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Pubbl. Sab, 6 Ott 2018

Il riparto di giurisdizione e l´art. 133 c.p.a.

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Simone Petrone


Criteri di regolamentazione ed eccezione nel riparto di giurisdizione art. 133 c.p.a. e requisiti necessari affinché l’interessa legittimo assuma rilievo.


Sommario: 1. Premessa; 2. Criteri di regolamentazione del riparto; 3. Eccezione nel riparto di giurisdizione; 4. L'art. 133 c.p.a.; 5. Carenza e cattivo uso del potere; 5.1. Primo requisito: esistenza di una P.A.; 5.2. Secondo e terzo requisito: il potere pubblico.

1. Premessa

Il problema del riparto di giurisdizione è sorto nel 1889 con la differenziazione tra i diritti soggettivi, devoluti al giudice ordinario e gli “altri affari” di competenza della quarta sezione del Consiglio di Stato.

L’organo deputato a risolvere conflitti relativi al riparto di giurisdizione è stato per molto tempo il Consiglio di Stato, sostituito poi dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite. Oggi, gli artt. 111 della Costituzione, 110 del codice di procedura amministrativa e la corrispondente normativa di natura processuale civilistica, devolvono alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione la risoluzione delle controversie relative alla giurisdizione tra Giudice Amministrativo e Giudice Ordinario. Ne deriva che sentenze dei giudici speciali di ultimo grado – Corte dei Conti e Consiglio di Stato – sono impugnabili in Cassazione solo per motivi inerenti alla giurisdizione.

Si tratta di sentenze definitive e quindi non sindacabili sotto il profilo del merito, perché il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti sono giudici nomofilattici, sono ultimo grado per quanto riguarda l’applicazione della legge al caso di specie. Sono, quindi, sentenze sottoponibili al sindacato della Corte di Cassazione solo quando vìolino le leggi inerenti ai limiti della giurisdizione e al riparto tra giudice amministrativo  e giudice ordinario. La Cassazione perciò, sindaca le questioni di riparto e relative ai limiti interni ed esterni del giudice amministrativo.

Detto questo, possiamo passare all’esame di due tipi di riparto: il riparto ordinario è quello per materia.

2. Criteri di regolamentazione del riparto

I criteri sono due, c’è una regola ed una eccezione. Tale regole sono enunciate in tre norme che occorre far dialogare tra loro, ossia l’art. 7 c.p.a., l’art. 133 del c.p.a. e l’art. 103 della Costituzione.

I dettati normativi di questi articoli affermano che il riparto ordinario è basato sulla causa petendi, ossia il giudice ordinario conosce questioni relative alla tutela di diritti soggettivi, il giudice amministrativo conosce questioni relative a interessi legittimi.

L’eccezione è invece quella del riparto per materia, ossia quel livello di riparto nel quale il criterio discriminante è l’appartenenza o meno di una controversa ad una determinata materia, indipendentemente dalle situazioni soggettive.

Perciò, mentre nel riparto ordinario il problema che ha l’interprete è della decodificazione di cos’è l’interesse legittimo, nel riparto per materie il problema per l’interprete è quello della circoscrizione della materia, ossia dell’enucleazione dei confini della materia, cioè la controversia andrà al giudice amministrativo se apparterrà alla materia come definita dalla legge e come interpretata dal giudice.

La regola e l’eccezione sono enunciate dall’art. 103 Cost., che recita “il Consiglio di Stato ha giurisdizione per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione degli interessi legittimi” (regola).

L’eccezione, invece: “e in particolari materie indicate dalla legge anche dei diritti soggettivi” (eccezione).

Prima di analizzare come i due criteri sono stati applicati, è opportuno fare un’analisi etimologica della norma: sono due i concetti su cui porre l’attenzione, il termine “tutela” e la frase “nei confronti della pubblica amministrazione”.

Il lemma “tutela” è molto importante ed è stata analizzata bene nelle sentenze della Corte Cost. n. 204/2004 e 140/2007, in quanto, la terminologia “tutela”, evidenza in modo ampio che alla fine del riparto ha importanza la posizione lesa, non quella fatta valere in giudizio; quella a monte e non a valle, che nasce in via strumentale per rimediare alla lesione.

