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Pubbl. Ven, 28 Set 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

L´espropriazione per pubblica utilità

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Paolo Del Gaudio
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Salerno


Il potere espropriativo e le sue diverse declinazioni.


Sommario: 1. Premessa 2. Le differenze tra Potere espropriativo e conformativo  3. Potere espropriativo e figure limitrofe 4. Le diverse classificazioni delle espropriazioni 5. Procedimento ordinario: l’espropriazione diretta 5.1. I vincoli preordinati all’esproprio 5.2. La dichiarazione di pubblica utilità 5.3. Decreto di esproprio 5.4. La determinazione dell’indennità di esproprio 5.4.1. Le sentenze “gemelle” della Corte Costituzionale 5.4.2. La rivalutazione monetaria. È forse giunta al termine la distinzione fra crediti di valuta e crediti di valore?  5.5. La cessione volontaria 6. L’espropriazione sostanziale e di valore 7. L’espropriazione ex lege 8. L’espropriazione a carattere sanzionatorio 9. Le espropriazioni indirette: caratteri generali 9.1. L’occupazione acquisitiva 9.2. L’occupazione usurpativa 9.3. L’occupazione sanante 10. Conclusioni.

1. Premessa

Il tema dell’espropriazione è di frequente il crocevia di molteplici interessi e questioni problematiche. Il potere amministrativo è, infatti, sempre alla ricerca di un precario equilibrio tra il perseguimento del superiore interesse pubblico e il rispetto del diritto di proprietà. Equilibrio che oggi risente delle influenze sovranazionali che, soprattutto per opera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, configurano un assetto, per così dire, “sociale” dei contrapposti interessi in gioco. D’altro canto è la nostra stessa Carta Fondamentale che all’art. 42 conferma tale dimensione pubblicistica, sancendo una funzione sociale della proprietà ed ammettendo limitazione alla stessa solo in presenza di una espressa previsione legislativa e sempre che si perseguano interessi generali[1]. Il potere espropriativo è quindi estrinsecazione della funzione sociale della proprietà che, oramai, non coincide più con il fundus optimus maximus, essendo funzionalizzata all’interesse pubblico[2]. Ulteriore conferma a livello sovranazionale si rinviene nell’art. 17 par. 1 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione, che annovera il diritto di proprietà tra i diritti fondamentali della persona che, malgrado ciò, può subire limitazioni per ragioni di pubblico interesse e con le modalità prescritte dalla legge. Difatti, anche all’interno del nostro ordinamento, il legislatore detta regole molto stringenti per consentire la compressione del diritto di proprietà, in particolar modo richiede che venga osservato un procedimento che il T.U. sull’espropriazione definisce espressamente “espropriativo”.

2. Le differenze tra potere espropriativo e conformativo

Il procedimento “espropriativo” deve essere tenuto distinto da quello “conformativo”. Quest’ultimo, infatti, non rappresenta un procedimento a carattere ablativo, dacché non sottrae al diritto di proprietà alcuna utilità riconosciuta dal legislatore. Il potere conformativo definisce il contenuto della proprietà, che conseguentemente è ab origine limitata. La dimostrazione è che questa componente genetica colpisce solo una generalità di beni e non singole categorie. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 179 del 1999, ha precisato che “sono normali e connaturati alla proprietà i limiti previsti dalla legge che attengono con carattere di generalità per tutti i consociati, e quindi, in modo obiettivo, a intere categorie di beni, e perciò interessano la generalità dei soggetti con una sottoposizione indifferenziata di essi a un particolare regime secondo le caratteristiche intrinseche del bene stesso[3]. Al contrario, caratteristica del potere espropriativo è che questo si orienta verso singoli beni o gruppi di beni specificatamente individuati, non rappresentando una qualità del bene. È, quindi, la P.A. che imprime a determinati beni una particolare destinazione attraverso la dichiarazione di pubblica utilità. Si configura, così, una netta cesura tra i due tipi di potere, quello espropriativo che realizza un effetto privativo o ablativo, comprimendo il diritto di proprietà e depurando il bene da pesi e vincoli precedentemente impressi, e quello conformativo che si limita a definire i contorni del diritto di proprietà e che - usando una espressione felice – “nasce con il corrispondente limite e con quel limite vive[4].

3. Potere espropriativo e figure limitrofe

L’espropriazione altro non è che il trasferimento coattivo della proprietà o di altro diritto reale, per ragioni di pubblico interesse, di un bene del privato alla P.A. con conseguente conversione del diritto reale dell’espropriato in un credito ad una somma di danaro a titolo di indennità[5]. L’istituto della espropriazione deve essere ricondotto al genus trasferimenti coattivi, all’interno del quale bisogna distinguerlo da altre fattispecie che pur realizzando un risultato pratico non dissimile, presentano profili di eterogeneità. Nello specifico, l’espropriazione non deve essere assimilata alla vendita forzata, in quanto, a differenza di quest’ultima, non genera una obbligazione di dare ma solo un obbligo di patì, né può essere paragonata alla confisca, essendo caratterizzata quest’ultima da un connotato sanzionatorio sconosciuto all’istituto in esame. Allo stesso modo, bisogna non confondere l’espropriazione con l’istituto della espropriazione in funzione satisfattiva per il creditore, quest’ultimo istituto trova il suo fondamento negli artt. 2740 e ss. del cod. civ., in tema di responsabilità patrimoniale, e affonda, altresì, le radici nel codice di procedura civile agli artt. 348 e ss., e si sostanzia nell’attribuzione coattiva del diritto, espressione di uno specifico potere processuale, che consiste nell’espletamento dell’azione esecutiva[6].

4. Le diverse classificazioni delle espropriazioni

Il potere ablativo è solitamente distinto in potere ablativo personale e reale, in base all’oggetto sul quale insiste. Il potere ablativo che legittima l’espropriazione è tradizionalmente attinente all’ablazione reale. Nel corso degli anni si sono fatte spazio diverse tipologie di espropriazione, ognuna con caratteristiche intrinseche proprie, ma comunque ricalcate sul procedimento ordinario dettato dal T.U., ed accomunate dall’effetto ablativo-privativo volto a sottrarre utilità al proprietario. In linea generale una prima summa divisio tra le diverse forme di espropriazione può compiersi tra quelle lecite e illecite. Ulteriore distinzione, poi, può compiersi a seconda della sussistenza dell’effetto acquisitivo da parte della P.A., oltre all’intrinseco carattere ablativo. Difatti, le espropriazioni possono distinguersi anche in traslative e non. Infine, qualora venga sanzionato un comportamento illecito del proprietario, denotando l’intenzione del legislatore di calibrare l’interesse pubblico in misura più incisiva, avremo l’espropriazione a carattere sanzionatorio.

5. Procedimento ordinario: l’espropriazione diretta

L’espropriazione è considerato il procedimento principe che consente all’Amministrazione di acquisire in via coattiva un bene appartenente ad altro soggetto. Il T.U. sull’espropriazione, il D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, delinea un procedimento espropriativo definito “ordinario”, che rappresenta l’iter fisiologico che deve seguire la P.A. per incamerare un bene appartenente ad un privato in vista della realizzazione di un’opera di pubblica utilità. Si tratta di una modalità a formazione progressiva, scandita per fasi, che parte dall’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, passa per la dichiarazione di pubblica utilità e sfocia nell’emissione del decreto di esproprio[7].

5.1. I vincoli preordinati all’esproprio

La prima fase dell’iter ordinario del procedimento espropriativo consiste nell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio. Ruolo centrale nell’apposizione del vincolo è svolto dal Piano Regolatore Generale (P.R.G.), ovvero dall’approvazione di una sua variante, che prevede la realizzazione dell’opera di pubblica utilità. L’art. 10 del T.U. sull’espropriazione sancisce che in caso di mancata previsione dell’opera pubblica  nel piano urbanistico generale, il vincolo finalizzato all’esproprio può essere disposto, ove espressamente previsto, su richiesta dell’interessato, in conformità all’art. 14, comma 6, della L. 241 del 1990, ovvero su iniziativa dell’Amministrazione competente all’approvazione del progetto, mediante una conferenza di servizi, un accordo di programma, una intesa ovvero un altro atto, anche di natura territoriale, che secondo la normativa vigente sia idoneo a costituire una variante al piano urbanistico. È pacifico che in tema di regolamentazione dell'assetto del territorio comunale e della sua trasformazione è il P.R.G. ad assumere un’importanza primaria. Ed infatti, il P.R.G è un atto complesso, di competenza comunale e assoggettato all'approvazione regionale, che racchiude norme di carattere programmatico destinate ad essere attuate per mezzo di piani attuativi e norme immediatamente precettive che generano vincoli conformativi immediatamente efficaci sulla proprietà privata. Tra le norme che lo compongono possono distinguersi le localizzazioni di future opere di urbanizzazione primaria e secondaria che introducono vincoli preordinati all'esproprio, e le zonizzazioni mediante le quali il territorio comunale viene suddiviso in zone funzionali caratterizzate da specifiche destinazioni (abitativa, agricola, industriale, di rispetto ecc.). Il P.R.G. contiene, poi, norme che specificano i criteri dell'attività edilizia. La distinzione è rilevante in quanto, mentre le zonizzazioni determinano la conformazione delle proprietà insistenti su un determinato territorio in via generale ed astratta, rispondono alla funzione di cui all'art. 42 Cost., secondo comma, non legittimano alcuna pretesa indennitaria e sono a tempo indeterminato, le localizzazioni determinano vincoli preordinati all'espropriazione, azzerano il contenuto del diritto di proprietà, sono funzionalizzate ad una successiva procedura espropriativa, hanno durata quinquennale, possono essere reiterate solo previo indennizzo e se la reiterazione del vincolo sia adeguatamente motivata. La Corte Costituzionale, con sentenza n 179 del 1999, haavuto modo di precisare che lo stesso regime dei vincoli preordinati all'esproprio debba applicarsi anche ai vincoli che abbiano carattere sostanzialmente espropriativo nel senso di comportare un rilevante prosciugamento del contenuto della proprietà. Sempre secondo i chiarimenti forniti dalla Consulta, peraltro, non costituiscono vincoli sostanzialmente espropriativi quelli che destinano determinati fondi ad attività realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua pubblico privata (ad es. parcheggi, impianti sportivi, parcheggi). Nondimeno costituiscono vincoli espropriativi quelli che, pur comprimendo l'edificabilità, dipendono, in via generale ed astratta, dalle caratteristiche intrinseche del fondo (si pensi ai vincoli ambientali paesistici).

