, recentemente innovato dal d.lgs n. 97/2016, in attuazione della delega di cui all’art. 7 della l. n. 124/2015); fattore che consegna al cittadino un ulteriore gamma di istituti idonei a garantire il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e una piena attuazione dell’art. 113 Cost., per offrire una tutela giurisdizionale piena ed effettiva. In merito, una delle possibili espressioni del principio di trasparenza è data dall’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi; strumento mediante il quale la PA palesa i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che sottendono all’emanazione delle sue decisioni.
2. Un’esplicitazione del principio di trasparenza: l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi
L’introduzione di un generalizzato obbligo motivazionale per i provvedimenti amministrativi deriva, in primis, dalle spinte di matrice europea che valorizzando il principio di trasparenza nelle sue molteplici declinazioni non potevano trascurare un settore delicato quale quello amministrativo.
L’art. 111, comma 6, Cost. (come modificato dalla l. Cost. 23 novembre 1999, n. 2), nel recepire i dettami dell’art. 6 CEDU, elenca i principi cardine del “giusto processo” prevedendo, sì, un generalizzato obbligo di motivazione, ma solo relativamente ai provvedimenti giurisdizionali.
Prima dell’entrata in vigore della l. n. 241 del 1990, dunque, non vi era un generalizzato obbligo di motivazione per i provvedimenti amministrativi, che venivano motivati solo nei casi espressamente previsti dalla legge o qualora venissero emanati provvedimenti sfavorevoli per i destinatari.
Si evidenzia, poi, come, anteriormente della sua codificazione espressa la giurisprudenza collocasse il difetto di motivazione tra le figure sintomatiche dell’eccesso di potere, ove l’impianto motivazionale fosse assente, insufficiente e/o contraddittorio. Ad oggi, invece, l’art. 3 della l. n. 241/90, prevede per la PA un generalizzato obbligo di motivazione per i provvedimenti da essa stessa adottati, salve le eccezioni espressamente previste dal legislatore. L’esplicita codificazione di tale obbligo fa sì che la sua inosservanza si traduca in una violazione di legge; il vizio di eccesso di potere diviene, dunque, residuale, essendo ravvisabile solo nei casi previsti dalla legge, ovvero per illogicità e/o contraddittorietà della motivazione.
L’obbligo di motivazione infatti, dando la possibilità di ricostruire l’iter logico-fattuale seguito dalla PA nell’ adottare un determinato tipo di atto, si traduce in un’esplicazione pratica del principio di trasparenza che, come sancito anche dall’art. 1 della l. n. 241 del 1990, deve guidare l’attività amministrativa.
La funzione dell’obbligo di motivazione inoltre, è quella di agevolare il giudice nell’effettuare il suo controllo giurisdizionale, consentendogli di svolgere un sindacato estrinseco sulla legittimità dell’atto impugnato. Possibilità che verrebbe fortemente limitata qualora non vi fosse un’esplicitazione motivazionale di cui vagliare la logicità e la congruità.
Una delle finalità principe, cui risponde l’obbligo di motivazione è, poi, quella di rafforzare il diritto di difesa del destinatario di un provvedimento amministrativo, consentendogli di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che hanno portato la PA alla sua adozione, anche al fine di poterne verificare la correttezza e ponderare l’opportunità di impugnare quell’atto in giudizio. La motivazione infatti, consente di avere un’adeguata panoramica di quanto avvenuto durante l’iter procedimentale essendo lo strumento mediante la PA evidenzia i dati di fatto raccolti durante
l’istruttoria e le motivazioni che l’hanno portata a basarsi su alcuni elementi piuttosto che su altri e le ragioni giuridiche che ha applicato nel caso concreto giungendo così ad emanare quel determinato tipo di atto per quella specifica situazione.
L’art 3 c1 l. n. 241/90 infatti, oltre a sancire il generale obbligo di motivazione per i provvedimenti amministrativi, ne definisce anche il contenuto, richiedendo che l’amministrazione espliciti, come evidenziato, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a fondamento dell’atto adottato. I presupposti di fatto dati dagli elementi fattuali che l’amministrazione ha individuato, ponderato e valutato ai fini dell’adozione del provvedimento. Le ragioni di diritto costituite dalle norme e dai principi che sorreggono l’atto emanato e giustificano giuridicamente la scelta operata dalla PA.