La centralità della parola “tutela” fa capire come bisogna far riferimento alla posizione lesa, alla posizione tutelata, non a quella che si fa valere in giudizio.

Non alla pretesa che nasce dopo (come conseguenza) della lesione, ma quella lesa.  Un’applicazione più chiara dell’esempio della posizione sostanzialmente da tutelare si ricava in tema di risarcimento di interesse legittimo.

Quando si subisce la lesione di un interesse legittimo, si agisce davanti al giudice facendo valere sia un diritto soggettivo che un interesse legittimo. Ai sensi dell’art. 1173 del c.c., infatti, fa nascere nei confronti del danneggiato il diritto di credito a vedersi risarcito il danno. E quindi chi chiede il danno da interesse legittimo fa valere il diritto di credito al risarcimento del danno nascente dalla lesione dell’interesse legittimo. E quindi, cosa conta, il diritto di credito o l’interesse legittimo?

La soluzione data dalla Consulta è quella per la quale, l’art. 103 della Costituzione dà importanza al dato sostanziale, non a quello strumentale, dà rilevanza alla posizione lesa, e non a quella nascente a seguito della lesione.

Concepisce il risarcimento del danno, quindi, non come pretesa autonoma ma come tecnica di tutela dell’interesse legittimo. Se fosse diversamente si verificherebbe l’assurdo che in caso di provvedimento illegittimo dannoso il cittadino dovrebbe far valere l’illegittimità di fronte al giudice amministrativo e il risarcimento di fronte al giudice ordinario.  Tale profilo non è ammesso, perché la Costituzione ha adottato un sistema che dà rilievo alla sostanza del rapporto.

A questo punto occorre analizzare la frase “per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione”: è un’espressione che indica come il giudice deve giudicare l’operato della P. A. e quindi, necessariamente, la controparte del processo amministrativo deve essere necessariamente la Pubblica Amministrazione. Quanto affermato è coerente con la funzione del g.a. che è un giudice del potere pubblico e si differenza da quello ordinario perché giudica l’operato della p.a. che agisca con un potere pubblicistico. Non a caso l’art. 34 c.p.a. esclude la possibilità che il giudice si pronunci quando non vi sia stato l’esercizio di un potere pubblico.

Peraltro, tale idea secondo la quale il g.a. deve essere invocato quando si agisce nei confronti della P.A. è un’idea da alcuni criticata con riferimento a quelle materie esclusive, specialmente attinenti a quelle materie in cui alla P.A. sono affidati rapporti sinallagmatici, rapporti che sembra impossibile devolvere al g.a. in senso unico: pensiamo agli accordi ex art. 11 L. 241/90, che sono devoluti alla giurisdizione del g.a. in modo esclusivo. Appare logico che di fronte ad accordi che prevedano obbligazioni corrispettive il giudice conosca quelle controversie in cui sia il privato a lamentarsi del comportamento della P.A. e non conosca quelle in cui sia la P.A. a lamentarsi del comportamento del privato. Sembra incoerente con una giurisdizione esclusiva. Quindi bisognerebbe interpretare – secondo una parte della dottrina - in modo innovativo questa norma e quindi consentire al giudice di conoscere anche il diverso segmento della materia e cioè anche i casi in cui sia la P.A. a lamentarsi del comportamento del privato. Nella dispensa (TAR Lecce – configurabilità di procedimento a parti invertite).

3. Eccezione nel riparto di giurisdizione

L'art. 103 Cost. comma secondo: “e in particolari materie indicate dalla legge anche dei diritti soggettivi”.

Questo significa che la legge che è delegata ad individuare le materie in cui il g.a. può conoscere anche dei diritti soggettivi non ha una delega in bianco, non può scegliere qualsiasi materie, ma deve scegliere materie caratterizzate da una qualità, da una particolarità.

Ma in che senso deve essere particolare? Particolare nel senso che deve trattarsi di una materia prevalentemente pubblicistica, in cui la P.A. agisce prevalentemente come autorità, in cui il privato è titolare prevalentemente di un interesse legittimo. E quindi una materia che al 99% spetterebbe al G.A. comunque, in base anche al riparto ordinario. E qui c’è un’importante pronuncia n. 204/2004 Cost. che chiarisce come l’attribuzione si giustifica perché c’è l’esercizio di un potere pubblicistico. E quindi se è vero che in base al criterio ordinario v’è attribuzione al g.a. perché v’è l’esercizio di un potere, non è meno vero che anche nelle materie esclusive deve valere il sistema delle tutele, e quindi la giurisdizione spetta al g.a.