Sotto il profilo storico, val la pena ricordare come le localizzazioni comportanti i vincoli preordinati all'espropriazione fossero, originariamente, previste senza limite temporale dall'art. 7 della legge urbanistica n. 1150 del 1942, come, con sentenza n. 55 del 29 maggio 1968 della Corte Costituzionale, l'art. 7 fosse stato dichiarato illegittimo nella parte in cui permetteva la perpetuità del vincolo senza la previsione di un indennizzo e come, infine, l'art. 2 della L. n. 1187 del 1968 avesse previsto che i vincoli preordinati all'esproprio avessero un termine di efficacia di cinque anni e come la sentenza n. 179 del 1999 della Consulta, con riferimento alla prassi invalsa, da parte delle amministrazioni comunali, di reiterare i vincoli attraverso l'approvazione di varianti del P.R.G. avesse dichiarato l'illegittimità dell'art. 2 della L. n. 1187 del 1968 nella parte in cui consentiva tale reiterazione senza imporre il pagamento dell'indennizzo. Talvolta accadeva, infatti, che l’Amministrazione procedeva a reiterare i vincoli espropriativi scaduti. Sul punto il Consiglio di Stato, con una sentenza del 2013, la n. 1465[8], ha precisato che il potere dell’Amministrazione comunale di disporre la reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti per effetto del decorso del tempo permaneva anche qualora fosse trascorso un consistente lasso temporale. L’infruttuoso decorso del termine, sebbene non incideva sull’esistenza del potere espropriativo, risultava essere comunque rilevante circa le modalità di attuazione dello stesso.

Nel solco tracciato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale[9], la giurisprudenza più recente, poi, non ha mancato di precisare che il principio per il quale è legittima la reiterazione del vincolo deve essere inevitabilmente coordinato e coniugato con la sussistenza di due ulteriori condizioni, per un verso che “l’accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell’indennità di espropriazione è condizione di legittimità del provvedimento di reiterazione dei vincoli scaduti ai sensi dell’art. 2 della L. 1187 del 1968, sebbene puntualmente motivato e giustificato da un evidente interesse pubblico[10], per altro verso si sottolinea la necessità, nella reiterazione dei vincoli scaduti,  di svolgere una specifica e concreta indagine relativa alle singole aree, finalizzata a modulare e considerare le differenti esigenze, pubbliche e private,  giacché l’Amministrazione, nel reiterare i vincoli scaduti, è tenuta a verificare che l’interesse pubblico, che aveva legittimato l’apposizione dell’originario vincolo, sia ancora attuale e non soddisfacibile con soluzioni alternative, e deve indicare le concrete modalità di attuazione dello stesso, nonché disporre l’accantonamento delle somme necessarie per pagare l’indennità di espropriazione. La necessità di motivare puntualmente, con riguardo alla reiterazione dei vincoli scaduti, sussiste anche laddove la reiterazione sia disposta con approvazione di variante generale al piano regolatore generale[11]. È opportuno rilevare che altra parte della giurisprudenza amministrativa è di contrario avviso. Infatti, secondo questo orientamento, il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario nella ipotesi di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio ex art. 39, comma 1, del D.P.R. n. 327 del 2001, non rileva ai fini della legittimità del provvedimento con il quale si dispone la reiterazione, giacché i profili inerenti alla spettanza dell’indennizzo al proprietario attengono all’ambito patrimoniale devoluto alla cognizione della giurisdizione ordinaria[12]. A conferma di tale orientamento si registra la pronuncia del Consiglio di Stato, riunito in Adunanza Plenaria, la n. 7 del 2007, che, cogliendo l’occasione per precisare ulteriormente le condizioni per il legittimo esercizio del potere di reiterazione del vincolo, ha precisato che la reiterazione del vincolo espropriativo necessita di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che escluda il contenuto vessatorio o ingiusto dei relativi atti, dovendo “l’Amministrazione evidenziare l’attualità dell’interesse pubblico da soddisfare, in quanto, si va ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio”.

I vincoli preordinati all'esproprio mantengono la loro efficacia per la durata di cinque anni, durante i quali può essere adottato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera. In mancanza, decorso il termine quinquennale, il vincolo preordinato all'esproprio perde efficacia ma può essere reiterato mediante una variante di piano o con un nuovo strumento urbanistico. In ipotesi di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio, il proprietario ha il diritto a un'indennità commisurata al danno effettivamente prodotto in relazione alle condizioni del bene ed alla sua utilità al momento della reiterazione del vincolo.

5.2. La dichiarazione di pubblica utilità

La seconda fase del procedimento di esproprio è costituita dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, che deve essere emanata prima della scadenza del vincolo preordinato all’esproprio e che costituisce sostanza e fondamento del potere espropriativo. In passato, la Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha chiarito il rapporto che lega la dichiarazione di pubblica utilità e il trasferimento coattivo, definendolo un “rapporto di implicazione logica e giuridica[13]. La dichiarazione di pubblica utilità dell’opera cristallizza, in un documento formale, quello che è l’interesse pubblico che giustifica il sacrificio del diritto di proprietà del privato, ed al contempo rispetta i dettami costituzionali che impongono, all’art. 42 Cost., una limitazione della stessa solo in presenza di motivi di interesse generale. Altra ricaduta pratica della norma costituzionale è la inderogabile esigenza, normativamente sancita sia nel T.U che nella Legge Fondamentale (L. n. 2359 del 1865), che fin dal primo atto della procedura espropriativa debbono risultare definiti non soltanto l’oggetto, ma anche le finalità, i mezzi e i tempi di essa. Impostazione confermata anche dalle pronunce della Consulta[14], nonché dalla giurisprudenza di legittimità[15], che hanno qualificato la dichiarazione di pubblica utilità “la guarentigia prima e fondamentale del cittadino e nel contempo la ragione giustificatrice del suo sacrificio nel bilanciamento degli interessi del proprietario alla restituzione dell’immobile ed in quello pubblico al mantenimento dell’opera pubblica per la funzione sociale della proprietà”. Conseguentemente, la mancanza della preventiva dichiarazione di pubblica utilità implica il difetto di potere dell’amministrazione nel procedere all’espropriazione[16]. La norma costituzionale impone, pertanto, che i motivi di interesse generale idonei a giustificare l’ingerenza pubblica siano predeterminati da una disposizione legislativa ed emergano da un procedimento, all’uopo predisposto dall’Amministrazione, che abbia i caratteri della autonomia e della strumentalità rispetto al successivo procedimento espropriativo stricto sensu, nel quale l’Amministrazione programma un nuovo bene giuridico destinato a soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale e concreto. La Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare ulteriormente che “la preventiva emersione dei motivi d’interesse generale non costituisce, conclusivamente, semplice regola procedimentale disponibile dal legislatore, ma specifica garanzia costituzionale strumentale alla tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra l’imponente giurisprudenza, soprattutto amministrativa, secondo la quale la dichiarazione di pubblica utilità non è un semplice atto prodromico con l’esclusivo effetto di condizionare la legittimità del provvedimento finale d’espropriazione ed impugnabile quindi solo congiuntamente a quest’ultimo, bensì un provvedimento autonomo, idoneo a determinare immediati effetti lesivi nella sfera giuridica dei terzi. I quali si riflettono necessariamente sul piano della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo all’espropriando di partecipare alla fase antecedente alla sua adozione, e quindi di contestarlo sin dal primo momento del suo farsi, coincidente con l’emersione dei motivi d'interesse generale[17]”.

Sotto il profilo storico, la prima legge che ha disciplinato il procedimento di espropriazione per P.U. è stata la L. 2359 del 1865, in cui l'espropriazione era di competenza statale e, in particolare, del Prefetto. All'epoca non esistevano i piani regolatori. La prima fase del procedimento d'espropriazione era la dichiarazione di pubblica utilità dell'area, insita nella manifestazione della volontà di realizzare l'opera pubblica unitamente alla constatazione dell'insussistenza della proprietà pubblica. A mente dell'art. 13 della L. n. 2359 del 1865, dovevano essere indicate, con la dichiarazione di pubblica utilità, la data di inizio e la data di fine dei lavori e la data di inizio e di fine della procedura espropriativa. Successivamente doveva essere proposto all'interessato l'acquisto dell'area per il “giusto prezzo”. Proposta e depositata la somma, la P.A. emetteva il decreto di esproprio.

5.3. Decreto di esproprio

La fisiologica conclusione dell’iter espropriativo è l’emanazione del decreto di esproprio. Il termine entro il quale deve essere emanato il decreto di esproprio può essere espressamente sancito nel provvedimento o in mancanza si applica il termine di cinque anni decorrente dalla data in cui diventa efficace l’atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera. È consentita la proroga dei termini per casi di forza maggiore oppure per giustificate ragioni, sempre che venga disposta prima della scadenza del termine originariamente previsto e per un periodo di tempo non superiore a due anni. Con il decreto di esproprio si realizza il passaggio del diritto di proprietà o di altro diritto reale oggetto di espropriazione, sotto la condizione sospensiva, che il medesimo decreto sia successivamente notificato ed eseguito, mediante la immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio (cfr. art. 23, lett. f e h).