3. Eccezioni all’obbligo di motivazione
La regola generale dell’obbligo di motivazione subisce, però, delle eccezioni come sancito dallo stesso art. 3 c2 l. n. 241/90. La motivazione infatti, non è esplicitamente richiesta per gli atti normativi e per gli atti a contenuto generale. Tali atti, infatti, oltre ad essere caratterizzati da un’ampia discrezionalità, non sono idonei ad incidere direttamente su situazioni giuridiche soggettive o su interessi concreti.
Ulteriori eccezioni all’obbligo di motivazione possono essere ricavate indirettamente. Si pensi all’art. 3 c1 l. n. 241/90. Tale disposizione positivizza l’obbligo di motivazione per ogni provvedimento amministrativo, inciso dal quale correlativamente si può ricavare, in negativo, che tale obbligo non sussiste per gli atti non provvedimentali.
L’obbligo di motivazione inoltre, non sussiste nei casi di silenzio assenso previsti all’art. 20 l. n. 241/90. Accanto alle deroghe previste dal legislatore, però, vi sono delle eccezioni tracciate dalla giurisprudenza che ha individuato ulteriori tipologie di provvedimenti per i quali la motivazione non è considerata necessaria. L’obbligo di motivazione in particolare, non sussisterebbe per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica degli interessati né per i provvedimenti vincolanti. I provvedimenti ampliativi della sfera giuridica degli interessati infatti, sono implicitamente motivati
dalla conformità dell’istanza ai parametri fissati per legge, mentre per i provvedimenti vincolati si ritiene che sia sufficiente la cd giustificazione con la quale vengono indicate le circostanze di fatto dalle quali si può evincere la presenza dei presupposti fissati dal legislatore. In merito, l’art. 2 l. n. 241/90, come modificato dalla l. n. 190/2012, prevede che ove la PA ravvisi un’ipotesi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, potrà emanare un provvedimento espresso redatto in forma semplificata; consistendo, la motivazione, anche in un sintetico riferimento ad un elemento di fatto o di diritto ritenuto decisivo. Ad oggi tuttavia si segnala che anche per i provvedimenti rigidamente vincolati sia imposta una motivazione seppur non succinta. Tali disposizioni si giustificano stante la necessità di bilanciare la portata dell’obbligo motivazione dei provvedimenti amministrativi con il principio di non aggravamento del procedimento, corollario dei principi di efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, previsti anch’essi, come il richiamato principio di trasparenza, dall’art. 1 l. n. 241/90.
4. Intensità e contenuto della motivazione
Per quanto concerne il contenuto della motivazione inoltre, l’art. 3 c4 l. n. 241/90, sancisce che in ogni atto notificato al destinatario debbano essere indicati il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere, in modo da semplificare e rendere più agevole la tutela giurisdizionale dei soggetti eventualmente lesi dal provvedimento.
Il contenuto della motivazione inoltre, secondo quanto previsto dall’art. 3 c3 l. n. 241/90 può concretizzarsi anche nel rinvio ad atti ulteriori e diversi, adottati nell’ambito del relativo procedimento o anche in altri procedimenti, che fungono da sostrato motivazionale. Si parla in tali ipotesi di motivazione per relationem. In questi casi eccezionali l’onere motivazionale viene considerato assolto qualora la PA indichi espressamente nel provvedimento l’atto cui si rimanda e lo renda disponibile insieme alla decisione nel momento in cui quest’ultima viene comunicata. La motivazione per relationem risponde ad esigenze di economia dei mezzi giuridici e deve comunque essere congrua ed adeguata, in quanto altrimenti opinando si tradurrebbe in uno strumento volto ad elidere il generale obbligo di motivazione sancito dall’art. 3 c1 l. n. 241/90.