Lo sarà solo se la materia è formata in modo tale che la P.A. agisca in quel campo essenzialmente con potere pubblicistico. Ne deriva quindi che la materia esclusiva altro non è che un criterio di completamento marginale di una materia che sarebbe comunque – in linea di massima – di pertinenza del giudice amministrativo.

Si attribuisce alla competenza del g.a. che al 99% già conoscerebbe quella materia anche l’1% di attività privatistica che la P.A. esercita in una materia essenzialmente pubblicistica. Non avrebbe alcuna ratio una norma che attribuisca al g.a., invece, una controversia completamente privatistica.

Al contrario, al g.o. non si possono attribuire controversie pubblicistiche.

I canoni costituzionali contenuti nell’art. 103 Cost. sono riproposti dall’art. 7 del c.p.a. che riproduce lo stesso concetto, è necessario aggiungere però che questa norma, nel parlare del riparto ordinario, supera l’idea “atto-centrica” del potere amministrativo.

Il potere si esercita solo con il provvedimento, si chiarisce al contrario che il giudice amministrativo conosce le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi che riguardano l’esercizio o il mancato esercizio del potere. Anche l’omissione del potere è esercizio del potere e come tale conosciuto dal giudice amministrativo.

Anche gli accordi, sono sottoposti al giudice amministrativo.

Viene posto poi un accento sul “comportamento della P.A.”.

4. L'art. 133 c.p.a.

Il dettato normativo di questa disposizione elenca le materie di giurisdizione esclusiva: si tratta di più di 30 materie.

La regola ordinaria è basata sulla causa petendi che si articola sulla dicotomia carenza/cattivo uso del potere.

Il criterio della causa petendi sta a significare che la ripartizione tra le due giurisdizioni dipende dalla consistenza sostanziale della posizione soggettiva in base alla qualificazione dell’ordinamento giuridico. Importante soprattutto che si ponga l’attenzione riguardo la parola sostanziale e non processuale ed al concetto di ordinamento giuridico e non scelta volontaria. Ciò significa che spetta alle leggi decidere se in una certa materia ci sono o meno interessi legittimi, quindi, il concetto di interesse legittimo dipende dalla qualificazione sostanziale della posizione da parte del legislatore, dipende se in quella materia la legge dà o meno potere alla P.A. 

Rispetto a questo criterio, cioè alla natura sostanziale della posizione, sono totalmente irrilevanti le scelte processuali e le valutazioni personali di chi si pone in giudizio. Bisogna poi considerare che le norme sul riparto sono norme imperative e non sono derogabili dalle scelte processuali con cui le parti vogliano rivolgersi ad un giudice diverso da quello che la legge deputa alla soluzione di quella controversia; non è quindi condivisibile la tesi del petitum formale, non è accettabile la tesi della prospettazione né quella della connessione: cos’hanno in comune queste tre tesi, rispettivamente in voga negli anni 30, negli 40 e negli anni 90?

Hanno in comune l’idea del “forum shopping”, del giudice preferito dalle parti, l’idea per cui il giudice non dipende dalla natura della posizione, ma da come viene considerata dalle parti. Tali tesi sono incompatibili con il riparto perché lo stesso viene basato sulla natura sostanziale della posizione alla luce della disciplina imposta dalla legge, di quel rapporto e di quella situazione. Ne deriva di conseguenza che non è accettabile il petitum formale, che ritiene la stessa posizione conoscibile da due giudici (es. nel caso del risarcimento del danno da interesse legittimo).

La nascita di questa tesi si basava sulla necessaria diversità del giudice nel caso di risarcimento di interesse legittimo, ragione che è venuta meno allorquando si è riconosciuta la risarcibilità dell’interesse legittimo e la competenza del giudice amministrativo.

Stesso discorso vale per la tesi della prospettazione, nascente dalla teoria per la quale è all’esito del giudizio che si può capire che natura abbia l’azione esercitata dal soggetto, quindi la qualificazione era quella che faceva la parte. Il giudice, ovviamente, non può prendere atto della posizione così come offerta dalla parte, ma deve controllarne la corrispondenza alla legge e alle regole sulla giurisdizione.