5.4. La determinazione dell’indennità di esproprio

Al procedimento espropriativo, sopra descritto, deve aggiungersi la fase  della determinazione e liquidazione dell’indennità di esproprio, che costituisce elemento imprescindibile per la naturale conclusione del procedimento espropriativo, sebbene la giurisprudenza amministrativa maggioritaria sostenga che né l’avvenuta effettiva corresponsione dell’indennità di espropriazione e neppure la previa determinazione dell’indennità definitiva rappresentino la condicio sine qua non ai fini della valutazione di validità e legittimità del decreto di esproprio. Pertanto, la mancata previsione, nel quadro finanziario dell’opera da eseguire, della giusta indennità di esproprio e la dedotta insufficienza della indennità provvisoria offerta dal concessionario dei lavori, non costituiscono vizio invalidante dell’intera procedura ablatoria[18].    

Una volta divenuto efficace l’atto che sancisce la pubblica utilità di un’opera, nei successivi 30 giorni il promotore della procedura espropriativa redige un elenco dei beni da espropriare, allegando una descrizione sommaria degli stessi, indicando i rispettivi proprietari e le somme che intende offrire loro. L’elenco va notificato a ciascun proprietario, con specifica indicazione di quanto concerne la sua posizione, secondo le modalità all’uopo predisposte dal codice di procedura civile. Gli interessati possono presentare osservazioni che devono essere valutate dall’autorità espropriante, la quale, una volta accertato il valore dell’area, determina in via provvisoria la misura della indennità di espropriazione. L’atto con il quale viene quantificata la suddetta indennità deve essere notificato al proprietario e al beneficiario dell’esproprio, se diverso dall’autorità procedente, nel rispetto delle formalità previste per la notifica degli atti processuali civili. Nella ipotesi in cui il proprietario non accetti l’indennità determinata dalla Amministrazione, perché ritenuta non congrua, l’autorità espropriante, in alternativa alla cessione volontaria, può procedere all’emissione e all’esecuzione del decreto di esproprio, previa determinazione della indennità ex artt. 32 e ss del T.U. e previo deposito della somma così determinata presso la Cassa depositi e prestiti Spa. Effettuato il deposito, l’autorità espropriante può emettere ed eseguire il decreto conclusivo della procedura espropriativa.

Pertanto, l'indennizzo per l'esproprio subito costituisce presupposto di legittimità del provvedimento di espropriazione, sia a mente dell'art. 42 Cost, sia in base a ciò che dispone l'art. 834 c.c. che, con riferimento alla sua concreta quantificazione, soggiunge che tale indennizzo deve essere giusto. L'indennizzo per l'esproprio deve poi essere unico e spetta unicamente al titolare del diritto di proprietà o, in caso di costituzione del diritto enfiteutico, all'enfiteuta (i titolari di diritti reali minori potranno far valere i loro diritti sull'indennizzo riconosciuto al proprietario). Naturalmente, ove oggetto dell'espropriazione sia un diritto reale minore, l'indennizzo spetterà al titolare di quest'ultimo. L'importo dell'indennizzo per l'esproprio di aree edificabili era, sino alle sentenze n. 348 e 349 della Corte Costituzionale del 24 ottobre 2007, fissato dall'art. 5 bis del D.L. n. 333 del 1992 (riprodotto nell'art. 37 del T.U. in materia espropriativa) e, cioè, pari alla semisomma ridotta del 40% del valore venale del bene e del suo reddito dominicale rivalutato e moltiplicato per dieci. Tale importo era considerevolmente più basso rispetto al valore di mercato dell'area e tale difformità è stata oggetto di giudizio d'illegittimità costituzionale da parte della Consulta con le riferite sentenze.

5.4.1. Le sentenze “gemelle” della Corte Costituzionale

Con le due sopracitate sentenze, la n. 348 e la n. 349, rese il 24 ottobre 2007, la Corte Costituzionale si è nuovamente pronunciata sulla materia espropriativa, censurando nitidamente i criteri normativi adottati per la determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili e del risarcimento per occupazione acquisitiva illegittima, stabiliti dall'articolo 5-bis del D.L. 1 luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992. n. 359. Entrambe le decisioni, oltre a caratterizzarsi per la riaffermazione del principio del “serio ristoro” del privato destinatario di provvedimenti ablativi, contengono un'importante affermazione della rilevanza costituzionale, per effetto dell'articolo 117 della Costituzione, delle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. La determinazione dell'indennità di esproprio è stata oggetto di un travagliato iter normativo e giurisprudenziale. Il potere espropriativo, come detto, trova un appiglio costituzionale nell'articolo 42, comma 3, Cost., che ne sancisce le tre imprescindibili condizioni di legittimità: sussistenza dell'interesse pubblico, riserva di legge e corresponsione dell'indennizzo. La Carta Costituzionale si limita a sancire la necessità che il privato destinatario di un atto ablativo della proprietà privata sia ristorato con un indennizzo, senza però indicare né i criteri per la sua determinazione né la soglia minima da rispettare affinché l'indennizzo possa ritenersi congruo e concretamente riparatore del pregiudizio patrimoniale subito dall'espropriato.

In origine, nell' ordinamento antecedente all'avvento della Costituzione, l'articolo 39 della legge n. 2359 del 1865 stabiliva che l'indennità di espropriazione doveva corrispondere al “giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l'immobile in una libera contrattazione di compravendita” (il c.d. valore venale del bene). Questo criterio è stato più volte derogato da leggi speciali (in particolare dalla legge 15 gennaio 1885, n. 2892, la legge speciale per la città di Napoli, che introdusse il criterio della media del valore venale e dei fitti coacervati dell'ultimo decennio), fino a che con l'articolo 16 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, come sostituito dalla legge 28 gennaio 1977, n. 10, la materia è stata nuovamente disciplinata. Nello scrutinare la nuova regolamentazione, che distingueva l'indennità di espropriazione di suoli edificabili da quella di aree agricole sul presupposto che lo ius aedificandi non inerisse al diritto di proprietà, la Corte Costituzionale, con la sentenza 30 gennaio 1980, n. 5, giungeva a una declaratoria di annullamento, dichiarando che la facoltà di edificare è inerente al diritto di proprietà e che l'indennità di espropriazione, pur non dovendo rappresentare un'integrale riparazione per la perdita subita, deve comunque rappresentare un “serio ristoro” per il sacrificio imposto al privato. Per la prima volta, dunque, il giudice delle leggi si pronunciava sulla quantificazione dell'indennizzo, indicando un criterio di riferimento al quale il legislatore doveva ritenersi vincolato. Il “suggerimento”, tuttavia, non veniva colto dal legislatore che in sostanza riprodusse le norme dichiarate incostituzionali dalla sentenza n. 5 del 1980 con la legge 29 luglio 1980, n. 385. Anche quest'ultimo intervento legislativo è stato poi annullato dalla Corte Costituzionale con la pronuncia 19 luglio 1993, n. 223, così determinandosi una lacuna normativa che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha tentato di colmare. Il vuoto è sostanzialmente perdurato fino all'entrata in vigore del D. L. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359, il cui articolo 5-bis ha delineato i criteri per la quantificazione dell'indennità di espropriazione distinguendo tra aree edificabili e aree agricole. Per le prime, commisurando l'indennità alla media tra il valore venale del bene e il reddito dominicale rivalutato, con successivo abbattimento della somma così ottenuta nella misura del 40% (salvo il caso di cessione volontaria del bene). Per le aree agricole, invece, il D.L. 333/1992 ha rinviato alle disposizioni della legge n. 865 del 1971. I criteri per la determinazione dell'indennità di esproprio sono stati successivamente disciplinati dagli articoli 37 e seguenti del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (T.U. sull'espropriazione). Per le aree edificabili è stato riprodotto il criterio di cui all'articolo 5-bis del D.L. 333/1992, ovvero l'importo diviso per due e ridotto del 40% pari alla somma del valore venale del bene e del reddito dominicale netto, rivalutato e moltiplicato per dieci. Nel caso di espropriazione di una costruzione legittimamente edificata, l'indennità è determinata nella misura del valore venale, calcolandosi invece il solo valore dell'area di sedime (e della parte di costruzione eventualmente realizzata legittimamente) se la costruzione è abusiva. Per le aree non edificabili, invece, l'indennità è calcolata con riferimento al valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate e dei manufatti legittimamente esistenti.