I caratteri della motivazione invece, sono dati dalla congruità e sufficienza.
Il canone della congruità della motivazione richiede che la motivazione contenga un’esplicitazione precisa e comprensibile dei passaggi logici seguiti dalla PA per giungere all’atto effettivamente emanato. Il canone della sufficienza della motivazione invece, richiede che il contenuto della stessa sia tale da eliminare dubbi relativi ad un possibile difetto di imparzialità della PA.
È bene sottolineare poi, come la consistenza dell’onere motivazionale vada modulata in base alla natura dell’atto e alla consistenza dell’istruttoria.
L’intensità della motivazione infatti, cambia in base alla tipologia dell’atto, che a sua volta muta in relazione agli interessi coinvolti. In caso di provvedimenti vincolati, la motivazione sarà, come evidenziato, più sintetica, in quanto l’iter argomentativo seguito dalla PA si potrà evincere semplicemente richiamando le norme di legge poste a fondamento dell’atto e gli elementi fattuali da cui è nata l’esigenza di emanarlo. Nel caso di provvedimenti discrezionali, invece, sarà necessario fornire una motivazione amplia e dettagliata per poter ricostruire l’iter procedimentale seguito dalla PA. Si distingue ulteriormente, tra provvedimenti positivi, che contengono una motivazione volta ad evidenziare la conformità della domanda ai presupposti di legge e provvedimenti negativi, nei quali la motivazione è incentrata sull’analisi dei requisiti mancanti.
L’onere motivazionale inoltre, si atteggia differentemente in base alla consistenza dell’istruttoria. L’intensità della motivazione infatti, è inversamente proporzionale alla complessità dell’istruttoria. Ove quest’ultima sia particolarmente dettagliata, rendendo così agevole la ricostruzione dell’iter logico seguito dalla PA, si ritiene che la motivazione possa essere meno succinta.
5. La natura della violazione dell’obbligo di motivazione
L’individuazione della natura dell’obbligo di motivazione ha posto non pochi problemi interpretativi. L’importanza di tale dibattito dottrinario e giurisprudenziale si palesa in tutta la sua consistenza se si tengono in considerazione le diverse conseguenze che scaturiscono dal ricondurre il difetto di motivazione tra le cause di nullità (art. 21 septies l. n. 241/90) o di annullabilità (art. 21 octies l. n. 241/90) del provvedimento amministrativo. Questione di peculiare rilievo a fronte degli effetti che la soluzione prescelta riversa sul tema della responsabilità civile della PA per violazione dell’art. 3 l. n. 241/90.
Si è discusso infatti, in ordine alla possibilità di ricondurre il difetto di motivazione nell’alveo degli elementi essenziali del provvedimento, mancanza sanzionabile a titolo di nullità (art. 21 septies l. n. 241/90), oppure tra i vizi di validità dello stesso, passibili di determinare la annullabilità del provvedimento ( art. 21 octies l. n. 241/90).
L’art. 21 septies, l. n. 241/90, codifica i vizi idonei a determinare la nullità dei provvedimenti amministrativi. Significativo è il richiamo alla “mancanza degli elementi essenziali del provvedimento” che l’art. 21 septies, comma 1, l.n. 241/90., annovera tra l cause di nullità dello stesso. La norma infatti, sembra richiamare implicitamente la disciplina dettata dall’art. 1418 comma 2 c.c., discostandosene però in parte, stante la mancata esplicazione degli elementi da far rientrare in tale categoria; compito lasciato all’interprete.
Tale lacuna normativa, dunque, ha portato la giurisprudenza e la dottrina ad interrogarsi sulla possibile riconducibilità del difetto di motivazione tra gli elementi essenziali del provvedimento amministrativo (art. 21 septies l. n. 241/90).
La dottrina minoritaria, in particolare, ritiene che la motivazione sia un elemento essenziale del provvedimento, cosicché la sua mancanza sarebbe idonea a determinare la nullità dell’atto impugnato.
La dottrina maggioritaria, invece, non ricomprende la motivazione nell’alveo elementi essenziali del provvedimento, ma piuttosto tra i requisiti strutturali di validità dello stesso; violazione idonea a determinare a sua annullabilità (art. 21 octies l. n. 241/90).