Stesso discorso per la connessione, dove ci si chiede se la controversia devoluta al giudice ordinario e altra controversia è devoluta al giudice amministrativo. Sarebbe poco coerente, quindi, bisognerebbe stabilire qual è il giudice che per connessione ha la giurisdizione.

Le Sezioni Unite si sono pronunciate in tre casi sul problema della connessione:

  1. Il caso dell’impugnazione del provvedimento di esproprio e di contestazione dell’indennità di occupazione
  2. Il caso della revoca di una concessione con problemi di carattere indennitario
  3. Il caso del pubblico impiego nei casi a cavallo del ’98 ossia quando entrò in vigore la giurisdizione del giudice ordinario.

In tutti e tre i casi la Cassazione ha operato un discorso di buon senso, ed ha chiarito come, in primo luogo la connessione non è prevista dall’art. 103 della Costituzione, che fa riferimento alla posizione sostanziale della singola controversia, in secondo luogo perché le norme sulla giurisdizione sono norme inderogabili, in terzo luogo perché si darebbe spazio al forum shopping, ed infine perché il criterio della connessione è un criterio di risoluzione di problemi interni alla giurisdizione, e non esterni. Serve cioè a risolvere i problemi di competenza della stessa giurisdizione, e non tra giurisdizioni differenti. D’altronde c’è uno spazio che la legge ha per risolvere la connessione; quando la legge si accorge che vi sono ragioni di connessione, si ricorrerà al criterio della giurisdizione esclusiva.

Un esempio in questo senso è il risarcimento del danno: perché per molto tempo qualcuno ha sostenuto che quando il tema risarcitorio è connesso a quello impugnatorio si va di fronte al giudice ordinario, perché c’è l’istituto giuridico della connessione.

Tale soluzione è sbagliata, oltre perché non considera che in base all’art. 103 Cost è importante la posizione tutelata e non quella fatta valere, anche perché non considera che la connessione è ininfluente ai fini del riparto di giurisdizione, tant’è vero che l’art. 30 c.p.a. e il 7 c.p.a. attribuiscono al g.a. la giurisdizione per le richieste di risarcimento del danno. Ne deriva che qualsiasi scelta che vada a derogare ai criteri inderogabili fissati dalla legge per il riparto di giurisdizione è contraria all’impostazione costituzionale.

5. Carenza e cattivo uso del potere

Il criterio che differenzia l’attività iure imperii/ iure proprio è obsoleto; in utile il criterio che riguarda lo scopo della norma regolativa del rapporto; infine il terzo criterio è quello che si basa sull’attività vincolata o discrezionale del potere; per cui se l’attività è vincolata c’è diritto soggettivo, se l’attività è discrezionale c’è interesse legittimo. Tale tesi mentre è corretta quando afferma che ove sussista un’attività discrezionale c’è interesse legittimo, non è vero il contrario, cioè quando c’è attività vincolata, anche in questo caso se il fine del potere non è la tutela dell’interesse privato ma la tutela di un interesse pubblico c’è comunque interesse legittimo.

Allora, il criterio che viene in gioco si basa su un’altra dicotomia, quella del “potere/non potere; carenza/ cattivo uso del potere”: ossia quella tesi che dà rilevanza al potere per individuare la posizione. Questo criterio dà rilevanza al potere per arrivare la soluzione del problema della posizione soggettiva in base all’equazione “dove c’è potere non c’è diritto” dove non c’è potere deve esserci diritto”: il giudice amministrativo è un giudice diverso dagli altri perché sindaca l’attività della amministrazione che agisca con potere pubblico; giudica quindi il potere.

Sarà quindi giurisdizione del giudice ordinario quando la P.A. agisca in assenza di potere (compie materiali attività o ponga in essere normali fatti illeciti), agisca cioè come normale cittadino: la P.A. è doppia, perché può agire sia con potere pubblico, sia come privato cittadino (in tali casi agisce in assenza di potere e vi sarà competenza del giudice ordinario).

Non basta sostenere che la P.A. ha esercitato un potere, ma bisogna capire se quell’atto era espressione del potere. Al contrario la giurisdizione del giudice amministrativo si giustifica quando l’amministrazione ha il potere e lo esercita in modo scorretto.