Il criterio per la determinazione dell'indennità introdotto dall'articolo 5-bis del D.L. 333 del 1992 e sostanzialmente riprodotto dall'articolo 37 del T.U. sull'espropriazione, era già stato sottoposto al vaglio di legittimità costituzionale. La questione, sollevata in relazione a diverse norme della Carta Costituzionale, era stata rigettata dalla Corte con la sentenza 283/1993, successivamente confermata da altre pronunce della Corte di analogo tenore. Le ordinanze interlocutorie con le quali la Corte di Cassazione aveva nuovamente sollevato la questione di legittimità costituzionale del suddetto criterio, dando origine alla decisione n. 348, hanno introdotto un nuovo parametro di riferimento, individuato nell'articolo 117 della Costituzione. In altri termini, il giudice a quo aveva chiesto alla Corte Costituzionale di stabilire la compatibilità del criterio di calcolo, fondato sulla media tra il valore venale del bene e il reddito dominicale rivalutato, rispetto al principio di protezione della proprietà privata contenuto nell'articolo 1 del primo protocollo della CEDU, alla luce dell'obbligo derivante dall'articolo 117 della Costituzione, per il legislatore, di rispettare le norme contenute negli accordi internazionali[19]. Così filtrata la “indiretta” rilevanza costituzionale delle norme CEDU, la Corte ha proceduto a un rigoroso confronto tra il criterio di calcolo dell'indennizzo oggetto di censura e i principi affermati dall'articolo 1 del protocollo CEDU in materia di protezione del diritto di proprietà, come interpretati dalla Corte europea. La particolarità delle norme CEDU rispetto agli altri trattati internazionali è, infatti, quella che esse vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea di Strasburgo, alla quale è demandata una “funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia”. Pertanto, l'articolo 1 del primo protocollo della CEDU, contenente, come detto, l'affermazione del principio di protezione della proprietà privata, è stato oggetto di una approfondita analisi interpretativa da parte della Corte di Strasburgo, culminata nell'affermazione, da parte di tale giudice, della incompatibilità con il predetto principio della disciplina italiana in materia di indennità di espropriazione. Nello specifico, con la decisione 29 marzo 2006, resa nella causa Scordino contro Italia, la Corte europea ha affermato che l'indennizzo dovuto per l'espropriazione non è legittimo se non consta in una somma che si ponga “in rapporto ragionevole con il valore del bene”. Dunque, dacché i criteri di calcolo dell'indennità previsti dalla legislazione italiana determinano una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale), la Corte medesima ha dichiarato che l'Italia ha il dovere di porre fine a una violazione sistematica e strutturale del citato articolo 1 del primo protocollo. Sulla base di tali premesse, la Corte Costituzionale ha convenuto che il criterio di calcolo dell'indennità di espropriazione per le aree edificabili, originariamente introdotto dall'articolo 5-bis del D.L. 333/1992 e successivamente reso definitivo dall'articolo 37 del T.U. sull'espropriazione, si ponesse in contrasto con i principi del protocollo CEDU, non essendo in alcun modo rispettato il necessario “legame” con il valore venale del bene. Invero, l'applicazione del criterio censurato determina un'indennità oscillante, nella prassi, tra il 50 e il 30% del valore di mercato. E una tale indennità, ad avviso della Corte Costituzionale, “è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall'imposizione fiscale”, la quale si attesta su valori di circa il 20 per cento.

Le ripercussioni della dichiarazione di incostituzionalità del precedente criterio di determinazione dell'indennità sono state di estrema rilevanza. Come è noto, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma opera con effetto retroattivo, con il solo limite delle situazioni consolidate per essersi il rapporto già esaurito. Sia per i procedimenti avviati con indennità non ancora determinata in via definitiva, sia per i procedimenti espropriativi futuri, sembra nuovamente schiudersi quel vuoto normativo che il D.L. 333/1992 aveva colmato, anche a seguito del recepimento definitivo nel D.P.R. 327/2001. Secondo alcuni interpreti, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'articolo 5-bis del D.L. 333/1992 – nonché del corrispondente articolo 37 del D.P.R. 327/2001 – la norma di riferimento per la determinazione dell'indennità di esproprio diverrebbe l'articolo 39 della legge 2359/1865 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica) che ancora l'indennizzo al valore venale del bene. Tale legge, tuttavia, risulta oggi abrogata dall'articolo 58, comma 1, del D.P.R. 327/2001. Sul punto la Corte Costituzionale non ha dettato precise indicazioni, limitandosi a suggerire alcuni criteri che il legislatore dovrebbe rispettare per pervenire a una disciplina costituzionalmente legittima dell'indennità di esproprio. Nello specifico, la Corte ha riaffermato il principio secondo cui l'indennizzo, pur dovendo avere un indefettibile legame con il valore venale del bene, non deve necessariamente coincidere con esso. Occorre, senz'altro, garantire un serio ristoro che si traduca in un'indennità congrua, seria e adeguata, non meramente simbolica o irrisoria, escludendo una valutazione del tutto astratta in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato. Sarà possibile, invece, qualora il legislatore lo ritenga opportuno, introdurre anche regimi differenziati, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti. Invero, come osservato dalla Corte, “non sono assimilabili singoli espropri per finalità limitate a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti, l'eccessivo livello di spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più consistente, per gli espropri isolati”.

5.4.2. La rivalutazione monetaria. È forse giunta al termine la distinzione fra crediti di valuta e crediti di valore?

La pronuncia della Corte EDU del 14.4.2015 - caso Chinnici c. Italia - ha sancito inequivocabilmente che l’indennità di espropriazione di un'area per pubblica utilità, quand’anche operata in maniera legittima, è comunque oggetto di rivalutazione monetaria. La differenza ontologica fra crediti di valuta e crediti di valore è ben nota a tutti gli addetti ai lavori e non è mai stata rivisitata con adeguati strumenti critici. Difatti, le obbligazioni di “valore” si hanno quando l’oggetto della prestazione consiste in una cosa diversa dal denaro, mentre quelle di “valuta” consistono ab origine in una somma di denaro. (Cass., sez. I, 20.01.1995, n. 634). Secondo giurisprudenza granitica, i crediti di valore sono sempre soggetti a rivalutazione monetaria e i crediti derivanti da atti illegali costituiscono un credito di valore, mentre i crediti di valuta, tipicamente quelli degli espropri legittimi, vanno rivalutati solo se il creditore dimostri di avere “qualità meritorie”, quali ad esempio possedere un grado di abilità sufficiente per sottrarsi al fenomeno inflattivo. Ne scaturisce, dunque, che una espropriazione illegale darà origine ad un risarcimento danni, indubbiamente da rivalutare. Diversamente, invece, il caso di esproprio condotto nel rispetto delle regole procedurali e che, quindi, genera un indennizzo da atto legittimo con un credito nascente da debito di valuta, che prevede solo interessi legali di natura compensativa. Spetta al Giudicante poi stabilire se eventualmente spetta anche la rivalutazione monetaria ai sensi dell’art. 1224 c.c. Premesso che tutto ciò appare come una discriminazione fra la categoria degli imprenditori/investitori economicamente avveduti e la pletora dei semplici cittadini risparmiatori, i quali subirebbero trattamenti così differenziati, non possono sottacersi perplessità in ordine alla qualificazione del debito nel caso di specie.

In realtà la stima indennitaria richiede spesso processi interminabili nel corso dei quali il fenomeno inflattivo ha modo di far sentire a tutti, imprenditori e non, i suoi laceranti effetti. Di tal che durante il processo soccorre l’ausilio del Consulente che è chiamato a stabilire l’indennizzo necessario all’espropriato per ricollocarsi sul mercato ed acquistare un bene di valore corrispondente al bene oggetto di ablazione. Ne consegue che la perdita del potere d’acquisto in questi casi possa giungere fino al 90%.

I pragmatici Giudici di Strasburgo ritengono che le somme indennitarie, quand’anche dovute a titolo di esproprio “legittimo”, debbano essere adeguatamente attualizzate tenuto conto del fenomeno inflattivo e questo lo avevano già sancito, fra l’altro, nelle sentenze Scordino c/Italiadel 2006 (ric. n. 36813/1997) nonché in Raffinerie Greche Stran e Stratis c. Grecia  del 1994 e  Motais de Narbonne  c. Francia del 2002, precisando che il valore venale del suolo ablato deve essere rivalutato per compensare gli effetti devastanti dell’inflazione e su questa somma andranno calcolati gli interessi legali con la compensazione di eventuali ritenute fiscali come quella del 20% operata dal Governo italiano a titolo di imposta.

La sentenza Chinnici, invece, affronta per la prima volta, in maniera esclusiva, la questione della rivalutazione, stante che il ricorrente non si lamenta della stima accordatagli dai Giudici nazionali, ma si lamenta unicamente della mancata rivalutazione sulle somme a lui dovute dal 1991 e determinate in via definitiva nel 2013. Purtroppo successivamente alla sentenza Chinnici, la Suprema Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata in senso contrario al riconoscimento della rivalutazione[20], per cui la questione andrebbe rimeditata, anche senza sottoporla al vaglio della Consulta, atteso che il diritto non viene negato a causa di una norma ma per mera giurisprudenza, che potrebbe mutare allineandosi a quella di Strasburgo, essendo evidente che un indennizzo privo della rivalutazione consentirebbe al soggetto leso di riacquistare una quantità di terreno, di pari valore, infinitesimamente più piccola di quella che gli venne ablata 30 o 40 anni prima.

5.5. La cessione volontaria

La determinazione dell’indennità e il successivo deposito presso la Cassa dei depositi e prestiti è solo una modalità attraverso la quale si può articolare la procedura espropriativa, una modalità patologica, in quanto prevede necessariamente un contrasto tra i soggetti coinvolti in merito al quantum dell’indennità. Oltre a questa ipotesi patologica, ben potrebbe accadere che il proprietario, che subisce l’atto ablativo del proprio diritto di proprietà, condivida la determinazione della indennità di esproprio fatta dall’autorità procedente, circa il bene oggetto di privativa, e decida di addivenire alla stipula di un atto di cessione volontaria. In tale ipotesi, il proprietario concorde è tenuto a depositare nel termine di 60 giorni, decorrenti dalla notificazione della indennità provvisoria, la documentazione comprovante, anche attraverso attestazione notarile, la piena e libera proprietà del bene. Una volta depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà, il proprietario e il beneficiario dell’esproprio stipulano l’atto di cessione del bene, quest’ultimo, entro il termine di 15 giorni, a cura e a spese dell’acquirente, viene trasmesso all’Ufficio dei registri immobiliari per la trascrizione. Si rende necessario sottolineare che l’istituto della cessione volontaria è ben altra cosa rispetto all’accordo amichevole sull’indennità di esproprio, dal quale non scaturisce la cessione volontaria del bene, ma una semplice intesa sul quantum dell’indennizzo che necessita comunque di un ulteriore atto formale – atto di cessione o decreto di esproprio – per la corretta conclusione dell’iter procedimentale[21]. L’accordo di cessione bonaria è assimilabile al decreto di esproprio per quanto riguarda gli effetti scaturenti dalla sua stipula, come emerge dall’art.45, comma 3, del T.U. di riferimento. Ciò comporta, come parte della giurisprudenza non ha mancato di sottolineare, che essendo contratti ad oggetto pubblico originati dall’avvio di un procedimento ablatorio, senza il quale il proprietario non si sarebbe ragionevolmente determinato a vendere, sono attratti nell’ambito di applicazione dell’istituto della retrocessione. Non si rinvengono ostacoli, infatti, nell’applicazione del predetto istituto anche in ipotesi di cessione volontaria[22], essendo esclusa l’applicabilità della retrocessione solo quando il trasferimento volontario del bene, in favore dell’Amministrazione interessata alla realizzazione dell’opera, si colloca del tutto al di fuori della sequenza procedimentale espropriativa, come ad esempio nelle ipotesi di negozio di compravendita di diritto comune stipulato tra il privato e la P.A.