Individuata la natura della motivazione, quale requisito strutturale di validità del provvedimento, un ulteriore problematica inerente all’obbligo motivazionale è quella relativa alle conseguenze di un’omessa, insufficiente e/o incongrua motivazione rispetto alla correlata validità o meno del provvedimento.
Prima dell’entrata in vigore della l. n. 241/90 non essendovi un obbligo generalizzato di motivazione tutti i vizi inerenti all’onere motivazionale venivano considerati forme di eccesso di potere.
Oggi invece, in seguito all’entrata in vigore dell’art. 3 l. n. 241/90 l’obbligo di motivazione, come già più volte evidenziato, non solo è stato sancito in via generale, ma se ne è anche perimetrato il contenuto.
Attualmente si ritiene che il difetto assoluto di motivazione, l’insufficienza della stessa, la mancata indicazione specifica degli atti oggetto di rinvio in caso di motivazione per relationem (art. 3 c3 l.n. 241/90) o la deficitaria comunicazione di un provvedimento di rigetto nelle ipotesi di cui all’art. 10bis l. n. 241/90, costituiscano una manifestazione del vizio di violazione di legge. In tutti gli altri casi, ovvero qualora la motivazione si palesi come irrazionale, illogica, contraddittoria o perplessa, si paleseranno vizi riconducibili nell’alveo dell’eccesso di potere, in quanto espressione di valutazioni di opportunità.
6. La motivazione postuma
Dal punto di vista processuale una tematica ancora oggi oggetto di dibattito è quella inerente la possibilità per la PA di integrare il contenuto della motivazione in iudicio. Tale istituto prende il di motivazione postuma.
Chiarito che il difetto di motivazione è annoverabile tra le ipotesi di annullabilità del provvedimento amministrativo, è bene specificare se questo si traduca, poi, in un vizio formale o sostanziale. Solo nel primo caso infatti, troverà applicazione la disposizione di cui all’art. 21 octies c2 l. n. 241/90. Norma che prevede la non annullabilità del provvedimento amministrativo inficiato da vizi formali ove il suo scopo sia stato comunque raggiunto.
Sul punto sono emerse due differenti impostazioni.
Secondo un primo orientamento non sarebbe possibile procedere ad una sanatoria ex post del difetto di motivazione, in quanto il processo amministrativo, avendo carattere impugnatorio, non consentirebbe di ampliare l’oggetto della sua indagine ad elementi sopravvenuti rispetto al provvedimento oggetto del ricorso.
Per altro orientamento invece, oggi maggiormente seguito in giurisprudenza, l’amministrazione potrebbe integrare ex post la motivazione del provvedimento impugnato presentando, in corso di giudizio, le ulteriori circostanze che ostano all’accoglimento della pretesa formulata dal ricorrente, sebbene solo al verificarsi di determinate circostanze.
Secondo tale impostazione infatti, si assisterebbe ad una dequotazione del vizio di motivazione, stante la possibilità di integrare la stessa in corso di giudizio, nel caso in cui non sia stato leso il diritto di difesa del ricorrente, o anche quando, durante l’iter infra-procedimentale, sia possibile comunque dedurre le ragioni che hanno portato all’emanazione del provvedimento impugnato oltreché nei casi di atti vincolati.
Il processo amministrativo, infatti, passando da processo sull’atto a processo sul rapporto, consente al giudice di verificare la fondatezza delle aspettative e delle pretese del privato ricorrente, non limitando più il suo sindacato alla semplice verifica della legittimità formale dell’atto. Il giudice amministrativo infatti, vede un ampliamento delle ipotesi in cui può conoscere il merito della controversia, sempre che ciò non determini un’elisione del diritto di difesa. Dunque, se il processo amministrativo consente di valutare la fondatezza della pretesa, correlativamente è ben possibile riconoscere alla PA la possibilità di integrare ex post la motivazione per spiegare le ragioni che l’hanno portata ad adottare l’atto, poi impugnato. Tale integrazione inoltre, non può essere considerata lesiva del diritto di difesa in quanto il privato può a sua volta contestare le ulteriori motivazioni addotte dalla PA mediante l’istituto dei motivi aggiunti disciplinato dall’art. 43 c.p.a.