Quindi se il canone del riparto è la causa petendi, il criterio di tale riparto si basa sulla distinzione tra assenza/cattivo esercizio del potere pubblico, ossia il g.o. scende in campo quando l’amministrazione agisca senza potere, e il g.a. interviene quando il potere c’è ma è esercitato in modo non corretto.

L’ interesse legittimo viene d’uopo, volendo decifrare meglio questa dicotomia, quando il giudizio ha per oggetto il corretto esercizio del potere pubblico da parte di una pubblica amministrazione; c’è interesse legittimo quando il giudizio ha per oggetto il corretto esercizio di un potere pubblico da parte dei una pubblica amministrazione.

Sono necessari tre requisiti cumulativi perché l’interesse legittimo assuma rilievo:

1)  ci deve essere una pubblica amministrazione;
2)  ci deve essere un potere;
3)  questo potere deve essere pubblico.

5.1. Primo requisito: esistenza di una P.A.

Dato che il giudice amministrativo è il giudice del potere pubblico è inevitabile che questo giudice può scendere in campo solo quando c’è un soggetto deputato dalla legge all’esercizio del potere pubblico. Il potere pubblico è assoggettato al principio di legalità e quindi solo i soggetti previsti dalla legge hanno nei casi previsti dalla legge i poterei regolati dalla legge; è evidente che il principio di legalità fa sì che solo le p.a. o i soggetti considerati equiparati dalla legge hanno il potere di adottare atti o comunque esercitare potestà pubblicistiche poi contestabili in sede giurisdizionale.

Nel processo amministrativo, siccome il processo è un attacco al potere, può essere rivolto solo al soggetto che esercita il potere.

Occorre domandarsi che cosa sia un p.a. dato che prima esisteva l’idea del formalismo e una società non poteva essere organismo di diritto pubblico (es. Lottomatica);

Prima di allora, l’idea che una società potesse essere un Ente pubblico era assurda; invece nacque l’idea della società come ente pubblico.

Mentre in passato sul concetto di ente pubblico era chiara un’impostazione formalistica, viceversa sulla base della normativa comunitaria, la forma societaria è considerata neutra rispetto alla natura pubblica: nonostante la forma societaria un ente è qualificabile come pubblico quando il patrimonio sia pubblico, la finalità sia pubblica, i controlli siano pubblici e non ci sia alcuna apprezzabile autonomia rispetto all’ente pubblico socio.

D’altronde il concetto di società pubblica nasce con la normativa sugli appalti (direttive comunitarie) e queste norme non potevano che dare rilevanza a un concetto sostanziale differente dal dato formale.

Ciò in base anche al c.d. “effetto utile” della direttiva, quindi tutti i problemi interpretativi sono risolti alla luce della tutela degli scopi dell’ordinamento comunitario che tutela le libertà. E allora, quando il giudice comunitario si è posto il quesito sulla natura della Lottomatica non se l’è posto per capire se la suddetta società potesse partecipare o meno alle gare, così come accaduto per Poste, Enel, Rai. Qual è il fine perseguito dalle norme sugli appalti? Il fine di applicare le norme di evidenza pubblici ai beni pubblici, e questo fine verrebbe frustrato se il concetto di ente pubblico fosse di tipo formale. Alla fine della disciplina degli appalti non è importante la forma ma la sostanza, quindi se il soggetto privato è veicolo di un ente pubblico e il soggetto privato non ha autonomia rispetto all’ente pubblico, l’appalto va imputato all’ente pubblico. E quindi l’organismo pubblico va considerato anch’esso emanazione dell’ente pubblico.

Quindi è chiaro che la normativa comunitaria ha imposto – nel campo degli appalti e in altri campi - l’applicazione di un concetto compatibile con gli scopi della disciplina comunitaria che sono scopi che impongono una valenza sostanziale di ente pubblico che implica in questi campi la qualificazione come tale di certi enti che al di là della forma sono emanazione di ente pubblico e attività finalizzata al perseguimento di un interesse pubblico.

Ma se non esiste più il criterio formale, se la società privata fosse sempre considerata sempre ente pubblico, quindi con tutti i crismi e i controlli della società pubblica che senso avrebbe creare una società che soggiaccia agli stessi limiti degli enti pubblici?