6. L’espropriazione sostanziale e di valore

L’espropriazione sostanziale è quella particolare forma di ablazione che realizza un effetto privativo per il privato cui non consegue necessariamente un effetto acquisitivo per la P.A, e che si caratterizza per essere attuata secondo modalità difformi rispetto a quelle espressamente descritte nel T.U. L’espropriazione sostanziale è un istituto di matrice giurisprudenziale, attraverso il quale si è cercato di porre un argine a comportamenti scorretti della P.A. volti ad eludere il procedimento espropriativo normativamente previsto e ad evitare la corresponsione di un equo indennizzo al proprietario per la perdita subita. Altra peculiare caratteristica di tale forma di espropriazione è che, quest’ultima, non comporta un vero e proprio trasferimento del bene in capo alla P.A., ma limita solo le potenzialità dello stesso, per cui in tale ipotesi diventa centrale quantificare il grado di sacrificio che interessa il diritto di proprietà. Difatti, quando il diritto di proprietà subisce una menomazione significativa, a causa di un vincolo apposto sul bene, che incide sul valore di scambio dello stesso, o che comunque supera i limiti di tollerabilità, si ha una espropriazione non traslativa, che incidendo sul valore del bene ne legittima l’indennizzo. Con riferimento a queste ipotesi, rivestono particolare importanza alcune fattispecie di vincoli urbanistici, che la giurisprudenza suole dividere in indennizzabili e non, rientrando nella fattispecie di espropriazione in esame solo i primi. I vincoli urbanistici indennizzabili, infatti, sono quelli che svuotano il diritto di proprietà, a prescindere dalla sequenza procedimentale finalizzata a tale risultato. Per far sorgere il diritto all’indennizzo occorre che i vincoli “superino la durata che dal legislatore sia stata predeterminata come limite, non irragionevole e non arbitrario alla sopportabilità del vincolo urbanistico[23]”. La previsione di un termine di durata del vincolo urbanistico costituisce idonea garanzia del diritto di proprietà e si pone come guarentigia alternativa all’indennizzo[24], sicché temporaneità e indennizzabilità sono elementi tra loro alternativi[25]. Si è parlato di espropriazione sostanziale anche con riferimento all’insana prassi di reiterare i vincoli preordinati all’esproprio. È dovuta intervenire la Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 56 del 1968, precisando che la reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio è ammessa soltanto a condizione che venga ristorato il sacrificio patito dal privato, giacché la semplice apposizione e reiterazione sine die del vincolo sul bene, realizza una espropriazione sostanziale in quanto comprime il diritto di proprietà oltre ogni limite di tollerabilità, a prescindere dalla mancata realizzazione dell’effetto acquisitivo[26]. Nella stessa tematica devono essere collocati i vincoli urbanistici che realizzano una espropriazione di valore, ovvero quelli che realizzano una compressione del diritto di proprietà attraverso previsioni contenute nei piani urbanistici che hanno lo scopo di funzionalizzare determinati beni alle esigenze pubbliche, la c.d. zonizzazione. Tale fattispecie costituisce una espropriazione anomala, di valore e non traslativa, perché il privato pur non perdendo il diritto di proprietà viene sensibilmente intaccato nella sua utilità. Bisogna, però, non confondere l’ipotesi sopraesposta con i vincoli conformativi, che trovano la loro fonte primaria nella legge (cfr. vincoli che gravano sui beni paesaggistici ex art. 142 del D. Lgs. 42 del 2004). Caratteristica dei vincoli conformativi è che la limitazione del bene discende direttamente dalla legge, in ragione delle caratteristiche obiettive e funzionali del bene stesso, e che il carattere conformativo comporta che esso sia rivolto solo a determinate categorie di beni, disvelando le caratteristiche intrinseche non fa sorgere il diritto ad alcun indennizzo.

7. L’espropriazione ex lege

L’espropriazione del bene può essere realizzata in base ad una scelta discrezionale della P.A. o direttamente dalla legge. In entrambi i casi la legge riveste comunque un ruolo primario, essendo l’imprescindibile presupposto per esercitare il potere ablatorio, ma nei due tipi di espropriazione muta il ruolo che la legge riveste. Nelle espropriazioni viste fin ora, la legge è sempre la fonte primaria del potere ablativo, la scelta però è riconducibile alla discrezione dell’Amministrazione procedente, ciò comporta che eventuali vizi procedimentali o di valutazioni, essendo imputabili all’attività discrezionale della P.A., devono essere sindacati dal Giudice Amministrativo. Nondimeno può essere la stessa legge a prevedere l’espropriazione di beni, secondo anche il dettato dell’art. 43 della Costituzione. Una simile ingerenza del legislatore si giustifica allorquando l’espropriazione sia disposta per fini di utilità generale e in relazione soltanto a imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale. In tali casi, l’indennizzo è dovuto secondo i principi generali e l’espropriazione si realizza attraverso leggi-provvedimento.

8. L’espropriazione a carattere sanzionatorio

Infine, l’appropriazione del bene da parte della P.A. può essere ispirata anche da motivi di carattere sanzionatorio, frequentemente collegati a comportamenti illeciti del destinatario del provvedimento amministrativo. Esempio di scuola si rinviene nell’art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 – T.U. dell’edilizia – che prevede, in ipotesi di abuso edilizio commesso dal responsabile, sempre che quest’ultimo non provveda alla demolizione o alla messa in pristino dei luoghi nel termine di 90 giorni dall’ingiunzione, che il bene venga acquisito di diritto e senza la corresponsione di alcun indennizzo al patrimonio del Comune dov’è situato il bene.

Si tratta di un procedimento che condivide solo il nomen juris con l’espropriazione strictu sensu, non essendo rinvenibili i tratti caratterizzanti del procedimento ablatorio e costituendo essenza dell’istituto il carattere sanzionatorio sconosciuto all’espropriazione ordinaria.

9. Le espropriazioni indirette: caratteri generali

Accanto al fenomeno dell’espropriazione diretta, la giurisprudenza ha riconosciuto, in passato, la possibilità che l’effetto privativo-appropriativo, tipico del procedimento espropriativo, si potesse verificare anche di fatto, ovvero a seguito dell’occupazione e irreversibile trasformazione del bene da parte della Amministrazione. L’espropriazione veniva quindi realizzata indirettamente, senza seguire le forme dirette descritte nel T.U. di riferimento, ma desumendo da un dato di fatto incontrovertibile, ovvero la irreversibile trasformazione del bene, la perdita del diritto di proprietà del privato e il conseguente acquisto della stessa da parte della P.A. Con l’espressione espropriazione indiretta si intende, quindi, l’espropriazione attuata senza l’adozione di un formale provvedimento della P.A., ma solo a seguito della irreversibile trasformazione del bene. Le espropriazioni indirette afferiscono al tema delle occupazioni che la giurisprudenza, anche europea, ha qualificato come illegittime, per distinguerle dalle occupazioni normativamente regolate nel T.U. (cfr. occupazione sanante art. 42 bis). Le occupazioni illegittime sono: l’occupazione usurpativa e l’occupazione acquisitiva.

9.1. L’occupazione acquisitiva

L’occupazione acquisitiva è l’archetipo delle espropriazioni indirette, creato dalla giurisprudenza[27], attraverso il grimaldello dell’accessione invertita. In sostanza l’Amministrazione, in spregio alle disposizioni sancite nel T.U., diviene proprietaria del fondo per il sol fatto di aver costruito un’opera pubblica sul fondo del privato. In difformità rispetto al principio codicistico - ex art. 936 - secondo il quale la proprietà del fondo fagocita anche la proprietà dell’opera su di essa insistente. Tale elaborazione giurisprudenziale fu resa necessaria per la abitudine, cattiva e frequente, della P.A. di immettersi nel possesso di un bene, trasformarlo in maniera irreversibile, senza rispettare i termini perentori per adottare il decisivo decreto di esproprio. La Suprema Corte di Cassazione, per evidenti ragioni di tutela del bilancio, diede vita a questo indirizzo ermeneutico, volto ad individuare un procedimento espropriativo “indiretto”, per distinguerlo da quello direttamente descritto nella normativa di riferimento, e caratterizzato dall’irreversibile trasformazione del bene che, in luogo del decreto di esproprio, scandiva il trasferimento del bene dal privato alla P.A. Ad arginare questa arrogante prassi, è intervenuta la Corte Europea negli anni 2000, sottolineando che l’occupazione, costituendo un illecito istantaneo ad effetti permanenti, non poteva comportare un legittimo acquisto del bene da parte dell’autorità, e legittimava il privato ad attivare la domanda di risarcimento del danno entro il termine di prescrizione quinquennale decorrente dalla irreversibile trasformazione del fondo[28].