Il divieto di motivazione postuma, dunque, viene generalmente confermato in quanto l’obbligo di motivazione rappresenta un presidio essenziale del diritto di difesa. Si specifica, però, che in alcuni casi la PA può integrare in giudizio la motivazione dell’atto impugnato. In particolare è possibile ricorrere all’istituto della motivazione postuma, dunque, ove si tratti di un atto vincolato, qualora le ragioni del provvedimento siano già chiaramente intuibili dal provvedimento e non vi sia stata alcuna lesione del diritto di difesa.
Possibilità riconosciuta, come già evidenziato, stante la proponibilità dei motivi aggiunti( art. 43 c.p.a.). In merito il Consiglio di Stato, sez. IV, 4 marzo 2014, n. 1018, ha affermato che “devono essere attenuate le conseguenze del principio del divieto di integrazione postuma, dequotando il relativo vizio tutte le volte in cui l’omissione di motivazione successivamente esternata: non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato; nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato; nei casi di atti vincolati”.
7. La possibile conciliazione tra l’art. 21 octies c2, l. n. 241/90, e l’istituto della motivazione postuma
La problematica relativa alla possibilità di procedere ad una motivazione postuma in corso di giudizio inoltre, deve essere letta alla luce dell’art. 21 octies c2 l. n. 241/90 che codifica il principio del raggiungimento dello scopo. Tale norma in particolare, prevede che un provvedimento non possa essere annullato per violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, stante la sua natura vincolata, sia palese che il contenuto dispositivo dello stesso non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Recentemente, infatti, la dottrina si è interrogata sulla possibile applicazione dell’art. 21 octies, comma 2, l. n. 241/90 nei casi in cui si palesi un deficitario apparato motivazionale.
Per offrire una risposta a tale interrogativo è bene chiarire se l’obbligo di motivazione (art. 3 l. n. 241/90) sia una norma sul procedimento o sulla forma degli atti. Solo in quest’ultimo caso infatti, il principio del raggiungimento dello scopo, codificato dall’art. 21 octies, comma 2, l. n. 241/90, potrebbe trovare applicazione.
L’art. 21 octies, comma 2, l. n. 241/90, infatti, preclude al giudice amministrativo la possibilità di annullare un provvedimento che, pur illegittimo per vizi di natura formale, non avrebbe comunque potuto essere contenutisticamente diverso.
Considerando la motivazione come un requisito meramente formale dell’atto si potrebbe ammettere l’integrazione postuma della motivazione ed escludere l’annullamento del provvedimento affetto da vizio per violazione di legge (art. 3 l. n. 241/90), ove il GA abbia accertato che, anche in assenza del difetto di motivazione, il contenuto dispositivo dell’atto impugnato non avrebbe potuto essere differente. A fronte dell’integrazione postuma della motivazione il privato potrebbe addure ulteriori profili di illegittimità attraverso lo strumento dei motivi aggiunti (art. 43 c.p.a.). In tal modo verrebbe integrato il contraddittorio sulle deduzioni dell’amministrazione e ampliato l’oggetto del processo. L’assimilazione del difetto di motivazione ad un vizio formale determinerebbe come conseguenza l’impossibilità per il privato di ottenere l’annullamento dell’atto, operando il meccanismo previsto dall’art. 21, comma 2, l. n. 241/90. A questo punto, quindi, è bene chiarire l’illegittimità del provvedimento, potrebbe tuttavia determinare il riconoscimento di una responsabilità civile in capo alla PA, con conseguente diritto al risarcimento del danno per il privato.