Queste società possono essere enti pubblici, ma non in via universale, ma sempre in modo variabile in ratione materiae, si supera l’idea dell’ente pubblico universale. Le società pubbliche, ad esempio non sono enti pubblici universali, ma sono tali solo nei segmenti in cui la legge attribuisce loro natura pubblica e finalità pubblica e li equipara agli enti pubblici.

Il concetto di sostanzialità di un ente pubblico deve essere correlato al concetto di variabilità di ente pubblico: tali concetti sono inscindibili.

Gli enti pubblici sostanziali che hanno, cioè, natura societaria non possono mai essere enti pubblici universali, ma lo sono quando la legge li equipara -in base al principio di legalità e tipicità del potere pubblico – agli enti pubblici.

E’ necessaria, pertanto, una verifica case by case se la società viene investita da un potere pubblicistico.

D’altronde, ciò è chiarito dell’art 7 co. 2 c.p.a. che definisce per pubbliche amministrazione “anche i soggetti ad essa equiparati” o che seguono i principi del procedimento: quindi esistono due p.a., una in senso ontologico, e quelle di natura privatistiche che sono equiparate dalla legge agli enti pubblici, ma non sono p.a. per natura ontologica.

Un problema si è posto per la società in house (SS. UU 26283/13): hanno chiarito le SS. UU. che le in house sono soggette al controllo della Corte dei Conti e v’è responsabilità erariale dei soci.

L’in-house ha tre requisiti che sono:
- la partecipazione totalmente pubblica;
- la dedizione sostanzialmente esclusiva e quindi opera solo per conto dell’ente pubblico;
- il controllo analogo: ossia l’ente pubblico effettua sulla società controlli analoghi a quelli che esercita sui propri uffici e servizi ordinari.

La Cassazione sostiene quindi che la società in house è una società in cui manca un’autonomia apprezzabile della società rispetto al socio e si può concludere che dal punto di vista sostanziale che essa è controllata solo da quel socio, e quindi altro non è che uno strumento/ufficio del socio; c’è la formale autonomia, ma non c’è alterità sostanziale tra socio e società. La società è il socio e di conseguenza se c’è immedesimazione, il danno prodotto alla società da parte del socio è chiaramente un danno pubblico, in quanto c’è sia la soggettività pubblica sia anche la derivazione pubblica delle risorse finanziarie. Responsabilità, quindi, valutata dal giudice contabile.

Ma alla luce di questo principio delle Sezioni Unite a quale giudice bisogna rivolgersi per l’ottemperanza delle sentenze del giudice ordinario nei confronti di un ente in house?

Ai fini dell’ottemperanza, bisogna valutare case by case, ma visto che nel caso specifico si trattava di una sentenza di tipo lavoristico, attività nella quale la società in house agisce come privato, non v’è necessità di rivolgersi al giudice amministrativo.

Quindi il g.a. conosce dell’interesse legittimo non sono quando v’è un ente pubblico, ma anche un ente privato la cui attività viene dalla legge equiparata ad esercizio di potestà pubblica.

5.2. Secondo e terzo requisito: il potere pubblico.

Ai fini del potere è evidente che la P.A. interviene quando compie atti giuridici autoritativi, quando verte in una posizione di supremazia che le permette di influire unilateralmente nella sfera giuridica altrui.

Però non basta questo, è necessario che il potere sia pubblico. Perché non solo il diritto pubblico conosce posizione di supremazia o potere, ma anche il diritto privato, il quale conosce norme con la quale si dà la possibilità di interferire nella sfera giuridica altrui senza il consenso altrui.

Quando si pone il problema del riparto, quindi, non è sufficiente dire che la P.A. ha esercitato un potere, ma bisogna capire qual è il genere del potere: bisogna distinguere se il potere è dato alla p.a. sulla base di norme di diritto pubblico che la qualificano come autorità pubblica che lede interesse legittimi e che soffre i limiti del diritto pubblico; o se ci si trovi di fronte all’esercizio di diritto privatistico, con i limiti fissati dal diritto privato.

Esempi: P.A. che recede contratto (134 c.p.a), P.A. che fa uscir fuori l’occupante abusivo di bene immobile; fermo amministrativo; in tutti questi casi la Cassazione ha preferito attribuire la giurisdizione al giudice ordinario, perché ha ritenuto la P.A. agente con potere di diritto privato.

Bibliografia di riferimento

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