9.2. L’occupazione usurpativa

L’occupazione usurpativa si concretizzava nell’immissione nel possesso del bene del privato da parte dell’Amministrazione, che procedeva a trasformarlo irreversibilmente pur in assenza di dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza n. 1615 del 1997, è intervenuta facendo chiarezza tra le due diverse forme di occupazione illecita, precisando che l’occupazione usurpativa, a differenza di quella acquisitiva, dovesse considerarsi un illecito permanente. La sostanziale differenza tra occupazione acquisitiva e usurpativa, quindi, consisteva nella presenza o assenza della dichiarazione di pubblica utilità. Nella occupazione usurpativa la P.A. invadeva il fondo del privato, commettendo un illecito vero e proprio, senza nemmeno fotografare la pubblicità dell’interesse sotteso. L’occupazione acquisitiva rappresentava, pertanto, una forma di espropriazione indiretta, invece quella usurpativa era considerata un illecito permanente, che consentiva al privato di chiedere il risarcimento del danno e la restituzione del bene sine die, trattandosi, in vero, di un illecito permanente, la lesione del diritto di proprietà si rinnovava di giorno in giorno, decorrendo il dies a quo solo dalla cessazione dell’illecito, ovvero dalla restituzione del fondo da parte della P.A. Solo con la celebre sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, del 30 maggio 2000, si è stigmatizzata qualunque forma di espropriazione indiretta che non fosse provocata da un formale provvedimento amministrativo, stabilendo che tutte le occupazioni sprovviste di copertura legislativa dovessero considerarsi abusive, e quindi, illecite e come tali non possono mai condurre ad una legittima acquisizione del fondo. Il potere ablatorio per essere capace di calpestare un diritto fondamentale come il diritto di proprietà deve rispondere a due presupposti: deve essere previsto espressamente dal legislatore e l’effetto privativo-appropriativo deve discendere da un formale, motivato ed espresso provvedimento amministrativo. Inoltre, il provvedimento amministrativo che legittima l’ingerenza pubblica nella sfera privata, deve essere emesso all’esito di un procedimento che abbia reso manifeste le ragioni di pubblico interesse che giustificano la compressione del diritto di proprietà e che rispetti le garanzie procedimentali particolarmente esaltate nel procedimento espropriativo.

9.3. L’occupazione sanante

L’occupazione sanante è una problematica forma di espropriazione indiretta, caratterizzata da un complesso e travagliato iter normativo, che nel 2011, nell’ambito di una complessa manovra economica, il legislatore ha re-introdotto nel T.U. espropriazioni, all’art. 42 bis, rubricato “Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”. La disposizione disciplinante la cd. acquisizione sanante ricalca, con alcune modifiche, la disciplina in precedenza dettata dall’art. 43 del medesimo T.U., dichiarato costituzionalmente illegittimo nel 2010. L’acquisizione di un bene utilizzato sine titulo per scopi di interesse pubblico persegue la finalità di regolarizzare le conseguenze di procedure ablatorie illegittime o di comportamenti illeciti della P.A. in ambito espropriativo. L’istituto venne introdotto dal legislatore nel T.U. del 2001 allo scopo di “adeguare l’ordinamento italiano alla CEDU”[29], a seguito della condanna dello Stato italiano da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la mancata tutela di coloro che fossero stati privati illegittimamente, o senza titolo, di un proprio bene acquisito dalla P.A. a seguito della trasformazione dello stesso, condanna contenuta nelle pronunce Belvedere Alberghiera e Carbonara e Ventura del 2000[30], con riguardo a fattispecie rispettivamente qualificate come occupazione usurpativa ed acquisitiva. In tale contesto, il legislatore italiano, nel redigere il citato T.U. espropriazione, si è espressamente occupato all’art. 43 della “Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, e cioè di quella che è comunemente nota come “acquisizione sanante”, con lo specifico intento di ovviare alla mancanza di una base legale dell’acquisizione di un bene alla proprietà pubblica come effetto di occupazione illegittima. Il comma 1 dell’art. 43 recitava, infatti, che: “valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni”. La disposizione accumunava le ipotesi in precedenza ascritte all’occupazione acquisitiva ed usurpativa, consentendo di prescindere dalla dichiarazione di pubblica utilità, quale indefettibile punto di partenza del fenomeno ablatorio in senso lato, in grado di qualificare l’opera come pubblica in quanto diretta a soddisfare un interesse pubblico valutato ed esplicitato. Precisava, inoltre, al comma 3, che laddove fosse stato impugnato uno degli atti della procedura di esproprio ovvero fosse stata esercitata un’azione diretta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, “l’amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo”. L’art. 43 era considerato dal Giudice Amministrativo applicabile anche alle occupazioni sine titulo realizzatesi anteriormente all’entrata in vigore del T.U.[31], mentre, in senso contrario, la Cassazione[32] riteneva non applicabile l’acquisizione sanante alle fattispecie di occupazione iniziate anteriormente a detta data, argomentando l’assunto dall’art. 57 dello stesso T.U., ai sensi del quale le disposizioni del D.P.R. n. 327 del 2001 non trovano applicazione “ai progetti per i quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza”. Il differente orientamento era intimamente legato alla questione della persistente vitalità, o meno, nel nostro ordinamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva. Al riguardo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[33] rilevava come l’emanazione di un (legittimo) provvedimento di acquisizione sanante, ai sensi del T.U., rappresentasse ormai “l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento” per evitare la restituzione dell’area al soggetto interessato, in quanto l’art. 43 avrebbe presupposto, pur verificatasi l’occupazione e la trasformazione del bene da parte della P.A. in assenza di valido titolo, la persistenza del diritto di proprietà privata ed avrebbe implicato, in ogni caso, un illecito di natura permanente. In senso difforme, la Cassazione, a partire da una pronuncia delle Sezioni Unite del 2003[34], collocava l’istituto dell’occupazione appropriativa in un contesto di regole ormai sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, che lo avrebbero reso compatibile con la normativa CEDU: la necessità di una valida dichiarazione di pubblica utilità e la previsione di un risarcimento ragionevole realizzerebbero un giusto equilibrio tra garanzia della proprietà ed interessi generali[35]; parimenti, con riguardo all’occupazione usurpativa, sarebbe consentito al privato ottenere piena tutela, fino alla restitutio in integrum, qualora non ritenga di avere a ciò interesse, fino al risarcimento integrale del danno[36]

In questo scenario, nel 2010, è intervenuta la decisione della Corte costituzionale n. 293 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 43[37]. Il giudice a quo[38] aveva evocato un triplice livello di parametri di costituzionalità, facendovi corrispondere altrettante, specifiche censure:

a) il contrasto con gli artt. 3, 24, 42, 97 e 113 Cost., in quanto, anche alla luce del “diritto vivente”, l’art. 43 avrebbe configurato uno strumento di regolarizzazione permanente ed ordinario delle occupazioni senza titolo, idoneo a sanare la situazione di fatto creatasi e a far venire meno l’illecito aquiliano, anche in violazione dello stesso giudicato amministrativo che avesse annullato gli atti ablatori o, addirittura, ordinato la restituzione del bene;

b) il contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., per il mancato rispetto, da parte del legislatore italiano, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali[39], e ciò alla luce della già ricordata condanna da parte della Corte di Strasburgo di qualsiasi forma di espropriazione indiretta;

c) l’eccesso di delega e, dunque, il contrasto con l’art. 76 Cost., non risultando l’art. 43 conforme ai “principi e criteri direttivi” cui il riordino della normativa mediante redazione di T.U. deve attenersi ai sensi della l. 8.3.1999, n. 50 e che impongono di realizzare un mero coordinamento formale delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa. La Corte Costituzionale ha privilegiato, ai fini dell’accoglimento, quest’ultima censura, stante la relativa pregiudizialità logico-giuridica. Ricostruito preliminarmente l’ambito del sindacato di costituzionalità dell’eccesso di delega, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 43 perché sostanzialmente innovativo – e dunque esorbitante rispetto ai compiti di riordino e riassetto della materia assegnati al legislatore delegato – tanto rispetto alla disciplina espropriativa contenuta nelle leggi previgenti (non contenente alcuna norma “che potesse giustificare un intervento della pubblica amministrazione, in via di sanatoria, sulle procedure ablatorie previste”), quanto rispetto agli istituti pretori dell’occupazione acquisitiva ed usurpativa. Pur fondandosi la declaratoria di incostituzionalità sull’eccesso di delega, la sentenza contiene alcune importanti affermazioni di principio, non rese nella forma dell’obiter dictum, ma chiaramente poste quali punti qualificanti del decisum, che possono così sintetizzarsi:

1) l’art. 43 prevede, in realtà, un “generalizzato potere di sanatoria”, a favore della P.A. che ha operato l’illecito e, addirittura, “a dispetto di un giudicato” che disponga il ristoro in forma specifica;

2) la disciplina del T.U. è, sul punto, in contrasto con i rilievi mossi dalla Corte di Strasburgo nei confronti della espropriazione indiretta, configurando una situazione di vantaggio che la P.A. trae da un comportamento illecito ad essa imputabile, in evidente violazione del principio di legalità; l’estensione dell’effetto sanante anche alle servitù appare particolarmente incoerente, facendo in tale caso radicale difetto “la non emendabile trasformazione del suolo in una componente essenziale dell’opera pubblica”. Le affermazioni si traducono in altrettanti “paletti” che avrebbero dovuto delimitare (ben oltre l’emendabilità del vizio formale dell’eccesso di delega) lo spazio a disposizione del legislatore per il pure indispensabile intervento di adeguamento. È evidente, in particolare, che non sarebbe stato consentito al legislatore di limitarsi alla mera novazione della fonte, trasferendo cioè in un’apposita norma di legge ordinaria lo stesso contenuto precettivo del decreto delegato[40]. A tale proposito, la Consulta ha rilevato, infatti, che il legislatore avrebbe potuto tenere conto delle indicazioni della Corte di Strasburgo, disciplinando in modi diversi la materia, “ed anche espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei”; quest’ultima, del resto, sembrerebbe essere la soluzione verso cui propende la stessa Corte Europea, “la quale, infatti, sia pure incidentalmente, ha precisato che l’espropriazione indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da ‘azioni illegali’, e ciò sia allorché essa costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché derivi da una legge – con espresso riferimento all’articolo 43 del T.U. qui censurato –, in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo buona e debita forma”; pertanto, “non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità”.