Ad oggi la responsabilità amministrativa per attività provvedimentale illegittima è assimilata al modello di responsabilità extracontrattuale (cd aquiliana) ex art. 2043 c.c.. Si ritiene, pertanto, che ai fini della tutela risarcitoria il privato debba dimostrare in iudicio sia l’illegittimità del provvedimento amministrativo che la positiva spettanza del bene della vita che il soggetto vorrebbe ottenere o conservare. Il giudice amministrativo, dunque, è dovrà effettuare una valutazione prognostica per stabilire se sia ravvisabile un nesso di causalità tra il provvedimento illegittimo e il danno patito dal privato. Ergo, ove il giudice dovesse ritenere che, anche a fronte di un provvedimento legittimo, comunque il privato non avrebbe avuto diritto ad ottenere o conservare il bene, il danno lamentato dal privato non sarebbe passibile di risarcimento.
Di conseguenza, volendo annoverare il difetto di motivazione tra i vizi di natura meramente formale, dal combinato disposto degli artt. 3 e 21 octies, comma 2, l. n. 241/90, si dovrebbe evincere che non sarebbe identificabile alcuna responsabilità in capo alla PA ove il giudice dovesse ritenere che il contenuto dispositivo dell’atto impugnato non sarebbe stato, in ogni caso, diverso; neanche in presenza di un solido apparato motivazionale. Trattandosi di un’illegittimità non invalidante, dunque, il privato, verrebbe ad essere sprovvisto di tutela. Una simile ricostruzione, tuttavia, finirebbe per collidere con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, art. 113 Cost., e con il diritto di difesa, art. 24 Cost.
La dottrina, pertanto, ha ritenuto di ampliare la portata concettuale di “danno ingiusto”. In particolare, si è ritenuto che la lesione di interessi procedimentali non meramente strumentali, ma garanti di interessi di natura sostanziale, sarebbe atta a rientrare nel concetto di “danno ingiusto”; fattore dal quale deriverebbe la sua eventuale risarcibilità.
Attualmente, l’obbligo di motivazione, inoltre, essendo espressione dei valori costituzionali codificati dagli artt. 24, 97 e 113 Cost., è considerato un imprescindibile presidio posto a tutela di interessi di natura sostanziale. Ove violato, pertanto, sarebbe idoneo a ingenerare un danno ingiusto anche a prescindere dal positivo riscontro sulla spettanza del bene della vita. L’obbligo di motivazione, così, viene riconosciuto quale vizio di natura sostanziale, e non formale; fattore dal quale deriva l’impossibilità di compensarlo attraverso l’applicazione dell’art. 21 octies, comma 2, l. n. 241/90.
Si ribadisce, tuttavia, che secondo la giurisprudenza, sebbene difetto di motivazione abbia valore sostanziale, sia possibile ricorrere all’istituto della motivazione postuma nelle ipotesi evidenziate (Consiglio di Stato, sez. IV, 4 marzo 2014, n. 1018).
8. Rilievi conclusivi
In conclusione, si evidenzia che il difetto di motivazione è un vizio di natura sostanziale, al quale pertanto non può essere applicata la disciplina prevista dall’art. 21 octies comma 2 l. n. 241/90, norma utilizzabile solo in presenza di vizi meramente formali. Fattore da cui deriva, qualora l’amministrazione sia ritenuta responsabile, la sua risarcibilità, se rispettati i criteri dettati per la responsabilità aquiliana. Riconosciuta la natura extracontrattuale della responsabilità della PA dunque, è prevista una tutela risarcitoria in caso di provvedimento viziato da difetto di motivazione qualora il privato abbia subito un danno ingiusto, sussista il nesso di causalità tra il danno patito e l’agere amministrativo e, infine, il danno ingiusto sia attribuibile alla PA a titolo di dolo o colpa. Si precisa, infine, che in caso di accertata responsabilità colposa della PA l’entità del risarcimento dovrebbe essere differentemente modulata a seconda che il contenuto del provvedimento viziato da carente motivazione sia corretto o meno. Come evidenziato, infatti, anche qualora il contenuto del provvedimento viziato non sarebbe potuto essere diverso, stante la sua natura sostanziale, la violazione dell’obbligo di motivazione sarebbe comunque risarcibile, sebbene in misura minore.
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