La lacuna normativa determinata dalla Consulta ha avuto comunque breve vita. L’art. 34 D.L. 6.7.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella L. 15.7.2011, n. 111, ha introdotto nel T.U. espropriazioni il nuovo art. 42 bis, recante la medesima rubrica, “Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, del previgente art. 43. Se il fine ultimo della neo-introdotta disposizione è quello del ripristino dell’istituto dell’acquisizione attraverso una legge ordinaria, depurata dal vizio formale riscontrato dalla Consulta, peraltro il legislatore non sembra aver tenuto in adeguata considerazione le ulteriori affermazioni contenute nella sentenza n. 293/2010 denotanti perplessità della Corte sulla compatibilità sostanziale dell’istituto dell’acquisizione con il principio di legalità. I tratti salienti della disciplina di cui all’art. 42 bis sono sintetizzabili nei termini che seguono. Il comma 1 sancisce l’irretroattività del provvedimento acquisitivo, che non è pertanto idoneo a sanare il periodo di occupazione illegittima. In luogo di un generico obbligo risarcitorio (l’art. 43 stabiliva che “al proprietario vadano risarciti i danni”), viene riconosciuto al proprietario un “indennizzo”, la cui natura di ristoro da atto lecito si scontra, però, con la natura di illecito permanente delle occupazioni senza titolo, per il “pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale” subìto, con l’ulteriore precisazione che il secondo va liquidato “forfetariamente” in una misura pari al “dieci per cento del valore venale del bene”, elevato al venti per cento nell’ipotesi di utilizzazione dell’area per finalità di edilizia residenziale pubblica o di interesse pubblico (comma 5); il “pregiudizio patrimoniale” è indennizzato “in misura corrispondente al valore venale del bene” (comma 3). Viene riproposta la possibilità di ricorrere allo strumento acquisitivo anche “quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio” (comma 2). Eliminata la cd. acquisizione giudiziaria (che aveva dato luogo a dubbi in ordine alla natura della giurisdizione del giudice amministrativo e alle modalità di proposizione della relativa domanda da parte della P.A.), viene però previsto che l’acquisizione possa essere adottata “anche durante la pendenza di un giudizio” per l’annullamento degli atti inerenti alla procedura espropriativa, con l’unico onere, per la P.A. di ritirare gli atti impugnati[41]. Condivisibile è l’aggravamento dell’obbligo di motivazione del provvedimento acquisitivo (a rafforzarne la natura eccezionale ed escluderne quella di rimedio ordinario alternativo alla procedura ordinaria): oltre a indicare le “circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e, se possibile, la data dalla quale essa ha avuto inizio” (inciso già presente nell’art. 43 T.U. ed atto di resa di una p.a. che può non essere in grado di precisare da quanto tempo abbia appreso e utilizzato il bene), il provvedimento deve ora “specificamente” indicare le “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico” che inducono alla sanatoria ed evidenziare “l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione” (co. 4). Il “passaggio del diritto di proprietà” alla mano pubblica è sospensivamente condizionato “al pagamento delle somme dovute” (peraltro, poiché non è fissato alcun termine, non è chiaro cosa accada qualora la P.A. non ottemperi al pagamento o sorga contestazione sul dovuto). Il ricorso all’acquisizione sanante è ammesso anche nella ipotesi di imposizione di servitù, già prevista nella disciplina dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale. È previsto l’obbligo di comunicazione del provvedimento alla Corte dei Conti entro trenta giorni dalla sua emanazione, all’evidente fine di consentire di valutare la sussistenza di profili di responsabilità erariale. Infine, il novellato regime di sanatoria è dichiarato applicabile anche “ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore”, e ciò anche se sia stato già adottato un provvedimento acquisitivo “successivamente ritirato o annullato”, previo rinnovo, in tale ipotesi, della “valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico” alla sanatoria (comma 8). Così operando e privilegiando la natura processuale delle nuove disposizioni, il legislatore ne ha reso più piena ed efficace l’operatività, senza che essa possa essere impedita nemmeno dall’intervenuto annullamento (risollevando i dubbi sulla utilizzabilità dell’istituto in presenza di un giudicato da cui consegua l’obbligo di restituire il bene al proprietario). La nuova disciplina, quindi, ricalca i contenuti del precedente art. 43, seppure con alcuni miglioramenti tecnici[42]. Ora, se è vero che la Corte Costituzionale ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per eccesso di delega e se non può negarsi che questo vizio sia stato rimosso a seguito dell’intervento legislativo del 2011 (peraltro, sempre in una sede incoerente e disarmonica, quale il pacchetto delle misure urgenti di finanza pubblica), occorre però interrogarsi su alcuni profili sostanziali che non possono sfuggire nemmeno al più disattento dei lettori. I dubbi di legittimità sostanziale dell’acquisizione sanante manifestati dalla Consulta si allontanano notevolmente dal solo profilo formale dell’eccesso di delega per entrare pesantemente nel merito dell’istituto e della sua compatibilità con la normativa e la giurisprudenza europei, oltre che della nostra Costituzione. La scelta, sostanzialmente confermativa della pregressa disciplina, operata dal legislatore statale, non ha tenuto nel debito conto tale contesto ed ha operato nella convinzione che, rimosso il profilo patologico formale, non vi fossero altri aspetti di patologia costituzionale su cui operare. Il che, però, nasconde un errore e denuncia un rischio, quello di avere, più semplicemente, dato corso ad un intervento legislativo tampone, una “legge tappo”[43], che potrebbe essere nuovamente bocciata dalla nostra Consulta o censurata con giusta severità dalla Corte Europea.

10. Conclusioni

Le paradigmatiche divergenze tra la Cassazione e il Consiglio di Stato, alle quali si è aggiunta poi la posizione della CEDU, rendono manifesta l’insufficiente certezza giuridica dell’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità, sia per quanto attiene alle modalità d’esecuzione sia per quanto concerne la determinazione dell’indennizzo espropriativo. Proprio questi due aspetti, del resto, dimostrano come l’art. 42 della Costituzione, nonostante le garanzie di tutela che esso dovrebbe rappresentare, lascia un ampio margine di manovra al legislatore, all’Autorità espropriante e ai giudici, ai quali compete il bilanciamento degli interessi con riferimento al caso concreto, ragion per cui la stessa Corte Costituzionale è intervenuta sull’istituto delle espropriazioni illegittime solo in tempi molto recenti e comunque ben dopo che già la Corte EDU si era pronunciata sul punto. E ciò è tanto più evidente se solo si considera che, mentre la Corte Costituzionale è sempre più sensibile al diritto CEDU ed alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il legislatore italiano da questa si distacca, come nel caso dell’introduzione dell’art. 42 bis D.P.R. n. 327 del 2001. La ragione deve anzitutto essere rinvenuta nel fatto che, per la Carta italiana a differenza di quanto avviene nel diritto comunitario, la proprietà non costituisce un diritto inviolabile della persona, ben potendo quindi essere limitata, di fatto, ad libitum dall’operato del legislatore al fine di garantirne la funzione sociale o come – avvenuto nel caso dell’occupazione indiretta – dalla giurisprudenza nel tentativo di risolvere fattispecie che non rientrano in quelle previste dal legislatore. Non solo: il meccanismo stesso del nostro sistema di giustizia costituzionale, in quanto “misto”, si basa sul monopolio della dichiarazione di incostituzionalità e quindi del potere di caducazione della disposizione nelle mani della Corte e, contemporaneamente, in un comportamento attivo della magistratura che, mediante l’interpretazione conforme a Costituzione, collabora all’attività di adeguamento della legislazione ai principi costituzionali e permette, in modo seppur mediato, un ulteriore sistema di garanzia per il cittadino. Quest’equilibrio di poteri risulta però ben più delicato di quanto appaia nella sua formulazione teorica. Del resto, “è solo attraverso l’azione del circuito Corte-giudici-legislatore, come risultato di quest’azione congiunta che si supera l’incostituzionalità e non per mezzo dell’azione solitaria della Corte”[44]. Ma affinché questo si realizzi concretamente è necessaria una forte responsabilizzazione sul piano pratico del giudice il quale, come primo requisito, deve avere una formazione giuridica in cui l’esistenza di una Carta Costituzionale acquisti piena consapevolezza sia per quanto riguarda la sua interpretazione sia il suo uso quale canone ermeneutico per l’interpretazione della legge ordinaria, essendo il giudice soggetto solo alla legge e solo a quella legge che della Carta rispetti i vincoli formali e materiali. Deve essere, in altre parole, da un lato, pienamente capace di risolvere da sé il dubbio di costituzionalità che possa trovare soluzione mediante un’attività interpretativa perché solo questo comportamento è idoneo a “produrre giustizia” e, dall’altro, consapevole che il non esserne capace, il non farlo, costituisce un’indebita omissione al proprio dovere, un danno per la parte in causa, un danno per l’intero sistema giustizia, un comportamento meritevole di essere sanzionato. Non può peraltro non evidenziarsi come il primo utilizzatore del criterio dell’interpretazione conforme a Costituzione dovrebbe essere il potere legislativo. Il livello di democraticità di uno Stato è, infatti, proporzionale tanto al grado di autonomia dei suoi giudici[45], tanto al grado di chiarezza e di “certezza” delle sue leggi: ma queste non possono essere chiare se il legislatore, nel formularle, non considera come parametro vincolante la Costituzione e i principi del diritto comunitario. Non può, infatti, passare inosservato che l’art. 227 L. 20 marzo 1865, n. 2248, All. F sui lavori pubblici, e l’art. 43 del T.U. (e ora l’art. 42 bis), “con la loro distanza di quasi centocinquant’anni ben testimoniano che i fenomeni della occupazione permanente e della utilizzazione senza titolo di un fondo privato per la realizzazione di un’opera pubblica erano già noti al sistema legislativo del 1865 e non avevano trovato adeguata soluzione nei decenni successivi neppure con l’intervento della giurisprudenza”[46], con ciò dimostrando che nonostante la tutela costituzionale garantita dall’art. 42, il potere discrezionale autoritativo di cui gode la P.A. è, al pari della coercitio romana, comunque preponderante rispetto alla posizione del privato.

 

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Nello stesso solco si colloca l’art. 834 c.c., secondo cui nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà se non per causa di pubblico interesse legalmente dichiarata e contro il pagamento di una giusta indennità.
[2] Sul punto, si veda M. SANTISE, Coordinate ermeneutiche di diritto civile, Giappichelli, Torino, 2014, p. 399 ss.
[3] C. CACCIAVILLANI, Le espropriazioni, in F.G. SCOCCA (a cura di), Diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2014, p. 710.
[4] Corte Cost. n.56/1968.
[5] P. VIRGA, Diritto Amministrativo, I principi, Giuffrè, Milano, 1995, p. 481.
[6] C. CACCIAVILLANI, op. cit., p. 725.
[7] A queste fasi va aggiunta anche quella che si determina, anche in via provvisoria, l’indennità di esproprio, secondo i criteri enunciati dagli artt. 20 e ss. D.P.R. n.327/2001. L’assenza di tale fase, diversamente da quelle viste, non comporta l’illegittimità della procedura espropriativa, traducendosi in una contestazione sull’indennizzo che dovrà essere fatto valere innanzi al G.O.
[8] La sentenza è pubblicata in Foro amm. – C.d.S. n. 10/2013, p. 2781.
[9] Cfr. sentenza n. 179/1999, che ha affermato il principio secondo cui la reiterazione dei vincoli di piano regolatore a contenuto espropriativo scaduti deve essere accompagnata dalla previsione di un indennizzo.
[10] Cons. Stato, Sez. IV, 28 luglio 2005, n. 4019.
[11] Cons. Stato, Sez.IV, 7 giugno 2012, n. 3365.
[12] T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 20 dicembre 2013, n. 3100. Si veda anche parte VI, cap. 5, par. 7.2.
[13] Cass. SS.UU., 13 gennaio 2014, n. 441.
[14] Cfr. Corte Costituzionale n. 95/1966; n. 384/1990; n. 486/1991; n. 155/ e n. 188/1995.
[15] Cfr. Cass. SS. UU., n. 826/1960.
[16] Cfr. Cass. SS. UU., n. 30254/2008 e n. 19501/2008; n. 10962/2005; n. 9139/2003.
[17] Cfr. Cass. SS. UU., ord. 13 gennaio 2014 n. 441, nonché Cons. Stato n. 4766/2013; n. 3684/2010; n. 3338 e n. 479/2009; Ad. Plen. N. 2/2000; n. 14/1999.
[18] Cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 31 maggio 2012, n. 3269.
[19]      A tal proposito, la Corte costituzionale ha, in primo luogo, sgombrato ogni dubbio in ordine alla equiparabilità tra le disposizioni della CEDU e le norme del diritto comunitario, rilevandone con chiarezza la diversa collocazione nel sistema delle fonti. Mentre, infatti, il diritto comunitario costituisce una fonte sovraordinata alle fonti interne primarie e, in caso di contrasto, queste ultime devono essere disapplicate in forza del ben noto principio di prevalenza, le disposizioni della CEDU hanno natura di accordo internazionale e, in quanto tali, divengono cogenti nell'ordinamento interno a seguito del loro recepimento. Ciò posto, la Corte ha tuttavia precisato che il novellato articolo 117 della Costituzione, come modificato a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, ha condizionato l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, rilevando che «prima della sua introduzione l'inserimento delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del diritto italiano era tradizionalmente affidato dalla dottrina prevalente e dalla stessa Corte costituzionale alla legge di adattamento, avente normalmente rango di legge ordinaria e quindi potenzialmente modificabile da altre leggi ordinarie successive. Da tale collocazione derivava, come naturale corollario, che le stesse norme non potevano essere assunte quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale». In altri termini, a fronte dell'obbligo di rispettare i patti internazionali contenuto nel nuovo articolo 117 della Costituzione, le norme internazionali convenzionali — tra le quali ricade anche la CEDU — divengono, nel ragionamento della Corte, delle norme che integrano il parametro costituzionale e che danno vita e contenuto agli «obblighi internazionali» genericamente evocati dall'articolo 117 della Costituzione. Con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque, indirettamente, con l'articolo 117 della Costituzione deve ritenersi costituzionalmente illegittima e, come tale, meritevole di caducazione.
[20] Cfr. Corte Cass. n. 10190/15.
[21] Cfr. T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. I, 25 settembre 2013, n. 1291, in Foro amm. – T.A.R., n. 9, 2013, p. 2721.
[22] T.A.R. Umbria, Perugia, Sez. I, 7 agosto 2013, n.433, in Foro amm. – T.A.R., n. 7-8, 2013, p. 2302 secondo cui l’istituto della retrocessione è da escludersi solo quando il trasferimento volontario del bene, in favore dell’Amministrazione interessata all’esecuzione dell’opera, si colloca del tutto al di fuori della sequenza procedimentale espropriativa, quale negozio di compravendita di diritto comune.
[23] Corte Cost. n. 179/1999 ha dichiarato illegittima la pratica di reiterazione dei vincoli senza la previsione di indennizzo.
[24] C. CACCIAVILLANI, op. cit., p. 715.
[25] Corte Cost. n. 179/1999.
[26] In relazione ai profili di giurisdizione in caso di indennizzo contemplato per la reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio si veda Cons. Stato, 19 febbraio 2013, n. 1021, il quale ha precisato che appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo il sindacato sul provvedimento che reitera il vincolo privo della previsione dell’indennizzo, mentre spetta alla giurisdizione del G.O. la pretesa avente esclusivamente ad oggetto l’obbligo di corresponsione della misura indennitaria.
[27] Cass. SS.UU., sentenza n. 1464/1983.
[28] Sentenza 30 maggio 2000, ricorso n. 3524/1996 Belvedere Alberghiera srl c. Italia.
[29] Cons. St., A.G., 29.3.2001, n. 4, in Cons. St., 2001, I, 1891.
[30] C. eur. dir. uomo, 30.5.2000, causa 31524/96, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, in Riv. giur. ed., 2000, I, 791; Id., 30.5.2000, causa 24638/94, Carbonara e Ventura c. Italia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 1101.
Cons. St., A.P., 29.4.2005, n. 2, in Riv. giur. ed., 2005, I, 852.
[32] Cass., sez. I, 28.7.2008, n. 20543, in Riv. giur. ed., 2009, I, 155.
Cons. St., A.P., 29.4.2005, n. 2, cit.
Cass., S.U., 6.5.2003, n. 6853.
[35] Cass., sez. I, 28.7.2008, n. 20543, cit.
[36] Cass., S.U., 24.9.2010, n. 20158.
[37] C. cost., 8.10.2010, n. 293, in Riv. giur. ed., 2010, I, 1420, con commenti di Patroni Griffi, ivi, 1435 ss. e di Mari, ivi, II, 347.
[38] La questione era stata rimessa alla C. cost. dal TAR Campania, Napoli, sez. V, 28.10.2008, nn. 730 e 731 e Id., 18.11.2008.
[39] Le ordinanze di rimessione hanno richiamato, sulla diretta rilevanza nel nostro ordinamento dei principi CEDU, C. cost., 24.10.2007, nn. 348 e 349, in Riv. giur. ed., 2007, 1199, e, sugli obblighi comunitari, l’art. 6 TUE.
[40] Ollari, Espropri, la Consulta boccia la norma che permetteva di sanare procedure illegittime, inEdilizia e territorio, 2010, fasc. 40, 6.
[41] Cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. III, 19.8.2011, n. 2102, dove, in presenza di una domanda esclusivamente di risarcimento per equivalente avanzata dal proprietario del bene, e di comportamenti concludenti della p.a. denotanti l’intenzione di non restituire il bene, il giudice ha condannato la p.a. all’adozione del provvedimento di acquisizione, «anche nell’esercizio dei propri poteri equitativi, e valorizzando la ratio sottesa all’art. 42 bis cit. (ossia far sì che l’espropriazione della proprietà privata per scopi di pubblica utilità non si trasformi in un danno ingiusto a carico del cittadino e che l’ablazione del bene ed i connessi effetti indennitari e o risarcitori conseguano necessariamente ad un formale provvedimento della P.A.)».
[42] Ollari, Il ritorno dell’occupazione acquisitiva permette di sanare vent’anni di espropri, in Edilizia e Territorio, 2011, fasc. 31-32, 6.
[43] L’espressione è ripresa da Sandulli, In vista della seconda “legge-tappo”, in Riv. giur. ed., 1973, II, 21, riferita alla l. n. 1187/1968 sulla durata quinquennale dei vincoli urbanistici.
[44] T. GROPPI, Verso una giustizia costituzionale “mite”? recenti tendenze dei rapporti tra Corte costituzionale e giudici comuni, in Politica del diritto, 2002, 217.
[45]  4 Si contrappongono, infatti, sistemi in cui il giudice costituzionale è tale per l’oggetto del suo giudizio cioè la legge mentre il controllo sugli altri atti è competenza del giudice comune, a sistemi in cui il giudice costituzionale è tale per parametro nel senso che si pronuncia su qualsiasi atto purché sia violata la Costituzione, di modo da sottrarre per intero il controllo da poteri dei giudici comuni. La scelta tra un sistema e l’altro dipende da molti fattori tra cui la diffidenza per i giudici comuni particolarmente sentita nelle fasi di transizione verso la democrazia come dimostra l’esperienza dei paesi dell’Europa centro-orientale (così evidenzia S. BARTOLE in Riforme costituzionali nell’europa centro orientale, Bologna, 1993, 193 ss.).
[46]  S. SALVAGO, (Prima) declaratoria di incostituzionalità per la c.d. acquisizione coattiva sanante, in Giust. Civ., 2011, 305.